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Sfruttati da Amazon, sono i nuovi schiavi del XXI secolo
Un articolo dell’“Huffington Post” interviene sulla polemica fra il “New York Times” e il boss di Amazon, Jeff Bezos, innescata dal recente servizio che il prestigioso quotidiano ha pubblicato sulle spaventose condizioni di lavoro che il colosso globale del commercio online impone ai propri dipendenti. Il tema non è nuovo (anche in Europa ci sono state denunce del fenomeno e diverse vertenze sindacali) ma il pezzo dell’“Huffington Post” arricchisce il dossier di alcuni particolari raccapriccianti, come i “processi” nei confronti dei dipendenti “pigri” (spesso istruiti in base alla delazione di qualche collega, pratica che viene sistematicamente incoraggiata e premiata dalla direzione), laddove il concetto di pigrizia è ben definito da una ex dipendente: «Se non sei in grado di dare assolutamente tutto per 80 ore settimanali, vieni classificato come un peso da scaricare». E ancora: dipendenti malati di cancro rimproverati per il loro scarso rendimento, e via di questo passo. Ma in fondo non c’è motivo di stupirsi. Infatti, come recita giustamente il titolo dell’articolo, “Amazon si è limitata a perfezionare ciò che la cultura americana del lavoro ha creato”.Un concetto ribadito da Sydney Finkelstein, un docente di management che dichiara all’autrice del pezzo: «Amazon sta perfezionando il modello di business americano: lavorare giorno e notte: loro rappresentano la punta di diamante che traccia il futuro del lavoro nel nostro paese, ci fanno vedere cosa ci aspetta e non è un bel vedere». Ma non si era detto che le condizioni del lavoro nell’industria hi tech sono le migliori che un lavoratore possa sognare? Chi non ricorda le descrizioni entusiastiche di un ambiente di lavoro come il Googleplex, cuore dell’impero del motore di ricerca? La verità è che il panorama è assai variegato e le condizioni possono variare significativamente da un’impresa all’altra, come ricorda l’articolo di cui mi sto qui occupando.Articolo che però omette di chiarire come le condizioni, più che in relazioni alle politiche aziendali, cambino in relazione all’appartenenza ai diversi strati di lavoratori: da un lato, una minoranza di privilegiati (che spesso hanno, fra gli altri, il compito di studiare come aumentare la produttività dei colleghi “meno meritevoli”), dall’altro lato una maggioranza di addetti a mansioni esecutive (non a caso i lavoratori più schiavizzati da Amazon sono gli addetti ai magazzini di stoccaggio delle merci) che sono oggetto di tassi feroci di sfruttamento. Una stratificazione di classe che emerge anche dai conflitti sempre più frequenti fra élite tecnologiche e lavoratori dei servizi che operano nelle stesse aree geografiche.Resta solo da aggiungere che Amazon non è un modello solo per le imprese americane ma anche per quelle di tutto il mondo, Italia compresa. Un filo rosso congiunge il viaggio di Matteo Renzi negli Stati Uniti e la sua visita-omaggio ai boss di Silicon Valley con il Jobs Act che sta concludendo in questi giorni il suo iter parlamentare: con la legittimazione del controllo tecnologico a distanza dei lavoratori (ciliegina sulla torta degli altri attacchi ai loro diritti contenuti in quel provvedimento) si apprestano gli strumenti per trasformare anche i nostri operai e impiegati nei nuovi schiavi del XXI secolo.(Carlo Formenti, “Amazon e i nuovi schiavi del XXI secolo”, da “Micromega” del 24 agosto 2015).Un articolo dell’“Huffington Post” interviene sulla polemica fra il “New York Times” e il boss di Amazon, Jeff Bezos, innescata dal recente servizio che il prestigioso quotidiano ha pubblicato sulle spaventose condizioni di lavoro che il colosso globale del commercio online impone ai propri dipendenti. Il tema non è nuovo (anche in Europa ci sono state denunce del fenomeno e diverse vertenze sindacali) ma il pezzo dell’“Huffington Post” arricchisce il dossier di alcuni particolari raccapriccianti, come i “processi” nei confronti dei dipendenti “pigri” (spesso istruiti in base alla delazione di qualche collega, pratica che viene sistematicamente incoraggiata e premiata dalla direzione), laddove il concetto di pigrizia è ben definito da una ex dipendente: «Se non sei in grado di dare assolutamente tutto per 80 ore settimanali, vieni classificato come un peso da scaricare». E ancora: dipendenti malati di cancro rimproverati per il loro scarso rendimento, e via di questo passo. Ma in fondo non c’è motivo di stupirsi. Infatti, come recita giustamente il titolo dell’articolo, “Amazon si è limitata a perfezionare ciò che la cultura americana del lavoro ha creato”.
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Tutti contro tutti, come nel Grande Gioco tra ‘800 e ‘900
«Stenta ad affermarsi un nuovo ordine mondiale inteso come equilibrio stabile fra le potenze: siamo a metà fra un ordinamento monopolare ed uno policentrico». Certo, «c’è ancora una sola superpotenza in grado di intervenire militarmente in ogni parte del mondo», ma in compenso ci sono almeno altre quattro grandi potenze – Russia, Brasile, India e Cina – in grado di «controllare le rispettive zone sub-continentali e di respingere attacchi esterni, anche americani». Ovviamente, gli Usa continuano a lavorare a un progetto monopolare, mentre gli altri, e soprattutto Pechino, puntano ad un progetto multipolare basato su grandi aree continentali controllate ciascuna da una grande potenza. «Qualcosa che somiglia allo scontro fra la supremazia inglese e la sfida tedesca a cavallo fra XIX e XX secolo», secondo Aldo Giannuli, che osserva come il “grande gioco” della geopolitica sia continuamente riscritto, dando luogo a un’attualità tutt’altro che stabile. Da oltre mezzo secolo, peraltro, non si sono più visti scontri aperti tra grandi blocchi, «pena un conflitto nucleare reciprocamente distruttivo». Si ripiega allora sulla “strategia totale”, cioè politica, economica, diplomatica e militare.Il concetto di strategia, scrive Giannuli nel suo blog, è diventato sempre più onnicomprensivo, inghiottendo l’economia, la ricerca scientifica, il sistema satellitare, la finanza, la propaganda politica, le reti telematiche. Le guerre? Sempre meno “aperte”, a carattere militare, e sempre più commerciali, valutarie, finanziarie. «La dimensione militare deve essere coperta: come reagirebbe un paese se il suo confinante rivendicasse un attacco alle sue reti informatiche o un attentato batteriologico? La strada sarebbe aperta verso la guerra dichiarata». Il conflitto “coperto” può anche essere condotto in modo che l’aggredito non sappia con certezza da dove gli viene il colpo e, pertanto, diriga le sue ritorsioni o misure cautelari verso più antagonisti. «E con questo l’aggressore registra già un successo, moltiplicando le situazioni di conflitto dell’aggredito». Conseguenza: la possibilità che il conflitto di interessi riguardi due paesi legati da una alleanza politico-militare ma divisi da rivalità commerciali o da ragioni valutarie. E dunque, il sistema di relazioni internazionali doventerà “a geometria variabile”. «Questo è tanto più probabile che accada in un sistema policentrico e in una situazione in cui non ci sia pericolo di scontro militare imminente».Per Giannuli, la situazione attuale è esattamente questa: il pericolo di un conflitto militare aperto e generalizzato fra grandi potenze non sembra imminente, mentre si moltiplicano i motivi di contrapposizione fra esse. Sul piano valutario, gli Usa e la Cina sono apertamente in conflitto, i paesi esportatori di materie prime (Russia, India, Brasile) sono esposti al rischio di una guerra monetaria e alle difficoltà di esportare; la Russia è sotto pressione per il blocco commerciale seguito alla crisi ucraina; e Ue e Giappone sono stritolati fra le opposte manovre di Cina ed Usa. Pechino e Washington, a loro volta, sono in piena guerra commerciale: conflitto che «sta assumendo anche una dimensione di deterrenza militare da parte degli Usa che, a novembre 2011, hanno realizzato una sorta di accerchiamento aeronavale della Cina per indebolire i suoi rapporti commerciali nel Pacifico e ostacolare il rifornimento di materie prime». Manovra poi «ripetuta in forme meno evidenti nel 2014», mentre ora, come risposta, «si prospettano manovre navali congiunte russo-cinesi nello stesso spazio marittimo».Sul piano militare, continua Giannuli, esiste ancora l’alleanza fra gli Usa e molti paesi europei, ma la solidarietà atlantica è avvertita in gradi molto diversi da ciascuno e lo scandalo ricorrente delle intercettazioni americane di telefoni dei leader europei turba periodicamente i rapporti fra le due sponde dell’Atlantico. «Non esistono altre alleanze politico-militari del genere, ma c’è l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai». Si tratta di «qualcosa di più di un semplice accordo economico fra Cina e Russia, ma meno di una organica alleanza militare». In pratica, «una sorta di “entente cordiale” per preservare uno comune spazio strategico da intromissioni esterne». Sul piano dell’accaparramento di materie prime, poi, si manifesta un conflitto di “tutti contro tutti” nel caso della politica di “land grabbing” in Africa, «dove Usa, Francia, Russia, Cina, Corea del Sud, Arabia Saudita ed Emirati arabi si contendono le terre fertili d’Africa». Soprattutto, «è riemersa una antica “logica di potenza” per la quale, di fronte a una potenza che cerca di imporre la propria egemonia, le altre si coalizzano per bloccare il tentativo».E questo, in fondo, è il senso dell’intesa dei Brics, mentre Giappone e Ue «restano in una posizione ambigua, ma tendenzialmente vassalla degli Usa». Pertanto, il “nuovo ordine mondiale” anelato dall’élite statunitense stenta ad affermarsi. «Il blocco asiatico, peraltro, è tutt’altro che compatto: fra Cina e Giappone e fra Cina e India le fasi di disgelo e quelle di tensione sono continue». Soprattutto i rapporti sino-indiani sono per più versi problematici, precisa Giannuli. In primo luogo, la sfida fra i due colossi è per il controllo dell’Oceano Indiano, che l’India considera di sua esclusiva pertinenza, contrariando la Cina. A sua volta, Pechino ha recentemente varato la sua prima portaerei (di classe Varyag), ma l’India ne ha già tre con una flotta di 170 unità, fra cui diversi sommergibili nucleari. «E, più ancora, i due paesi risentono della linea di faglia che corre fra India e Pakistan, entrambe potenze nucleari che hanno già combattuto tre guerre (1948, 1965 e 1971) oltre a due conflitti limitati (Siachen 1984 e Kargil 1999)». Inoltre, l’India ha ripetutamente accusato il Pakistan di essere dietro agli attentati dei terroristi kashmiri come la strage di Mumbai (novembre 2008).Giannuli ricorda inoltre che il Pakistan è, insieme alla Corea del Nord, l’unico alleato della Cina che, dunque, corre il rischio di essere risucchiata in un eventuale conflitto indo-pakistano. Inoltre, l’India accusa la Cina di fomentare la guerriglia nell’Andra Pradesh, e Pechino accusa l’India di aizzare il separatismo del Tibet. «Dunque, una situazione complessa e instabile, nella quale anche i disegni di alleanze non durano molto, e spesso non riescono neppure ad assumere forma: nel 2006 parve che India e Cina superassero i loro contenziosi per trovare una forte convergenza economica, si parlò addirittura di “Cindia”, il nuovo grandissimo attore della scena mondiale, ma l’intesa durò meno di un anno. Nel 2009 sembrò affermarsi un nuovo bipolarismo fra Cina e Usa, si parlò di G2 e di “Chimerica”, ma, appunto, fu una chimera durata meno di quattro mesi». Peraltro, il “grande gioco” è ulteriormente complicato dalle inedite dinamiche fra protagonismi nazionali e scenario globalizzato, con strategie, alleanze, ipotesi commerciali e orientamenti militari e politici diversi fa loro. I rispettivi disegni «si incrociano e condizionano a vicenda in continuazione, rendendo il quadro sempre più fitto di dinamiche interdipendenti». Infatti, «ogni potenza agisce come un magnete sulle componenti delle altre, ma inevitabilmente subisce la stessa forza di attrazione».«Stenta ad affermarsi un nuovo ordine mondiale inteso come equilibrio stabile fra le potenze: siamo a metà fra un ordinamento monopolare ed uno policentrico». Certo, «c’è ancora una sola superpotenza in grado di intervenire militarmente in ogni parte del mondo», ma in compenso ci sono almeno altre quattro grandi potenze – Russia, Brasile, India e Cina – in grado di «controllare le rispettive zone sub-continentali e di respingere attacchi esterni, anche americani». Ovviamente, gli Usa continuano a lavorare a un progetto monopolare, mentre gli altri, e soprattutto Pechino, puntano ad un progetto multipolare basato su grandi aree continentali controllate ciascuna da una grande potenza. «Qualcosa che somiglia allo scontro fra la supremazia inglese e la sfida tedesca a cavallo fra XIX e XX secolo», secondo Aldo Giannuli, che osserva come il “grande gioco” della geopolitica sia continuamente riscritto, dando luogo a un’attualità tutt’altro che stabile. Da oltre mezzo secolo, peraltro, non si sono più visti scontri aperti tra grandi blocchi, «pena un conflitto nucleare reciprocamente distruttivo». Si ripiega allora sulla “strategia totale”, cioè politica, economica, diplomatica e militare.
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Migranti, il Pentagono: 20 anni di crisi, per piegare l’Europa
Siano maledetti per l’eternità i vertici politici e militari degli Stati Uniti d’America, a partire da Obama e dal Pentagono, con tutti i capi degli Stati-canaglia coinvolti in questo Risiko mondiale, giocato sulla pelle di milioni di innocenti a esclusivo vantaggio delle aristocrazie del denaro e della finanza. La crisi scatenata dalle guerre, dalla destabilizzazione degli Stati e dalla supremazia dell’economia finanziaria globale, come rivela “candidamente” il Pentagono, è stata programmata per durare un ventennio. Estratto dall’articolo di “Repubblica”, “Migranti, il Pentagono: una crisi che durerà almeno 20 anni”: «“Dobbiamo affrontare sia unilateralmente che con i nostri partner questa questione come un problema generazionale, e organizzarci e preparare le risorse ad un livello sostenibile per gestire (questa crisi dei migranti) per (i prossimi) 20 anni”. Lo ha dichiarato alla Abc il capo degli Stati maggiori riuniti degli Stati Uniti (il più alto ufficiale in grado), il generale Martin Dempsey, che ha anche auspicato che la drammatica fotografia di Aylan “abbia un simile effetto a quella del 1995 del mortale attacco con i mortai alla piazza del mercato di Sarajevo, che spinse verso l’intervento della Nato in Bosnia”».Son cazzi amari, come si direbbe senza troppi complimenti nei bar di periferia… Il richiamo a Sarajevo fa tremare i polsi, preoccupa un Pentagono che scalpita e la Nato che si mette “in marcia”. Contro chi? Non è che, per caso, si agirà militarmente contro Assad, in Siria, e il cielo non voglia, contro Putin in Europa? Fra l’altro, l’esternante generale d’alto rango Martin Dempsey, ha partecipato al “fiasco” statunitense in Iraq, durante la seconda guerra americana del Golfo che, guarda caso, ha “dato i natali” all’organizzazione criminale dello stato islamico, anche se allora non si chiamava così. In ogni caso, saranno venti lunghi anni di guerre, di ondate di profughi, di stermini di massa e di crisi economica indotta. Vent’anni con la disoccupazione galoppante in casa e lo Stato islamosunnita alle porte, se non scoppia prima un conflitto nucleare con la Russia, tanto desiderato dagli americani e dalle loro comparse masochiste nell’est europeo, come l’Ucraina euronazista e i baltici anti-russi.Vent’anni di annegamenti in massa nel mare e colonne di disperati che cercheranno di raggiungere, attraverso il sud dell’Europa e i Balcani, la spocchiosa Germania arricchitasi grazie all’euro, ai trattati e al saccheggio dell’Europa meridionale. Vent’anni di stragi di innocenti, di distruzione delle infrastrutture e del patrimonio storico in Medio Oriente e in Africa settentrionale, per opera degli assassini islamosunniti molto utili al Pentagono, molto efficienti nel seminare morte e distruzione, molto abili nel generare nuove ondate di profughi. Sono certo che fin dai prossimi mesi potremo osservare il “fronte del conflitto” che si avvicinerà pericolosamente a noi, a causa di un’avanzata islamista che non si arresta, dalla Siria alla Libia. Tunisia e Algeria saranno a rischio… e l’Italia meridionale e insulare? E’ proprio quello che vogliono i signori del denaro e della finanza, che controllano anche il Pentagono, ed è proprio per questo che la “coalizione internazionale” a guida americana non interviene con decisione contro i macellai della sunnah. Qualche bomba su edifici vuoti e qualche drone bastano e avanzano.L’Europa deve esser messa alle strette per cedere definitivamente sovranità e risorse a loro beneficio. I vertici dell’alleanza atlantica e il Pentagono, in situazioni di guerra, la faranno da padroni. A quel punto, tutto sarà chiaro, e persino i Renzi, gli Hollande e gli Tsipras non serviranno più, a Lor Signori, perché saranno le armi, e chi le controlla (cioè loro stessi), a dettar legge ai popoli. Se scoppierà un conflitto nucleare con la Federazione Russa, dopo tutte le provocazioni orchestrate per arrivare a questo limite, loro s’illuderanno di vincerlo per il controllo dell’intero continente europeo – o di ciò che ne rimarrà in piedi – fino al ventiduesimo secolo. Destabilizzeranno nei prossimi mesi anche un importante Stato-canaglia, la Turchia islamista di Erdogan, che non ha più governo stabile e se ne va verso le elezioni d’autunno, fra attentati e attacchi ai curdi?E’ possibile che lo sacrificheranno cinicamente, per calcolo strategico, generando altre, spaventose ondate di profughi che avranno come unica e sola meta l’Europa. Inoltre, se non hanno mostrato scrupoli a scatenare il satanismo sunnita contro le popolazioni di Siria, Iraq e Libia, causando centinaia di migliaia di morti e più di dieci milioni di profughi, avranno qualche remora a spalancare davanti a noi le porte dell’inferno, per poi “salvarci” e dominarci a piacimento? Chiedetevelo, anche se non potete far nulla e vi sentite impotenti davanti a una dura realtà, perché questa crisi durerà venti anni. Lo dice il Pentagono, che se ne intende…(Eugenio Orso, “Hanno deciso che la crisi durerà vent’anni”, dal blog “Pauper Class” del 4 settembre 2015).Siano maledetti per l’eternità i vertici politici e militari degli Stati Uniti d’America, a partire da Obama e dal Pentagono, con tutti i capi degli Stati-canaglia coinvolti in questo Risiko mondiale, giocato sulla pelle di milioni di innocenti a esclusivo vantaggio delle aristocrazie del denaro e della finanza. La crisi scatenata dalle guerre, dalla destabilizzazione degli Stati e dalla supremazia dell’economia finanziaria globale, come rivela “candidamente” il Pentagono, è stata programmata per durare un ventennio. Estratto dall’articolo di “Repubblica”, “Migranti, il Pentagono: una crisi che durerà almeno 20 anni”: «“Dobbiamo affrontare sia unilateralmente che con i nostri partner questa questione come un problema generazionale, e organizzarci e preparare le risorse ad un livello sostenibile per gestire (questa crisi dei migranti) per (i prossimi) 20 anni”. Lo ha dichiarato alla Abc il capo degli Stati maggiori riuniti degli Stati Uniti (il più alto ufficiale in grado), il generale Martin Dempsey, che ha anche auspicato che la drammatica fotografia di Aylan “abbia un simile effetto a quella del 1995 del mortale attacco con i mortai alla piazza del mercato di Sarajevo, che spinse verso l’intervento della Nato in Bosnia”».
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Il bimbo siriano? Ucciso da noi democratici, non dai razzisti
Quando il governo italiano tentennava nel 2011 sulla guerra alla Libia, il presidente Giorgio Napolitano, in uno dei suoi più vibranti moniti, ricordava a noi democratici che l’Italia era legata ad alleanze internazionali che imponevano di tenere fede a certi impegni: fare la guerra. I razzisti si espressero contro. Quando l’Unione Europea ha varato le sanzioni contro Siria e Russia, noi democratici italiani abbiamo applaudito. I razzisti erano contrari. Quando nel 1999 noi democratici italiani abbiamo bombardato Belgrado i razzisti erano contro. Noi democratici europei ed italiani abbiamo dato il nostro decisivo contributo per annichilire e gettare nel caos Stati-cerniera nel Mediterraneo, in Medio Oriente, in Europa orientale.Non i razzisti. Noi democratici abbiamo creato un sistema di accoglienza basato sulla corruzione e sullo sfruttamento dei migranti: li chiamiamo “risorse” perché è grazie a loro che possiamo tenere in vita ricche mangiatoie su cui lucrare più che con lo spaccio di droga (cit.). Noi democratici pappiamo sulla disperazione dei popoli più dei razzisti.Noi democratici siamo favorevoli alla libera concorrenza e alla competizione fra lavoratori, per questo vogliamo far venire tanti disperati dall’Africa così da poter gridare insieme a loro: più diritti per tutti! È stato instaurato un perverso circolo vizioso di guerra, sfruttamento, corruzione, guerra tra poveri che si nutre di ipocrisia e doppia morale, falsa pietà e carità untuosa. Questo perverso circolo vizioso va spezzato. Il campo di battaglia più prossimo è la difesa dei nostri territori. I democratici dovrebbero unirsi ai razzisti e impedire gli insediamenti della disperazione, dovrebbero essere con i loro corpi zeppe nell’ingranaggio, dovrebbero protestare non contro i “negri” (ed impedire ai razzisti di farlo) ma contro un sistema marcio, un modello di sviluppo che tritura i popoli e li mette uno contro l’altro. E non dovrebbero vergognarsi di dire ai migranti che devono starsene o tornare a casa: i migranti conquisteranno e difenderanno i loro diritti in Africa, Asia, America, non in Europa.Il che non toglie che occorrano corridoi umanitari da garantire a chi è in pericolo diretto, sottraendoli a chi li usa come bombe demografiche, come invece fa con cinismo e spietatezza il campione del triplogiochismo della Nato, Erdoğan. Ma noi democratici non lo faremo, non ci uniremo ai razzisti in questa lotta di civiltà. Preferiamo condannarli e non mescolarci con loro, perché possiamo esserne contaminati. Preferiamo disprezzarli e inorridire per la loro furente rabbia popolana invece che comprendere le ingiustizie che hanno generato tale rabbia. Preferiamo uccidere Thomas Sankara e poi dimenticarcene. Preferiamo coltivare vizi privati e sbandierare pubbliche virtù. Preferiamo indignarci, noi democratici, e continuare a contare i morti.(Simone Santini, “Il bambino siriano è stato ucciso dai democratici non dai razzisti”, da “Megachip” del 4 settembre 2014).Quando il governo italiano tentennava nel 2011 sulla guerra alla Libia, il presidente Giorgio Napolitano, in uno dei suoi più vibranti moniti, ricordava a noi democratici che l’Italia era legata ad alleanze internazionali che imponevano di tenere fede a certi impegni: fare la guerra. I razzisti si espressero contro. Quando l’Unione Europea ha varato le sanzioni contro Siria e Russia, noi democratici italiani abbiamo applaudito. I razzisti erano contrari. Quando nel 1999 noi democratici italiani abbiamo bombardato Belgrado i razzisti erano contro. Noi democratici europei ed italiani abbiamo dato il nostro decisivo contributo per annichilire e gettare nel caos Stati-cerniera nel Mediterraneo, in Medio Oriente, in Europa orientale. Non i razzisti. Noi democratici abbiamo creato un sistema di accoglienza basato sulla corruzione e sullo sfruttamento dei migranti: li chiamiamo “risorse” perché è grazie a loro che possiamo tenere in vita ricche mangiatoie su cui lucrare più che con lo spaccio di droga (cit.). Noi democratici pappiamo sulla disperazione dei popoli più dei razzisti.
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Fame e cannibalismo: così divoriamo i figli dei poveri
Nel mese di luglio 2008 si è svolto a Coney Island il campionato del mondo dei divoratori di hot dog. Il giovane statunitense Joey Chestnut ha battuto in finale il giapponese Takeru Kobayashi e ha superato tutti i precedenti record mondiali inghiottendo 66 hot dog in 12 minuti, mandando in delirio i più di 50.000 spettatori presenti in diretta all’impresa. Come premio, il campione ha ricevuto un buono di 250 dollari di acquisti in un centro commerciale e un anno intero di hot dog gratis presso la catena Nathan’s. Oggi, mentre scrivo queste righe, si celebra il campionato mondiale dei perditori di peso. Ogni secondo cinque persone si disputano la finale – un haitiano, un somalo, un ruandese, un congolese, un afgano – e i cinque ottengono la vittoria. Il premio è la morte. L’appetito di Joey Chestnut non è niente paragonato a quello che ha divorato – chiamiamoli così – René, Sohad, Randia, Sevére e Samia.Ogni 12 minuti la povertà uccide tramite la fame 3.600 tra uomini, donne e bambini in tutto il mondo. O, il che è lo stesso: per ogni 5 hot dog a Coney Island 300 essere umani muoiono di inedia in Africa. Nel 1876 il vicere dell’India, lord Lytton, organizzò a Delhi il banchetto più costoso e sontuoso della storia per festeggiare l’assunzione della regina Vittoria a Imperatrice coloniale. Per una settimana 68.000 invitati non smisero di mangiare e bere; in quella settimana, secondo i calcoli di un giornalista dell’epoca, morirono di fame 100.000 sudditi indiani nel quadro di una carestia senza precedenti che falciò almeno 30 milioni di vite e che fu provocata e aggravata dal “libero commercio” imposto dall’Inghilterra. Mentre i colonialisti inglesi mangiavano pernici e agnelli, i sopravvissuti indiani mangiavano i loro stessi figli.La fame, lo sapppiamo, dissolve tutti i legami sociali e impone il cannibalismo. Bisogna avere davvero molta fame per mangiarsi con le lacrime agli occhi il cadavere di un vicino, ma bisogna avere moltissima fame per divorare allegramente 66 hot dog in 12 minuti. Confesso che, ogni volta che penso alle carestie, non mi viene in mente il ventre gonfio di René o il seno vuoto di Samia, ma la voracità applaudita di Joey Chestnut, quale simbolo pubblicitario di un’economia che non può permettersi nemmeno di calmare gli appetiti di chi è sazio. Chestnut non è un cannibale, no, ma in un certo senso si alimenta del dimagrimento degli etiopi, dei tailandesi e degli egiziani: la terza parte del raccolto mondiale di cereali serve ad ingrassare gli animali che noi occidentali ci mangiamo (1 chilo di carne a persona al giorno gli statunitensi, più di ½ chilo gli europei) e basterebbe a dar da mangiare alla terza parte dei 1.000 milioni di persone che, secondo la Fao, patiscono la fame nel mondo.Esagerare è misurare l’incommensurabile, è rendere appprendibile l’irrapresentabile. Esageriamo: Chestnut è un cannibale. Davanti alle 500.000 persone che lo applaudivano si è mangiato René, Randia, Sevére e Samia e altri 3.595 uomini, donne e bambini. Neppure Bokassa dimostrò mai tanto appetito. A Chestnut si può chiedere che mangi meno e anche che si opponga al suo governo, ma in realtà anche lui è solo un’altra vittima della fame. C’è la fame di quelli che non hanno niente e c’è la fame di quelli che non hanno mai abbastanza; la fame di quelli che vogliono qualcosa e la fame di quelli che vogliono sempre di più: più carne, più petrolio, più automobili, più cellulari, più immagini, più giochi e – anche una moralità superiore. La relazione tra le due insoddisfazioni è un sistema globale. Vogliamo un uomo libero e abbiamo una fame libera.Confesso che ogni volta che penso alla fame non mi viene in mente lo scheletro di Sohad né gli immensi occhi febbricitanti di Sevère, ma l’esercito degli Usa in Iraq e l’allegria depredatoria del Carrefour. Esagerare è rimpicciolire l’illimitato, è ridurre lo smisurato a scala umana. Esageriamo: il cannibalismo è, non più obbligatorio, ma elegante. Alcune poche menti privilegiate (da governi e da multinazionali) dedicano ogni loro sforzo a trovare il modo perchè a tutto il mondo, da tutte le parti, manchi qualcosa; perchè i i bambini di Haiti e della Sierra Leone soffrano la fame e si disperino per questo e perchè i consumatori occidentali – dopo aver divorato boschi, fiumi, minerali e animali (con le loro immagini) – si ritrovino affamati e se ne rallegrino.Il capitalismo toglie ai paesi poveri le loro risorse e, allo stesso tempo, le forze per resistere; il capitalismo dà, a noi occidentali, le merci e, allo stesso tempo, la fame necessaria per inghiottirle senza fermarci; la fame diventa così, da un lato e dall’altro, la disgrazia oggettiva di Africa, Asia e America Latina e la felicità soggettiva di un’umanità culturalmente e materialmente insostenibile e condannata alla distruzione. Sì, la carestia dissolve tutti i legami sociali e impone il cannibalismo. La povertà relativa ravviva l’ingegno, inventa soluzioni collettive, improvvisa solidarietà e crea reti sociali di resistenza. Ma, sotto una certa soglia, quando la fame minaccia la sopravvivenza, le trame si disfano e rimangono solo impulsi atomizzati, solitari, animali: individui puri opposti tra loro. Solo in questo senso – biologico e quasi zoologico – si può dire che le nostre società occidentali sono “individualiste”.Qualche volta ho espresso la regola della soddisfazione antropologica con la seguente formula: “Poco è abbastanza, molto è già insufficiente”. Sotto il “poco” c’è la fame e sono impossibili la coscienza, la resistenza e la solidarietà; sopra l’“abbastanza” c’è più fame e sono impossibili anche la coscienza, la resistenza e la solidarietà. “Troppo” vuole sempre “di più”. Abbiamo già superato questo punto, a partire dal quale l’unica cosa che abbiamo – non auto, non carne, non case, non immagini – è fame; e la nostra voracità, come quella di Joey Chestnut, si sta mangiando – mentre scrivo queste righe – non solo Sania e Sohadi e Sevère, tanto annebbiati e lontani, ma anche i suoi stessi figli.(Santiago Alba Rico, “Fame e cannibalismo”, estratto dal libro “Il naufragio dell’uomo”, ripreso da “Come Don Chisciotte” il 27 agosto 2015. Alba Rico è uno scrittore, saggista e filosofo spagnolo).Nel mese di luglio 2008 si è svolto a Coney Island il campionato del mondo dei divoratori di hot dog. Il giovane statunitense Joey Chestnut ha battuto in finale il giapponese Takeru Kobayashi e ha superato tutti i precedenti record mondiali inghiottendo 66 hot dog in 12 minuti, mandando in delirio i più di 50.000 spettatori presenti in diretta all’impresa. Come premio, il campione ha ricevuto un buono di 250 dollari di acquisti in un centro commerciale e un anno intero di hot dog gratis presso la catena Nathan’s. Oggi, mentre scrivo queste righe, si celebra il campionato mondiale dei perditori di peso. Ogni secondo cinque persone si disputano la finale – un haitiano, un somalo, un ruandese, un congolese, un afgano – e i cinque ottengono la vittoria. Il premio è la morte. L’appetito di Joey Chestnut non è niente paragonato a quello che ha divorato – chiamiamoli così – René, Sohad, Randia, Sevére e Samia.
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Malori, incidenti, suicidi: sono tutti morti al momento giusto
La storia del nostro paese abbonda di morti improvvide quanto provvidenziali. Qualche anno fa il figlio di Vito Ciancimino espresse il sospetto che il padre fosse stato assassinato: il vecchio aveva detto “Parlerò se Andreotti sarà condannato” e, due giorni dopo la condanna in primo grado di Andreotti, moriva. Una morte tempestiva. Di morti “just in time” è costellata tutta la nostra storia nazionale e, tanto per cominciare, opportuna fu la morte del comandante generale dei carabinieri Hazon (bombardamento) a due settimane dal 25 luglio 1943. Il 24 agosto, Ettore Muti era falciato da una raffica, durante un improbabile tentativo di fuga e, il 14 settembre, il generale Ugo Cavallero si suicidava con un colpo alla tempia destra, pur essendo mancino (nella fretta…). Questo genere di decessi di solito avviene a grappoli, in due o tre per volta, come i cardinali, secondo il noto detto popolare.Non sempre, però, le scomparse opportune avvengono a breve distanza. Si pensi al bandito Salvatore Giuliano (5 luglio 1950) preceduto da Salvatore Ferreri (26 giugno 1947) e seguito da Gaspare Pisciotta (9 febbraio 1954): tutti caduti – chi per piombo, chi per “caffè corretto” – quando sembrava stessero diventando troppo loquaci sullo stesso tema. E poi il colonnello Renzo Rocca, “suicidatosi” il 27 giugno 1968, a venti giorni dalla costituzione della commissione di inchiesta sul caso Sifar, davanti alla quale morirà di infarto il generale Giorgio (25 giugno 1968), mentre stava deponendo. In attesa di testimoniare (sulla cellula nera di Padova) era il portiere Alberto Muraro, ma due giorni prima (13 settembre 1969) cadde nella buca dell’ascensore e morì. E poi altri noti e meno noti: Armando Calzolari, Dante Baldari, Vittorio Ambrosini, Luigi Calabresi, Gianni Nardi, Bruno Rieffeser, Giancarlo Esposti per limitarci alla strategia della tensione.E poi, altri “gruppi collegati”: come Mino Pecorelli, Antonio Varisco e Giorgio Ambrosoli, o i fratelli Bisaglia e Ugo Niutta o, ancora Roberto Calvi e Graziella Corrocher; o Giovanni Casillo e Vincenza Matarazzo: impossibile fare l’elenco completo. Registriamo una preoccupante monotonia: infarti, fughe stroncate, incidenti d’auto e suicidi coprono circa il 75% dei casi. Rari i botti di fantasia, come quello che fece saltare in aria Vincenzo Casillo nei pressi della sede del Sismi. Almeno, una cosa un po’ originale. C’è sempre una occasione vicina a rendere quella morte auspicabile: una deposizione in tribunale, la minaccia di una conferenza stampa (come non ricordare Luigi Tenco?), più raramente qualche particolare scadenza politica.Mi è capitato di lavorare su una morte tempestiva, quella di Junio Valerio Borghese: che delusione! C’era tutto per pensare al solito lutto provvidenziale: a luglio Andreotti aveva fatto predisporre dal Sid il “malloppo” per la riapertura dell’inchiesta sul tentato golpe dell’8 dicembre 1970; ma, occorrendo “alleggerirlo” prima di darlo alla magistratura, dispose un rinvio al 15 settembre. Borghese spirava il 24 agosto 1974; da tre settimane aveva iniziato a dettare un memoriale convocando, per settembre, gli ex capi della X Mas, per spiegare come era andata “la notte della Madonna”. Più tempestivo di così il suo decesso non poteva essere. C’erano anche i casi collegati: il 12 novembre il tenente colonnello Giuseppe Condò – che teneva i contatti fra Sid, Borghese e Sogno – moriva di infarto a 42 anni. “Esperti” della materia, come Ambrogio Viviani, Demetrio Cogliandro o Mino Pecorelli, parlarono di “felice coincidenza” o simili. Vi dico: c’era tutto.Poi, interpellando diversi medici (tossicologi compresi), scoprii che i sintomi descritti dai testi (compresi gli amici convinti della tesi omicida) erano perfettamente compatibili con una pancreatite acuta, all’epoca difficilmente diagnosticabile, per cui spesso i medici pensavano a casi di suggestione ipocondriaca. E le pillole di acqua e zucchero, prescrittegli dal primo medico che lo visitò, ne sono una conferma indiretta. Il decorso clinico era da manuale e compatibile con l’anamnesi del paziente. Per di più: difficilmente quei sintomi (come ad esempio l’“addome a barca”) possono mascherare altre patologie, ed è escluso che possa essere provocata tossicologicamente. La vita a volte è crudele: un così bel caso di morte ad horas sprecato! Una coincidenza vera. Un caso sfortunato.(Aldo Giannuli, “Le morti opportune nella storia d’Italia”, dal blog di Giannuli del 23 agosto 2015).La storia del nostro paese abbonda di morti improvvide quanto provvidenziali. Qualche anno fa il figlio di Vito Ciancimino espresse il sospetto che il padre fosse stato assassinato: il vecchio aveva detto “Parlerò se Andreotti sarà condannato” e, due giorni dopo la condanna in primo grado di Andreotti, moriva. Una morte tempestiva. Di morti “just in time” è costellata tutta la nostra storia nazionale e, tanto per cominciare, opportuna fu la morte del comandante generale dei carabinieri Hazon (bombardamento) a due settimane dal 25 luglio 1943. Il 24 agosto, Ettore Muti era falciato da una raffica, durante un improbabile tentativo di fuga e, il 14 settembre, il generale Ugo Cavallero si suicidava con un colpo alla tempia destra, pur essendo mancino (nella fretta…). Questo genere di decessi di solito avviene a grappoli, in due o tre per volta, come i cardinali, secondo il noto detto popolare.
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Ue, bavaglio ai media sulla Russia. E nessuno ne parla
Un funzionario dell’Unione Europea ha dichiarato che le istituzioni di Bruxelles stanno creando un Team di Risposta Rapida alla (presunta) “propaganda russa”. Questo Team sarà parte integrante del Seae (European External Action Service) e sarà composto da circa una decina di persone – provenienti da alcuni paesi europei – e con la caratteristica di avere tra i propri skills un russo fluente. Tra i compiti del Team – in servizio operativo dal 1° settembre – vi è quello di monitorare la “propaganda russa” e quello di consigliare le media’s company e le istituzioni nazionali sulle azioni da porre in essere per contrastarla. Sempre secondo l’Unione Europea tutto questo può essere visto come la risposta delle istituzioni di Bruxelles alla richiesta – fatta nel marzo scorso dai capi di Stato – di azioni in risposta “alla campagna di disinformazione posta in atto dai mass media russi”.A prima vista la notizia potrebbe essere derubricata tra le note di colore e tra le varie bizzarrie provenienti dall’Unione Europea quali, per esempio, il divieto di vendita di cetrioli con un diametro inferiore a quanto previsto dal regolamento europeo in materia. Ma ad un analisi più attenta però le cose sono ben diverse: l’informazione è materia strategica che plasma la coscienza e gli intendimenti dei popoli, dunque la notizia è da considerarsi di primaria importanza. In sostanza l’Unione Europea dichiara ufficialmente di avere messo sotto commissariamento politico le informazioni – diffuse nel territorio europeo – riguardanti la Federazione Russa.Una decisione che, da un lato, va a confliggere con uno dei principi cardine delle democrazie liberali, ovvero l’indipendenza assoluta degli organi di informazione rispetto al potere politico, e dall’altro lato è un paradosso degno di un universo orwelliano: per contrastare la presunta propaganda russa si procede ad istituire un team – dipendente da istituzioni politiche – incaricato di studiare una efficace propaganda antirussa. L’ultimo dato curioso che non può non essere sottolineato è che questa notizia ha avuto risalto sia sui media russi, sia su quelli ucraini e americani. I media europei (oggettivamente i più interessati) invece non hanno minimamente informato i lettori di questa novità sorprendente: quando si dice avere “la coda di paglia”.(Giuseppe Masala, “Nasce il Rapid Response Team per l’informazione europea”, da “Sputnik News” del 28 agosto 2015).Un funzionario dell’Unione Europea ha dichiarato che le istituzioni di Bruxelles stanno creando un Team di Risposta Rapida alla (presunta) “propaganda russa”. Questo Team sarà parte integrante del Seae (European External Action Service) e sarà composto da circa una decina di persone – provenienti da alcuni paesi europei – e con la caratteristica di avere tra i propri skills un russo fluente. Tra i compiti del Team – in servizio operativo dal 1° settembre – vi è quello di monitorare la “propaganda russa” e quello di consigliare le media’s company e le istituzioni nazionali sulle azioni da porre in essere per contrastarla. Sempre secondo l’Unione Europea tutto questo può essere visto come la risposta delle istituzioni di Bruxelles alla richiesta – fatta nel marzo scorso dai capi di Stato – di azioni in risposta “alla campagna di disinformazione posta in atto dai mass media russi”.
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Abbiamo criminalizzato lo Stato-nazione, ed ecco i risultati
Temo che negli ultimi anni sia stato sottovalutato da molti, me per primo, il forte legame sussistente fra il concetto stesso di Stato e quello di Democrazia. Abbiamo depotenziato il ruolo dello Stato per favorire la nascita e il rafforzamento di organismi sovranazionali presuntivamente illuminati; abbiamo destrutturato un equilibrio rispettabile, basato per l’appunto sul rispetto della sovranità dei singoli Stati, nella speranza di favorire così facendo la nascita dei mitologici “Stati Uniti d’Europa”; e abbiamo infine affidato le speranze e la vita di intere generazioni nelle mani di burocrati da strapazzo, emissari e difensori degli interessi di quello che una volta sarebbe stato chiamato “denaro organizzato”. Abbiamo fatto bene? No, abbiamo fatto male. Malissimo. Prima di avventurarci in questioni di contorno, è giusto ribadire un assioma cardine: nel buio del potere pubblico detta legge la forza economica del privato. Solo la politica, legittimata dal voto, ha il potere di intervenire sui reali rapporti di forza che una qualsiasi società esprime, per il tramite di leggi e regolamenti pensati per aggredire le disuguaglianze materiali.La nostra Costituzione, non a caso invisa a colossi bancari come Jp Morgan, relativizza la natura della proprietà, prevedendo esplicitamente la possibilità di esproprio per ragioni di pubblico interesse (art. 42, comma 3). Morto lo Stato, inteso quale forza capace di esercitare un potere esclusivo all’interno di un definito contesto territoriale e geografico, chi potrà mai intervenire per garantire il cristallizzarsi di un sistema conformato secondo i dettami della giustizia sociale? Nessuno. I soloni che paventano il ritorno del “nazionalismo”, padre di ogni guerra e disgrazia, lavorano in realtà per perpetuare all’infinito la supremazia degli oligarchi privati. Lo Stato è vissuto come un ostacolo dai plutocrati, perché potenzialmente in grado di porre un freno alla bramosia isterica di un manipolo di avari apolidi cementati da occulte e perverse appartenenze. In sintesi: senza una cornice pubblica di riferimento, la politica scade a teatrino, stanco e inutile rituale.La massoneria contemporanea (come provato da diverse e coincidenti fonti da approfondire in seguito), non a caso, ha individuato nello Stato il suo principale nemico. La strategia volta a creare nuovi equilibri attraverso la creazione artificiale di continui shock è evidentemente impregnata di esoterismo (“solve et coagula”). Questo tipo di approccio assume caratteristiche diverse per luoghi geograficamente diversi, ma la filosofia unitaria che sottende certe scelte rimane comunque leggibile in filigrana. Quelli che in Europa scelgono la strada del terrorismo economico per uccidere gli Stati, impoverire le masse e consegnare il potere nelle mani dei banchieri centrali, sono gli stessi che in Medio Oriente puntano sul terrorismo sanguinario dell’Isis per ottenere risultati altrettanto destabilizzanti. In questa ottica le cosiddette “primavere arabe” sono simili alle cosiddette “crisi del debito” dei paesi occidentali, fenomeni eterodiretti da menti raffinatissime che sul caos edificano nuovi quanto meschini sistemi di potere (“ordo ab chao”). Questo schema ha prosperato fino ad oggi al sicuro grazie soprattutto ad una provvidenziale coltre di impermeabilità ora fortunatamente declinante. Alcuni flussi informativi, per quanto tacitati, alla lunga produrranno effetti dirompenti, indispensabili per promuovere un radicale e globale cambio di paradigma. Per quel giorno sarà bene che ognuno di noi si faccia trovare dalla parte giusta della Storia.(Francesco Maria Toscano, “Abbiamo criminalizzato il concetto di Stato-nazione, e abbiamo fatto male”, dal blog “Il Moralista” del 14 agosto 2014).Temo che negli ultimi anni sia stato sottovalutato da molti, me per primo, il forte legame sussistente fra il concetto stesso di Stato e quello di Democrazia. Abbiamo depotenziato il ruolo dello Stato per favorire la nascita e il rafforzamento di organismi sovranazionali presuntivamente illuminati; abbiamo destrutturato un equilibrio rispettabile, basato per l’appunto sul rispetto della sovranità dei singoli Stati, nella speranza di favorire così facendo la nascita dei mitologici “Stati Uniti d’Europa”; e abbiamo infine affidato le speranze e la vita di intere generazioni nelle mani di burocrati da strapazzo, emissari e difensori degli interessi di quello che una volta sarebbe stato chiamato “denaro organizzato”. Abbiamo fatto bene? No, abbiamo fatto male. Malissimo. Prima di avventurarci in questioni di contorno, è giusto ribadire un assioma cardine: nel buio del potere pubblico detta legge la forza economica del privato. Solo la politica, legittimata dal voto, ha il potere di intervenire sui reali rapporti di forza che una qualsiasi società esprime, per il tramite di leggi e regolamenti pensati per aggredire le disuguaglianze materiali.
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Paghiamo il pizzo al Pentagono, purché non faccia più guerre
Non c’è voluto molto per la Lobby di Israele a mettere in ginocchio il presidente Obama per il suo divieto di costruire nuovi insediamenti illegali israeliani nei territori palestinesi occupati. Obama ha scoperto che un semplice presidente americano è impotente quando viene affrontato dalla Lobby di Israele, e che agli Stati Uniti semplicemente non viene permesso di avere una politica in Medio Oriente diversa da quella di Israele. Obama ha anche scoperto che non può cambiare niente, sempre che ne avesse mai avuto l’intenzione. Nell’agenda della lobby militare e della difesa c’è la guerra e uno stato di polizia interno, e un semplice presidente americano non può farci niente. Il presidente Obama può ordinare che vengano chiuse le camere della tortura di Guantanamo, e che i sequestri di persona e le torture vengano fermati, ma nessuno esegue i suoi ordini. In pratica, Obama è irrilevante. Può promettere che porterà a casa le truppe, e la lobby militare dice: “No, invece li manderai in Afghanistan, e nel frattempo inizierai una guerra in Pakistan e costringerai l’Iran in una posizione che ci darà un pretesto per fare una guerra anche lì. Le guerre sono troppo lucrose per noi perchè tu possa fermarle”. E il piccolo presidente dirà: “Sissignore!”.Obama può promettere l’assistenza sanitaria a 50 milioni di americani che non ce l’hanno, ma non può sconfiggere il veto della lobby della guerra e della lobby delle assicurazioni. La lobby della guerra dice che i profitti di guerra sono più importanti dell’assistenza sanitaria e che il paese non si può permettere sia la “guerra al terrore” che la “medicina socializzata”. La lobby delle assicurazioni dice che l’assistenza sanitaria deve venir data dalle assicurazioni sanitarie private; altrimenti non possiamo permettercela. Le lobby della guerra e delle assicurazioni hanno sventolato le loro agende con i contributi versati in campagna elettorale e molto velocemente hanno convinto il Congresso e la Casa Bianca che lo scopo reale del progetto di legge sull’assistenza sanitaria è di salvare soldi tagliando i benefici a “Medicare” e “Medicaid”, e quindi «mettere gli “entitlements” [diritti acquisiti] sotto controllo». “Entitlements” è una parola usata dalla destra per denigrare le poche cose che, in un lontano passato, il governo faceva per i suoi cittadini. La “Social Security” e “Medicare”, ad esempio, vengono denigrati come “entitlements”.La destra continua senza sosta a parlare della “Social Security” e di “Medicare” come se fossero regali dati a persone incapaci che rifiutano di prendersi cura di se stesse, quando in realtà i cittadini vengono di gran lunga sovratassati con un’imposta del 15% nelle loro paghe per avere in cambio dei magri benefici. Infatti per decenni ormai il governo federale ha finanziato le sue guerre e i budget militari con le entrate in surplus raccolte dalla tassa sul lavoro della “Social Security”. Sostenere, come fa la destra, che non possiamo permetterci l’unica cosa nell’intero budget che ha in modo consistente prodotto delle entrate in eccesso sta ad indicare che lo scopo reale è di portare il cittadino medio ad uno stato di indigenza. I veri “entitlements” non vengono mai menzionati. Il budget della “difesa” è un entitlement per il complesso militare e della difesa, sul quale il presidente Eisenhower ci mise in guardia 50 anni fa. Una persona dev’essere folle per credere che gli Stati Uniti, “l’unica superpotenza del mondo”, protetta da oceani ad Est e a Ovest e da Stati-fantoccio a Nord e a Sud, abbia bisogno di un budget della “difesa” superiore all’intera spesa militare del resto mondo messo insieme.Il budget militare è nient’altro che un “entitlement” per il complesso militare e della sicurezza. Per nascondere questo fatto, l’entitlement viene mascherato come una protezione contro i “nemici” e fatto passare attraverso il Pentagono. Io dico, eliminiamo l’intermediario e distribuiamo semplicemente una percentuale del budget federale al complesso militare e della sicurezza. In questo modo non avremo bisogno di inventare scuse per invadere altri paesi e andare a fare la guerra con il solo scopo di dare al complesso militare e della difesa il suo “entitlement”. Sarebbe molto più economico dargli i soldi direttamente, e salverebbe anche un sacco di vite umane e sofferenze in patria e all’estero. L’invasione statunitense dell’Iraq non aveva proprio niente a che fare con gli interessi nazionali americani. Aveva a che fare con i profitti sugli armamenti e con l’eliminazione di un ostacolo all’espansione territoriale israeliana. Il costo della guerra, oltre i 3 trilioni di dollari, è stato di 4.000 americani morti, oltre 30.000 feriti e mutilati, decine di migliaia di matrimoni americani distrutti e carriere perdute, un milione di iracheni morti, quattro milioni di iracheni profughi e un paese ridotto in macerie. Tutto questo è stato fatto per i profitti del complesso militare e della sicurezza e anche affinchè la paranoide Israele, armata con 200 bombe nucleari, potesse sentirsi “sicura”.La mia proposta renderebbe il complesso militare e della difesa ancora più ricco, dato che le compagnie riceverebbero i soldi senza aver bisogno di costruire le armi. Piuttosto, tutti i soldi potrebbero venir usati per bonus multimilionari e dividendi distribuiti agli azionisti. Nessuno, in patria o all’estero, dovrebbe venir ucciso, e il contribuente sarebbe ben più felice. Non c’è alcun interesse nazionale americano nella guerra in Afghanistan. Come rivelato dall’ex ambasciatore britannico Craig Murray, lo scopo della guerra è di proteggere gli interessi della Unocal per un oleodotto che passa attraverso l’Afghanistan. Il costo della guerra è di gran lunga superiore all’investimento dell’Unocal nell’oleodotto. L’ovvia soluzione è di comprare l’Unocal e dare l’oleodotto agli afghani come parziale risarcimento per la distruzione che abbiamo inflitto a quel paese e alla sua popolazione, e di portare le truppe a casa.Il motivo per cui le mie ragionevoli soluzioni non verranno attuate è che le lobby pensano che i loro “entitlements” non potrebbero sopravvivere se diventassero evidenti a tutti. Loro pensano che se il popolo americano sapesse che le guerre stanno venendo combattute per arricchire le industrie degli armamenti e del petrolio, la gente fermerebbe le guerre. In realtà, il popolo americano non ha diritto di opinione su ciò che il “suo” governo fa. I sondaggi mostrano che metà o più della metà del popolo americano non sostiene le guerre in Iraq e Afghanistan e non sostiene l’escalation del presidente Obama per quanto riguarda la guerra in Afghanistan. Nonostante ciò, le occupazioni e le guerre continuano. La Russia di Putin ha già paragonato gli Usa alla Germania nazista, e il premier cinese ha paragonato gli Usa a un debitore irresponsabile e immorale. Gli inglesi stanno indagando sul loro capo criminale, l’ex primo ministro Tony Blair, e l’inganno che mise in piedi contro il suo stesso consiglio dei ministri per fornire una scusa a Bush per la sua invasione illegale dell’Iraq.Agli investigatori inglesi è stata negata l’abilità di presentare accuse penali, ma la questione della guerra basata interamente su una macchinazione di bugie e inganni sta venendo ben diffusa. Riecheggierà per tutto il pianeta, e il mondo vedrà che non esiste un’indagine simile negli Usa, il paese da dove ebbe origine la Guerra Falsa. Nel frattempo, le banche d’investimento Usa, che hanno distrutto la stabilità finanziaria di molti governi, incluso quello degli Usa, continuano a controllare, come hanno sempre fatto fin dall’amministrazione Clinton, la politica economica e finanziaria degli Usa. Il mondo ha sofferto in modo terribile per i gangsters di Wall Street, e adesso guarda all’America con occhio critico. I sondaggi nel mondo mostrano che gli Usa e il suo capo-fantoccio vengono visti come le due più grandi minacce per la pace. Washington e Israele superano nella lista dei più pericolosi il regime pazzoide della Nord Corea. Quando il dollaro sarà sovra-inflazionato da una Washington incapace di pagare i suoi conti, il mondo sarà spinto dall’avidità e cercherà di salvarci per salvare i suoi investimenti, oppure dirà “grazie a Dio, che liberazione”.(Paul Craig Robers, estratti da “Il fantoccio Obama”, intervento pubblicato da “Information Clearing House” e ripreso dal blog “Vox Populi” il 25 agosto 2015. Eminente economista e politologo, Craig Roberts fu tra i più stretti collaboratori di Ronald Reagan).Non c’è voluto molto per la Lobby di Israele a mettere in ginocchio il presidente Obama per il suo divieto di costruire nuovi insediamenti illegali israeliani nei territori palestinesi occupati. Obama ha scoperto che un semplice presidente americano è impotente quando viene affrontato dalla Lobby di Israele, e che agli Stati Uniti semplicemente non viene permesso di avere una politica in Medio Oriente diversa da quella di Israele. Obama ha anche scoperto che non può cambiare niente, sempre che ne avesse mai avuto l’intenzione. Nell’agenda della lobby militare e della difesa c’è la guerra e uno stato di polizia interno, e un semplice presidente americano non può farci niente. Il presidente Obama può ordinare che vengano chiuse le camere della tortura di Guantanamo, e che i sequestri di persona e le torture vengano fermati, ma nessuno esegue i suoi ordini. In pratica, Obama è irrilevante. Può promettere che porterà a casa le truppe, e la lobby militare dice: “No, invece li manderai in Afghanistan, e nel frattempo inizierai una guerra in Pakistan e costringerai l’Iran in una posizione che ci darà un pretesto per fare una guerra anche lì. Le guerre sono troppo lucrose per noi perchè tu possa fermarle”. E il piccolo presidente dirà: “Sissignore!”.
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Politici-spazzatura e catastrofe, qualcuno lo spieghi ai media
Una delle cause strutturali per cui la crisi europea ha colpito l’Italia più di altri paesi sono le sue antiche carenze quanto a istruzione e ricerca e sviluppo (R&S). In vista di una transizione a un diverso modello produttivo e occupazionale sarebbe essenziale aumentare in misura considerevole la spesa pubblica per la scuola secondaria e l’università. Con il 22% dei diplomati contro una media del 36 per l’intera Ue, l’Italia occupa l’ultimo posto in tale classifica. È una percentuale scandalosamente bassa; e ancora più scandaloso è il fatto che dinanzi all’obbiettivo proposto dalla Commissione Europea di raggiungere il 40% entro il 2020 come media Ue, uno dei nostri recenti governi abbia risposto che l’Italia punta nientemeno che al 27%. Dati analoghi valgono per i laureati. L’obiezione per cui diplomare o laureare un maggior numero di giovani non serve allo sviluppo, o è addirittura un danno, perché tanto non trovano lavoro, è priva di senso. I giovani non trovano lavoro perché non esistono politiche economiche capaci di creare nuovo lavoro nel momento in cui il lavoro tradizionale scompare.Anche in tema di R&S siamo messi male. Tra i 32 paesi Ocse l’Italia occupa il penultimo posto quanto a spesa in R&S, con un misero 1,25% tra pubblico e privato. Le statistiche delle richieste di brevetto depositate presso l’Ufficio Brevetti europeo, che vedono l’Italia in coda ai maggiori paesi Ue sia quanto a numero sia quanto a contenuto tecnologico, riflettono tale povertà di spesa. Come minimo occorrerebbe raddoppiare quest’ultima nel più breve tempo possibile. Di fronte ai problemi sopra richiamati, alla pericolosità della crisi Ue, ed alla addizionale gravità di quella italiana, il governo Renzi non esiste. Non che, per ora, le opposizioni offrano gran che di meglio. Moltiplicare invettive contro il dominio della finanza, oggi ben rappresentato dall’euro, non serve: anche il “Mein Kampf” ne era pieno (dieci anni dopo, non a caso, il suo autore giunto al potere impiegò poche settimane per accordarsi con la grande finanza).Il dominio bisogna prima seriamente studiarlo, per poi smontarlo pezzo per pezzo con strumenti politici e legislativi appropriati. Né serve a molto inveire contro la casta. Una volta stabilito che si tratta di una intera classe politica che ha fatto da decenni il suo tempo, nonché di buona parte della classe imprenditoriale, si tratta di sostituirla con una classe avente una concezione del mondo diversa e opposta, che sappia amministrare il paese e ogni sua parte in nome dei diritti al lavoro e del lavoro; dell’uguaglianza (in una economia dove gli amministratori delegati guadagnino magari 50 volte i loro dipendenti e facciano bene il loro mestiere invece di guadagnare 500 volte e farlo male); dei beni comuni da sottrarre alle privatizzazioni; di una economia che non distrugga l’ambiente nel quale dovrebbero vivere e prosperare i nostri discendenti.Allo scopo di far emergere dal paese, che da più di un segno appare in grado di farlo, una nuova classe dirigente all’altezza del compito, occorrono i voti. Per moltiplicare i voti necessari occorre che il maggior numero possibile di elettori comprenda qual è l’enormità della posta in gioco, in Italia come nella Ue, e la relativa urgenza. E se è vero che l’opinione politica si forma per la massima parte sotto l’irradiazione dei media, è di lì che bisogna partire. Supponendo che la traccia proposta sopra sia qualcosa di assimilabile a uno schema di programma politico a largo raggio, bisognerebbe quindi avviare una campagna di comunicazione estesa, incessante, capillare, volta a mostrare che la rappresentazione che il governo e i media fanno di quanto avviene è una deformazione della realtà, e poco importa se non è intenzionale. Insistendo su pochi punti essenziali, siano essi quelli qui indicati o altri – purché siano pochi e di peso analogo. Lo scopo è semplice: ottenere che alle prossime elezioni parecchi milioni di cittadini votino per una società migliore di quella verso cui stiamo rotolando, a causa dei nostri governi passati e presenti, non meno che della deriva programmata della Ue verso una oligarchia ottusa quanto brutale.(Luciano Gallino, estratto da “Europa: la crisi è strutturale, la soluzione è politica”, intervento pubblicato sul sito della Fiom-Cgil il 21 luglio 2015).Una delle cause strutturali per cui la crisi europea ha colpito l’Italia più di altri paesi sono le sue antiche carenze quanto a istruzione e ricerca e sviluppo (R&S). In vista di una transizione a un diverso modello produttivo e occupazionale sarebbe essenziale aumentare in misura considerevole la spesa pubblica per la scuola secondaria e l’università. Con il 22% dei diplomati contro una media del 36 per l’intera Ue, l’Italia occupa l’ultimo posto in tale classifica. È una percentuale scandalosamente bassa; e ancora più scandaloso è il fatto che dinanzi all’obbiettivo proposto dalla Commissione Europea di raggiungere il 40% entro il 2020 come media Ue, uno dei nostri recenti governi abbia risposto che l’Italia punta nientemeno che al 27%. Dati analoghi valgono per i laureati. L’obiezione per cui diplomare o laureare un maggior numero di giovani non serve allo sviluppo, o è addirittura un danno, perché tanto non trovano lavoro, è priva di senso. I giovani non trovano lavoro perché non esistono politiche economiche capaci di creare nuovo lavoro nel momento in cui il lavoro tradizionale scompare.
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Escobar: a crollare non è la Cina, ma il delirio neoliberista
Le azioni sui mercati di Shanghai/Shenzhen hanno perso un roboante 150% nei 12 mesi prima di metà giugno. I piccoli investitori – che compongono circa l’80% del mercato – erano convinti che la festa non avrebbe mai avuto fine e spesso hanno richiesto grossi prestiti per spingere nel magna magna del “diventare ricchi è glorioso”. Una correzione è stata necessaria, scrive Pepe Escobar. Quelle azioni – che avevano raggiunto un picco dopo una crescita durata 7 anni – erano ovviamente ipervalutate. Sommate al fatto che tutti i dati mostrano un rallentamento dell’economia cinese, il risultato era facilmente prevedibile: Shanghai e Shenzhen hanno perso tutto ciò che avevano guadagnato nel 2015 – una vendita di massa globale studiata a tavolino. «Persino famosi miliardari hanno perso montagne di denaro in un batter di ciglia», annota Escobar su “Rt”, in una nota ripresa da “Come Don Chisciotte”. «Benvenuti nella nuova normalità cinese, o il nostro (miserabile) mondo nuovo».La secca correzione a Shanghai/Shenzhen è parte della fine di un ciclo, chiarisce Escobar: diciamo pure addio alla Cina che faceva affidamento su tassi di investimento pari al 45% del Pil, e diciamo addio anche alla insaziabile richiesta cinese di beni. Il problema dell’aggiustamento del modello economico cinese, osserva il giornalista, è direttamente connesso all’ininterrotto stato comatoso del disordine neoliberale, che si protrae fin dal 2007/2008. «Non serve essere Paul Krugman per sapere che la nuova normalità è un mercato globale anemico: una crisi profonda in tutti i mercati emergenti, la stagnazione con recessione dell’Europa e la “fabbrica del mondo” cinese che non riesce a vendere quanto faceva prima. Nel frattempo, l’ipervalutato dollaro Usa sta uccidendo le esportazioni statunitensi, scese del 3% nel solo primo semestre. Anche le importazioni sono calate del 2.2%, il che dimostra la riduzione del potere d’acquisto della classe media, dovuta alla corrosione strutturale dell’economia statunitense».Ovunque ci si volti, continua Escobar, tutto lo scenario strutturale grida alla crisi del disordine neoliberale: «Quando il motore turbo-capitalista cinese incontra problemi, si dimostra palesemente come il casinò della finanza mondiale non abbia alcun tipo di supporto da nessun altra parte». Infatti, più di 5 trilioni di dollari di denaro virtuale sono stati bruciati da quando Pechino ha (moderatamente) svalutato lo yuan l’11 di agosto – innescando la vendita di massa. «Ora la Fed potrebbe posticipare alla fine del 2015 l’innalzamento dei tassi d’interesse, per la prima volta in quasi 10 anni. Nessuno si azzarda a predire uno scenario di rosea crescita, considerando la forza del dollaro, lo yuan moderatamente svalutato e una continua discesa dei prezzi del greggio». Eppure, «contrariamente a quanto sostengono le previsioni/speranze dell’Occidente, la Cina non sta implodendo». Lo dimistrano le ultime analisi diffuse da Credit Suisse: «La Cina continua ad avere un surplus molto ‘in salute’, le sue riserve di capitali sono ancora parzialmente bloccate e le sue maggiori istituzioni finanziarie sono in larga parte di proprietà dello Stato».Questi fattori, aggiunge la banca svizzera, darebbero alle autorità monetarie di Pechino lo spazio di azione per creare liquidità nel sistema, in caso ce ne fosse bisogno. Ciò che accade è che «la crescita strutturale della Cina continuerà a rallentare nei prossimi anni». Non ci sarà un «innesco del crollo del credito», e quindi «il sistema finanziario e il regime di cambio potrebbero essere mantenuti relativamente stabili». Tuttavia, sperare che gli introiti e i guadagni delle imprese cinesi ritornino ai livelli di alcuni anni fa «non è realistico». Ma, essenzialmente, «la paura di un ripetersi del crollo dei mercati asiatici del 1997 o della crisi mondiale del 2008 non è giustificata». In conclusione, Credit Suisse invita a mantenere la calma: «Gli investitori dovrebbero concentrarsi maggiormente sulle azioni dei mercati cinesi e di Hong Kong che hanno forti micro-fondamentali e sono meno dipendenti dalla crescita economica cinese, ma che sono state affossate dalla recente debolezza dei mercati».Quindi, dal punto di vista di Pechino, tutto è abbastanza sotto controllo. «Ancora una volta: in termini globali, quest’ultima bolla del casinò della finanza non è nemmeno lontanamente paragonabile alla crisi finanziaria asiatica del 1997/1998. Piuttosto, continuano a persistere i segnali di una ininterrotta e ricorrente debolezza dei mercati considerata la nuova normalità, da affiancare al rifiuto categorico da parte di Wall Street di dare una forte regolamentazione alla finanza», scrive Escobar. La palla ora è nel campo della Fed: cosa fare riguardo lo tsunami delle valute straniere che fanno salire il dollaro, rendendo non competitiva l’industria statunitense? L’era delle banche centrali che stampano valuta virtuale a basso costo, per conferire “volatilità del mercato”, potrebbe non essere finita. «Le banche centrali adorano mandare al rialzo i prezzi dei mercati azionari per il beneficio dello 0.0001%, per cui aspettiamoci altre delusioni in futuro, con la certezza che tutto ciò che è solido evaporerà, insieme al sogno neoliberale».Le azioni sui mercati di Shanghai/Shenzhen hanno perso un roboante 150% nei 12 mesi prima di metà giugno. I piccoli investitori – che compongono circa l’80% del mercato – erano convinti che la festa non avrebbe mai avuto fine e spesso hanno richiesto grossi prestiti per spingere nel magna magna del “diventare ricchi è glorioso”. Una correzione è stata necessaria, scrive Pepe Escobar. Quelle azioni – che avevano raggiunto un picco dopo una crescita durata 7 anni – erano ovviamente ipervalutate. Sommate al fatto che tutti i dati mostrano un rallentamento dell’economia cinese, il risultato era facilmente prevedibile: Shanghai e Shenzhen hanno perso tutto ciò che avevano guadagnato nel 2015 – una vendita di massa globale studiata a tavolino. «Persino famosi miliardari hanno perso montagne di denaro in un batter di ciglia», annota Escobar su “Rt”, in una nota ripresa da “Come Don Chisciotte”. «Benvenuti nella nuova normalità cinese, o il nostro (miserabile) mondo nuovo».
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Mazziati e contenti, come vuole l’industria della felicità
I padroni non vogliono dai loro subalterni solo quello che riescono a estorcere con il lavoro, ne pretendono anche l’anima. Poco importa se le condizioni lavorative stanno ormai retrocedendo a forme ottocentesche. Le scienze sociali, arruolate alle esigenze dell’impresa, da tempo rilevano come in tempi di crisi sia necessario che i lavoratori e i consumatori vendano la propria anima – e non solo la forza lavoro e i loro redditi – al mercato. Si chiama Happyness Industry, l’industria della felicità. Diffondere ottimismo nella società e sentimenti positivi dentro le imprese sta diventando uno strumento indispensabile per far ripartire l’economia in quei paesi a capitalismo avanzato che hanno subìto più duramente le torsioni dell’ultima fase della crisi capitalistica. E’ interessante quanto riporta su questo tema un ampio servizio de “La Repubblica”, che pure è un giornale di prima linea dentro questo meccanismo. Il saggio del sociologo britannico William Davis descrive come «le aziende oggi stanno investendo così tante risorse nel renderci felici che chi non si mostra entusiasta di tutto ciò viene visto come un sabotatore da tenere d’occhio».In alcune selezioni aziendali, ad esempio, se ne colpisce uno per educarne nove a mostrarsi felici del lavoro chiamati a svolgere. Chi fa il musone viene licenziato o non assunto. Non solo. E’ stata istituita la figura dirigenziale dell’addetto alla felicità dei dipendenti – lo Chief Happyness Officer – uno che deve saper fare squadra, mettere il naso nella loro vita privata e assicurare che il clima aziendale non accumuli in modo pericoloso focolai di malumore che possono diventare altro. Questa ennesima diavoleria di derivazione anglosassone è stata importata anche in Italia. Prima come forma della pubblicità e adesso come modello di governance da parte di Renzi e del suo stuolo di ladylike e goldenboys. A fare dell’ottimismo un veicolo pubblicitario, non a caso, è uno dei “prenditori amici” più ascoltati da Renzi: Oscar Farinetti. Suo era stato l’uso dello scrittore romagnolo Tonino Guerra per la pubblicità della sua Unieuro all’insegna dell’ottimismo. Ereditata dal padre Paolo Farinetti, la catena di elettrodomestici Unieuro è stata gestita dal figlio, Oscar appunto, dal 1978 al 2003. Poi fu venduta ad una società britannica. Gli slogan e gli spot sull’ottimismo iniziano nel 2001.Una volta che Renzi “è stato messo lì”, come ebbe a dire Marchionne, Farinetti è diventato quasi una musa ispiratrice del premier, il quale infatti se la prende con i gufi, i piagnoni, i pessimisti mentre lui ostenta con fare da piazzista risultati positivi smentiti dai fatti. In compenso realizza la tabella di marcia voluta da Confindustria e banche su ogni aspetto: dall’abolizione dell’articolo18 alla aziendalizzazione della scuola, dal decreto “Sblocca Italia” alla destrutturazione dell’amministrazione pubblica. Declinare in ogni conferenza stampa, Twitter o dichiarazione che «le cose stanno andando bene, cieco è solo chi non le vede» – potendo contare su un servilismo dei mass media che fa rimpiangere Berlusconi – è un modo di “fare produttività”. O almeno di comunicare che la produttività c’è anche se non si può vedere. Ma se poi la gente non ci crede perchè non vede? Scatta allora la demonizzazione e la malevolenza pubblica che addita chi osa dire le cose come stanno: disfattista, gufo, antitaliano. Un linguaggio che somiglia sempre più a quello del regime fascista. La felicità e l’ottimismo non devono più essere categoria dell’anima, ma comportamenti da omologare. Il bicchiere deve essere sempre visto come mezzo pieno, anche quando è quasi completamente vuoto.Vengono in mente le parole di una canzone resa nota da Dario Fo ed Enzo Jannacci: “E sempre allegri bisogna stare, che il nostro piangere fa male al re; fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam!”. Oggi, purtroppo, molte lavoratrici e molti lavoratori resistono a questa arroganza padronale e governativa che non ha precedenti nel dopoguerra solo con lo “sciopero del cuore”. Accettano la situazione e, nella migliore delle ipotesi ricorrono alla “egreferenza”, cioè alla negazione della deferenza verso il padrone e i suoi pagliacci. Questi ultimi se ne sono accorti e sanno bene che quando si accumulano sentimenti ostili, anche se non manifesti, prima o poi possono ridiventare odio di classe e allora finisce la (loro) festa. Per questo hanno messo in moto gli scienziati sociali per imprigionare anche l’anima e non solo le condizioni di vita delle classi subalterne. La felicità, quando diventa fenomeno genuino e collettivo, non può essere messa in vendita come una merce, neanche nei divertimentifici artificiali o nelle politiche aziendali. Il rumore di fondo che ancora non diventa rabbia organizzata tra la nostra gente va coltivato e ben orientato. Dilatare questa contraddizione, trasformare lo sciopero del cuore in conflitto sociale, connetterlo e coordinarlo, rimane la convinta ragione di esistenza di questo giornale.(Sergio Cararo, “L’industria della felicità”, da “Contropiano” del 5 agosto 2015).I padroni non vogliono dai loro subalterni solo quello che riescono a estorcere con il lavoro, ne pretendono anche l’anima. Poco importa se le condizioni lavorative stanno ormai retrocedendo a forme ottocentesche. Le scienze sociali, arruolate alle esigenze dell’impresa, da tempo rilevano come in tempi di crisi sia necessario che i lavoratori e i consumatori vendano la propria anima – e non solo la forza lavoro e i loro redditi – al mercato. Si chiama Happyness Industry, l’industria della felicità. Diffondere ottimismo nella società e sentimenti positivi dentro le imprese sta diventando uno strumento indispensabile per far ripartire l’economia in quei paesi a capitalismo avanzato che hanno subìto più duramente le torsioni dell’ultima fase della crisi capitalistica. E’ interessante quanto riporta su questo tema un ampio servizio de “La Repubblica”, che pure è un giornale di prima linea dentro questo meccanismo. Il saggio del sociologo britannico William Davis descrive come «le aziende oggi stanno investendo così tante risorse nel renderci felici che chi non si mostra entusiasta di tutto ciò viene visto come un sabotatore da tenere d’occhio».