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Subito nuove leggi, o ci rubano anche l’acqua da bere
«Si può osservare che la parola valore ha due differenti significati: talvolta esprime l’utilità di qualche particolare oggetto e talaltra il potere di acquistare altri beni che il possesso di questo oggetto conferisce. L’uno può essere detto valore d’uso e l’altro valore di scambio. Le cose che hanno il massimo valore d’uso spesso hanno scarso o nessun valore di scambio; e, al contrario, quelle che hanno il massimo valore di scambio hanno frequentemente scarso o nessun valore d’uso. Nulla è più utile dell’acqua, ma con essa non si potrà acquistare quasi nulla e difficilmente si potrà ottenere qualcosa in cambio di essa. Un diamante al contrario non ha quasi nessun valore d’uso; ma con esso si potrà ottenere in cambio una grandissima quantità di altri beni». La citazione che precede e che è una base dell’economia politica moderna è di Adam Smith, nel libro primo della “Ricchezza delle Nazioni”. Luigi Ferrajoli l’ha utilizzata aprendo la sua relazione al convegno romano in occasione della Giornata mondiale dell’acqua.Oggi l’acqua ha sempre un valore d’uso insostituibile, ma si è determinata anche una sua terribile e crescente scarsità; per questo il capitalismo vorrebbe cogliere l’opportunità di farne una merce, da quel bene comune che era. Anzi, per mettere a frutto proprio questa sua qualità di essere un bene comune: cancellando il comune resterebbe un bene da vendere al maggior offerente. Il modo prescelto sarebbe quello di attivarvi un valore di scambio con modalità doppiamente predatorie: privatizzando fonti, fiumi, laghi e sponde per mettere in vendita l’uso dell’acqua; insozzandone la naturalità, riempiendo i bacini e le falde sotterranee di calore e di resti della lavorazione industriale, di rifiuti dell’attività agricola e urbana. Ferrajoli ha citato sbrigativamente i tre “statuti” di Riccardo Petrella: 40 o 50 litri gratuiti al giorno per persona; divieto formale di utilizzo e dissipazione dell’acqua pulita oltre un certo limite; pagamento della quota consumata superiore al limite vitale.L’occasione della Giornata mondiale è stata scelta dagli “acquaioli” italiani per lanciare l’Osservatorio popolare sull’acqua e sui beni comuni. Un insieme di associazioni, locali e nazionali – a partire dal Forum che ha raccolto le firme e diretto i referendum di tre anni fa – ha deciso di costituire e sostenere una serie di attività: archivio, centro documentazione online, ricerca, partecipazione diretta, formazione. Di lanciare inoltre, al Parlamento Europeo, un intergruppo sui beni comuni e partecipare attivamente alla già esistente rete europea dell’acqua pubblica. Anche nel Parlamento italiano qualcosa si muove: un gruppo di parlamentari – Sel, M5S, e perfino un po’ di democratici – ha preso la questione dell’acqua e dei beni comuni come il problema principale. Esponente di punta – a dire di Raffaella Mariani di Sel, persona di insolita e limpida generosità – è Federica Daga, M5S, che è davvero bravissima.Esordisce ricordando che la prima stella è appunto l’acqua e poi insiste sul lavoro specifico di loro, parlamentari: guardare dentro i provvedimenti del potere per mostrarne le malversazioni nascoste, l’arsenico mischiato all’acqua. Se poi l’acqua è retta da una Spa, ancorché del tutto pubblica, gli atti non sono a disposizione di un parlamentare. Diverso il caso di una impresa di diritto pubblico. È pronta al voto una legge sull’acqua. Quanto tempo ci vorrà per approvarla? Ferrajoli suggerisce di premettere un articolo che in tre righe ne faccia una legge costituzionale forte e non rovesciabile nel suo contrario. Si potrebbe arrivare a un trattato internazionale, sull’acqua e sui beni comuni, analoghi a quelli del 1967 sullo spazio e la profondità dei mari. Allora servivano a inibire le armi nucleari, in futuro potrebbero servire a contrastare pericoli ancora maggiori: la sete, per esempio, la fine dell’acqua da bere.(Guglielmo Ragozzino, “La fine dell’acqua da bere”, dal blog “Sbilanciamoci” del 28 marzo 2014).«Si può osservare che la parola valore ha due differenti significati: talvolta esprime l’utilità di qualche particolare oggetto e talaltra il potere di acquistare altri beni che il possesso di questo oggetto conferisce. L’uno può essere detto valore d’uso e l’altro valore di scambio. Le cose che hanno il massimo valore d’uso spesso hanno scarso o nessun valore di scambio; e, al contrario, quelle che hanno il massimo valore di scambio hanno frequentemente scarso o nessun valore d’uso. Nulla è più utile dell’acqua, ma con essa non si potrà acquistare quasi nulla e difficilmente si potrà ottenere qualcosa in cambio di essa. Un diamante al contrario non ha quasi nessun valore d’uso; ma con esso si potrà ottenere in cambio una grandissima quantità di altri beni». La citazione che precede e che è una base dell’economia politica moderna è di Adam Smith, nel libro primo della “Ricchezza delle Nazioni”. Luigi Ferrajoli l’ha utilizzata aprendo la sua relazione al convegno romano in occasione della Giornata mondiale dell’acqua.
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Sorpasso cinese sugli Usa, cresce il pericolo di guerra
Mentre la francese Alstom sta per cedere alla General Electric il settore energia e la crisi ucraina si approfondisce, l’ambasciata statunitense a Roma invia una comunicazione ufficiale al governo italiano invitandolo a rispettare l’impegno a comprare tutti i 90 aerei F-35, come da accordi sottoscritti a suo tempo, perché «ulteriori riduzioni sul programma potrebbero incidere sugli investimenti e, dunque, sui benefici». Con tanti saluti all’ipotesi renziana di “risparmiare” i conti pubblici sotto stress, in vista del Fiscal Compact. Non solo: gli Stati Uniti, ricorda Claudio Conti, hanno riannodato i rapporti con le Filippine per aprire basi militari in esplicita funzione anti-cinese, mentre tentano di riprendere possesso dell’America Latina foraggiando le opposizioni in Venezuela, Bolivia, Ecuador. Gli Usa sono nervosi: stanno per perdere la loro secolare leadership economica mondiale in favore della Cina, e stanno col dito sul grilletto. In caso di guerra, una sola certezza: non ci saranno vincitori.Secondo l’ultimo studio della Banca Mondiale, citato dal “Financial Times”, gli Stati Uniti stanno per consegnare alla Cina lo scettro di prima economia al mondo: «Il sorpasso avverrà molto prima del previsto 2019, forse già quest’anno», scrive Conti su “Contropiano”. Gli Usa detengono il primo posto dal 1872, quando avevano superato la Gran Bretagna. E saranno presto incalzati anche dall’India, che sta per prendersi il terzo posto. «È la temuta crisi dell’egemonia statunitense, affermatasi pienamente con la Seconda Guerra Mondiale ma lungamente preparata nei decenni precedenti». Storia: «Non si è mai vista una potenza imperiale dominare sul mondo senza essere anche la prima economia del pianeta». Ma il “lungo addio” della Gran Bretagna all’egemonia globale è potuto maturare «solo grazie a un mondo assai più lento di oggi e allo “speciale rapporto” con l’ex colonia che stava diventando una superpotenza».Oggi, continua Conti, l’economia finanziaria viaggia in tempo reale: la competizione, a questo livello, si gioca sui centesimi di secondo. «E anche le forze militari sono mobilitabili in tempi infinitamente più rapidi». Peccato però che gli approvvigionamenti energetici stiano diventando sempre più problematici, tra risorse storiche in via di esaurimento e “risorse non convenzionali” appena sufficienti, per ora, a mantenere allo stesso livello i consumi planetari. «Gli Stati Uniti sanno meglio di tutti che il loro dominio sul mondo è a rischio, e hanno deciso di lottare per non farsi scalzare, nemmeno a favore di un “multipolarismo” in cui non potrebbero restare dei “primus inter pares”», perché non possono più sperare all’infinito di «affrontare i propri problemi stampando dollari e imponendo agli altri di accettarli in cambio di prodotti fisici».Così, gli Stati Uniti di Obama «attaccano in Europa cogliendo i due punti deboli dell’emergente imperialismo dell’Unione Europea: forniture energetiche e dotazione militare», e inoltre «attaccano in Asia tentando di “contenere” militarmente l’esplosiva influenza economica cinese». E’ un azzardo, un’offensiva inedita su tutti i fronti, dall’Atlantico al Pacifico. «È una dinamica antica e ripetitiva», sostiene Conti: «Una coazione a ripetere, ma estremamente pericolosa», perché «la crisi economica non passa», e quindi «la guerra inter-imperialista si affaccia di nuovo come possibile soluzione». Peccato, chiosa l’editorialista di “Contropiano”, che tutte quelle testate nucleari in giro per il mondo garantiscano – da 70 anni – una sola certezza: la Terza Guerra Mondiale non conoscerebbe vincitori, ma solo vittime.Mentre la francese Alstom sta per cedere alla General Electric il settore energia e la crisi ucraina si approfondisce, l’ambasciata statunitense a Roma invia una comunicazione ufficiale al governo italiano invitandolo a rispettare l’impegno a comprare tutti i 90 aerei F-35, come da accordi sottoscritti a suo tempo, perché «ulteriori riduzioni sul programma potrebbero incidere sugli investimenti e, dunque, sui benefici». Con tanti saluti all’ipotesi renziana di “risparmiare” i conti pubblici sotto stress, in vista del Fiscal Compact. Non solo: gli Stati Uniti, ricorda Claudio Conti, hanno riannodato i rapporti con le Filippine per aprire basi militari in esplicita funzione anti-cinese, mentre tentano di riprendere possesso dell’America Latina foraggiando le opposizioni in Venezuela, Bolivia, Ecuador. Gli Usa sono nervosi: stanno per perdere la loro secolare leadership economica mondiale in favore della Cina, e stanno col dito sul grilletto. In caso di guerra, una sola certezza: non ci saranno vincitori.
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Tassati a morte per 10 anni, per salvare le euro-banche
Una truffa colossale, che pagheremo noi per almeno dieci anni. Un inganno, spacciato per soluzione democratica: perché ci racconteranno che, finalmente, non saranno più gli Stati (cioè i comuni cittadini) a sobbarcarsi il costo del collasso finanziario dei grandi banchieri. Con l’aiuto del “Corporate Europe Observatory” di Olivier Hoedman, Paolo Barnard analizza il modello di Unione Bancaria europea messo a punto da Bruxelles. E conclude senza mezzi termini che si tratta di una colossale frode, destinata a dare il colpo di grazia alle economie dell’Eurozona: ancora più tasse, più debito, più crisi. Questione di numeri: il portafoglio speciale per gestire il fallimento di una mega-banca ammonta ad appena 55 miliardi di euro, ottenuti tassando le banche dell’1% dei loro depositi, mentre è di almeno 1.500 miliardi la somma dei buchi bancari a rischio in Ue. Ma attenzione: il nuovo fondo europeo salva-banche non sarà disponibile prima di dieci anni. Nel frattempo, in caso di crisi, a pagare sarà il Mes, il meccanismo europeo di stabilità. Cioè noi, ancora e sempre, con le nostre tasse.La situazione è esplosiva, sostiene Barnard, perché le maggiori banche europee sono tutte fallite, a cominciare dalla Deutsche Bank, zeppa di titoli tossici e crediti “marci”, inesigibili. La riforma bancaria messa a punto da Michel Barnier (Commissione Ue) con Mario Draghi e Angela Merkel, in collaborazione con le maggiori lobby bancarie del pianeta, dall’Institute of International Finance di Washington alla European Banking Federation, introduce l’obbligo – per gli istituti di credito – di consolidare un capitale di riserva pari all’8% del denaro prestato. E’ poca cosa anche per l’ex capo della Fed, Alan Greenspan, che voleva almeno il 14% come fondo di garanzia. Ma le banche europee lo aggireranno comodamente, dice Barnard, in diversi modi, anche truccando i libri contabili mediante autocertificazioni sulle quali in teoria dovrebbe vigilare la Bce. Se poi una banca non dovesse reggere allo stress-test, sarebbe inglobata da una banca più grande, complicando così il puzzle finanziario dei colossi “too big to fail” che hanno provocato il crac storico del 2007.Spesso però non ci sarà neppure bisogno di artifici contabili: alle banche-canaglia basterà svendere agli speculatori i miliardi di titoli tossici accumulati. E, per ridurre la loro esposizione, le mega-banche potranno tranquillamente chiudere i rubinetti, cioè tagliare il credito sano verso aziende e famiglie, per centrare l’obiettivo dell’8% senza rimetterci praticamente nulla. La propaganda di Bruxelles, aggiunge Barnard, metterà l’accento sulla piccola novità introdotta – a pagare i costi di un fallimento saranno innanzitutto gli investitori – ma lo faranno solo fino all’8% dell’ammontare. «Il che è assurdo: in caso di fallimento, sono proprio gli investitori a dover pagare per primi». Non nell’Unione Europea della Troika: il 92% del disastro, infatti, sarà interamente a carico dei contribuenti, gli ordinari cittadini. «E qui arriva la catastrofe finale», conclude Barnard, «perché il fondo di salvezza finanziato dagli Stati che già esiste e che sarà quello in cui si andrà a pescare in questi 10 anni è il notorio Meccanismo Europeo di Stabilità, il famigerato Mes».Famigerato, perché comporta una super-tassazione mortale: chiunque attinga al Mes per qualsiasi motivo «dovrà poi assoggettarsi alle austerità della chemio-tassazione e dell’economicidio che hanno già portato alla rovina nazionale». E’ scritto: per salvare le banche che falliranno, l’Unione Bancaria «pescherà per pochi spiccioli dagli investitori, e poi per almeno 10 anni dalle tasche di cittadini e aziende per tutto il resto del colossale malloppo». Futuro inevitabile: «Ci beccheremo altre orrende, mortali austerità». E c’è di peggio: «Neppure il Mes, coi suoi 500 miliardi di salvadanaio (nostri soldi spremuti con la chemio-tassazione) sarebbe sufficiente a salvare neppure un quarto di una banca come la Deutsche». Per cui, «gli Stati dovranno trovare altri soldi», e sempre «dal sangue dei nostri figli, che saranno i servi della gleba del terzo millennio».Tutto questo, naturalmente, per tenere in piedi l’euro, moneta cui gli Stati non possono accedere direttamente. Chi dispone di moneta sovrana, aggiunge Barnard, può risolvere rapidamente il problema: nazionalizza la banca in crisi, la bonifica e ci guadagna rivendendola. Basta avere la facoltà di creare denaro dal nulla, mediante la banca centrale: è quello che fanno Cina e Giappone, Stati Uniti e Gran Bretagna, senza bisogno di creare “unioni bancarie truffa”. «Dopo aver speso a deficit di Stato per salvare le loro banche, il Tesoro Usa ha incassato profitti per 9 miliardi di dollari e quello inglese 5 miliardi. La banca centrale americana ha ottenuto 24 miliardi di plusvalenze, la Banca d’Inghilterra 33 miliardi. Tutti soldi pubblici “tornati a casa”. Così dovrebbe fare Roma».Una truffa colossale, che pagheremo noi per almeno dieci anni. Un inganno, spacciato per soluzione democratica: perché ci racconteranno che, finalmente, non saranno più gli Stati (cioè i comuni cittadini) a sobbarcarsi il costo del collasso finanziario dei grandi banchieri. Con l’aiuto del “Corporate Europe Observatory” di Olivier Hoedman, Paolo Barnard analizza il modello di Unione Bancaria europea messo a punto da Bruxelles. E conclude senza mezzi termini che si tratta di una colossale frode, destinata a dare il colpo di grazia alle economie dell’Eurozona: ancora più tasse, più debito, più crisi. Questione di numeri: il portafoglio speciale per gestire il fallimento di una mega-banca ammonta ad appena 55 miliardi di euro, ottenuti tassando le banche dell’1% dei loro depositi, mentre è di almeno 1.500 miliardi la somma dei buchi bancari a rischio in Ue. Ma attenzione: il nuovo fondo europeo salva-banche non sarà disponibile prima di dieci anni. Nel frattempo, in caso di crisi, a pagare sarà il Mes, il meccanismo europeo di stabilità. Cioè noi, ancora e sempre, con le nostre tasse.
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Neo-analfabeti: 3 italiani su 10 non sanno cavarsela
Se chiudo gli occhi e immagino un analfabeta, penso ad una persona che firma con una X al posto del nome. Ma sbaglio. Un analfabeta, ci ha ricordato l’Ocse pochi giorni fa, è anche una persona che sa scrivere il suo nome e che magari aggiorna il suo status su Facebook, ma che non è capace di «comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità». Certo, sono due analfabetismi diversi: quello di secondo tipo si chiama analfabetismo funzionale e riguarda quasi 3 italiani su 10, il dato più alto in Europa. Un analfabeta funzionale, apparentemente, non deve chiedere aiuto a nessuno, come invece succedeva una volta, quando esisteva una vera e propria professione – lo scrivano – per indicare le persone che, a pagamento, leggevano e scrivevano le lettere per i parenti lontani.Un analfabeta funzionale, però, anche se apparentemente autonomo, non capisce i termini di una polizza assicurativa, non comprende il senso di un articolo pubblicato su un quotidiano, non è capace di riassumere e di appassionarsi ad un testo scritto, non è in grado di interpretare un grafico. Non è capace, quindi, di leggere e comprendere la società complessa nella quale si trova a vivere. Tre italiani su 10, ci dice l’Ocse, si informano (o non si informano), votano (o non votano), lavorano (o non lavorano), seguendo soltanto una capacità di analisi elementare: una capacità di analisi, quindi, che non solo sfugge la complessità, ma che anche davanti ad un evento complesso (la crisi economica, le guerre, la politica nazionale o internazionale, lo spread) è capace di trarre solo una comprensione basilare.Un analfabeta funzionale, quindi, traduce il mondo paragonandolo esclusivamente alle sue esperienze dirette (la crisi economica è soltanto la diminuzione del suo potere d’acquisto, la guerra in Ucraina è un problema solo se aumenta il prezzo del gas, il taglio delle tasse è giusto anche se corrisponde ad un taglio dei servizi pubblici) e non è capace di costruire un’analisi che tenga conto anche delle conseguenze indirette, collettive, a lungo termine, lontane per spazio o per tempo. Sarà che forse sono un po’ analfabeta funzionale anch’io, ma leggendo i dati dell’Ocse ho subito pensato a un dialogo di qualche anno fa, tra me e una collega. All’epoca ero una maestra della scuola primaria. Era una bella giornata di sole: io e la mia collega di italiano avevamo portato le classi in terrazza per la ricreazione e parlavamo del più e del meno. A un certo punto mi è venuto in mente di consigliare alla collega di italiano la lettura di un libro che avevo appena terminato e lei mi rispose, candidamente: «Grazie, ma io non leggo libri». «Mai?», chiesi. «Mai – rispose la collega – l’ultimo libro l’ho letto quando ho preso la maturità, perché dovevo portarlo all’esame. Non ho mica tempo, per leggere, e poi mi annoio».Davanti ai dati dell’Ocse, l’ex ministro Carrozza si è affrettata a sottolinearne la drammaticità chiedendo una forte inversione di tendenza. Ma, anche se all’allarme corrispondesse un reale investimento dell’attuale governo – e, purtroppo, la storia recente ci porta a dubitarne – quale diga fermerà il crollo verticale della cultura degli italiani, se a chi ci deve rappresentare e a chi ci deve insegnare non si impone di essere più preparato, e non meno preparato, del proprio popolo, dei propri impiegati, o della propria classe? Non esiste cura, se i primi a rifiutare la complessità e l’approfondimento sono i nostri insegnanti, i nostri manager, i nostri politici. La scuola italiana, da sempre fondata sul dogmatismo, ha visto annullate le proprie spinte verso un insegnamento diverso, riducendosi alla trasmissione di competenze inutili, perché si dimenticano il giorno dopo l’interrogazione, e che non insegnano a capire, ad analizzare, a criticare, a soppesare, a riassumere.Era il 1974, quando Sergio Endrigo, ispirandosi a Gianni Rodari, incise su un disco questo prologo illuminante: «Napoleone Bonaparte nacque ad Ajaccio il 15 agosto del 1769. Il 22 ottobre del 1784 lasciò la scuola militare di Briennes con il grado di cadetto. Nel settembre del 1785 fu promosso sottotenente. Nel 1793 fu promosso generale, nel 1799 promosso primo console, nel 1804 si promosse imperatore. Nel 1805 si promosse re d’Italia. E chi non ricorderà tutte queste date, sarà bocciato!». Dal 1974 le cose, se possibile, sono generalmente peggiorate. I parametri Invalsi – lo strumento europeo per la valutazione delle competenze – sono diventati in fretta praticamente l’unica cosa che la scuola si preoccupa di insegnare, riducendo la lungimiranza dell’insegnamento alla verifica in programma, all’esame di fine anno.Ma cosa rimane fuori da una scuola sdraiata sui parametri Invalsi (per i quali, in ogni caso, non brilliamo, come competenza, in particolar modo nel Sud Italia)? Rimangono fuori proprio le competenze che fanno di una persona un cittadino attivo, e non un analfabeta funzionale: la capacità di scegliere un libro interessante, e di immergersi nella lettura, la scelta di comprare un quotidiano, la capacità di valutare le proposte economiche e politiche nella loro (grandissima) complessità. Per rispondere all’allarme dell’Ocse, questo paese deve ribaltare il concetto stesso di competenza. Una scuola dogmatica è una scuola che respinge, e che insegna senza insegnare. Una scuola che costruisce e valorizza le competenze, invece, è una scuola capace di accogliere, e di insegnare gli strumenti di comprensione del mondo.Un analfabeta può anche imparare a memoria che Napoleone Bonaparte nacque ad Ajaccio il 15 agosto del 1769, e che nel 1805 si promosse re d’Italia, ma non per questo avrà gli strumenti per accogliere ed analizzare la complessità della società in cui vive. E anche lui, come i ragazzi che spesso la nostra scuola respinge – quelli che non vengono messi in grado neanche imparare le date a memoria – rischia di entrare a far parte di quel folto gruppo per i quali la guerra in Ucraina è un problema solo se aumenta la bolletta del gas.(Vanessa Niri, “I nuovi analfabeti: usano Facebook, ma non sanno interpretare la realtà”, intervento pubblicato da “Wired” e ripreso da “Contropiano” il 14 aprile 2014).Se chiudo gli occhi e immagino un analfabeta, penso ad una persona che firma con una X al posto del nome. Ma sbaglio. Un analfabeta, ci ha ricordato l’Ocse pochi giorni fa, è anche una persona che sa scrivere il suo nome e che magari aggiorna il suo status su Facebook, ma che non è capace di «comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità». Certo, sono due analfabetismi diversi: quello di secondo tipo si chiama analfabetismo funzionale e riguarda quasi 3 italiani su 10, il dato più alto in Europa. Un analfabeta funzionale, apparentemente, non deve chiedere aiuto a nessuno, come invece succedeva una volta, quando esisteva una vera e propria professione – lo scrivano – per indicare le persone che, a pagamento, leggevano e scrivevano le lettere per i parenti lontani.
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Tav Brennero, l’altro mostro: 63 miliardi nella spazzatura
«Costerà 63 miliardi la più onerosa e imponente opera pubblica italiana, ed è del tutto inutile». E’ scritto, nero su bianco, in uno studio commissionato all’università austriaca di Innsbruck dalla stessa società costruttrice, e tenuto ben chiuso in un cassetto dal governo. «Ma noi del Movimento 5 Stelle siamo riusciti ad aprire quel cassetto e a rivelarne il contenuto», afferma deputato trentino Riccardo Fraccaro. La linea Tav del Brennero? «Un’opera mastodontica di cui nessuno parla, ma che supera per impegno di spesa anche quella della valle di Susa». Stesso copione: zero trasparenza, e tecnici indipendenti pronti a dimostrare l’assoluta inutilità dell’opera. Secondo gli scienziati di “Public Health”, un dossier di mille pagine rimasto «nascosto per otto anni» dimostra che quell’opera «non serve né per migliorare in modo significativo la salute pubblica né per diminuire il traffico merci autostradale e quindi l’inquinamento che ne deriva».Il progetto, spiegano i parlamentari 5 Stelle sul blog di Grillo, prevede la realizzazione della “galleria di base” del Brennero (55 chilometri da Innsbruck a Fortezza, di cui 23 in territorio italiano) e le tratte di accesso sud che collegherebbero Fortezza a Verona. Su 218 chilometri di tracciato, dal confine a Verona, dovrebbero essere scavati 191 chilometri di gallerie. Obiettivo: trasferire sulla futura linea il traffico merci che attualmente si serve dell’autostrada A-22 del Brennero e della ferrovia storica. «Tutti condizionali d’obbligo: nel 2006, quando lo studio sugli effetti che la galleria di base avrebbe prodotto fu consegnato, la previsione era che il tunnel sarebbe entrato in esercizio per il 2015». In realtà, oggi i chilometri scavati sono ben pochi, appena due. Secondo l’Italia, il tunnel di base costerebbe 9,7 miliardi, mentre secondo la Corte dei Conti austriaca 24. Tutto il progetto, secondo stime indipendenti, verrebbe a costare 63 miliardi di euro, in difetto.Leggendo il “Public Health”, continuano i grillini, si capisce bene perché è stato chiuso nei cassetti dalla Bbt Se, la società che sta costruendo l’opera e che è per metà austriaca e per metà italiana (posseduta da Rfi più le province di Bolzano, Trento e Verona). Al 2015 – si legge nel rapporto – il nuovo tunnel sarebbe stato in grado di assorbire solo la crescita di traffico su gomma prevista, lasciando sulla A-22 un numero di Tir esattamente uguale al passato. «Opera inutile, dunque, visto che lungo l’autostrada si registrano emissioni inquinanti superiori del 50% ai limiti imposti dall’Ue». Secondo lo studio, infatti, a galleria di base ultimata si registrerebbe una riduzione del 12% degli inquinanti, «ma ciò sarebbe dovuto alla prevedibile evoluzione tecnologica dei camion e non allo spostamento di traffico determinato dalla nuova ferrovia». Secondo i promotori della maxi-opera, nel 2012 avrebbero dovuto essere trasportate sulla A-22 41 milioni di tonnellate di merci, che sarebbero state ridotte a 32 con il nuovo tunnel. Invece nel 2012 le merci su gomma non superavano le 29 tonnellate.«Trascurabili», inoltre, gli effetti positivi sull’ambiente e sulla salute, dato che non è previsto lo spostamento del traffico merci dalla gomma alla rotaia. «Il rumore elevato e l’inquinamento non si ridurrebbero», calcolano i medici di Innsbruck. Per farlo, sarebbe necessario introdurre barriere acustiche e materiale rotabile moderno. E soprattutto, utilizzare al massimo la ferrovia storica, oggi impiegata appena al 30% della sua capacità. Il Movimento 5 Stelle chiede di incentivare il traffico merci ferroviario, disincentivando quello su gomma: «Si dovrebbe infatti equiparare il pedaggio della A-22 a quello degli altri valichi alpini: più della metà del traffico di Tir della A-22 transita al Brennero, pur allungando il tragitto, perché costa 6 volte di meno rispetto alle autostrade austriache e svizzere».«Costerà 63 miliardi la più onerosa e imponente opera pubblica italiana, ed è del tutto inutile». E’ scritto, nero su bianco, in uno studio commissionato all’università austriaca di Innsbruck dalla stessa società costruttrice, e tenuto ben chiuso in un cassetto dal governo. «Ma noi del Movimento 5 Stelle siamo riusciti ad aprire quel cassetto e a rivelarne il contenuto», afferma deputato il trentino Riccardo Fraccaro. La linea Tav del Brennero? «Un’opera mastodontica di cui nessuno parla, ma che supera per impegno di spesa anche quella della valle di Susa». Stesso copione: zero trasparenza, e tecnici indipendenti pronti a dimostrare l’assoluta inutilità dell’opera. Secondo gli scienziati di “Public Health”, un dossier di mille pagine rimasto «nascosto per otto anni» dimostra che quell’opera «non serve né per migliorare in modo significativo la salute pubblica né per diminuire il traffico merci autostradale e quindi l’inquinamento che ne deriva».
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Chiamateli ultras o black bloc, sono manovalanza impunita
Un ricordo lontano: Genova 2001. Un giovane di borgata, che mi raccontava un strana storia. Una storia di ultras, della Roma e della Lazio, di quelli pieni di diffide, precedenti per rissa e svastiche sulle braccia, convocati in commissariato per una interessante proposta. «Vi va di andare a menare un po’ le mani? Di divertirvi a pestare zecche? Ci sarebbe da andare a Genova». Non ho mai avuto altre conferme, ma quella storia mi è rimasta in testa. Ed è una storia che spiega molti misteri di questa ennesima notte di follia calcistica in finale di Coppa: perché un soggetto come lo sparatore, che aveva persino fatto sospendere un derby, fosse a piede libero dopo una prescrizione rapidissima e in possesso di una pistola; perché un altro soggetto vicino alla camorra, come Genny ‘a carogna, potesse mettersi a trattare con le forze dell’ordine a nome di un’intera curva ostentando una maglietta che inneggia all’assassino di un poliziotto. Immaginatevi un NoTav, con una maglietta del genere, e poi mi dite.Di quali protezioni godono allora i capi ultrá, e soprattutto perché? Si tratta solo di “questioni di sicurezza”, o costoro vengono trattati in guanti bianchi perché sono “a disposizione” per un altro genere di lavori sporchi? Chi sono quei famosi “infiltrati” con i cappucci neri che durante certe manifestazioni da mandare in malora tirano sassi e bruciano cassonetti, costosi poliziotti travestiti o ultras in servizio gratuito, che avranno in cambio dei loro servigi l’impunitá e il rispetto nello stadio? D’altronde, è normale che lo Stato si serva di bassa manovalanza per certi lavoretti, e serve un vivaio che prepari e mantenga il “personale specializzato”. Lo stadio istruisce, lo stadio protegge.Certo, il prezzo da pagare è vedere questori e prefetti che trattano in diretta Tv con Genny ‘a carogna, lo Stato che si umilia davanti alle belve che di nascosto poi userá, ma i gesti di rispetto sono indispensabili. Così come le impunitá, mafia insegna. Ci consola pensare che a tanto schifo non si piega soltanto lo Stato italiano, ma pare essere una prassi di tanti paesi. A Odessa, il 2 maggio, tra coloro che hanno bruciato il palazzo dei sindacati con la gente dentro c’erano tantissimi ultras. Pure loro, mandati a divertirsi e pestare zecche da ordini superiori.(Debora Billi, “Ultras, la bassa manovalanza dello Stato impunita e rispettata”, dal blog “L’Estremista” del 4 maggio 2014).Un ricordo lontano: Genova 2001. Un giovane di borgata, che mi raccontava un strana storia. Una storia di ultras, della Roma e della Lazio, di quelli pieni di diffide, precedenti per rissa e svastiche sulle braccia, convocati in commissariato per una interessante proposta. «Vi va di andare a menare un po’ le mani? Di divertirvi a pestare zecche? Ci sarebbe da andare a Genova». Non ho mai avuto altre conferme, ma quella storia mi è rimasta in testa. Ed è una storia che spiega molti misteri di questa ennesima notte di follia calcistica in finale di Coppa: perché un soggetto come lo sparatore, che aveva persino fatto sospendere un derby, fosse a piede libero dopo una prescrizione rapidissima e in possesso di una pistola; perché un altro soggetto vicino alla camorra, come Genny ‘a carogna, potesse mettersi a trattare con le forze dell’ordine a nome di un’intera curva ostentando una maglietta che inneggia all’assassino di un poliziotto. Immaginatevi un NoTav, con una maglietta del genere, e poi mi dite.
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Chiesa: divisi non si vince, spiegatelo a Grillo (e Tsipras)
«Quell’assemblea di difensori dell’ordine pubblico che applaudono altri difensori dell’ordine pubblico che hanno ucciso un ragazzo, mi ha fatto venire in mente i magistrati che accusano di terrorismo quei cittadini che difendono la democrazia, quei manager che guadagnano cifre smisurate, quei politici che sono collusi con i mafiosi, quei corrotti e corruttori che hanno espropriato i cittadini di ogni possibilità di decidere del proprio futuro, e che continuano a succhiare ricchezza senza vedere la tempesta che si avvicina. Penso che siano tutti sintomi dello sfacelo della società italiana: se ne esce soltanto con una grande riforma intellettuale e morale». Per Giulietto Chiesa, «ci vuole una forza politica nuova che riesca a vedere la profondità dell’abisso e indichi una strada». Purtroppo, però, «questa forza politica non c’è», non esiste ancora. E, naturalmente, «non si creerà da sola».Il commento di Chiesa, pubblicato sulla sua pagina Facebook, ha suscitato «una vera bufera di reazioni, opposte». Da una parte i sostenitori del Movimento 5 Stelle, secondo i quali ovviamente «la nuova forza politica già c’è e non bisogna cercarne altre», e dall’altra «quelli di sinistra, che continuano a negare ogni credibilità al M5S». A questi ultimi, Giulietto Chiesa risponde con le cifre: «Una alternativa di sinistra all’attuale regime non esiste e – io ne sono certo – non esisterà più in un futuro prevedibile». I motivi? «Moltissimi, tutti convergenti», più volte enunciati: la sinistra (elettorato) non ha “visto” la natura e le dimensioni epocali della grande crisi – economia, energia, clima, fine della crescita illimitata – mentre la nomenklatura del centrosinistra ha di fatto “eseguito” i diktat dell’élite oligarchica oggi alla guida del capitalismo finanziario globalizzato.Un’illusione, però, anche quella di chi (come molti grillini) coltiva la speranza di cambiare l’Italia col 25% dei voti. «Enrico Berlinguer – che si rivolgeva, si badi bene, al più forte partito comunista dell’Occidente – dopo i fatti del Cile del 1973, quando Salvador Allende fu rovesciato e ucciso da un colpo di Stato organizzato dalla Cia, disse che non si poteva cambiare il paese nemmeno con il 51%. Perché lo disse? Perché sapeva che il nemico sarebbe uscito dal terreno democratico e avrebbe rovesciato il tavolo e la legalità. Aveva ragione. Infatti avvenne proprio così. Adesso è la stessa, identica situazione». In ogni caso, è sbagliato sottovalutare il potenziale democratico espresso dal movimento di Grillo: «Il M5S è una realtà nuova, di grande importanza», sottolinea Chiesa. «Per quanto mi riguarda l’ho sostenuta in tre consultazioni elettorali (in Sicilia nel 2012, alle elezioni politiche del 2013, ora nel 2014)». Una forza “amica”, dunque, che però «da sola, non potrà cambiare il paese».Ennesima occasione perduta, la campagna elettorale per le europee: «Il non avere tentato una convergenza sulla candidatura di Tsipras è stato un errore grave». Errore che peraltro la stessa Lista Tsipras «ha commesso, alla rovescia, rifiutando pregiudizialmente ogni contatto con il M5S». Chi ci rimette? «Milioni di italiani», cioè quelli che «vogliono cambiare radicalmente il paese, e che non sono né di sinistra, né del M5S». E’ a loro che Giulietto Chiesa pensa, quando parla di «una grande alleanza democratica e di pace e di pulizia, un’alleanza per la salvezza nazionale». Che fare? «Bisogna che tutti, sia il M5S, sia le sinistre (non parlo del Pd, che sinistra non è più), siano capaci di mettersi assieme per formulare un programma di governo, e una lista di governo». Una grande riforma intellettuale e morale «richiede molte forze ideali e componenti che non sono racchiudibili dentro gli attuali schieramenti». C’è bisogno di tutti, purché fuori dalla “casta”, quella dei partiti “maggiordomi” dei poteri forti: prima lo si capisce, e prima avremo concrete possibilità di fermare i diktat dell’oligarchia.«Quell’assemblea di difensori dell’ordine pubblico che applaudono altri difensori dell’ordine pubblico che hanno ucciso un ragazzo, mi ha fatto venire in mente i magistrati che accusano di terrorismo quei cittadini che difendono la democrazia, quei manager che guadagnano cifre smisurate, quei politici che sono collusi con i mafiosi, quei corrotti e corruttori che hanno espropriato i cittadini di ogni possibilità di decidere del proprio futuro, e che continuano a succhiare ricchezza senza vedere la tempesta che si avvicina. Penso che siano tutti sintomi dello sfacelo della società italiana: se ne esce soltanto con una grande riforma intellettuale e morale». Per Giulietto Chiesa, «ci vuole una forza politica nuova che riesca a vedere la profondità dell’abisso e indichi una strada». Purtroppo, però, «questa forza politica non c’è», non esiste ancora. E, naturalmente, «non si creerà da sola».
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Vergogna Europa, critica Putin ma non tutela Snowden
Raggruppati in un’Unione che non ha niente da dire in politica estera – né sull’Ucraina, né sul Mediterrano, né sull’alleanza con gli Usa – i governi europei «s’aggirano sul palcoscenico del mondo come inebetiti», scrive Barbara Spinelli: «Si atteggiano a sovrani, ma hanno dimenticato cosa sia una corona, e cosa uno scettro». L’ossessione? E’ fare affari, ma dei mercati «continuano a ignorare le incapacità, pur avendole toccate con mano». Così, «s’aggrappano a un’Alleanza atlantica per nulla paritaria», dominata dalla superpotenza americana ormai in declino, «che proprio per questo tende a riprodurre in Europa il vecchio ordine bipolare, russo-americano, lascito della guerra fredda». Ignari di un mondo che attorno a loro sta mutando, «sono anni che gli europei dormono». Infatti «non c’è evento, non c’è trattativa internazionale che li veda protagonisti». Lo si vede ovunque: nella crisi di Kiev, nel Trattato Transatlantico, nello scandalo-Nsa rivelato da Snowden. «Sono tre prove essenziali, e l’Unione le sta fallendo tutte».In Ucraina, «l’Europa non ha ancora ripensato i rapporti con la Russia», scrive la Spinelli in un intervento su “Repubblica”, ripreso da “Micromega”. «Non sa nulla di quel che si muove e bolle in quel mondo enorme e opaco. Non sa valutare le paure e gli interessi moscoviti, né i pericoli della riaccesa volontà di potenza che Putin incarna. Non capisce come mai Putin sia popolare in patria, e anche in tante regioni ex sovietiche che appartengono ormai a altri Stati e includono vaste e declassate comunità russe». Così, non sapendo parlare con Mosca, gli europei «lasciano che siano gli Stati Uniti, ancora una volta, a fronteggiare il caos, inasprendolo: è Washington a promettere garanzie al governo ucraino, a diffidare Mosca da annessioni, ad allarmarla minacciando di spostare il perimetro Nato a est». L’Europa «sta a guardare, persuasa che bastino i piani di austerità proposti da Fondo Monetario e Commissione europea, se Kiev entrerà nella sua orbita, quasi che il dramma degli Stati fallimentari, nel mondo, fosse soltanto finanziario».Depoliticizzata, l’Europa «subisce il ritorno anacronistico del duopolio russo-americano», che vorrebbe fare di Kiev il nuovo scudo orientale della Nato, «nonostante il popolo ucraino preferisca evidentemente la neutralità». Si pensa ad un’Ucraina «occidentalizzata d’imperio, frantumabile come lo fu la Jugoslavia». Ha ragione Mosca, che «chiede che il paese diventi una federazione, anziché un agglomerato babelico di risentimenti nazionalisti». Strano, aggiunge Barbara Spinelli, che a domandarlo «non sia l’Europa, con le sue esperienze». Ma è questa Europa, assolutamente passiva nel negoziato euro-americano che darà vita a un patto economico destinato ad affiancare quello militare: il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Ttip). «Una trattativa colma di agguati, perché molte conquiste normative dell’Europa rischiano d’esser spazzate via. Non a caso le multinazionali negoziano in segreto, lontano da controlli democratici».Anche Barbara Spinelli condivide l’allarme da più parti segnalato: «Sono sotto attacco leggi sedimentate, diritti per cui l’Unione s’è battuta per decenni: tra questi il diritto alla salute, la cura dell’ambiente, le multe a imprese inquinanti». Salute a rischio: «I sistemi sanitari saranno aperti al libero mercato, che sulle esigenze sociali farà prevalere il profitto. Emblematico l’assalto delle grandi case farmaceutiche ai medicinali generici low cost». E sono in pericolo anche tasse cui l’Europa pare tenere, per frenare operazioni speculative e degrado climatico: la tassa sulle transazioni finanziarie e quella sulle emissioni di anidride carbonica. «Una controffensiva Ue contro il trattato commerciale ancora non c’è. Nell’incontro a Roma con Obama, Renzi ha auspicato l’accelerazione del negoziato senza chiedere alcunché, né per noi né per l’Europa». Il piatto è magro: solo un aumento dello 0,5% del Pil, a pieno regime (nel 2027) secondo l’istito “Prometeia”, mentre l’istituto austriaco “Öfse” (Ricerca per lo sviluppo internazionale) prevede addirittura un aumento dei disoccupati nel periodo di transizione, a causa della riorganizzazione del mercato del lavoro imposta dal Trattato Transatlantico.Non meno grave: le controversie commerciali si risolverebbero non attraverso giudizi in tribunali ordinari, ma in speciali corti extraterritoriali. «Saranno le multinazionali a trascinare in giudizio governi, aziende, servizi pubblici ritenuti non competitivi, e a esigere compensazioni per i mancati guadagni dovuti a diritti del lavoro troppo vincolanti, a leggi ambientali o costituzionali troppo severe». Tutto questo, in nome della “semplificazione burocratica”: «Parola d’ordine che Renzi predilige, virtuosa e al tempo stesso insidiosa». Nel contesto del Partenariato transatlantico, semplificare vuol dire abbattere le cosiddette “barriere non tariffarie”, cioè «parametri europei faticosamente elaborati: regole sanitarie a tutela della salute, canoni di sicurezza delle automobili, procedure di approvazione dei farmaci e molto altro ancora». Eppure, per l’Europa va bene così. D’altronde, questa è l’Europa della battaglia «indolente e infruttuosa» contro i piani di sorveglianza della Nsa disvelati da Edward Snowden nel 2013.Un sistema di sorveglianza tentacolare, predisposto dai servizi americani con la scusa di prevenire attentati terroristici: «Grazie a Snowden si è saputo che erano intercettati perfino i cellulari di leader europei (tra cui Angela Merkel), non si sa per quali ragioni di sicurezza». I governi dell’Unione? «Hanno protestato, ma ciascuno per conto suo e sempre più flebilmente». In un messaggio al Parlamento Europeo, stesso Snowden ha ironizzato sulle sovranità presunte dei singoli Stati: totalmente impotenti di fronte al Datagate. «La vicenda Snowden è anche questione di civiltà democratica», osserva Spinelli. «L’esistenza di smascheratori di misfatti – non spie ma whistleblower, denunziatori di reati commessi dalla propria organizzazione – potenzia la democrazia». Proprio per questo, è paradossale che i giornalisti implicati nel Datagate a fianco di Snowden abbiano ricevuto il Premio Pulitzer (uno schiaffo per Obama), e che lui stesso – il “soffiatore di fischietto” – abbia trovato riparo «non in un’Europa che promette nella sua Carta la “libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera”, ma nella Russia di Putin».Raggruppati in un’Unione che non ha niente da dire in politica estera – né sull’Ucraina, né sul Mediterrano, né sull’alleanza con gli Usa – i governi europei «s’aggirano sul palcoscenico del mondo come inebetiti», scrive Barbara Spinelli: «Si atteggiano a sovrani, ma hanno dimenticato cosa sia una corona, e cosa uno scettro». L’ossessione? E’ fare affari, ma dei mercati «continuano a ignorare le incapacità, pur avendole toccate con mano». Così, «s’aggrappano a un’Alleanza atlantica per nulla paritaria», dominata dalla superpotenza americana ormai in declino, «che proprio per questo tende a riprodurre in Europa il vecchio ordine bipolare, russo-americano, lascito della guerra fredda». Ignari di un mondo che attorno a loro sta mutando, «sono anni che gli europei dormono». Infatti «non c’è evento, non c’è trattativa internazionale che li veda protagonisti». Lo si vede ovunque: nella crisi di Kiev, nel Trattato Transatlantico, nello scandalo-Nsa rivelato da Snowden. «Sono tre prove essenziali, e l’Unione le sta fallendo tutte».
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Renzi e il carisma pericoloso di chi non tollera la verità
Sembra impossibile, ma è così. Ogni volta che il nostro paese riscopre il fascino cupo del carisma come extrema ratio, è lì che ritorna, alla velocità della luce: a quell’archetipo tossico che contrappone l’Azione al Pensiero. Il Demiurgo al Riflessivo. Il Fare al Pensare. E addita nell’“intellettuale” il nemico della Patria. Il pedagroso posapiano che rallenta gli arditi. L’ostacolo pignolo al radioso futuro che il piè veloce Achille promette e manterrà. E’ successo una trentina di anni fa con Craxi, nel momento in cui la Prima Repubblica entrava nella sua fase comatosa (ricordate l’invettiva contro gli «intellettuali dei miei stivali»?). E si è ripetuto una ventina di anni or sono, con Berlusconi, quando nacque (male, malissimo) la cosiddetta Seconda Repubblica, nell’odore di fango e nella marcia trionfale dei media. Era successo, con aspetti ben più tragici, quasi un secolo or sono, con la crisi dello Stato liberale e l’avvento del mussolinismo. Succede oggi – si parva licet – con Matteo Renzi, al suo esordio come improbabile salvatore della patria.Ogni volta si è assistito all’esibizione dello stesso lessico, con poche variazioni. E chi richiamava all’opportunità di soffermarsi sulla problematicità dell’accadere, sulla sua complessità non riducibile con le parole magiche, è stato liquidato con una catena di termini che vanno dal postbellico “disfattista” e “imbelle”, al denigratorio “insulso” («insulso intellettuale» fu la formula con cui Mussolini invitò il prefetto di Torino a perseguitare Gobetti) ai più didattici «professoroni» o «professorini» (in qualche caso «professorucoli»), all’enfatico «Soloni» o «sapientoni», oltre i quali la creatività dei critici della critica non sa andare. Né la cosa stupisce. Fa parte dell’ordine delle cose il fastidio per la fatica del pensiero e l’affidamento all’uomo che risolve, tanto più quando non s’intravvedono soluzioni possibili.Quello che può incuriosire, piuttosto, è l’estensione della ragnatela oggi, che giunge a lambire figure che si credevano esenti da queste folgorazioni sulla via del Nazareno: non più i soliti Feltri e Belpietro, se possibile i meno aggressivi per esaurimento delle batterie, ma i Gramellini, i Menichini, le ministreboschi, gli editorialisti dell’“Unità” e di “Europa”, gli spin doctor di complemento del Tg3, su lunghezze d’onda non dissimili dai vari Gasparri (memorabile per volgarità la sua mimica sulla lunghezza delle parrucche di Zagrebelsky e Rodotà, ma non molto diversa da quella del vicedirettore della “Stampa” sulle «vecchie cinture di castità»…), tutti ad accanirsi contro l’intellettuale frenatore, il disincantato disincantatore, lo scettico blu che spegne i sogni, il fastidioso acribioso che cerca sempre il pel nell’uovo alla mensa dei giganti…Non è il carisma guerriero del Benito Mussolini delle origini, uscito dalle tempeste d’acciaio e dalle trincee di fango. E nemmeno quello del Craxi rapinatore di passo (Ghino di Tacco), fondato sul ricorso a una spregiudicatezza inedita nella storia della sinistra italiana nell’assalto alle banche e alle diligenze. O il carisma proprietario e genitale del Berlusconi re del video e delle veline finalmente spogliate. Il suo sembra più il carisma virtuale – e impalpabile — della vertigine. Il trauma della velocità come metafora (e surrogato) dell’energia e come tecnica di convincimento. L’essere ogni volta altrove, rispetto al luogo dei problemi, così da apparirne il solutore (e il salvatore). E’, in fondo, a ben guardare, la tecnica dell’illusionista. Il segreto del prestige, inteso come gioco di prestigio, in cui la rapidità del movimento e l’uso del diversivo – del gesto che distoglie l’attenzione – sono la chiave del successo, e permettono a chi sta sul palco di conquistare la dedizione del pubblico pagante.Renzi in questo è maestro: fa comparire, e subito dopo scomparire, la legge elettorale, una volta verificato che di lì non si passa, subito sostituita, coniglio dal cilindro, dal Jobs Act e dalle slides, esibendo gli 80 euro in busta paga mentre scompaiono in un foulard viola pezzi di sistema sanitario e di servizi sociali o interi blocchi di patrimonio pubblico avviati alla privatizzazione. Dice di aver abolito le Province, come promesso, e quelle se ne stanno sempre lì, intatte sotto il tappeto porpora del tavolo, non più elettive ma pur sempre integre. Prepara la Grecia, ma sembra la Germania. Finge un batter di pugni mentre in realtà batte i tacchi. Ma non importa, gli occhi sognanti del pubblico sono persi nel volo di colombe e guai a chi, restando fermo nel vertiginoso movimento, scruta sotto il mantello per cogliere il trucco. L’odiato intellettuale è odiato per questo. Perché minaccia di svelare il prestige. Di disincantare l’illusione. Nemico condiviso di tutti gli spettatori che, incapaci di partecipare alla soluzione del problema, preferiscono vedersi rappresentata la materializzazione della speranza. La sua filosofia è pericolosa, come lo fu l’occhio ingenuo del bambino che rivelava la nudità del re. Passerà probabilmente, come tutte le infatuazioni. Ma intanto sarà dura.Sembra impossibile, ma è così. Ogni volta che il nostro paese riscopre il fascino cupo del carisma come extrema ratio, è lì che ritorna, alla velocità della luce: a quell’archetipo tossico che contrappone l’Azione al Pensiero. Il Demiurgo al Riflessivo. Il Fare al Pensare. E addita nell’“intellettuale” il nemico della Patria. Il pedagroso posapiano che rallenta gli arditi. L’ostacolo pignolo al radioso futuro che il piè veloce Achille promette e manterrà. E’ successo una trentina di anni fa con Craxi, nel momento in cui la Prima Repubblica entrava nella sua fase comatosa (ricordate l’invettiva contro gli «intellettuali dei miei stivali»?). E si è ripetuto una ventina di anni or sono, con Berlusconi, quando nacque (male, malissimo) la cosiddetta Seconda Repubblica, nell’odore di fango e nella marcia trionfale dei media. Era successo, con aspetti ben più tragici, quasi un secolo or sono, con la crisi dello Stato liberale e l’avvento del mussolinismo. Succede oggi – si parva licet – con Matteo Renzi, al suo esordio come improbabile salvatore della patria.
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Fuga da Sel, poltrone senza gloria per post-bertinottani
A quanto pare, Sel è prossima alla scissione: una ventina di deputati e tre o quattro senatori si apprestano a lasciare Sel per volare fra le braccia di Renzi, sperando di essere rieletti. Avete capito bene: Renzi, neppure Bersani o Civati: Renzi. Il tutto alla vigilia del voto per le Europee, dove la lista Tsipras lotta sul decimale in più o in meno per prendere il quoziente e salvarsi: il che è l’evidente vigliaccata di gente che pensa solo a mantenersi il cadreghino sotto il sedere. Ma da Gennaro Migliore, non mi aspettavo di meglio. Le alte motivazioni ideali di questa pattuglia di migranti sono facilissime da capire: Sel è in discesa nei sondaggi e lo era già sei mesi fa, ora, se la lista Tsipras fallisce, loro si trovano coinvolti nel naufragio ed il loro potere di contrattazione scende a zero, se, invece, riesce a salvarsi, poi loro non hanno prospettive di rientro, perché la Befana del premio di maggioranza non ci sarebbe e perché lo stesso partito di appartenenza li mollerebbe. Molto meglio passare in tempo al Pd, facendo finta di dare un contributo elettorale a Renzi che ha bisogno come l’aria di non andare sotto il 30%.Non credo che tutto ciò provocherà grandi terremoti elettorali e che questo pattuglione di “cadrega dipendenti” sposterà nulla (sono gli stessi che hanno perso il congresso, e nell’elettorato non li conosce nessuno). Migliore è uno che, se ci fosse il voto di preferenza, prenderebbe sette voti, compreso quello della madre, del fratello e del portiere di casa (e del portiere non sono neanche troppo sicuro). Ma la scissione può spostare quello 0,1% che fa la differenza fra il prendere e il non prendere il quoziente. Questo è il prodotto della selezione dei gruppi dirigenti di partito e parlamentari nell’area della cosiddetta sinistra radicale (cose anche peggiori potremmo dire di Rifondazione, tanto per fare un esempio) che fanno emergere regolarmente una casta di arrivisti, incapaci e opportunisti. E di questo, nel caso di Sel, la colpa ricade tutta su Nichi al quale, peraltro, non perdoneremo mai di averci rifilato un bidone come la Boldrini.E questo, a sua volta, è il riflesso delle scelte che stanno alla base della nascita di Sel che avrebbe potuto essere il punto di riferimento della sinistra libertaria, ma non ha saputo e voluto esserlo. In primo luogo, aver lasciato decadere la discriminante anticapitalistica, per una forza politica che veniva dalla costola di un partito comunista era una scelta che comportava lo svuotamento di una identità non riempita da altro che formule generiche ed ambigue. Ma più in generale, il progetto virò immediatamente verso quello del comitato elettorale di supporto al leader in vista del miraggio della nomination della sinistra per la Presidenza del Consiglio. Nichi non dedicò alcuno sforzo a costruire il partito né dal punto di vista organizzativo, né da quello della cultura politica. Tutto venne sostituito dal ruolo carismatico suo personale, a sua volta retto solo dalla sua capacità affabulatoria di grande retore della politica.Ho un ricordo personale in proposito: sono più vecchio di Nichi di otto anni e, quando lui aveva 17-18 anni ed iniziava a muovere i primi passi in assemblea, io ne ero già buon frequentatore. Ricordo che un bel giorno, in assemblea interviene un giovanotto sconosciuto che fa un intervento rutilante di metafore, ricco di preterizioni, grondante metonimie ed audacie stilistiche varie. Alla fine commentai: «Come parla bene!!! Che ha detto?». Sel è stata in piedi in questi anni sulla capacità retorica di Nichi e sull’aspettativa della sua ascesa a Palazzo Chigi. Ma il periodo di grazia è durato poco: il 14 dicembre 2010 fu chiaro che non si sarebbe votato nell’anno successivo e che, di conseguenza, le primarie sarebbero slittate indefinitamente. Poi, nell’estate 2011, successero due cose: la crisi riprese con ogni evidenza e Nichi non disse una sola parola in proposito. So che Nichi capisce di economia e finanza come di dialetti tibetani – e va bene, ma se aspiri a fare il presidente del Consiglio non ti puoi permettere di queste ignoranze – e quel lungo silenzio iniziò a logorarlo.Nello stesso tempo, iniziò l’implacabile ascesa di Renzi che assorbì buona parte delle Fabbriche di Nichi. Quando si arrivò alle primarie, nell’autunno 2012, Nichi ci arrivò spompato e racimolò uno scarso 15%, che era più o meno la stessa percentuale presa a suo tempo da Bertinotti. Ancora per tutto il 2012 i sondaggi accreditavano Sel di un grasso 6% (dopo i picchi dell’8 o 9% dell’anno prima) ma alle elezioni del 2013 Sel è andata sotto il 4% ed è stata graziata solo dalla partecipazione alla coalizione vincente. Trentasette deputati, ma disegno politico zero. Si capisce che da quel momento inizia a balenare nella mente dei neoeletti l’idea di migrare verso lidi più caldi e sicuri. Il tentativo di convenzione della sinistra (il cantiere dell’11 maggio) cadde presto nel vuoto ed all’invito non si presentò quasi nessuno. Anche la Fiom, un tempo vicina a Sel, iniziò a pencolare fra M5S e Pd renziano.Nichi aveva perso un’altra occasione: avrebbe potuto fare lui la Linke italiana, ma avrebbe dovuto farlo fra il 2011 ed il 2012. Glielo ha impedito la sua vivace antipatia per Ferrero: possiamo facilmente capirlo, ma in politica bisogna saper passare sulle antipatie personali e privilegiare i disegni di lungo periodo. Poi sono venuti gli infortuni tarantini che ne hanno minato l’immagine irrimediabilmente. E Sel si avvia al capolinea. Ciò nonostante, penso che la Lista Tsipras meriti di farcela e vada sostenuta. Come sapete io voterò M5S, ma se – come nel sistema australiano – avessi un secondo voto, sicuramente sarebbe per la Lista Tsipras. Non ho questa possibilità, però posso fare qualcosa da questo blog per sostenerla. Penso a tutti i militanti del Pd con il mal di pancia. Un voto a questa lista può essere un ottimo antidoto alla deriva renziana e può rafforzare le opposizioni interne, che invece uscirebbero scoraggiate e marginalizzate da una sconfitta di quella lista. Cari amici e compagni della sinistra Pd, pensateci. E anche voi “grillini delusi”, che non volete più saperne di votare M5S: va bene, è una scelta che rispetto, ma il vostro voto naturale è questo, non quello al Pd. Pensateci anche voi.(Aldo Giannuli, “Sinistra e Libertà si spacca: non mi sorprende, comunque auguri alla Lista Tsipras”, dal blog di Giannuli del 1° maggio 2014).A quanto pare, Sel è prossima alla scissione: una ventina di deputati e tre o quattro senatori si apprestano a lasciare Sel per volare fra le braccia di Renzi, sperando di essere rieletti. Avete capito bene: Renzi, neppure Bersani o Civati: Renzi. Il tutto alla vigilia del voto per le Europee, dove la lista Tsipras lotta sul decimale in più o in meno per prendere il quoziente e salvarsi: il che è l’evidente vigliaccata di gente che pensa solo a mantenersi il cadreghino sotto il sedere. Ma da Gennaro Migliore, non mi aspettavo di meglio. Le alte motivazioni ideali di questa pattuglia di migranti sono facilissime da capire: Sel è in discesa nei sondaggi e lo era già sei mesi fa, ora, se la lista Tsipras fallisce, loro si trovano coinvolti nel naufragio ed il loro potere di contrattazione scende a zero, se, invece, riesce a salvarsi, poi loro non hanno prospettive di rientro, perché la Befana del premio di maggioranza non ci sarebbe e perché lo stesso partito di appartenenza li mollerebbe. Molto meglio passare in tempo al Pd, facendo finta di dare un contributo elettorale a Renzi che ha bisogno come l’aria di non andare sotto il 30%.
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Gli imbecilli del golpe nazista in un paese pieno di russi
«Io sono russa, noi non odiamo ucraini, noi odiamo fascismo, perché non c’è una famiglia russa che non ha perso familiari nella Seconda guerra mondiale (anche io tre fratelli di mio nonno). Ora Pravy Sektor, Settore Destro, fa strage di innocenti in Ucraina, col consenso di Ue e America!» (Svetlana, commento su Facebook). Chiunque abbia organizzato a tavolino il golpe in Ucraina è un imbecille. Le menti raffinatissime che pianificano con mesi di anticipo i colpi di Stato, che decidono chi contattare, chi spingere, chi armare, a chi consegnare poi il potere, ebbene costoro non hanno letto neppure un libro di storia di terza media. In che mani è il pianeta. Se si fossero degnati di chinarsi su un bignamino di storia recente per un paio d’ore, questi geni che decidono le sorti del mondo probabilmente non avrebbero fatto la cazzata di consegnare un paese pieno di russi in mano a dei nazisti.Magari avrebbero usato, per il loro cambio di governo eterodiretto con finta rivoluzioncina annessa, il partito cattolico, o quello filoeuropeo, o i repubblicani, i liberali, gli ambientalisti, insomma chiunque altro. Ma non i fascisti. Perché anche un tredicenne sa che i russi combatteranno sempre i nazisti e i fascisti fino al loro ultimo respiro. Come spiega più sopra Svetlana con la massima semplicità, qui si tratta di famiglie, di nonni e zii, di dieci milioni di morti ammazzati in un tempo ancora troppo recente perché la ferita sia rimarginata. Davanti a un saluto nazista o a una svastica un russo reagisce, specialmente se costoro pensano di comandare in casa sua.Pianificare un golpe in questo modo è da idioti completi. A meno che non desiderassero ardentemente una guerra civile nel cuore dell’Europa, o peggio un intervento russo, hanno commesso l’ennesimo errore strategico. Frutto, ancora una volta, di ignoranza mista a supponenza e a pretesa superioritá, che finiscono col creare il solito inestricabile casino. Certa gente, altro che destino manifesto: manifesta incapacitá. Levateje er fiasco, e levateli dalla stanza dei bottoni prima possibile.(Debora Billi, “Ucraina, Odessa: pianificano golpe senza aver letto i libri di storia”, dal blog “L’Estremista” del 3 maggio 2014).«Io sono russa, noi non odiamo ucraini, noi odiamo fascismo, perché non c’è una famiglia russa che non ha perso familiari nella Seconda guerra mondiale (anche io tre fratelli di mio nonno). Ora Pravy Sektor, Settore Destro, fa strage di innocenti in Ucraina, col consenso di Ue e America!» (Svetlana, commento su Facebook). Chiunque abbia organizzato a tavolino il golpe in Ucraina è un imbecille. Le menti raffinatissime che pianificano con mesi di anticipo i colpi di Stato, che decidono chi contattare, chi spingere, chi armare, a chi consegnare poi il potere, ebbene costoro non hanno letto neppure un libro di storia di terza media. In che mani è il pianeta. Se si fossero degnati di chinarsi su un bignamino di storia recente per un paio d’ore, questi geni che decidono le sorti del mondo probabilmente non avrebbero fatto la cazzata di consegnare un paese pieno di russi in mano a dei nazisti.
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Odio nucleare: era Israele il peggior nemico di Kennedy
Natural born killers, assassini nati. Tesi più che ardita, ma storicamente supportata da prove: cinque diversi primi ministri israeliani, prima di approdare alla politica, si erano fatti le ossa nel terrorismo sionista, firmando omicidi e stragi, per poi passare al Mossad. Perché mai non avrebbero potuto organizzare proprio loro l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, ovvero il più grande mistero irrisolto – dopo cinquant’anni – nella storia americana del secolo scorso? Se lo domanda Said Alami su “Rebelion”, citando nuovi dossier desecretati e libri-denuncia come “Final Judgment, the Missing Link in the Jfk assassination controversy”, del giornalista investigativo Michael Collins Piper. La tesi esplora un possibile movente: la centrale nucleare semi-clandestina che Israele stava allora costruendo a Dimona, nel deserto del Neghev, con tecnologia francese. Kennedy, molto contrariato, fece scendere il gelo sui rapporti con Tel Aviv. Ma non aveva calcolato che la Cia – con la quale era in guerra – era largamente infiltrata dal Mossad.La teoria secondo sui sarebbe stata proprio la Cia ad assassinare Kennedy si basa sulla profonda inimicizia che regnava tra Jfk e l’intelligence, dopo che il presidente si era rifiutato di sostenere militarmente l’agenzia durante l’invasione della Baia dei Porci nel 1963, fallita poi miseramente, causando il rafforzamento del regime rivoluzionario di Fidel Castro a Cuba. Stanco degli eccessi della Cia, Kennedy confidò al suo collaboratore Clark Clifford di voler smantellare la Cia in mille pezzi. E Israele, attraverso i suoi uomini nell’agenzia di Langley, era a conoscenza di questi rapporti di tensione tra Kennedy e l’intelligence, scrive Alami in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. Possibile manovalanza dell’omicidio messo a segno a Dallas il 22 novembre 1963, la vasta rete criminale facente capo al gangster Meyer Lansky, boss della potentissima mafia ebraica negli Usa, anch’essa in stretto collegamento col servizio segreto israeliano.Le tensioni tra Usa e Israele cominciano tre anni prima dell’omicidio Kennedy, nel 1960, quando già il presidente uscente, Eisenhower, chiede spiegazioni al premier israeliano Ben Gurion sul misterioso impianto di Dimona, in pieno deserto. Gli israeliani mentono, sostenendo che si tratta di una innocua fabbrica tessile. La Cia però indaga fino a ottenere fotografie dell’installazione, classificate “top secret” ma poi pubblicate in prima pagina sul “New York Times”. Quando si insedia Kennedy, il 20 gennaio 1961, il caso Dimona è ormai diventato «un’autentica bomba a orologeria nelle relazioni fra Tel Aviv e Washington», ricorda Alami. La Casa Bianca aumenta le pressioni, e ottiene la prima ammissione: l’impianto in effetti è nucleare, ma “per scopi pacifici”. Kennedy allora rifiuta di invitare Ben Gurion a Washington, così il premier israeliano – per allentare la tensione – autorizza un’ispezione di due scienziati statunitensi, Ulysses Staebler e Jess Croach, che in un rapporto confermano la versione israeliana: Dimona non è un impianto militare. Questo sblocca il veto di Kennedy, che finalmente incontra Ben Gurion il 30 maggio e si fa promettere che Israele consentirà agli Usa (che non si fidano dell’alleato mediorientale) un monitoraggio costante dell’installazione.«Nei due anni successivi al colloquio, però – scrive Alami – la volpe israeliana non mantenne le promesse». Così, Kennedy si spazientisce e il 13 maggio 1963 intima a ben Gurion di riaprire alle ispezioni il sito di Dimona, pena l’isolamento mondiale di Israele. Per tutta risposta, Ben Gurion si dimette da primo ministro. A metà giugno, Jfk rivolge lo stesso ultimatum al successore di Ben Gurion, Levi Eshkol. Ed è qui – suggerisce Said Alami – che forse nasce il cambio radicale di strategia: far fuori il presidente-nemico, con l’aiuto della Cia. Il curriculum dei premier israeliani non è certo rassicurante, aggiunge Alami, ricordando le responsabilità della leadership di Tel Aviv nell’attività terroristica condotta per anni in Palestina, dalla pulizia etnica contro la popolazione civile agli attentati per colpire il protettorato britannico e ottenere lo status di paese indipendente.Ben Gurion, padre dello Stato di Israele, è responsabile di genocidio contro i civili palestinesi: il leader sionista fondò il primo gruppo armato, Hashomer, già nel 1909. Il suo successore al governo di Tel Aviv, Levi Eshkol, era uno dei capi dell’Haganah, organizzazione terroristica generata da Hashomer. Entrambi erano considerati «due criminali», peraltro «reclamati negli anni ’30 e ’40 dalla polizia britannica in Palestina e nel resto del mondo per i loro numerosi omicidi e attentati», ricorda Alami. Terzo illustre terrorista e futuro primo ministro di Israele è Yitzhak Shamir: era membro del gruppo terroristico ebraico Irgun e poi del gruppo Lehi, altra organizzazione terroristica in Palestina. Quando Eshkol diventò primo ministro, Shamir era a capo del comando omicidi del Mossad, dove ha servito dal 1955 al 1965, periodo in cui risiedeva per la maggior parte del tempo a Parigi, sede europea del Mossad.«Shamir serviva il Mossad, tra le altre cose, per eseguire l’Operazione Damocle, operazione in cui vennero uccisi vari scienziati tedeschi trasferiti in Egitto dopo la Rivoluzione degli Ufficiali Liberi in Egitto nel 1952 e l’arrivo al potere di Nasser», continua Alami. L’elenco prosegue col nome del quarto uomo, Menachem Beghin, anch’egli prima terrorista e poi premier. Già ricercato dalla giustizia britannica, Begin aveva militato fra i terroristi dell’Irgun fino a diventarne leader nel 1943. «E’ stato colui che ordinò la mattanza all’Hotel Rey David, a Gerusalemme, nel 1946, dove morirono 91 persone». Due anni più tardi, aggiunge Alami, 132 terroristi di Irgun, comandati proprio da Begin, furono protagonisti della famosa strage di Deir Yasin, in cui vennero assassinate centinaia di persone in due villaggi palestinesi, donne e bambini compresi. E’ dimostrato, dice Alami, che proprio Beghin abbia incontrato un gangster della mafia ebraica statunitense due settimane prima dell’omicidio di Kennedy: si tratta di Micky Cohen, uomo di fiducia di Meyer Lansky nella West Coast. Secondo Collins Piper, fu proprio Cohen a reclutare un altro ebreo, Jack Rubenstein, meglio conosciuto come Jack Ruby, per assassinare Lee Harvey Oswald, l’uomo accusato di essere l’autore materiale dell’omicidio di Dallas.Dalla ricostruzione, tacciata di “antisemitismo” dall’epoca dell’uscita del libro di Collins Pipier, negli anni ‘90, non si salva neppure il quinto futuro premier israeliano, il coraggioso Yitzhak Rabin, protagonista della storica pace con Arafat (gli accordi di Oslo del 1993) che gli valsero il Premio Nobel per la Pace ma anche la “condanna a morte”, eseguita nel ‘95 da un colono ebreo estremista. La notizia è che Rabin si trovava a Dallas il giorno dell’omicidio Kennedy. «Non sarebbe proprio una coincidenza – sostiene Alami – tenendo conto del fatto che anche Rabin lavorava per il Mossad». Collins Pipier ipotizza che proprio Rabin, in veste di giornalista, abbia intervistato Jack Ruby il giorno prima dell’assassinio di Oswald nel quartier generale della polizia di Dallas. Anche il dossier di Said Alami mette in luce un clamoroso intreccio di potenti uomini d’affari americani collegati a Israele, al Mossad, alla Cia e alla criminalità ebraica negli Usa. «In realtà, la teoria che Israele stia dietro all’omicidio Kennedy non è né nuova né strana», ammette Alami. La “notizia”, semmai, è che Washington e i media l’hanno semplicemente dimenticata. Magico potere della mitica “lobby ebraica” che presidia Wall Street? Una cosa è certa: i tempi in cui la Casa Bianca osa fare la voce grossa con Israele, pretendendo trasparenza, sono finiti esattamente cinquant’anni fa, nella stessa tomba di Kennedy.Natural born killers, assassini nati. Tesi più che ardita, ma storicamente supportata da prove: diversi primi ministri israeliani, prima di approdare alla politica, si erano fatti le ossa nel terrorismo sionista, firmando omicidi e stragi, per poi passare al Mossad. Perché mai non avrebbero potuto organizzare proprio loro l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, ovvero il più grande mistero irrisolto – dopo cinquant’anni – nella storia americana del secolo scorso? Se lo domanda Said Alami su “Rebelion”, citando nuovi dossier desecretati e libri-denuncia come “Final Judgment, the Missing Link in the Jfk assassination controversy”, del giornalista investigativo Michael Collins Piper. La tesi esplora un possibile movente: la centrale nucleare semi-clandestina che Israele stava allora costruendo a Dimona, nel deserto del Neghev, con tecnologia francese. Kennedy, molto contrariato, fece scendere il gelo sui rapporti con Tel Aviv. Ma non aveva calcolato che la Cia – con la quale era in guerra – era «largamente infiltrata dal Mossad».