Archivio del Tag ‘turn over’
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Galloni: più deficit ‘guarisce’ il debito, spiegatelo a Cottarelli
Un paio di giorni fa mi trovavo a mangiare una granita da Giolitti, con una parlamentare del M5S (ed il suo segretario) che era preoccupatissima per la tabella con la quale Cottarelli aveva dimostrato che, se non ci fosse stata la spending review del governo Monti, il rapporto debito pubblico/Pil sarebbe cresciuto al 145%. Lì per lì non ho dato molto peso alla preoccupazione, ma, per scrupolo, tornato a casa, mi sono procurato il ragionamento di Cottarelli e… mi sono messo a ridere. Infatti, la premessa del documento era: se la spesa pubblica cresce, è vero che c’è una crescita del Pil, ma aumenta anche il deficit e, quindi, la emissione di titoli del debito pubblico; il documento, poi, prosegue dimenticandosi tale premessa e asserendo che, “quindi” (quindi?), si poteva stimare tale peggioramento nel rapporto debito/Pil in ulteriori 12 punti percentuali. Bene, premesso che, durante la missione Monti, il rapporto debito/Pil è peggiorato di circa 11 punti, vediamo perché. Infatti, se io aumento la spesa pubblica, l’effetto sul Pil sarà più che proporzionale (si chiama moltiplicatore della spesa pubblica ed è l’effetto di cumulo e di spinta della spesa stessa): i più restii ad ammettere un effetto positivo della spesa pubblica sono gli economisti (antikeynesiani) del Fmi – cui Cottarelli dovrebbe guardare con partecipazione – secondo i quali detto rapporto è (solo) di 1,5. Vale a dire (solo) il 50% in più; stime di altre scuole e, soprattutto, l’evidenza empirica, lo portano correttamente a 2-3 volte e persino oltre.Quindi, se io aumento la spesa pubblica del 2%, avrò un aumento del Pil e, a parità di pressione fiscale, del gettito, del 3% (secondo le stime pessimistiche del Fmi, del 4 o 5% secondo le altre): “quindi”, la inutile e dannosa spending review ha impedito non solo al Pil, ma anche alle entrate, di aumentare. Ecco perché il rapporto peggiora a prescindere dal livello assoluto del debito che, in condizioni di spesa pubblica espansiva, diminuisce in percentuale del Pil. Allo stesso modo, le relazioni tecniche sul “decreto dignità” (che, spero sia solo un inizio di quanto serve al paese da tempo, vale a dire la riqualificazione dell’occupazione) riescono a discernere tra gli effetti espansivi – sulla domanda di lavoro, l’andamento dell’economia internazionale, su un orizzonte temporale di dieci anni: bravi! Risultato eccezionale! Veramente! Come? Non sappiamo che fine faremo tra un anno, quando si sentiranno gli effetti del termine del Quantitative Easing, cosa succederà tra Trump e la Cina, la Merkel che strizza l’occhietto a Putin (e vorrebbe affossare l’euro senza prendersene la responsabilità) e gli esperti sanno discernere di una misura che induce un ostacolo al proseguimento dei contratti a termine oltre i due anni?Finora, le imprese italiane, prevalentemente, avevano usato contratti a termine di pochi mesi ed un elevato turn over dei collaboratori: poco pagati, poco affezionati, poco motivati e si lamentavano se la professionalizzazione non era abbastanza elevata. Così, si domanda un cameriere qualificato dal venerdì sera alla domenica mattina per pagarlo 100 euro a we: non si trovano camerieri? E’ logico. Invece, proviamo a pagarli di più e a cercarli più professionalizzati e stai sicuro che ti faranno guadagnare di più. Pagali poco, trattali male, sostituiscili continuamente, lamentati che i “nostri” rifiutano i lavori e vedrai che guadagnerai di meno. Queste sono le due sfide che abbiamo di fronte: aumentare la spesa pubblica (anche con moneta parallela non a debito, mini bonds e certificati di credito fiscale) per ridurre il rapporto debito/Pil; migliorare la qualità della domanda e dell’offerta di lavoro per far crescere occupazione, paghe e profitti.(Nino Galloni, “Dai grafici di Cottarelli ai tecnici di Di Maio”, dal blog “Scenari Economici” del 15 luglio 2018. Tra i più autorevoli economisti italiani, il professor Galloni – docente universitario e già allievo di Federico Caffè – è vicepresidente del Movimento Roosevelt nonché fautore di una rinascita dell’economia italiana su base keynesiana, fondata cioè sul recupero di sovranità finanziaria da parte di uno Stato che torni finalmente a investire sulla piena occupazione, mettendo fine alla piaga sociale dell’austerity provocata a colpi di crisi dall’ideologia neoliberista e privatizzatrice).Un paio di giorni fa mi trovavo a mangiare una granita da Giolitti, con una parlamentare del M5S (ed il suo segretario) che era preoccupatissima per la tabella con la quale Cottarelli aveva dimostrato che, se non ci fosse stata la spending review del governo Monti, il rapporto debito pubblico/Pil sarebbe cresciuto al 145%. Lì per lì non ho dato molto peso alla preoccupazione, ma, per scrupolo, tornato a casa, mi sono procurato il ragionamento di Cottarelli e… mi sono messo a ridere. Infatti, la premessa del documento era: se la spesa pubblica cresce, è vero che c’è una crescita del Pil, ma aumenta anche il deficit e, quindi, la emissione di titoli del debito pubblico; il documento, poi, prosegue dimenticandosi tale premessa e asserendo che, “quindi” (quindi?), si poteva stimare tale peggioramento nel rapporto debito/Pil in ulteriori 12 punti percentuali. Bene, premesso che, durante la missione Monti, il rapporto debito/Pil è peggiorato di circa 11 punti, vediamo perché. Infatti, se io aumento la spesa pubblica, l’effetto sul Pil sarà più che proporzionale (si chiama moltiplicatore della spesa pubblica ed è l’effetto di cumulo e di spinta della spesa stessa): i più restii ad ammettere un effetto positivo della spesa pubblica sono gli economisti (antikeynesiani) del Fmi – cui Cottarelli dovrebbe guardare con partecipazione – secondo i quali detto rapporto è (solo) di 1,5. Vale a dire (solo) il 50% in più; stime di altre scuole e, soprattutto, l’evidenza empirica, lo portano correttamente a 2-3 volte e persino oltre.
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Dai 5 Stelle nessuna proposta su come rianimare la sanità
I 5 Stelle, cioè il nulla, anche in tema di sanità: non una parola sui vaccini, nonostante il mostruoso decreto Lorenzin con 12 vaccinazioni obbligatorie, e nessuna ricetta in vista per “guarire” la sanità italiana. «Riteniamo che sia fondamentale investire più risorse», scrivono, sul blog di Beppe Grillo, condannando «quello che hanno fatto gli ultimi governi». Chiedono di «investire in aree della politica sanitaria che finora sono state marginali», come «la prevenzione primaria», che serve «a rimuovere le cause note di malattie», anche originate da inquinamento ambientale. Poi c’è il problema risorse umane, medici e infermieri, «che in questi anni sono stati vittime del blocco delle assunzioni proprio come elemento di politica di austerità che ha creato tantissimi disservizi, sacche di precariato, in alcuni casi addirittura sacche clientelari». Meglio invertore la rotta, dicono i pentastellati: «Bisogna investire risorse in questo settore e bisogna anche prepararsi al fatto che molti medici presto andranno in pensione e avremo un fabbisogno di medici specialisti molto alto».Più posti di lavoro, più turn-over. Ma con che soldi? Non è dato saperlo: lungi dall’assumere una posizione netta e chiara sull’euro, da cui dipende in gran parte l’attuale crisi economica, con ovvi riflessi anche sulla sanità pubblica, i 5 Stelle non hanno finora contestato in modo organico l’euro-regime che impone i tagli alla spesa, né hanno mai avanzato proposte su come allentare la stretta di Bruxelles sul bilancio italiano. Preferiscono parlare di una gestione “più virtuosa” dell’immensa spesa farmaceutica, per «liberare risorse che potevano essere investite in altri settori della sanità pubblica, oppure per ridurre i costi a carico dei cittadini». Sempre e solo rimodulazioni delle voci di spesa, all’interno dello stesso budget “inchiodato” dall’Unione Europea: come già per il “reddito di cittadinanza”, che i 5 Stelle finanzierebbero solo con il “taglio degli sprechi”, anche nel caso della sanità non provano neppure a immaginare un bilancio più consistente, liberato dai laccioli del “patto di stabilità” imposto dall’Ue, e si accontentano di chiedere “più informatica” per smaltire le liste d’attesa negli ospedali.Anche per marcare il loro profilo identitario ecologista, i 5 Stelle segnalano l’importanza di una alimentazione sana nella prevenzione del cancro, ricordando che le ultime ricerche internazionali «le cattive abitudini alimentari sono responsabili di circa 3 tumori su 10», mentre per il Fondo Mondiale per la Ricerca sul Cancro «tra il 30 e il 40% dei tumori potrebbero essere evitati se solo adottassimo una dieta più sana». Di qui la richiesta di una maggiore educazione alla salute, verso un consumo più consapevole. E da parte dei redattori del documento programmatico – Giulia Grillo, Mirko Busto e Giovanni Endrizzi – non manca un’intemerata contro lo “Stato biscazziere”, che ha incaricato i monopoli di pianificare il gioco azzardo come un’industria di massa che coinvolge ormai 30 milioni di italiani, per poi riconoscere l’azzardopatia come una patologia da curare, salvo imporre ai concessionari non il divieto, ma l’obbligo di pubblicità. «Il boom dell’azzardo – scrivono i tre estensori – è avvenuto per una serie di fattori: la selvaggia liberalizzazione, la crisi economica, che ha spinto molte persone a sfidare la sorte per cercare una soluzione alla perdita di reddito, la massiccia pressione pubblicitaria e l’omissione di basilari controlli sulle ricadute sociali, sanitarie, l’infiltrazione criminale. Il programma del Movimento 5 Stelle vuole cambiare strada». Ma, s’intende, senza disturbare chi comanda davvero.I 5 Stelle, cioè il nulla, anche in tema di sanità: non una parola sui vaccini, nonostante il mostruoso decreto Lorenzin con 12 vaccinazioni obbligatorie, e nessuna ricetta in vista per “guarire” la sanità italiana. «Riteniamo che sia fondamentale investire più risorse», scrivono, sul blog di Beppe Grillo, condannando «quello che hanno fatto gli ultimi governi». Chiedono di «investire in aree della politica sanitaria che finora sono state marginali», come «la prevenzione primaria», che serve «a rimuovere le cause note di malattie», anche originate da inquinamento ambientale. Poi c’è il problema risorse umane, medici e infermieri, «che in questi anni sono stati vittime del blocco delle assunzioni proprio come elemento di politica di austerità che ha creato tantissimi disservizi, sacche di precariato, in alcuni casi addirittura sacche clientelari». Meglio invertire la rotta, dicono i pentastellati: «Bisogna investire risorse in questo settore e bisogna anche prepararsi al fatto che molti medici presto andranno in pensione e avremo un fabbisogno di medici specialisti molto alto».
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Cremaschi: Jobs Act, l’atroce legge del regime in arrivo
Il governo Renzi concede alle imprese libertà di spionaggio sui dipendenti, con telecamere e quant’altro. E questa violazione elementare dei diritti della persona viene da quegli stessi politici che si indignano di fronte a intercettazioni telefoniche della magistratura che tocchino loro o le loro amicizie. Con il demansionamento si afferma la licenza di degradare il lavoratore dopo una vita di fatiche per migliorarsi. E questo lo sostengono coloro che ogni secondo sproloquiano sulla necessità di premiare il merito. Con la riforma degli ammortizzatori sociali si tagliano la cassa integrazione e l’indennità di disoccupazione e per il futuro le si dimensiona in rapporto alla anzianità di lavoro effettivo. Cioè i giovani e le donne prenderanno meno degli anziani maschi. E questo in nome di un modello sociale scandinavo sbandierato dagli estensori del Jobs Act per ignoranza o per pura menzogna. Infine si aggiunge agli altri contratti precari, che al di là delle chiacchiere restano e con i voucher si estendono, quello a “tutele crescenti” per i nuovi assunti.Costoro in realtà nella loro crescita non incontreranno mai più l’articolo 18, quindi il loro contratto a tempo indeterminato in realtà sarà finto, perché essi saranno licenziabili in qualsiasi momento. Un contratto a termine al minuto, una ipocrita beffa. L’articolo 18 resterà come patrimonio personale dei vecchi assunti, quindi non solo mano mano si ridurrà la platea di chi usufruisce di quel diritto, ma saranno la stesse imprese a essere poste in tentazione di accelerare il ricambio dei loro dipendenti. Perché tenersi il lavoratore che ha ancora la tutela dell’articolo 18, quando se ne può assumere uno senza, pagato un terzo in meno? Renzi non fa niente di nuovo, anzi applica il principio classico degli accordi di concertazione: il “doppio regime”. I diritti contrattuali, le retribuzioni, le condizioni di orario e le qualifiche, l’accesso alla pensione, son stati negli ultimi trenta anni ridotti per tutti, ma ai nuovi assunti venivano negati completamente, a quelli con più anzianità di lavoro invece un poco restavano.I diritti non potevano più essere trasmessi da una generazione all’altra, ma diventavano una sorta di rendita personale per le generazioni che abbandonavano il lavoro. Questi accordi, sottoscritti dai sindacati confederali e applauditi dagli innovatori ora fan di Renzi, hanno creato l’apartheid. Renzi stesso mente sapendo di mentire quando sostiene di voler abolire la disparità di diritti, invece tutti i suoi provvedimenti la rafforzano ed estendono. Il Jobs Act aggiunge ferocia a ferocia, non cambierà nulla nelle dimensioni della disoccupazione, anzi i disoccupati aumenteranno, come è avvenuto in Grecia e Spagna che hanno per prime seguito la via oggi percorsa dal governo. Il Jobs Act non risolverà uno solo dei problemi produttivi delle imprese, soprattutto di quelle più piccole che non hanno mai avuto l’articolo 18, ma che sono in crisi più delle grandi. E allora perché si fa?Perché come scrivevano il 5 agosto 2011 Draghi e Trichet e come aggiungeva nel 2013 la banca Morgan, la protezione costituzionale del lavoro è un lusso che l’Italia non può più permettersi. I padroni d’Europa e della finanza vogliono un lavoro low cost in una società low cost, e tutto ciò che si oppone a questo loro disegno va trattato come un nemico. Cgil, Cisl e Uil in questi anni han lasciato passare tutto, sono state di una passività che il presidente del consiglio Monti arrivò persino a vantare all’estero. Eppure a Renzi non basta ancora, per lui i sindacati devono generosamente suicidarsi per fare spazio al nuovo. E questa è la seconda vera ragione del Jobs Act e del fanatismo con cui viene sostenuto: il valore simbolico reazionario dell’attacco all’articolo 18, che Renzi fa proprio per mettersi a capo di un regime.Un regime che non è il fascismo del secolo scorso, ma è un sistema autoritario che nega la sostanza sociale della nostra Costituzione e riduce la democrazia ad una parvenza formale, fondata sul plebiscitarismo mediatico e sull’assenza di diritti veri. Il Jobs Act è parte di una restaurazione sociale e politica peggiore di quella della signora Thatcher, perché fatta trent’anni dopo. Una restaurazione con la quale si pensa di affrontare la crisi economica per rendere permanenti le politiche di austerità, che, secondo la signora Lagarde direttrice del Fondo Monetario Internazionale, in Europa non son neppure cominciate. Una restaurazione che nel paese del gattopardo richiede un ceto politico avventuriero disposto a interpretarla come il nuovo che avanza. Per questo il governo Renzi è il governo della menzogna e l’affermazione della verità è il primo atto di resistenza contro il regime che vuole costruire.(Giorgio Cremaschi, “Jobs Act, un manifesto della malafede”, da “Micromega” del 22 settembre 2014).Il governo Renzi concede alle imprese libertà di spionaggio sui dipendenti, con telecamere e quant’altro. E questa violazione elementare dei diritti della persona viene da quegli stessi politici che si indignano di fronte a intercettazioni telefoniche della magistratura che tocchino loro o le loro amicizie. Con il demansionamento si afferma la licenza di degradare il lavoratore dopo una vita di fatiche per migliorarsi. E questo lo sostengono coloro che ogni secondo sproloquiano sulla necessità di premiare il merito. Con la riforma degli ammortizzatori sociali si tagliano la cassa integrazione e l’indennità di disoccupazione e per il futuro le si dimensiona in rapporto alla anzianità di lavoro effettivo. Cioè i giovani e le donne prenderanno meno degli anziani maschi. E questo in nome di un modello sociale scandinavo sbandierato dagli estensori del Jobs Act per ignoranza o per pura menzogna. Infine si aggiunge agli altri contratti precari, che al di là delle chiacchiere restano e con i voucher si estendono, quello a “tutele crescenti” per i nuovi assunti.
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Un lavoro dignitoso? Non l’avrai mai più, grazie al Pd
I giovani sono serviti: non avranno mai più un lavoro decente, sicuro, dignitoso. La soddisfazione con cui i partiti di centrodestra hanno salutato l’ultima versione del decreto su contratti a termine e apprendistato è «la miglior certificazione non solo degli ulteriori e quasi incredibili peggioramenti di una legge già pessima, ma della vera e propria bancarotta – non c’è altra parola – della rappresentanza parlamentare del Partito Democratico». Con la sola eccezione di Stefano Fassina, rileva Piergiovanni Alleva, i parlamentari del Pd «si sono lasciati soggiogare da alcuni notissimi nemici storici dei lavoratori e dei sindacati», a cominciare dall’ex ministro Maurizio Sacconi, accettando un testo normativo «che mai i governi Berlusconi sarebbero riusciti ad ottenere a scapito dei lavoratori, e di cui invece il “democratico” Renzi e il “comunista” Poletti vanno invece addirittura fieri». Sono loro, i portabandiera della sinistra ufficiale, a seppellire lo Statuto dei Lavoratori su cui si sono basati decenni di sviluppo sociale nell’Italia del benessere.Col decreto Poletti, osserva Alleva in un articolo sul “Manifesto” ripreso da “Micromega”, i contratti a termine diventano “acausali”: possono essere conclusi senza una motivazione specifica. Unico obiettivo: «Tenere il lavoratore sotto il perpetuo ricatto del mancato rinnovo», senza più neppure sperare in una conferma a tempo indeterminato dopo 36 mesi, perché per questo occorrerebbe un ulteriore contratto: perché mai concederlo, visto che sarebbe più conveniente assumere un nuovo precario? Certo, ricorrere al turn-over dei precari non favorisce certo la competitività dell’azienda sul piano della qualità: ma è appunto questa, come denunciano molti osservatori, la tendenza a cui l’impresa italiana si è andata rassegnando. Meglio produzioni di bassa qualità, ovviamente a basso costo, per tentare di competere sul mercato mondiale globalizzato. Problemi che non esisterebbero se invece si puntasse sul mercato interno dei consumi, sulle filiere corte.Alleva si sofferma sull’ipocrisia del Pd, che ha «trangugiato con la massima indifferenza la “acausalità” e fissato, in cambio, un falso obiettivo, onde poter poi vantare falsi successi». Il falso obiettivo: «Ridurre le possibili proroghe di un contratto “acausale” da 8 a 5», il che però «non sposta di un millimetro il problema del potere ricattatorio consegnato al datore». Anche perché, come subito notato dai giuristi, «una cosa è la proroga di un contratto, altra cosa è il suo rinnovo, ossia la stipula di un altro successivo contratto del tutto analogo». In altre parole, «dopo avere prorogato per cinque volte un contratto acausale a termine, niente impedisce di stipulare un altro contratto simile con le sue cinque proroghe, e così via». Eppure, insiste Alleva, «i parlamentari Pd hanno avuto il coraggio di vantare questo inganno, o autoinganno, come un successo politico».Altro fronte di degradazione definitiva del mercato del lavoro, l’argine del “contingentamento” dei precari, in percentuale ai lavoratori a tempo indeterminato: una misura di salvaguardia, introdotta nel 1987. Nella sua versione originaria, prosegue Alleva, lo stesso decreto Poletti prevedeva una percentuale massima del 20% di contratti a termine per azienda, ma ora il limite è stato aggirato. Restava un ultimo punto: l’obbligo di trasformare in lavoratori stabili i dipendenti a termine, una volta superata la soglia del 20%. «Ebbene, anche su questo i parlamentari del Pd sono stati pronti al grosso passo indietro, a genuflettersi ai Poletti, ai Sacconi, agli Ichino ed ad accettare che il testo normativo preveda, invece della trasformazione, una semplice sanzione amministrativa per lo “sforamento”». Per Alleva, è come se si concedesse a chi dà lavoro in nero di non essere più obbligato a mettere in regola il lavoratore. «Si tratta di un assurdo giuridico, oltre che di una vergogna politica, che l’ineffabile capo dei deputati Pd ed ex ministro del lavoro Cesare Damiano ha avuto il coraggio di definire come “differenza minimale” rispetto al testo originario».Conclude Alleva: «Alla prova dei fatti, tra le forze politiche rappresentate in Parlamento solo i deputati di Sel e del “Movimento 5 Stelle” hanno tenuto un comportamento coerente, limpido e di appassionata difesa della dignità dei lavoratori». Ora, dopo lo scontato voto di fiducia «che consentirà di consumare definitivamente questo vero crimine sociale», la parola dovrà passare «a quanti, nei movimenti e nella società civile, hanno davvero a cuore i diritti dei lavoratori, cercando di rivendicarli anche nelle aule di giustizia italiane ed europee». Sempre che parola “giustizia”, naturalmente, ridiventi coniugabile – in un futuro indefinito – con la parola “Europa”, cioè con la tecnocrazia neoliberista del Fiscal Compact del Trattato Transatlantico che mira esattamente a ridurre a zero le protezioni dello Stato verso i lavoratori, con l’unico obiettivo di far aumentare in modo esplosivo i profitti dei vertici industriali e finanziari, a scapito di lavoratori trasformati in schiavi sottopagati e precari. Operazione a cui, in questi anni – a tappe forzate (trattati europei) – proprio il centrosinistra ha dato un contributo determinante. Buon ultimo Matteo Renzi: sta servendo ai poteri forti, su un piatto d’argento, le atroci “riforme strutturali” invocate da Mario Monti e Elsa Fornero.I giovani sono serviti: non avranno mai più un lavoro decente, sicuro, dignitoso. La soddisfazione con cui i partiti di centrodestra hanno salutato l’ultima versione del decreto su contratti a termine e apprendistato è «la miglior certificazione non solo degli ulteriori e quasi incredibili peggioramenti di una legge già pessima, ma della vera e propria bancarotta – non c’è altra parola – della rappresentanza parlamentare del Partito Democratico». Con la sola eccezione di Stefano Fassina, rileva Piergiovanni Alleva, i parlamentari del Pd «si sono lasciati soggiogare da alcuni notissimi nemici storici dei lavoratori e dei sindacati», a cominciare dall’ex ministro Maurizio Sacconi, accettando un testo normativo «che mai i governi Berlusconi sarebbero riusciti ad ottenere a scapito dei lavoratori, e di cui invece il “democratico” Renzi e il “comunista” Poletti vanno invece addirittura fieri». Sono loro, i portabandiera della sinistra ufficiale, a seppellire lo Statuto dei Lavoratori su cui si sono basati decenni di sviluppo sociale nell’Italia del benessere.