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Hersh: da Hillary Clinton il gas Sarin per la strage in Siria
Hillary Clinton, candidata alla Casa Bianca, è la diretta responsabile – a livello politico – della fornitura di armi di distruzione di massa ai “ribelli” siriani, che il 21 agosto 2013 scatenarono un attacco col gas Sarin a Ghouta, periferia di Damasco, per poi far ricadere la colpa sull’esercito governativo di Assad. Si calcola che nella carneficina morirono oltre 1.700 civili. Seguì una drammatica escalation, con Usa e Nato a un passo dall’invasione della Siria. Vi si opposero con fermezza la Russia di Putin, che schierò una flotta da guerra a protezione del paese, e persino Papa Francesco, con una clamorosa giornata di preghiera per scongiurare il bombardamento. Da indagini accurate, emerse subito che i razzi col gas letale erano stati scagliati da territori controllati dai “ribelli” finanziati dagli Usa. Oggi, l’accusa è confermata da un grande giornalista americano come Seymour Hersh, che punta il dito contro Hillary Clinton: da segretario di Stato, autorizzò la creazione della “via dei ratti”, il canale clandestino per trasferire dalla Libia alla Siria migliaia di jihadisti, incluse le scorte di gas tossici di cui era in possesso il regime di Gheddafi.Ne parla ora sul sito “Free Thought Project” un veterano dei marines, Matt Agorist, già operatore di intelligence nella Nsa. I preliminari: un accordo, risalente al 2012, tra Barack Obama, Turchia, Qatar e Arabia Saudita «per imbastire un attacco con gas sarin e darne la colpa ad Assad», scrive “Voci dall’Estero”. «Tutte le prove punterebbero in una direzione: i precursori chimici del gas sarin sarebbero venuti dalla Libia, il sarin sarebbe stato “fatto in casa” e la colpa gettata sul governo siriano come pretesto perché gli Stati Uniti potessero finanziare e addestrare direttamente i ribelli siriani, come desideravano i sauditi intenzionati a rovesciare Assad. Responsabile della montatura, l’allora segretario di Stato Usa e attuale candidata alla presidenza per i Democrat, Hillary Clinton». Da quando gli Stati Uniti finanziano questi “ribelli moderati”, ricorda Agorist, sono state uccise più di 250.000 persone, cui si aggiungono oltre 7 milioni e mezzo di siriani sfollati all’interno del loro paese e altri 4 milioni di siriani fuggiti all’estero. «Tutta questa morte e distruzione portata da un sadico esercito di ribelli finanziati e armati dal governo degli Stati Uniti era basata – è quello che ora ci viene detto – su una completa montatura».Seymour Hersh, giornalista Premio Pulitzer, ha rivelato che l’amministrazione Obama ha falsamente accusato il governo di Bashar Assad per l’attacco con gas sarin. Obama stava cercando di usarlo come scusa per invadere la Siria. Come spiega Eric Zuesse in “Strategic Culture”, Hersh indica un rapporto dell’intelligence britannica che sosteneva che il sarin non veniva dalle scorte di Assad. «I finanziamenti venivano dalla Turchia, e parimenti dall’Arabia Saudita e dal Qatar; la Cia, con il sostegno del Mi6, aveva l’incarico di prendere armi dagli arsenali di Gheddafi in Libia». Molteplici rapporti indipendenti, continua Agorist, sostengono che la Libia di Gheddafi possedeva tali scorte, mentre il Consolato degli Stati Uniti a Bengasi, in Libia, controllava una “via di fuga” per le armi confiscate al regime di Gheddafi, verso la Siria attraverso la Turchia. «Anche se Hersch non ha specificamente detto che “la Clinton ha trasportato il gas”, l’ha implicata direttamente in questa “via di fuga” delle armi delle quale il gas sarin faceva parte».Riguardo al coinvolgimento della Clinton, Hersh cita l’ambasciatore americano Christopher Stevens, morto nell’assalto dell’ambasciata Bengasi: era al corrente della “via dei ratti” per trasferire tagliagole e armi letali in Siria, ed è impensabile che non ne avesse informato il suo “capo”, cioè Hillary. Lo conferma il giornalista investigativo Christof Lehmann, che ha scoperto prove che coinvolgono il capo di stato maggiore Martin Dempsey, il direttore della Cia John Brennan e il governo saudita. Alla Clinton, poi, non mancherebbero precedenti: secondo il “Free Thought Project”, «ha legami con i cartelli criminali internazionali che hanno finanziato lei e suo marito per decenni». Oltre 5 milioni di dollari, poi, sarebbero stati versati alla Fondazione Clinton dall’Arabia Saudita. Il grande movente della guerra contro la Siria? «La costruzione di un oleodotto per il petrolio dei Saud attraverso la Siria verso il più grande mercato del petrolio, l’Europa». Al primo golpe della Cia, nel dopoguerra, risposero colpi di Stato siriani, fino all’ascesa al potere di Hafez Assad, il padre di Bashar, nel 1970. Risultato: «L’oleodotto trans-arabico a lungo pianificato dai Saud non è ancora stato costruito. E la famiglia reale saudita, che possiede la più grande azienda mondiale di petrolio, l’Aramco, non vuole più aspettare».Obama, aggiunge Matt Agorist, è il primo presidente degli Stati Uniti ad aver seriamente tentato di svolgere il loro tanto desiderato “cambio di regime” in Siria, in modo da consentire la costruzione attraverso la Siria non solo dell’oleodotto trans-arabico dei Saud, ma anche del gasdotto Qatar-Turchia che la famiglia reale Thani (amica dei Saud), che possiede il Qatar, vuole che sia costruita lì. Gli Stati Uniti sono alleati con la famiglia Saud (e con i loro amici, le famiglie reali del Qatar, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Oman). La Russia, invece, è alleata con i leader della Siria – così come in precedenza lo era stata con Mossadeq in Iran, Arbenz in Guatemala, Allende in Cile, Saddam Hussein in Iraq, Gheddafi in Libia e Yanukovich in Ucraina. Tutti rovesciati con successo dagli Stati Uniti, ad eccezione del partito Baath in Siria, quello degli Assad. Per abbatterlo, dunque, gli Usa hanno autorizzato anche l’uso di armi chimiche. E la persona che ha pronunciato il fatidico sì, secondo Hersh, era la Clinton: la donna che adesso sfida il “cattivone” Trump per la Casa Bianca.Hillary Clinton, candidata alla Casa Bianca, è la diretta responsabile – a livello politico – della fornitura di armi di distruzione di massa ai “ribelli” siriani, che il 21 agosto 2013 scatenarono un attacco col gas Sarin a Ghouta, periferia di Damasco, per poi far ricadere la colpa sull’esercito governativo di Assad. Si calcola che nella carneficina morirono oltre 1.700 civili. Seguì una drammatica escalation, con Usa e Nato a un passo dall’invasione della Siria. Vi si opposero con fermezza la Russia di Putin, che schierò una flotta da guerra a protezione del paese, e persino Papa Francesco, con una clamorosa giornata di preghiera per scongiurare il bombardamento. Da indagini accurate, emerse subito che i razzi col gas letale erano stati scagliati da territori controllati dai “ribelli” finanziati dagli Usa. Oggi, l’accusa è confermata da un grande giornalista americano come Seymour Hersh, che punta il dito contro Hillary Clinton: da segretario di Stato, autorizzò la creazione della “via dei ratti”, il canale clandestino per trasferire dalla Libia alla Siria migliaia di jihadisti, incluse le scorte di gas tossici di cui era in possesso il regime di Gheddafi.
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Il capo è nervoso: sa che ormai tutti cercano un sostituto
Attenti, il “capo” è nervoso: sa perfettamente che, se è ancora al suo posto, è solo perché nessun altro è ancora pronto a sostituirlo. Ma la voglia di rottamarlo sta crescendo velocemente. Lo scrive Sergio Cararo su “Contropiano”: che Matteo Renzi sia diventato molto nervoso lo testimoniano «la quantità di contestazioni (e di manganellate della polizia) che lo inseguono ovunque vada». E’ nervoso, il boss del Pd, «perché sa di aver fatto parecchio del lavoro sporco che gli era stato richiesto contro lavoratori, pensionati, risparmiatori». La famigerata lettera della Bce firmata da Draghi e Trichet il 5 agosto del 2011? E’ stata applicata, appunto, “alla lettera”. Eppure, i suoi “mandanti” non sono ancora contenti. Non lo è l’Unione Europea, «che mal sopporta le sue rodomontate così come non sopportava le stramberie di Berlusconi». E non lo è Confindustria, «oggi pesantemente ipotecata dalle aziende di cui il governo è azionista». Gli industriali vogliono «rendere strutturali e non congiunturali gli sgravi contributivi», con «mano libera alle imprese nel licenziare o assumere con salari da fame».Non è contento di Renzi neppure un potere forte come la magistratura, che «mostra forti segni di fastidio verso un premier che, come Berlusconi, ritiene che la legalità vada bene per tutti tranne che per i suoi uomini e donne ripetutamente beccati con le mani nella marmellata». Renzi è contrariato: «Gli indicatori economici sull’andamento della recessione smentiscono ogni sua fanfaronata sulla disoccupazione, i redditi, i consumi, il risparmio, la fiducia sul futuro», continua Cararo. L’unica carta su cui può ancora contare il capo del Pd? Non ci sono alternative, al momento: «Le classi dominanti non hanno ancora trovato un “leader” di ricambio con cui sostituirlo senza ricorrere alle elezioni», esattamente come venne fatto con Berlusconi (piazzando Monti a Palazzo Chigi) o con «il povero Letta», messo alla porta dall’ambizioso fiorentino. Renzi può anche mascherare il suo nervosismo «ricorrendo a Tweet sferzanti e a interviste televisive con giornalisti in ginocchio», ma è talmente inquieto che «ha anticipato di mesi le nomine ai vertici di polizia, servizi segreti, guardia di finanza, per cercare di legare a sé gli apparati coercitivi dello Stato che gli stanno salvando il culo dalle contestazioni nella strade e nelle città italiane». Come contropartita, aggiunge “Contropiano”, hanno però preteso che Carrai, l’amico di Renzi, venisse tenuto fuori dai servizi di sicurezza.La verità è sotto gli occhi di tutti: un cittadino su tre è andato a votare al referendum contro le trivelle, anche se il premier gli aveva “consigliato” di stare a casa. E l’aria che tira per le elezioni comunali nella grandi città vede i suoi candidati in serissima difficoltà. In più, «ogni volta che annuncia che andrà a casa, se perde», come nel caso del prossimo referendum sulle controriforme costituzionali, «non c’è nessuno che cerchi di dissuaderlo». Bella occasione, quella di ottobre, per mandarlo a casa davvero: «Le tensioni con Confindustria, magistratura e Unione Europea si stanno accumulando pericolosamente», ma un’altra “deposizione” come quella di Berlusconi non passerebbe facilmente. Quello di ottobre, insiste Cararo, sarà un referendum decisivo: non solo per impedire che la Costituzione diventi carta straccia, «ma per dare una spallata ad un capo nervoso e pericoloso». Chi auspica di “spacchettare” i quesiti, per votare in modo differenziato, non comprende la portata epocale della sfida: «Lo scontro sul referendum di ottobre è uno spartiacque: o con Renzi (e la Troika) o con la democrazia».Attenti, il “capo” è nervoso: sa perfettamente che, se è ancora al suo posto, è solo perché nessun altro è ancora pronto a sostituirlo. Ma la voglia di rottamarlo sta crescendo velocemente. Lo scrive Sergio Cararo su “Contropiano”: che Matteo Renzi sia diventato molto nervoso lo testimoniano «la quantità di contestazioni (e di manganellate della polizia) che lo inseguono ovunque vada». E’ nervoso, il boss del Pd, «perché sa di aver fatto parecchio del lavoro sporco che gli era stato richiesto contro lavoratori, pensionati, risparmiatori». La famigerata lettera della Bce firmata da Draghi e Trichet il 5 agosto del 2011? E’ stata applicata, appunto, “alla lettera”. Eppure, i suoi “mandanti” non sono ancora contenti. Non lo è l’Unione Europea, «che mal sopporta le sue rodomontate così come non sopportava le stramberie di Berlusconi». E non lo è Confindustria, «oggi pesantemente ipotecata dalle aziende di cui il governo è azionista». Gli industriali vogliono «rendere strutturali e non congiunturali gli sgravi contributivi», con «mano libera alle imprese nel licenziare o assumere con salari da fame».
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Auto elettrica, il boom Tesla beffa il “profeta” Marchionne
Prima ti ignorano, poi ti irridono, poi ti combattono. Poi hai vinto. Il vincitore si chiama Nikola Tesla, geniale scienziato di origine serba. Ma anche Elon Musk, Ceo della statunitense Tesla Motors, produttrice della più rivoluzionaria auto elettrica esistente sul pianeta, emissioni zero e 500 chilometri di autonomia. Il grande sconfitto? Sergio Marchionne. Lo afferma Pietro Cambi, ripercorrendo le “profezie” del boss di Fiat-Chrysler riguardo all’auto del futuro. Una storia che ripropone la nota parabola gandhiana: prima di trionfare, ogni grande innovatore viene inizialmente ignorato, poi canzonato, quindi osteggiato. E dire che Marchionne era stato messo sulla giusta strada persino da un parlamentare Pd, Andrea Lulli, che chiese investimenti per 100 milioni di euro sulla promozione dei veicoli a impatto zero. «Marchionne fece quello che per lui doveva essere un enorme sacrificio: si mise la cravatta. E andò alla Camera a spiegare che il suo piano industriale escludeva i veicoli elettrici». Il confronto con Tesla, per quanto riguarda dedizione e capacità di analisi del futuro, è illuminante, scrive Cambi: «Serve a far comprendere la cecità e ottusità di un management che sta cancellando, è inesorabile, la presenza italiana nel mercato dell’auto».Nel 2010, ricorda Cambi su “Crisis, what crisis”, in Italia sono sono state vendute le prime 50 Tesla “Roadster”. Marchionne: «Gli esperti internazionali concordano sul fatto che la quota di vetture elettriche non potrà superare il 5% del totale neppure tra dieci anni». Motivo: prezzi ancora troppo alti, per via dei bassi numeri di produzione e del costo della batteria. E 12 mesi dopo: «L’anno prossimo lanceremo la 500 elettrica sul mercato americano e perderemo 10.000 dollari ogni auto prodotta e venduta lì. Figuratevi se dovessimo esportarla verso l’Europa», dove – a differenza degli Usa – non esistono incentivi per lo sviluppo di veicoli a emissioni zero. E ancora: «Il costo della tecnologia è altissimo, è inutile illuderci che salvi il mercato dell’auto». Sempre nel 2012: «Si tratta di una tecnologia che non è alla portata delle tasche normali, è una mobilità poco sostenibile in termini di diffusione di massa. Non sto dicendo che sia una tecnologia da abbandonare, tutt’altro, ma indirizzare tutto lo sforzo normativo per promuovere questo tipo di trazione porterebbe solo ad un aumento di costi senza nessun beneficio immediato e concreto. Sembra più saggio concentrarsi su motori tradizionali e carburanti alternativi».Intanto, nel gennaio 2013, sbarca anche in Italia la Tesla “Model S”. Marchionne: «Non sto dicendo che l’auto elettrica sia un progetto da non considerare, in Fiat ci stiamo lavorando seriamente con Chrysler che ha sviluppato grandi competenze. Ma è bene sapere che per ogni 500 elettrica venduta perderemo circa 10.000 dollari, un affare al limite del masochismo». Un anno dopo, nel gennaio 2014, le Tesla vendute in Italia salgono a quota 22.000. In un convegno negli Usa, Marchionne insiste sulla sua tesi. E aggiorna il costo dell’operazione per la 500 elettrica: non ci rimette più solo 10.000 dollari a veicolo, ma 14.000. Poi, finalmente, nel 2015 la diga comincia a vacillare: «Sono rimasto incredibilmente impressionato da quello che è riuscito a fare quel ragazzo», ammette Marchionne, parlando di Elon Musk e della sua Tesla. La frana, intanto, diventa un cataclisma: nel gennaio 2016, le Tesla vendute sono ormai oltre 55.000. Eppure, sull’auto elettrica Marchionne frena ancora: «Dateci tempo di dimostrare il nostro valore, ma quando sarà prodotta e sul mercato, non prima. La verità è che nessuno guadagna con le auto a zero emissioni. Nemmeno Elon Musk, che pure considero il guru del settore».Poi, nell’aprile 2016: «Non mi vergogno di dirlo: se Musk mi dimostrerà che l’auto può essere redditizia a quel prezzo», cioè 35.000 dollari, «copierò la formula, aggiungerò il design italiano e la porterò sul mercato entro un anno». Aggiunge Marchionne: «Le numerose prenotazioni non mi sorprendono, ma poi bisogna vendere le auto e guadagnare:meglio arrivare tardi che essere dispiaciuti». Davvero? Nello stesso mese – aprile 2016 – la nuovissima “Tesla 3” è accolta da qualcosa come 400.000 ordini. E’ un caso senza precedenti nella storia del marketing, osserva Cambi. Oggi, maggio 2016, finalmente Marchionne fa sapere che Fiat-Fca sta cercando un accordo con Google per sviluppare sistemi di guida autonoma, come i dispositivi anti-incidente già montati sulle auto di Elon Musk, che sono in grado di parcheggiare da sole, evitare ostacoli improvvisi, dribblare veicoli. «Non è il futuro. E’ presente. I proprietari di Tesla stanno utilizzando questa tecnologia ORA».Sintesi: «L’auto elettrica ha vinto, il suo Napoleone si chiama Tesla (perché i meriti vanno allargati all’azienda e non solo al suo fondatore)». E gli altri? Fiat, Bmw, Audi, Volkswagen, Volvo e General Motors «inseguono, senza grandi speranze». Attenzione: «La “guerra” continua e continuerà, vedrete, in modi sempre più feroci». Per intanto, vediamo di capirci, conclude Cambi: «Caro Marchionne: sono almeno sette anni che ci spieghi, con molta pazienza e altrettanta ottusa ostinazione, che le auto elettriche non hanno un futuro. Poi ti tocca ammettere, di fronte all’evidenza dei fatti, che questo futuro è qui, è qui per restare. E tu sei stato volutamente fermo, perdendo sette anni. Poi, senza alcun sprezzo del pericolo, immemore delle “proiezioni” sesquipedali di cui hai infarcito i tuoi comunicati per anni, mancandole tutte, dichiari che IN UN ANNO potresti fare una auto in grado di competere con una Tesla? In un anno? Quando da alcuni anni non riesci ad azzeccare un modello che è uno, nemmeno per sbaglio? Senso del pudore, mi pare evidente, non l’hai mai avuto. Senso del ridicolo? No, eh?».Prima ti ignorano, poi ti irridono, poi ti combattono. Poi hai vinto. Il vincitore si chiama Nikola Tesla, geniale scienziato di origine serba. Ma anche Elon Musk, Ceo della statunitense Tesla Motors, produttrice della più rivoluzionaria auto elettrica esistente sul pianeta, emissioni zero e 500 chilometri di autonomia. Il grande sconfitto? Sergio Marchionne. Lo afferma Pietro Cambi, ripercorrendo le “profezie” del boss di Fiat-Chrysler riguardo all’auto del futuro. Una storia che ripropone la nota parabola gandhiana: prima di trionfare, ogni grande innovatore viene inizialmente ignorato, poi canzonato, quindi osteggiato. E dire che Marchionne era stato messo sulla giusta strada persino da un parlamentare Pd, Andrea Lulli, che chiese investimenti per 100 milioni di euro sulla promozione dei veicoli a impatto zero. «Marchionne fece quello che per lui doveva essere un enorme sacrificio: si mise la cravatta. E andò alla Camera a spiegare che il suo piano industriale escludeva i veicoli elettrici». Il confronto con Tesla, per quanto riguarda dedizione e capacità di analisi del futuro, è illuminante, scrive Cambi: «Serve a far comprendere la cecità e ottusità di un management che sta cancellando, è inesorabile, la presenza italiana nel mercato dell’auto».
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Zanotelli: acqua ai privati, tradimento di Stato firmato Renzi
Quello che è avvenuto il 21 aprile alla Camera dei Deputati è un insulto alla democrazia. Quel giorno i rappresentanti del popolo italiano hanno rinnegato quello che 26 milioni di italiani avevano deciso nel referendum del 12-13 giugno 2011 e cioè che l’acqua deve uscire dal mercato e che non si può fare profitto su questo bene. I deputati invece hanno deciso che il servizio idrico deve rientrare nel mercato, dato che è un bene di “interesse economico”, da cui ricavarne profitto. Per arrivare a questa decisione (beffa delle beffe!), i rappresentanti del popolo hanno dovuto snaturare la legge d’iniziativa popolare (2007) che i Comitati dell’acqua erano finalmente riusciti a far discutere in Parlamento. Legge che solo lo scorso anno (con enorme sforzo dei comitati) era approdata alla Commissione Ambiente della Camera, dove aveva subito gravi modifiche, grazie agli interventi di Renzi-Madia. Il testo approvato alla Camera obbliga i Comuni a consegnare l’acqua ai privati. Ben 243 deputati (Partito Democratico e Destra) lo hanno votato, mentre 129 (Movimento Cinque Stelle e Sinistra Italiana) hanno votato contro. A nulla è valsa la rumorosa protesta in aula dei pentastellati.Ora il popolo italiano sa con chiarezza sia quali sono i partiti che vogliono privatizzare l’acqua, ma anche che il governo Renzi è tutto proteso a regalare l’acqua ai privati. «L’obiettivo del governo Renzi – afferma giustamente Riccardo Petrella – è il consolidamento di un sistema idrico europeo, basato su un gruppo di multiutilities su scala interregionale e internazionale, aperte alla concorrenza sui mercati europei e mondiali, di preferenza quotate in Borsa, e attive in reti di partenariato pubblico-privato». Sappiamo infatti che Renzi vuole affidare l’acqua a quattro multiutilities italiane: Iren, A2A, Hera e Acea. Infatti sta procedendo a passo spedito l’iter del decreto Madia (Testo unico sui servizi pubblici locali) che prevede l’obbligo di gestire i servizi a rete (acqua compresa) tramite società per azioni e reintroduce in tariffa “l’adeguatezza della remunerazione del capitale investito” (la dicitura che il referendum aveva abrogato!). Tutto questo è di una gravità estrema, non solo perché si fa beffe della democrazia, ma soprattutto perché è un attentato alla vita. E’ infatti Papa Francesco che parla dell’acqua come “diritto alla vita” (un termine usato in campo cattolico per l’aborto e l’eutanasia).L’acqua è Vita, è la Madre di tutta la Vita sul pianeta. Privatizzarla equivale a vendere la propria madre! Ed è una bestemmia! Per cui mi appello a tutti in Italia, credenti e non, ma soprattutto alle comunità cristiane perché ci mobilitiamo facendo pressione sul Senato dove ora la legge sull’acqua è passata perché lo sgorbio fatto dai deputati venga modificato. Inoltre mi appello: al presidente della Repubblica, perché ricordi ufficialmente al Parlamento di rispettare il referendum; alla Corte Costituzionale, perché intervenga a far rispettare il voto del popolo italiano; alla Conferenza Episcopale Italiana (Cei), perché si pronunci, sulla scia dell’enciclica “Laudato Si’”, sulla gestione pubblica dell’acqua; ai parroci e ai sacerdoti, perché nelle omelie e nelle catechesi, sensibilizzino i fedeli sull’acqua come “diritto essenziale, fondamentale, universale” (Papa Francesco); ai Comuni e alle città, perché ritrovino la volontà politica di ripubblicizzare i servizi idrici come Napoli (penso a città come Trento, Messina, Palermo, Reggio Emilia).Il problema della gestione dell’acqua è oggi fondamentale: è una questione di vita o di morte per noi, ma soprattutto per gli impoveriti del pianeta, per i quali, grazie al surriscaldamento del pianeta, l’acqua sarà sempre più scarsa. Se permetteremo alle multinazionali di mettere le mani sull’acqua, avremo milioni e milioni di morti di sete. Per questo la gestione dell’acqua deve essere pubblica, fuori dal mercato e senza profitto, come sta avvenendo a Napoli, unica grande città italiana ad aver obbedito al referendum. Diamoci tutti da fare perché vinca la Madre, perché vinca la Vita: l’Acqua.(Alex Zanotelli, “Acqua, tradimento di Stato”, da “Coscienze in Rete” del 2 maggio 2016).Quello che è avvenuto il 21 aprile alla Camera dei Deputati è un insulto alla democrazia. Quel giorno i rappresentanti del popolo italiano hanno rinnegato quello che 26 milioni di italiani avevano deciso nel referendum del 12-13 giugno 2011 e cioè che l’acqua deve uscire dal mercato e che non si può fare profitto su questo bene. I deputati invece hanno deciso che il servizio idrico deve rientrare nel mercato, dato che è un bene di “interesse economico”, da cui ricavarne profitto. Per arrivare a questa decisione (beffa delle beffe!), i rappresentanti del popolo hanno dovuto snaturare la legge d’iniziativa popolare (2007) che i Comitati dell’acqua erano finalmente riusciti a far discutere in Parlamento. Legge che solo lo scorso anno (con enorme sforzo dei comitati) era approdata alla Commissione Ambiente della Camera, dove aveva subito gravi modifiche, grazie agli interventi di Renzi-Madia. Il testo approvato alla Camera obbliga i Comuni a consegnare l’acqua ai privati. Ben 243 deputati (Partito Democratico e Destra) lo hanno votato, mentre 129 (Movimento Cinque Stelle e Sinistra Italiana) hanno votato contro. A nulla è valsa la rumorosa protesta in aula dei pentastellati.
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Stupid-economy, non ci salveranno neppure le rinnovabili
Che si producano milioni di prodotti inutili con le fonti fossili o con il solare, sempre prodotti inutili saranno e quello che si guadagna ambientalmente o energeticamente da una parte, lo si perde dall’altra. Per quanto sia certamente meglio utilizzare il solare piuttosto che il petrolio, comunque si sprecano preziose risorse non rinnovabili per produrre qualcosa di inutile. Pensiamo alle automobili; si fa un gran parlare dell’auto elettrica come se fosse la soluzione magica. Ma ve le immaginate centinaia di milioni di auto elettriche di quante risorse ed energia hanno bisogno per essere prodotte? Risorse che non sono di certo rinnovabili, perché quello che c’è dentro ad un’auto ha poco di rinnovabile. A meno che non la si voglia fare tutta di legno, ma allora non è più un’automobile ma un carretto e serve il cavallo, difatti è lì che andremo a finire se non fermiamo la follia della crescita. Inutile poi diminuire il consumo di carburante per automobile se poi ogni anno le vetture aumentano sempre di più e vanificano il risultato ottenuto dal minor consumo.Per sostenere con la green economy la crescita che fa felici industriali e governanti, dovremmo lastricare l’intero pianeta di pannelli solari e nemmeno basterebbe; pannelli solari che a loro volta hanno bisogno di materiali ed energia per essere prodotti, materiali che spesso non sono rinnovabili. Per quante fandonie si possano raccontare per poter continuare a vendere qualsiasi cosa, fortunatamente dai limiti terrestri non si scappa. La vera green economy e l’uso delle energie rinnovabili hanno senso solo se si mette in discussione la crescita e se per ogni prodotto ci si chiede se veramente è utile e quale è il suo grado di rinnovabilità. A certi nuovi convertiti, a cui non è mai interessato nulla dell’ambiente, importa maggiormente il portafoglio; lo dimostra in Italia il boom del fotovoltaico che spesso è stato solo speculazione. Il fotovoltaico fra le energie rinnovabili è quella che ha il rendimento minore ed è la meno interessante da un punto di vista ambientale. Ha molto più senso coibentare la casa con materiali naturali, quelli sì rinnovabili; e con quelli si abbassano drasticamente i consumi di riscaldamento e raffrescamento fino quasi a eliminarli del tutto, come per le case passive.Sono tanti coloro che hanno installato pannelli fotovoltaici nella propria casa o azienda e hanno continuato a consumare come e più di prima; in questo caso più che green economy si tratta di stupid economy. Agire così non ha senso e ha solo arricchito imprenditori senza scrupoli che si sono buttati sul fotovoltaico esclusivamente perché rendeva; poi gli stessi li vedi andare in giro in mega Suv, Maserati o Ferrari, che in quanto a protezione ambientale e risparmio energetico sappiamo bene essere il top. Per quanto ci si possa illudere o mettersi adesso questa copertina trasparente della green economy, non si scappa: è la crescita il problema e finchè quella non sarà messa in discussione e accantonata, non ci saranno rinnovabili o green economy che tengano. Anche le multinazionali dell’energia, dopo aver inquinato tutto l’inquinabile, si stanno buttando sulle rinnovabili ma dal punto di vista centralizzato, cioè l’energia ce la devono comunque vendere loro, mica ci dicono di renderci autonomi, che è invece la peculiarità principale delle energie rinnovabili stesse.Le risorse sono finite, inutile prenderci in giro; tutto quello che si produce deve essere attentamente vagliato per fare in modo che sia rinnovabile o comunque, se si utilizzano risorse finite, occorre fare in modo che i prodotti si possano riparare, riciclare, rendendone la vita più lunga possibile: l’esatto contrario di quello che dice il dogma del PIL, che per crescere ha assolutamente bisogno di usa e getta a ritmo continuo e più le discariche aumentano e più il Pil gioisce. Ma verrà un giorno, non molto lontano, che malediremo i sacerdoti del Pil mentre ci ritroveremo a scavare nelle discariche per trovare materiali preziosi che nel tempo della follia consumistica avevamo così stupidamente buttato per fare ingrassare industriali e politici senza scrupoli.(Paolo Ermani, “Le energie rinnovabili e la green economy non basteranno a salvarci”, da “Il Cambiamento” del 29 aprile 2016).Che si producano milioni di prodotti inutili con le fonti fossili o con il solare, sempre prodotti inutili saranno e quello che si guadagna ambientalmente o energeticamente da una parte, lo si perde dall’altra. Per quanto sia certamente meglio utilizzare il solare piuttosto che il petrolio, comunque si sprecano preziose risorse non rinnovabili per produrre qualcosa di inutile. Pensiamo alle automobili; si fa un gran parlare dell’auto elettrica come se fosse la soluzione magica. Ma ve le immaginate centinaia di milioni di auto elettriche di quante risorse ed energia hanno bisogno per essere prodotte? Risorse che non sono di certo rinnovabili, perché quello che c’è dentro ad un’auto ha poco di rinnovabile. A meno che non la si voglia fare tutta di legno, ma allora non è più un’automobile ma un carretto e serve il cavallo, difatti è lì che andremo a finire se non fermiamo la follia della crescita. Inutile poi diminuire il consumo di carburante per automobile se poi ogni anno le vetture aumentano sempre di più e vanificano il risultato ottenuto dal minor consumo.
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Mazzucco: 5 Stelle, lasciate perdere la presunzione d’onestà
Nel 2013 ho votato per i 5 Stelle, e continuerò a farlo finchè rimarrà un filo di speranza che questi ragazzi riescano a risanare il nostro sistema politico, marcio e corrotto. Però non si può continuare a propagandare l’onestà come se fosse un biglietto da visita, da presentare all’interlocutore ancor prima di pronunciare il proprio nome. Invece questo è quello che sta accadendo, sempre più spesso, con i 5 Stelle. Il caso più eclatante, che mi ha colpito particolarmente, è stato quello di Virginia Raggi, che lo scorso venerdì si è presentata da Mentana, a “Bersaglio Mobile”, dicendo sostanzialmente che i romani dovrebbero votare lei perchè è prima di tutto una persona onesta. E’ stato un gesto decisamente antipatico, pieno di presunzione e di saccenza. Ed infatti lo stesso Mentana, che di certo non è un nemico dei 5 Stelle, ha replicato dicendo «va bè, che un candidato sia una persona onesta lo si presume in partenza, poi però ci vuole anche qualcos’altro».In verità, la patente di onestà bisogna conquistarsela sul campo, comportandosi in modo corretto, trasparente ed utile per la comunità. Non puoi appiccicarti tu il bollino blu sulla fronte e andare in giro a dire “votate per me perchè sono onesto”. La patente di onestà è qualcosa che ti danno gli altri a ragion veduta, dopo aver lavorato correttamente sotto gli occhi di tutti. Non puoi anteporla tu come sine qua non per poter pronunciare il tuo nome. Sia chiaro: una cosa è cantare “onestà” come slogan da utilizzare in pubblico. E’ giusto che i 5 Stelle, collettivamente, chiedano onestà perchè sappiamo tutti che questo è il problema fondamentale che sta alla radice di tutti i mali del nostro paese. Ben altra invece è dichiararsi onesti a livello individuale, singolarmente, con nome e cognome. Anche perchè tutti nasciamo onesti, all’inizio. Sono poi le svolte della vita che ci portano a rimanerlo o meno. Quindi, uno che sia onesto oggi non è detto che lo rimanga anche domani. E se un solo 5 Stelle, che si proclama onesto prima di ricevere un mandato pubblico, finisse poi per diventare disonesto, dopo averlo ricevuto, segnerebbe automaticamente la fine per tutto il movimento.Guardate solo quello che i piddini sono riusciti a mettere in piedi, con l’inconsistente caso di Quarto, ed immaginate il putiferio mediatico che metterebbe in piedi una belva come Renzi se un domani uno qualunque dei 5 Stelle, dopo aver ricevuto un mandato pubblico, venisse anche solo sfiorato da un sospetto di corruzione. Ne verrebbe fuori un vero e proprio Carnevale di Rio, con i 5 Stelle nella parte dei coriandoli. Ragazzi, lasciatevelo dire: voi fate il vostro lavoro, in modo pulito e trasparente, e lasciate che siano gli altri a decidere se siete onesti o meno. Tanto, la storia arriva sempre a dare il suo giudizio corretto, prima o poi.(Massimo Mazzucco, “I 5 Stelle e la presunzione di onestà”, da “Luogo Comune” del 25 aprile 2016).Nel 2013 ho votato per i 5 Stelle, e continuerò a farlo finchè rimarrà un filo di speranza che questi ragazzi riescano a risanare il nostro sistema politico, marcio e corrotto. Però non si può continuare a propagandare l’onestà come se fosse un biglietto da visita, da presentare all’interlocutore ancor prima di pronunciare il proprio nome. Invece questo è quello che sta accadendo, sempre più spesso, con i 5 Stelle. Il caso più eclatante, che mi ha colpito particolarmente, è stato quello di Virginia Raggi, che lo scorso venerdì si è presentata da Mentana, a “Bersaglio Mobile”, dicendo sostanzialmente che i romani dovrebbero votare lei perchè è prima di tutto una persona onesta. E’ stato un gesto decisamente antipatico, pieno di presunzione e di saccenza. Ed infatti lo stesso Mentana, che di certo non è un nemico dei 5 Stelle, ha replicato dicendo «va bè, che un candidato sia una persona onesta lo si presume in partenza, poi però ci vuole anche qualcos’altro».
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11 Settembre: l’uomo che condannò Moro accusa Israele
Accusa i neocon con nomi e cognomi: Paul Wolfowitz allora viceministro al Pentagono, l’israelo-americano Michael Chertoff, il rabbino Dov Zakheim (numero 3 al Pentagono) di essersi infiltrati nel governo Bush jr. e di aver organizzato, “su istigazione di Israele”, il mega-attentato dell’11 Settembre 2001. E non è un complottista marginale: è stato un alto funzionario del Dipartimento di Stato, da Nixon a Carter a Bush-padre, esperto in guerra psicologica, attore in operazioni coperte (come l’uccisione di Moro) per conto degli Stati Uniti. Membro fino al 2012 del Council on Foreign Relations, quindi dell’élite dell’establisment. Né lo si può accusare di avere come motivazione l’antisemitismo: i suoi genitori erano ebrei russo-polacchi fuggiti alla Shoah, lui ha scritto persino una biografia di sua “mamma yiddish”, Teodora. E’ Steve Pieczenik. Una vecchia conoscenza anche per l’Italia, come vedremo. Steve Pieczenik ha detto tutto il 21 aprile 2016, intervistato da Alex Jones, creatore del sito “InfoWars”.La video-intervista, di 47 minuti, è stata diffusa, probabilmente non a caso, nel pieno della campagna americana per incolpare la monarchia saudita del mega-attentato dell’11 Settembre, con la minaccia di pubblicare le 28 pagine del rapporto della Commissione Senatoriale sul 9/11, secretate da Bush jr. proprio perché mostrerebbero il coinvolgimento dei sauditi ai più alti livelli. Steve Pieczenik corregge: sì, c’è stata la cooperazione di “agenti sauditi”, ma il mandante principale è Israele, insiste nell’intervista. Egli si dichiara disposto a testimoniare sotto giuramento davanti a un tribunale federale e rivelare lì le sue fonti, fra cui (dice) “un generale”. L’importanza del testimone non può essere sottovalutata. Il dottor Pieczenik (è psichiatra) fu in Italia nel marzo del 1978 e per tutti i 55 giorni del sequestro di Aldo Moro da parte delle Br; speditovi dall’allora segretario di Stato Cyrus Vance, si inserì nel Comitato di Crisi allestito da Cossiga, allora ministro dell’interno (a fianco del criminologo Franco Ferracuti, l’esperto in difesa e sicurezza Stefano Silvestri, una grafologa e il magistrato Renato Squillante) ufficialmente per dare la sua esperta assistenza al salvataggio del politico italiano e negoziare con le Brigate Rosse. In realtà, come ha rivelato in un libro nel 2008, per assicurarsi che Moro non ne uscisse vivo: gli Usa avevano deciso che Moro doveva essere “sacrificato” per garantire “la stabilità dell’Italia” (nella Nato).Intervistato da “France 5” e poi da Gianni Minoli a “Mixer” nel novembre 2013, Steve Pieczenik ha confermato tutto: per esempio raccontando che silurò l’iniziativa di Paolo VI di raccogliere una grossa somma (pare di dieci miliardi di lire), per pagare un riscatto. «Stavamo chiudendo tutti i possibili canali attraverso cui Moro avrebbe potuto essere rilasciato. Non era per Aldo Moro in quanto uomo: la posta in gioco erano le Brigate Rosse e il processo di destabilizzazione dell’Italia». Chiese Minoli: «Sostanzialmente, lei fin dal primo giorno ha pensato e ha detto a Cossiga: Moro deve morire». «Evidente», rispose il consulente: «Cossiga se ne rese conto solo nelle ultime settimane. Aldo Moro era il fulcro da sacrificare attorno al quale ruotava la salvezza dell’Italia». Sic. Per questo la Procura di Roma, nel 2014, ha accusato l’americano di concorso in omicidio. E Gero Grassi, vicepresidente dei deputati Pd che voleva una nuova commissione d’indagine sul caso, disse: «Steve Pieczenik stava al ministero dell’interno per manipolare le Brigate rosse e arrivare all’omicidio di Aldo Moro».Non è stata la sua unica impresa. Nel Dipartimento di Stato, ai tempi di Reagan, il dottore è stato incaricato di architettare il “cambio di regime” a Panama, ossia il rovesciamento di Noriega (che lo accusò apertamente di essere “un assassino” che aveva ucciso vari suoi collaboratori). Ufficialmente capo-negoziatore in una quantità di prese di ostaggi e dirottamenti (ad opera di Farc colombiane, Abu Nidal, Idi Amin, Olp) ha contribuito a creare la Delta Force, il gruppo di teste di cuoio di intervento rapido in situazioni di crisi. Ha dato le dimissioni quando fallì il tentativo di liberare gli ostaggi americani nell’ambasciata di Teheran; decisione del presidente Carter, ma probabilmente scacco suo, del dottor Pieczenik. S’è rifatto però una carriera di successo ideando trame di thriller per Tom Clancy. Nel 2011 è tornato sotto i riflettori per denunciare che la “cattura di Bin Laden” messa a segno ad Abbottabad in Pakistan e passata come un grande successo del presidente Obama, era stata tutta una messinscena (ne abbiamo avuto tutti il sospetto): il vero Bin Laden, secondo lui, è morto fin dal 2001, di sindrome di Marfan.Non può esser casuale il fatto che adesso, a 72 anni e a 15 dal mega-attentato, il vecchio agente del Dipartimento di Stato con le mani in pasta in tante storie oscure di destabilizzazione e sovversione, esca ad accusare Israele mentre tutta la grancassa politico-mediatica sta additando gli spregevoli sauditi. Una campagna a cui partecipa stranamente anche Seymour Hersh, il grande giornalista investigativo con “gole profonde” nel settore militare, che ha condotto inchieste scomode per lo “stato profondo” americano. Pochi giorni fa, intervistato da “Alternet”, Hersh ha raccontato: nel 2011 «i sauditi hanno pagato i pakistani perché non ci dicessero [che Bin Laden si trovava ad Abbottabad, sotto la loro protezione] perché non volevano che noi (americani) interrogassimo Bin Laden perché ci avrebbe parlato – è la mia ipotesi – del loro coinvolgimento [nell’11 Settembre]». Ma quale Bin Laden nascondevano i pakistani nel 2011, se Pieczenik dice (confermando versioni solide del tempo) che è morto nel 2001, pochi mesi dopo l’attentato alle Towers e al Pentagono?Può esserci una lotta di informazione e contro-informazione all’interno stesso dello “Stato profondo” americano? Certo è che i media americani sono scatenati in esibizioni di spregio verso i monarchi wahabiti: “Royal Scum”, feccia regale, titolava il “New York Daily News” qualche giorno fa. Tanto insolito “coraggio” deve essere autorizzato. Naturalmente la “rivelazione” delle 28 pagine colpisce anche il presidente Bush jr., e la sua amministrazione, perché è evidente che, se hanno coperto la parte avuta dai sauditi, sono colpevoli. Lo scandalo anti-saudita va accuratamente controllato, perché è facile che debordi e i suoi liquami schizzino a colpire proprio gli israeliani o con doppio passaporto che erano al Pentagono ai tempi di Bush jr., e additati dall’agente Pieczenik: Paul Wolfowitz, rabbi Dov Zakhiem (e il terzo, ebreo anche lui, era Douglas Feith) più Michael Chertoff, capo dell’Homeland Security e grande insabbiatore-depistatore delle indagini.Questo scontro interno è senza dubbio in relazione con l’ascesa del candidato imprevedibile, Donald Trump, nella lizza presidenziale. Dopo il suo discorso sul suo programma in politica estera – liquidato con rabbia dal “New York Times” perché propone fra l’altro un accordo con Putin e la fine dell’interventismo – «gli americani sentono di avere, per la prima volta dopo molto tempo, una alternativa sobria e basata sull’interesse nazionale alle disastrose politiche dei neocon», ha detto Jim Jatras, l’ex consigliere repubblicano del Senato. Con grande dispetto dell’establishment, Trump non raccoglie voti solo tra i rozzi arretrati operai bianchi di basso reddito che odiano gli immigrati messicani e lo sentono volgare come loro. Negli exit poll delle primarie in Pennsylvania, Maryland, Delaware, Connecticut e Rhode Island – dove ha trionfato – s’è visto che hanno scelto lui la metà degli elettori repubblicani con alto titolo di studio e con reddito di 100 mila dollari annui: il suo discorso di politica estera ha convinto proprio la classe media benestante. Questo per l’elettorato repubblicano. Quanto a quello democratico: «Continuo a incontrare gente che non sa decidere se votare Bernie Sanders oppure Donald Trump», ha confessato al “Baltimore Sun” Robert Reich, ex ministro del lavoro sotto Bill Clinton e uomo molto di sinistra (nella misura statunitense). L’elettorato di “sinistra”, quello che ha favorito Sanders il “socialista”, sta pensando di votare Trump, non Hillary. Forse è proprio la grande liberazione da Israel….(Maurizio Blondet, “11 Settembre, l’uomo di Washington accusa Israele”, dal blog di Blondet del 29 aprile 2016).Accusa i neocon con nomi e cognomi: Paul Wolfowitz allora viceministro al Pentagono, l’israelo-americano Michael Chertoff, il rabbino Dov Zakheim (numero 3 al Pentagono) di essersi infiltrati nel governo Bush jr. e di aver organizzato, “su istigazione di Israele”, il mega-attentato dell’11 Settembre 2001. E non è un complottista marginale: è stato un alto funzionario del Dipartimento di Stato, da Nixon a Carter a Bush-padre, esperto in guerra psicologica, attore in operazioni coperte (come l’uccisione di Moro) per conto degli Stati Uniti. Membro fino al 2012 del Council on Foreign Relations, quindi dell’élite dell’establisment. Né lo si può accusare di avere come motivazione l’antisemitismo: i suoi genitori erano ebrei russo-polacchi fuggiti alla Shoah, lui ha scritto persino una biografia di sua “mamma yiddish”, Teodora. E’ Steve Pieczenik. Una vecchia conoscenza anche per l’Italia, come vedremo. Steve Pieczenik ha detto tutto il 21 aprile 2016, intervistato da Alex Jones, creatore del sito “InfoWars”.
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Democratizzare l’Ue? Idea morta col tradimento di Tsipras
In Austria il “Partito della libertà” (Fpo) ha ottenuto uno strepitoso risultato elettorale. Il suo candidato per la carica di Presidente Norbert Hofer ha raccolto il 35,1% dei suffragi, staccando di gran lunga gli sciapi candidati proposti dai partiti etero-diretti dal politburo di Bruxelles, popolari e socialisti in testa. Al ballottaggio il candidato del partito che fu di Jorg Haider dovrà vedersela con il verde Alexander Van der Bellen, fermo al 21,3% dei consensi. E’ molto probabile che il prossimo presidente austriaco sia quindi un acceso nemico dei nazisti tecnocratici che ora devastano il Vecchio Continente secondo le linee dettate dal duo Obama-Merkel. L’Austria è l’ennesima nazione nella quale i cittadini esprimono democraticamente e nelle urne sdegno e indignazione per le pietose condizioni nelle quali versa l’Europa, tenuta in ostaggio da una masnada di impuniti e terrificanti personaggi sprovvisti di qualsivoglia legittimazione dal basso. Ogni volta i pifferai al servizio del sistema ricorrono alle stesse logore immagini per demonizzare l’avanzata dei partiti non funzionali al rafforzamento della dittatura in atto, sempre diffamati e attaccati in automatico poiché presuntivamente “xenofobi e populisti”.Da Farage in Inghilterra a Marine Le Pen in Francia, da Iglesias in Spagna a Kaczinski in Polonia, da Tsipras in Grecia alla coppia Salvini/Grillo in Italia, dovunque si voti la musica non cambia: o vincono i servi di Mario Draghi (orwellianamente “moderati” e “responsabili”), o i giornali di regime cominciano a lanciare in tutte le lingue del mondo strali contro “l’avanzare del populismo”. Si tratta di un disco che, oggettivamente, ha stancato alquanto. Come avevamo previsto con un certo anticipo, la piroetta con la quale Tsipras si è infine piegato agli ordini piovuti dall’alto ha ucciso nella culla la possibilità di salvare l’Europa “da sinistra”. Alla prova dei fatti le “sinistre alternative”, incapaci di mettere in discussione la moneta unica, finiscono con il legittimare la prosecuzione della status quo. Cosa è cambiato con “Syriza” al potere? Nulla. Rigore, austerità e privatizzazioni continuano a farla da padroni, mentre le condizioni di vita della povera gente diventano di giorno in giorno più drammatiche.Di fronte ad una evidenza tanto tragica, tutti quelli che non intendono rassegnarsi a vivere per sempre sotto il tallone di un manipolo di burocrati autoreferenziali al servizio del binomio Alta Loggia/Alta Finanza, non possono far altro che guardare a quelle forze che offrono il grimaldello della “difesa dell’identità” per smontare il mostro luciferino e mondialista ora dominante. L’avanzare di partiti di “estrema destra”, così bollati da un mainstream servile e senza fantasia, sono diretta conseguenza di due certezze oramai metabolizzate da una fetta rilevante di opinione pubblica continentale: 1) la Ue attuale è una dittatura feroce di stampo tecnonazista; 2) le forze di sinistra “alternativa” non sono in grado di liberare i popoli dalla schiavitù dell’euro. Cosa faranno “gli occulti manovratori” per contenere questa nuova marea montante? Proveranno a metterci il cappello sopra. Fino a quando sarà possibile gestire i diversi parlamenti nazionali architettando da nord a sud governi di “grande coalizione”, le forze cosiddette “antisistema” continueranno ad essere mediaticamente demonizzate e bastonate; quando i “padroni del vapore” si accorgeranno però di avere finito le cartucce di carta, ovvero quando capiranno che la propaganda, per quanto incessante, produce infine risultati perfino controproducenti, avrà allora inizio il piano B.E cosa prevede il piano B? Prevede la “normalizzazione” di quelle stesse realtà prima violentemente colpite, da dipingere ora come “finalmente incanalate sulla via della maturità politica e della responsabilità, qualità indispensabili per aspirare al governo del Paese”. Che tradotto significa: obbedite pure voi come obbedivano i burattini di prima, divenuti inservibili e perciò scaricati, e così vedrete che tutti ne trarremo gli opportuni vantaggi. Questo tipo di tattica, in Italia, è già partita. Avete notato come i media controllati dai “soliti noti” comincino a veicolare una immagine rassicurante di Luigi Di Maio, già incoronato a reti unificate come sicuro candidato premier del Movimento 5 Stelle? E avete notato come il “Corriere della Sera” di oggi, a pagina 4, definisca “pacato” Norbert Hofer, probabile presidente dell’Austria che verrà? “Pacato” somiglia molto a “moderato”, termiche che nella neolingua usata dai “maghi neri” nascosti nella cabina di comando rappresenta il non plus ultra dell’affidabilità. “Se non puoi batterli, fatteli amici”, recita un vecchio adagio. Questo schema, se applicato con successo, contempla un solo sconfitto: il popolo, da ingannare sempre e comunque senza soluzione di continuità.Se la memoria avesse un valore, i nuovi politici rampanti scanserebbero come veleno le lusinghe di quelli che prima li calunniavano; così come gli stagionati politicanti, mollati poi come vecchie calzette per fare spazio a più verdi maggiordomi, coltiverebbero un sano senso di rivalsa da indirizzare contro gli inamovibili burattinai anziché puntare il dito nei confronti dei nuovi burattini. Semmai dovesse accadere una cosa del genere – semmai cioè si saldassero le ragioni di vecchie e nuove classi dirigenti allo scopo di respingere gli assalti dei soliti perfidi manipolatori – la politica tornerebbe ad esercitare quel primato che le spetta, lasciando per una volta con le pive nel sacco i plutocrati che, gestendo “gli opposti” con metodo e costanza, restano sempre a galla.(Francesco Maria Toscano, “L’idea di democratizzare l’Europa è morta con il tradimento di Tsipras, passa per la riscoperta delle singole identità nazionali la sconfitta dei tecno-nazisti di Bruxelles?”, dal blog “Il Moralista” del 26 aprile 2016).In Austria il “Partito della libertà” (Fpo) ha ottenuto uno strepitoso risultato elettorale. Il suo candidato per la carica di presidente Norbert Hofer ha raccolto il 35,1% dei suffragi, staccando di gran lunga gli sciapi candidati proposti dai partiti etero-diretti dal politburo di Bruxelles, popolari e socialisti in testa. Al ballottaggio il candidato del partito che fu di Jorg Haider dovrà vedersela con il verde Alexander Van der Bellen, fermo al 21,3% dei consensi. E’ molto probabile che il prossimo presidente austriaco sia quindi un acceso nemico dei nazisti tecnocratici che ora devastano il Vecchio Continente secondo le linee dettate dal duo Obama-Merkel. L’Austria è l’ennesima nazione nella quale i cittadini esprimono democraticamente e nelle urne sdegno e indignazione per le pietose condizioni nelle quali versa l’Europa, tenuta in ostaggio da una masnada di impuniti e terrificanti personaggi sprovvisti di qualsivoglia legittimazione dal basso. Ogni volta i pifferai al servizio del sistema ricorrono alle stesse logore immagini per demonizzare l’avanzata dei partiti non funzionali al rafforzamento della dittatura in atto, sempre diffamati e attaccati in automatico poiché presuntivamente “xenofobi e populisti”.
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Gli italiani muoiono prima, nell’Italia di Renzi (e dell’euro)
«Dieci milioni di anni rubati a tutta la popolazione del nostro paese, è il più grande furto di vita dalla fine della guerra. Gli assassini sono tra noi: o li fermiamo o continueranno la loro opera», afferma Giorgio Cremaschi, sfogliando il report 2015 di “Osservasalute”, secondo cui – per la prima volta dal dopoguerra – la popolazione italiana subirà un calo nell’aspettativa di vita. Nel 2014 essa era di 80,3 mesi, l’anno dopo è scesa a 80,1 mesi. «Due mesi in meno a persona, che moltiplicati per i sessanta milioni di italiani fanno 120 milioni». Il calo dell’aspettativa di vita «è il più semplice e brutale segno del fallimento di un sistema», scrive Cremaschi su “Micromega”. «Se questo sistema ci fa morire prima vuol dire che sta andando contro gli interessi naturali di fondo della specie umana. Una specie che ha raggiunto con la scienza, la tecnica, le conoscenze economiche e sociali, gli strumenti per vivere di più, e che improvvisamente si trova di fronte all’inversione di un percorso di secoli». Secondo gli autori della ricerca, negli ultimi 15 anni abbiamo consumato tutti i progressi dei 40 anni precedenti. «Guarda caso abbiamo l’euro e le politiche che lo sostengono proprio da 15 anni».Quello dell’Italia ovviamente non è un caso isolato: quando è crollata l’Unione Sovietica e in quel paese si è abbattuto il saccheggio liberista, l’aspettativa di vita è crollata, e ancora oggi, nonostante anni di recupero, non ha ripreso i livelli perduti. Peggio ancora se uno si affaccia sulla catastrofe della Grecia. «Il furto di vita che stiamo subendo ha una sola semplice causa: le politiche liberiste di taglio dei servizi pubblici, a partire da quello sanitario, e di aumento della disoccupazione», sostiene Cremaschi. «Sono le politiche liberiste la causa criminale della riduzione della vita umana. Sono i patti di stabilità, le politiche di rigore, il pareggio di bilancio come obbligo costituzionale, sono quelle banalità sui costi dello stato sociale che ogni giorno entrano nelle nostre teste come verità naturali, sono tutte le normali e corrette regole di una oculata gestione economica secondo i dettati di Maastricht, che uccidono», a cominciare dai più poveri, «sempre più esposti a disagi e malattie, impossibilitati a pagarsi cure e soprattutto prevenzione dei mali».Quei 10 milioni di anni di vita “rubati”, continua l’ex dirigente Fiom, non saranno sottratti a tutti, ma solo alla parte più povera della società, «che si ammalerà di più e morirà prima: già oggi l’Istat non riesce a far quadrare i conti per alcune decine di migliaia di morti in più, che non sono spiegabili in alcun modo se non con un improvviso drammatico peggioramento delle condizioni di vita». I ricchi, naturalmente, resteranno al riparo: «Nel medioevo la vita media era 40 anni, ma i nobili vivevano quasi come noi oggi e per i servi della gleba 30 anni erano già tanti. Lì stiamo tornando. Questa è la diseguaglianza sociale quando diventa biologia». Di fronte a questa “strage da capitalismo”, secondo Cremaschi ci sono solo due vie: e la prima è quella che la nostra società sta già percorrendo, «cioè quella di abituarsi e adattarsi ad essa. È la banalizzazione del male che ci circonda, che produce assuefazione mentre alimenta improvvisi e sempre più frequenti scatti di ferocia».La seconda via? Cambiare completamente: «Buttare a mare tutte, ma proprio tutte, le politiche economiche di questi ultimi trenta anni, dichiarandole contrarie agli interessi vitali della specie umana». E quindi: «Rovesciare le classi dirigenti che le hanno amministrate e che se ne sono servite per il proprio potere e riaffermare l’eguaglianza sociale come primo bene comune». E ancora: «Spazzar via, con la stessa forza con cui si distrusse il culto della magia medioevale, le credenze, i tabù, le ciarlatanerie del pensiero unico liberista. Non bisogna più credere a nulla di ciò che viene presentato come vero dal potere, e cominciare a seguire solo ciò che oggi il potere condanna come irrealistico». E farlo senza esitazioni: «Non bisogna avere paura di chiamare rivoluzione tutto questo», perché i “killer” sono già tra noi, con le loro infami “riforme”.«Dieci milioni di anni rubati a tutta la popolazione del nostro paese, è il più grande furto di vita dalla fine della guerra. Gli assassini sono tra noi: o li fermiamo o continueranno la loro opera», afferma Giorgio Cremaschi, sfogliando il report 2015 di “Osservasalute”, secondo cui – per la prima volta dal dopoguerra – la popolazione italiana subirà un calo nell’aspettativa di vita. Nel 2014 essa era di 80,3 mesi, l’anno dopo è scesa a 80,1 mesi. «Due mesi in meno a persona, che moltiplicati per i sessanta milioni di italiani fanno 120 milioni». Il calo dell’aspettativa di vita «è il più semplice e brutale segno del fallimento di un sistema», scrive Cremaschi su “Micromega”. «Se questo sistema ci fa morire prima vuol dire che sta andando contro gli interessi naturali di fondo della specie umana. Una specie che ha raggiunto con la scienza, la tecnica, le conoscenze economiche e sociali, gli strumenti per vivere di più, e che improvvisamente si trova di fronte all’inversione di un percorso di secoli». Secondo gli autori della ricerca, negli ultimi 15 anni abbiamo consumato tutti i progressi dei 40 anni precedenti. «Guarda caso abbiamo l’euro e le politiche che lo sostengono proprio da 15 anni».
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America, basta guerre: e così Trump rischia di vincere
Fino all’altro ieri Donald Trump era considerato soltanto una macchietta, un personaggio colorito salito alla ribalta solo grazie al momentaneo vuoto che si è creato ai vertici della classe dirigente del partito repubblicano. Al massimo – si diceva – vincerà la nomination dei repubblicani, ma poi Hillary Clinton lo schiaccerà come una lucertola sull’asfalto. La convinzione più diffusa a livello mainstream infatti era che Trump, con le sue posizioni estremiste, xenofobe e razziste, non sarebbe comunque mai riuscito a conquistare quella famosa fetta intermedia di elettori americani – i cosiddetti “indecisi”, collocati al centro dello schieramento elettorale – che di solito rappresentano l’ago della bilancia nelle elezioni presidenziali. Ma da qualche giorno le cose sono radicalmente cambiate, perché Donald Trump ha finalmente fatto il suo primo discorso sulla politica estera, e ha spiazzato tutti: invece del solito sproloquio vuoto e delirante, Trump ha messo insieme un discorso sensato, equilibrato e assolutamente ragionevole, che sembra aver fatto presa sul grande pubblico.In sintesi, ha detto Trump, gli Stati Uniti devono mettere fine alla loro politica interventista nel mondo, e ritrovare un equilibrio con le grandi potenze straniere, basato sul reciproco rispetto delle esigenze di ciascuno (grande festa ovviamente a Mosca, dove Donald Trump suscita decisamente maggiori simpatie della Clinton). Talmente “pericoloso” si è rivelato questo discorso per la politica dei guerrafondai americani (di cui la Clinton si propone come leader indiscussa) che tutte le grandi testate, dalla “Cnn” al “New York Times”, hanno dato contro al discorso di Trump, cercando di ridicolizzarlo e di minimizzarne la portata politica. Ma il discorso di Trump ormai ha lasciato il segno, e indietro non si può tornare: l’uomo dal ciuffo impossibile evidentemente si è circondato di persone che sanno consigliarlo, e una cosa ormai in America è chiara a tutti: se mai Hillary Clinton diventerà presidente, la sua non sarà certo una passeggiata.Non solo Trump le darà del filo da torcere, nei dibattiti presidenziali del prossimo autunno, ma ha anche dimostrato una grande dote camaleontica, nel trasformare con facilità il suo populismo da baraccone in una strategia politica solida e credibile. E come sappiamo, agli americani basta poco: un uomo deciso, che parla fuori dai denti e promette al suo popolo di restaurare l’antica grandezza della sua nazione, è più che sufficiente perché questo popolo gli metta incondizionatamente in mano il bastone del comando. Certo che sarebbe divertente vedere la guerrafondaia Hillary Clinton battuta per la seconda volta consecutiva in una corsa alla presidenza che l’aveva data, in ambedue i casi, come scontata vincitrice: come a dire che sì, è tutto deciso dall’alto, ma anche dai lati può arrivare ogni tanto qualche sorpresa inaspettata.(Massimo Mazzucco, “Perché Trump rischia di diventare presidente”, da “Luogo Comune” del 30 aprile 2016).Fino all’altro ieri Donald Trump era considerato soltanto una macchietta, un personaggio colorito salito alla ribalta solo grazie al momentaneo vuoto che si è creato ai vertici della classe dirigente del partito repubblicano. Al massimo – si diceva – vincerà la nomination dei repubblicani, ma poi Hillary Clinton lo schiaccerà come una lucertola sull’asfalto. La convinzione più diffusa a livello mainstream infatti era che Trump, con le sue posizioni estremiste, xenofobe e razziste, non sarebbe comunque mai riuscito a conquistare quella famosa fetta intermedia di elettori americani – i cosiddetti “indecisi”, collocati al centro dello schieramento elettorale – che di solito rappresentano l’ago della bilancia nelle elezioni presidenziali. Ma da qualche giorno le cose sono radicalmente cambiate, perché Donald Trump ha finalmente fatto il suo primo discorso sulla politica estera, e ha spiazzato tutti: invece del solito sproloquio vuoto e delirante, Trump ha messo insieme un discorso sensato, equilibrato e assolutamente ragionevole, che sembra aver fatto presa sul grande pubblico.
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Addio Primo Maggio, serve un Mandela dei lavoratori
Mai come questa volta, devo essere sincero, ho trovato difficoltà nel riflettere sul senso di questa ricorrenza. Difficoltà che deriva non solo dall’aver contratto il morbo di una stanca rassegnazione, ma anche dall’amarezza di osservare il radicale mutamento genetico di quello che, un tempo, era un valore fondante della società democratica. Viene alla mente un tragico parallelismo, in questi giorni di rievocazione della tragedia di Chernobyl: l’espansione della nube radioattiva i cui effetti, anno dopo anno, stanno alterando i corpi dei viventi è analoga alla diffusione del neoliberismo le cui tossine, negli ultimi decenni, hanno radicalmente trasformato il corpo sociale. Chi guardasse al lavoro oggi, a distanza di trent’anni, non ne riconoscerebbe più l’aspetto, ormai totalmente deformato. L’“esplosione legislativa” prodotta dal pensiero unico dominante negli ultimi decenni, infatti, ne ha indelebilmente segnato i tratti. Non più diritto “ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa” (art. 36 Cost.) ma lavoro povero, insufficiente a garantire la fine del mese e sempre più spesso sinonimo di debito: costante compagna della retribuzione è la “cessione del quinto”, nuova forma di corvee ai signori delle finanziarie.Non più valore, espressione di realizzazione individuale e di collettiva partecipazione al “progresso materiale o spirituale della società” (art. 4 comma 2 Cost.) ma, al contrario, plasmabile materia nelle mani di un’iniziativa economica privata ormai priva di qualsiasi limite: ecco servito il “mutamento di mansioni”, ovvero il diritto al demansionamento. Non più fondamento di una società democratica ed egualitaria, ma motore primo di radicali e multiformi diseguaglianze tra occupati e disoccupati, tra precari e stabilizzati, tra “tutele obbligatorie”, “tutele reali” e “tutele crescenti”, tra italiani e immigrati, tra lavoratori in regola, in nero o in grigio, e via discorrendo in un elenco di disparità che non ha fine. Inquieta, del resto, osservare come l’unico baluardo normativo a questa esondazione produttivista sia oggi l’art. 2087 del codice civile con la sua particolare sensibilità verso “l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, ovvero una norma coniata nell’ “anno di grazia” 1942, sotto l’egida di un folle regime totalitario.Così come lascia francamente perplessi l’atteggiamento conformista di una parte sempre maggiore della magistratura del lavoro che, in numerose pronunce, quasi fosse una “clausola di stile”, cita l’art. 41 della Costituzione, secondo cui “l’iniziativa economica privata è libera”, per giustificare l’insindacabilità di numerose – e spesso discutibili – decisioni dei datori di lavoro. La libertà dell’ iniziativa economica privata, oggi, sta diventando il “grande paravento” dietro cui si nascondono, con la garanzia dell’insindacabilità giudiziaria, anche le operazioni imprenditoriali più dubbie e spericolate. Dinanzi a questo sconfortante panorama, dunque, cosa dovrebbero fare i Cipputi di tutto il mondo? Forse rinfrancarsi pensando alle gesta del Leicester dei miracoli vicino all’incredibile conquista della Premier League o al piccolo Lugano di Zdenek Zeman ad un passo dalla conquista della coppa Svizzera, allegorie post-moderne della classe operaia che cerca di raggiungere il paradiso, nonostante e contro i giganti dell’oligarchia calcistica?Forse è meglio scolorire i fulgidi sogni e riprendere le parole pronunciate dal capo Meligqili, figlio di Dalindyebo, nel giorno della solenne festa del passaggio all’età adulta: «Qui siedono i nostri figli: giovani, sani, belli, il fiore della tribù xhosa, l’orgoglio della nostra nazione. Da poco li abbiamo circoncisi, con un rito che promette di introdurli nel mondo degli uomini; io sono qui a dirvi che questa è una promessa vuota, vana, una promessa che non potrà mai essere mantenuta… Noi siamo schiavi nel nostro paese, siamo inquilini sul nostro suolo. Non abbiamo la forza, non abbiamo il potere, non abbiamo il controllo del nostro destino nella terra sulla quale siamo nati. Questi figli andranno nelle città, a vivere nelle baracche e a bere alcool di qualità scadente, perché noi non possiamo offrire loro una terra sulla quale vivere e prosperare…».«Le capacità, l’intelligenza, il potenziale di questi giovani andranno sperperati nello sforzo di guadagnarsi da vivere svolgendo i servizi più umili, più semplici… I doni che abbiamo offerto oggi non sono niente, se non possiamo offrire loro il dono più grande, che è l’indipendenza, la libertà». Queste dolenti parole, ascoltate da un giovane Nelson Mandela, furono il primo motore dell’indignazione e della lotta di liberazione dalla schiavitù dell’apartheid. Che in questo primo maggio, giorno di mesta riflessione e non di festa, risuonino analoghe parole: chissà mai che, nascosti tra la folla, i giovani Mandela del nuovo millennio prendano coscienza del lungo cammino che, oggi, ci separa dalla perduta libertà.(Domenico Tambasco, “Primo Maggio, un lungo cammino verso la perduta libertà”, da “Micromega” del 1° maggio 2016).Mai come questa volta, devo essere sincero, ho trovato difficoltà nel riflettere sul senso di questa ricorrenza. Difficoltà che deriva non solo dall’aver contratto il morbo di una stanca rassegnazione, ma anche dall’amarezza di osservare il radicale mutamento genetico di quello che, un tempo, era un valore fondante della società democratica. Viene alla mente un tragico parallelismo, in questi giorni di rievocazione della tragedia di Chernobyl: l’espansione della nube radioattiva i cui effetti, anno dopo anno, stanno alterando i corpi dei viventi è analoga alla diffusione del neoliberismo le cui tossine, negli ultimi decenni, hanno radicalmente trasformato il corpo sociale. Chi guardasse al lavoro oggi, a distanza di trent’anni, non ne riconoscerebbe più l’aspetto, ormai totalmente deformato. L’“esplosione legislativa” prodotta dal pensiero unico dominante negli ultimi decenni, infatti, ne ha indelebilmente segnato i tratti. Non più diritto “ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa” (art. 36 Cost.) ma lavoro povero, insufficiente a garantire la fine del mese e sempre più spesso sinonimo di debito: costante compagna della retribuzione è la “cessione del quinto”, nuova forma di corveè ai signori delle finanziarie.
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Shakespeare, un semi-analfabeta. Chi era il vero autore?
Nel corso della storia, moltissime persone sono morte senza che i loro meriti gli venissero riconosciuti dalle generazioni che le hanno seguite. Ma c’è anche una persona che rischia di aver fatto l’esatto contrario: ovvero, di avere ricevuto grandiosi onori nel corso della storia, senza esserseli minimamente meritati. Questa persona è William Shakespeare. Secondo molti storici, non fu affatto William Shakespeare a scrivere le monumentali opere che gli vengono attribuite, ma fu qualcun altro che utilizzò il suo nome, perché non voleva apparire pubblicamente come il reale autore di quelle opere. La questione shakespeariana esplose sul finire dell’ottocento, e tenne occupati diversi studiosi a livello mondiale per i primi due decenni del secolo scorso. Le motivazioni che portano a dubitare che sia stato Shakespeare a scrivere le opere che portano il suo nome sono diverse, ma si basano tutte su un assunto fondamentale: essendo nato, cresciuto e vissuto nel piccolo paesino di Stratford-upon-Avon – una cittadina dedita al commercio e alla pastorizia, ad un centinaio di chilometri da Londra – Shakespeare non poteva possedere la cultura letteraria e la conoscenza necessarie per scrivere le opere immortali che portano il suo nome.Anzi, detto in termini più brutali, Shakespeare era un vero e proprio ignorante: non possedeva un solo libro, e sapeva a malapena scribacchiare la propria firma. Non esiste un solo documento storico che lo descriva come uno “scrittore”, mentre esistono documenti da cui risulta che egli fosse un uomo d’affari, dedito alla compravendita di terreni e all’usura (difficile pensare che un usuraio possa avere lo stesso animo nobile di chi ha scritto “Romeo e Giulietta”). I testi shakespeariani inoltre rivelano una approfondita conoscenza della vita di corte, della nobiltà e dell’aristocrazia – tutte cose fuori dalla portata di un “commoner” come Shakespeare – mentre utilizzano spesso dei termini altezzosi e derisori proprio nel descrivere la classe sociale a cui Shakespeare apparteneva. Ma è dalla lettura stessa delle sue opere che si rivela la probabile falsità del suo presunto autore: il vocabolario dei testi shakespeariani utilizza oltre 20.000 parole, mentre nel linguaggio parlato dai commoners in quell’epoca il vocabolario era limitato ad un decimo circa di quella cifra.E’ come se di colpo il famoso “pastore lucano” si mettesse a dissertare di “fenomenologia della coscienza fra logica e trascendenza”. Lo stesso testamento autografo di Shakespeare rivela la piccolezza del mondo in cui viveva quest’uomo: si preoccupa di chiarire in modo dettagliato a chi vadano in eredità i suoi terreni, le sue proprietà e le sue cose private, ma si dimentica completamente di menzionare i suoi libri, i suoi scritti, ed almeno una ventina di opere mai pubbicate. Dubitare quindi della vera identità di questo autore è più che legittimo. Ma a questo punto si pone la domanda: chi mai si sarà nascosto dietro al su nome, e perchè mai avrà scelto di restare anonimo? Ed è qui che inizia il vero divertimento.(Massimo Mazzucco, “L’ignorante più famoso del mondo”, dal blog “Luogo Comune” del 23 aprile 2016).Nel corso della storia, moltissime persone sono morte senza che i loro meriti gli venissero riconosciuti dalle generazioni che le hanno seguite. Ma c’è anche una persona che rischia di aver fatto l’esatto contrario: ovvero, di avere ricevuto grandiosi onori nel corso della storia, senza esserseli minimamente meritati. Questa persona è William Shakespeare. Secondo molti storici, non fu affatto William Shakespeare a scrivere le monumentali opere che gli vengono attribuite, ma fu qualcun altro che utilizzò il suo nome, perché non voleva apparire pubblicamente come il reale autore di quelle opere. La questione shakespeariana esplose sul finire dell’ottocento, e tenne occupati diversi studiosi a livello mondiale per i primi due decenni del secolo scorso. Le motivazioni che portano a dubitare che sia stato Shakespeare a scrivere le opere che portano il suo nome sono diverse, ma si basano tutte su un assunto fondamentale: essendo nato, cresciuto e vissuto nel piccolo paesino di Stratford-upon-Avon – una cittadina dedita al commercio e alla pastorizia, ad un centinaio di chilometri da Londra – Shakespeare non poteva possedere la cultura letteraria e la conoscenza necessarie per scrivere le opere immortali che portano il suo nome.