Archivio del Tag ‘toyotismo’
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Gallino ha smascherato questo regime estremista e bugiardo
Ho conosciuto personalmente Luciano Gallino in un dibattito a Torino nei primi anni ‘90 del secolo scorso. Avevo letto molti suoi scritti, ma non lo avevo mai incontrato. Ero da poco diventato segretario della Fiom regionale e fui invitato ad un confronto con lui ed altri sul lavoro. Mi lasciai andare ad una filippica contro quegli intellettuali, in particolare gli studiosi di scienze sociali, che – usai questa metafora – non guardavano mai l’altra faccia della luna, cioè descrivevano i cambiamenti in atto nel lavoro solo dal punto di vista delle direzioni d’impresa. Erano gli anni del trionfo del toyotismo all’italiana lanciato dalla Fiat di Cesare Romiti, che trovava il suo magnificato modello nel nuovo stabilimento di Melfi. In realtà nasceva un nuovo sistema di comando autoritario sul lavoro, che faceva passare per partecipazione quella che in realtà era solo la ricerca della sottomissione totale del lavoratore all’impresa.Gallino si offese molto per quella mia frase impertinente, anche se, come era suo costume, nel dibattito usò solo analisi sociale e cortesia torinese. Pochi giorni dopo mi arrivò in ufficio un pacco di libri e riviste di sociologia. Era una piccola antologia di testi di Luciano Gallino, accompagnati da una sua lettera molto gentile, ma che nella sostanza mi invitava a documentarmi meglio prima di esprimere giudizi. Aveva ragione. L’intellettuale ed il ricercatore olivettiano è diventato il primo critico in Italia del modello liberista, sia per il lavoro, sia per tutta la società. E questo suo percorso non è nato da una improvvisa folgorazione sulla via di Damasco, ma dal rigore con il quale sin dall’inizio della sua opera si è misurato con la realtà del lavoro, con l’altra faccia della luna.Gallino era uno scienziato sociale che credeva nel processo riformatore. Non uso la parola riformista, perché essa oggi è diventata sinonimo di trasformismo e di politiche liberiste. Luciano Gallino provava un rigetto culturale morale per il riformismo attuale. Lui che era stato formato dalla stagione delle riforme dei primi anni ‘60 e dall’organizzazione del lavoro veramente partecipativa della Olivetti di Ivrea, sentiva sempre di più la necessità di smascherare l’imbroglio politico ed intellettuale di chi oggi adopera quegli stessi termini, riforme e partecipazione, per fare l’esatto contrario. Per questo Gallino aveva sempre più radicalizzato la sua collocazione politica. Non perché avesse cambiato il suo punto di vista riformatore, ma perché non era disposto a farlo assorbire da un sistema di potere che andava nella direzione opposta a ciò che riteneva giusto.Fernando Santi, il leader storico dei socialisti della Cgil, quando il Psi di Nenni si orientò su posizioni che cominciò a criticare come troppo moderate, fu accusato di scivolare verso il massimalismo. Con una fulminate battuta allora il sindacalista rispose: non è vero che io sono diventato un estremista, io sono il riformista di sempre, sono gli altri che mi hanno scavalcato a destra. È una risposta che vale anche per Luciano Gallino. Mentre una generazione di intellettuali e politici di origine comunista, operaista, radicale, si innamorava della flessibilità del lavoro e della globalizzazione e ne diventava apologeta, egli si faceva rigoroso e implacabile contestatore dei “tempi moderni”. Il sociologo olivettiano diventava no global senza cambiare di un millimetro il suo impianto culturale originale. E così ha condotto una dura, infaticabile lotta culturale contro l’egemonia del pensiero unico liberista, un impegno che lo ha collocato controcorrente rispetto al dogmatismo trionfante, ma che ne ha fatto il riferimento culturale di tutte le lotte contro le precarietà e il dominio autoritario del lavoro, contro la diseguaglianza sociale e le privatizzazioni.Con i suoi scritti Gallino faceva lotta di classe, quella lotta di classe che denunciava essere diventata lo strumento dei ricchi contro i poveri, di chi ha il potere contro chi lo subisce. Ma nel suo impegno Gallino manteneva sempre il rigore dello scienziato sociale, le conclusioni giungevano sempre alla fine di rigorose e dimostratissime analisi dei fatti. Per questo erano così fastidiose per un potere che vende senso e ideologia per cancellare i fatti, che vuol convincere che la ripresa economica è dietro l’angolo non perché sia vero, ma perché l’ottimismo economico aumenta i profitti. Gallino entrava sicuramente nella categoria non foltissima dei grandi professori integri, categoria tanto odiata dai giovani arrampicatori renziani formatasi negli spettacoli televisivi. Luciano Gallino era un gufo, saggio, acutissimo, che naturalmente vedeva lontano.Nel suo ultimo libro, che non sapevamo sarebbe stato il suo testamento, Gallino scrive ai suoi nipoti e descrive la Doppia Crisi, economica ed ecologica del capitalismo. È un messaggio assolutamente radicale quello che manda alle nuovissime generazioni. Ha vinto il capitalismo peggiore, quello raccontato nel Tallone di Ferro di Jack London. Non ci son aggiustamenti possibili all’orizzonte, ma bisogna perseguire cambiamenti radicali nel nome dell’eguaglianza sociale, della vita umana e della natura. L’Unione Europea è una dittatura finanziaria che ha distrutto le costituzioni democratiche e lo stato sociale europeo e l’euro è lo strumento del dominio liberista. Gallino è così diventato NoEuro dopo un’analisi concreta della situazione concreta, grazie alla quale ha concluso che giuste riforme sociali possano realizzarsi solo con una profonda rottura del sistema attuale. Già venti anni fa mi ero scusato con Luciano Gallino per quella mia polemica ingiusta nei suoi confronti. Abbiamo poi avuto un lungo impegno comune e solidale, ma ora voglio scusarmi di nuovo e ringraziare il grande scienziato sociale, sempre integro e per questo assolutamente radicale.(Giorgio Cremaschi, “Gallino, uno scienziato sociale rigororo e radicale”, da “Micromega” del 10 novembre 2015).Ho conosciuto personalmente Luciano Gallino in un dibattito a Torino nei primi anni ‘90 del secolo scorso. Avevo letto molti suoi scritti, ma non lo avevo mai incontrato. Ero da poco diventato segretario della Fiom regionale e fui invitato ad un confronto con lui ed altri sul lavoro. Mi lasciai andare ad una filippica contro quegli intellettuali, in particolare gli studiosi di scienze sociali, che – usai questa metafora – non guardavano mai l’altra faccia della luna, cioè descrivevano i cambiamenti in atto nel lavoro solo dal punto di vista delle direzioni d’impresa. Erano gli anni del trionfo del toyotismo all’italiana lanciato dalla Fiat di Cesare Romiti, che trovava il suo magnificato modello nel nuovo stabilimento di Melfi. In realtà nasceva un nuovo sistema di comando autoritario sul lavoro, che faceva passare per partecipazione quella che in realtà era solo la ricerca della sottomissione totale del lavoratore all’impresa.
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Lavoratori all’inferno: grazie a Renzi, ma anche alla Cgil
Lavoro garantito, lavoro precario, lavoro nero. Quello garantito deve sparire alla svelta, è un’anomia della storia: «Renzi e i suoi accoliti vogliono realizzare i “sogni” dei padroni neocapitalisti, unificando il mercato del lavoro italiano sotto il segno, non dei pesci, ma della precarietà fin dall’inizio della vita lavorativa», scrive Eugenio Orso. «La Cgil dell’orripilante Camusso, legata a doppio filo al Pd, deve obbligatoriamente fingere di opporsi e di tutelare gli iscritti, per trattenere tessere e consensi». Operazione che «puzza di bruciato», di contrapposizione solo mediatica che certo non fermerà “il nuovo che avanza”. Prima il contratto d’ingresso senza diritti per i nuovi assunti, e poi in futuro l’abolizione del tempo indeterminato anche per i “vecchi” lavoratori? «Non si può partecipare troppo apertamente al massacro: questo i vertici della Cgil lo sanno bene, perciò si oppongono alla riforma, a costo di passare per “conservatori”».Da molto tempo, scrive Orso in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, la propaganda sistemica giustifica lo smantellamento delle difese dei lavoratori e utilizza in modo subdolo i temi della precarietà e della disoccupazione, come se non fosse proprio il sistema ad aver diffuso precari e disoccupati. Oggi, al colmo dell’ipocrisia, con Renzi si arriva a denunciare la “spaccatura” nel mercato del lavoro italiano, «una tripartizione che genera squilibri e ingiustizie sociali, non producendo alcun effetto positivo per la produzione, i redditi e i consumi». Resiste una quota di lavoro ancora “garantito”, tutelato dalla legge e dallo Statuto dei Lavoratori degli anni ‘70, ma «sta diventando sempre di più l’ultima “ridotta”, particolarmente nel pubblico impiego, dei diritti e delle tutele concesse ai lavoratori». Secondo Orso «è destinato progressivamente a scomparire, perché troppo “oneroso”, sia in termini di costi, sia in termini di “privilegi” concessi ai lavoratori protetti, in ossequio agli interessi degli agenti strategici neocapitalistici, ben tutelati dai loro servitori politici locali».Il lavoro stabile è stato il bersaglio di attacchi continui e reiterati (da Sacconi, Brunetta e Renzi), e addirittura di insulti e di criminalizzazione (Ichino e i “nullafacenti” della pubblica amministrazione). L’impiego garantito e a tempo indeterminato «è contrario all’ideologia neoliberista dominante e, per tale motivo, deve essere portato a estinzione». Spiega Orso: «La stabilità del lavoro e le garanzie offerte dal comunismo, dal fascismo e dal keynesismo postbellico non appartengono in alcun modo alla liberaldemocrazia di mercato, espressa dal grande capitale finanziario». Così il lavoro è diventato sempre più «precario, flessibile, interinale», introdotto ufficialmente in Italia nella seconda metà degli anni ‘90 e dilagato progressivamente nei Duemila, «figlio naturale del cosiddetto toyotismo». Dal “just in time”, varato negli anni ‘70 dalla Toyota per razionalizzare le scorte, si è deciso di estendere il “toyotismo” e di pagare i lavoratori esclusivamente per il tempo di lavoro, utilizzando il “servizio lavorativo” quando necessario per esigenze produttive.«Da questo punto di vita, chiaramente economico e di organizzazione della produzione – continua Orso – l’imposizione del lavoro precario mira a razionalizzare l’uso del fattore-lavoro comprimendone all’estremo i costi, come nel caso delle materie prime, dei pezzi da assemblare, delle scorte, dei semilavorati». A questo punto, «è chiaro che il precario non è un cittadino, nel mondo neocapitalistico, ma soltanto l’anonimo prestatore di un servizio lavorativo, che si tende a pagare sempre meno». Quella dell’imposizione di soli contratti a termine e precari, «in un progressivo e rapido evaporare dei diritti», è la strada scelta «dagli agenti strategici neocapitalistici per l’Italia, ed è esattamente la consegna che hanno dato ai lacchè subpolitici, come Matteo Renzi». Infine – terza categoria – resta il lavoro nero, cioè «senza oneri contributivi e prelievi fiscali, senza alcuna garanzia e diritto». Di fatto, «realizza il massimo della flessibilità-precarietà del lavoratore, alimenta l’evasione e garantisce un significativo risparmio di costi». Col declino industriale e la disoccupazione galoppante, però, «anche il lavoro nero entra in crisi, riducendosi il numero degli occupati, non pagando i lavoratori e aumentandone lo sfruttamento».Se questa è la situazione, conclude Orso, ecco invece che Renzi «spergiura di voler rinnovare il mercato del lavoro dalle fondamenta, introducendo un nuovo contratto d’ingresso che partirebbe da una condizione di precarietà per arrivare alle chimeriche tutele». Il Rottamatore «dichiara di voler semplificare e di voler estendere le opportunità di lavoro anche a chi oggi ne è escluso». Ma sono «dichiarazioni chiaramente mendaci», dal momento che «nascondono l’unico esito possibile della riforma: rendere il lavoro precario contrattualizzato assolutamente prevalente». La Cgil, messa con le spalle al muro, non può approvare il “piano lavoro” renziano apertamente: «Deve fingere di attaccarlo, deve contestarlo con enfasi e risonanza mediatica». Per questo «si erge a difesa di quel vecchio simulacro che ormai è diventato lo Statuto dei Lavoratori, che ancora sbarra la strada, con l’articolo 18, ai sogni liberisti, europeisti “alla Benigni”, occidentali, di libertà, cioè, nel concreto, alla realizzazione di una precarietà assoluta e generale».Sicché, quello tra Renzi e Camusso è «uno scontro fra “parenti serpenti”, disposti a coprirsi a vicenda di contumelie, a fronteggiarsi tirandosi piatti e soprammobili ma uniti da vincoli “di sangue” e di appartenenza». Più che altro, è «l’ennesima recita infarcita di imbrogli, finzione e malafede, per truffare gli italiani». Dal canto suo, Renzi la pensa esattamente come i boss dell’élite tecno-finanziaria, da Draghi a Juncker alla Lagarde, «a lui ideologicamente affini», anche se «nega di aver in mente Margaret Thatcher quando si parla del lavoro». Infatti, aggiunge Orso, «possiamo scommettere che non incontrerà una resistenza sanguinosa come quella opposta alla Thatcher dai minatori britannici di Arthur Scargill, dal 1984 al 1985». Al più, sulla strada di Renzi spunteranno «le blande resistenze di maniera della Cgil all’abolizione dell’articolo 18». Il premier dichiara di pensare a “Marta”, piccola fiammiferaia precaria, e a tutti i giovani a quali in questi anni non ha pensato nessuno. Giovani «condannati a un precariato a cui il sindacato ha contribuito», peraltro, «preoccupandosi soltanto dei diritti di qualcuno e non dei diritti di tutti».Nuove regole per ciascuno, dice Renzi, per incoraggiare investimenti produttivi stranieri: verranno le multinazionali a dare un lavoro a chi non ce l’ha. Peccato che, a quel punto, «il lavoro sarà debitamente flessibilizzato, offerto a prezzi stracciati e a condizioni di semi-schiavitù». Renzi è felice, come ha dichiarato più volte, se i grandi squali “investono” in Italia, facendo lo shopping di aziende a prezzi di fine stagione, anche se poi chiudono e spostano le produzioni in Estremo Oriente o nell’Europa dell’Est. E ai sindacati che vogliono contestarlo, Camusso e Landini, il Rottamatore dice: dove eravate in questi anni quando si è prodotta la più grande ingiustizia che ha l’Italia? L’ingiustizia tra chi il lavoro ce l’ha e chi non ce l’ha, tra chi ce l’ha a tempo indeterminato e chi è precario. E soprattutto tra chi non può neanche pensare a costruirsi un progetto di vita, perché si è pensato soltanto a difendere le battaglie ideologiche e non i problemi concreti della gente. Sono i diritti di chi non ha diritti che ci interessano, e noi li difenderemo in modo concreto e serio.«Commovente: i diritti di chi non ha diritti», chiosa Orso. «Una frase di sicuro effetto, alla Papa Francesco». Così, “per difendere gli ultimi”, si abolisce la tutela dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori per i nuovi assunti “a tutele crescenti”, «in modo tale che l’ingresso nel mondo del lavoro sia sempre e comunque precario». A questo, forse, non aveva pensato neppure Marco Biagi, il giuslavorista assassinato dalle “nuove Br”. Da consigliere ministeriale, «ha contribuito a inoculare il virus della precarietà nella società italiana». Renzi sarà altrettanto efficace? «Su una cosa, però, ha ragione l’imbonitore fiorentino, in polemica strumentale con la Cgil», conclude Orso: «Ciò che è accaduto ai lavoratori negli ultimi decenni, tutte le ingiustizie che hanno subito, portano anche la firma dei sindacati, che hanno favorito, in modo più o meno scoperto – scopertamente la Cisl, più subdolamente la Cgil e ancor più nascostamente la Fiom – la “discesa negli inferi” neoliberista del lavoro, siglando contratti-truffa e accordi-capestro, avallando riforme antipopolari, facendo carne di porco persino dei loro iscritti».Lavoro garantito, lavoro precario, lavoro nero. Quello garantito deve sparire alla svelta, è un’anomia della storia: «Renzi e i suoi accoliti vogliono realizzare i “sogni” dei padroni neocapitalisti, unificando il mercato del lavoro italiano sotto il segno, non dei pesci, ma della precarietà fin dall’inizio della vita lavorativa», scrive Eugenio Orso. «La Cgil dell’orripilante Camusso, legata a doppio filo al Pd, deve obbligatoriamente fingere di opporsi e di tutelare gli iscritti, per trattenere tessere e consensi». Operazione che «puzza di bruciato», di contrapposizione solo mediatica che certo non fermerà “il nuovo che avanza”. Prima il contratto d’ingresso senza diritti per i nuovi assunti, e poi in futuro l’abolizione del tempo indeterminato anche per i “vecchi” lavoratori? «Non si può partecipare troppo apertamente al massacro: questo i vertici della Cgil lo sanno bene, perciò si oppongono alla riforma, a costo di passare per “conservatori”».