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Magaldi: se gli Usa concedessero la grazia a Julian Assange
«Gli Stati Uniti concedano la grazia a Julian Assange, vittima di una vera e propria persecuzione». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, interviene sul caso del giornalista australiano, creatore di WikiLeaks tuttora in carcere nel Regno Unito, in attesa di essere estradato negli Usa. «Se le rivelazioni di WikiLeaks sulle nefandezze commesse dal potere militare non hanno causato vittime – precisa Magaldi, in video-chat su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” – sarebbe bene che le autorità statunitensi mettessero fine a questa tormentata vicenda, graziando Assange». Secondo Magaldi, va comunque tenuto conto che i “leaks” diffusi da Assange potrebbero aver messo in pericolo operatori dell’intelligence, svelandone l’identità. «Inoltre – aggiunge Magaldi – la denuncia di Assange si è concentrata esclusivamente sugli Usa, ignorando le analoghe scorrettezze commesse da paesi come la Russia e la Cina: di questo, dovrebbe essere lo stesso Assange a scusarsi pubblicamente». Oltretutto, «solo un’assoluta imparzialità rende più autorevole la fonte, che viceversa potrebbe essere accusata di aver fatto il gioco di qualcuno».Tutto questo, ribadisce Magaldi, «nulla toglie alla grandezza dell’opera di Assange, che ha disvelato, all’opinione pubblica occidentale, l’incorenza di chi si ammanta della retorica democratica». Meglio ancora sarebbe stato se Assange avesse prodotto analoghe rivelazioni «su chi non tenta neppure di apparire rispettoso dei diritti e dei valori della democrazia». Tra i più accesi difensori di Assange, un reporter di razza come Paolo Barnard, un anno fa sistematosi sotto le finestre dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra per reclamarne la liberazione. Al momento del primo arresto, anche Barnard aveva manifestato riserve: mettere in piazza nomi e cognomi, inclusi quelli di tanti 007, può mettere in serio pericolo operatori “coperti”, impegnati sul terreno e non per forza coinvolti in operazioni inaccettabili. Poi però, di fronte alla clamorosa persecuzione riservata ad Assange – con casi giudiziari costruiti a tavolino – Barnard ha cambiato posizione: picchiare duro su Assange, ormai è chiaro, serve a minacciare indirettamente tutti i giornalisti che fossero intenzionati a fare il loro mestiere onestamente.«Colpirne uno per educarne cento», sintetizza Massimo Mazzucco, in web-streaming con Giulietto Chiesa su “Contro Tv”. «Il messaggio è chiaro: guai a chi prova a mettersi di traverso». Mazzucco e Chiesa prendono nota: gli Usa non esitano ad assassinare il numero due dell’Iran, Qasem Soleimani, poi tacciono sui raid arei di Israele in Siria (che hanno costretto un volo civile a un atterraggio d’emergenza) e applaudono – a Camere riunite – il presidente Trump che presenta come «unico e vero presidente legittimo del Venezuela» l’oscuro Juan Guaidò. «E’ stato il loro “uomo di paglia” scelto per rovesciare Maduro. Non ha funzionato, ma insistono ugualmente: tutti devono sapere che Washington ci riproverà, non tollerando che il suo potere venga sfidato». Quanto ad Assange, la sua sorte sembra segnata. «Un giornalista del “Guardian” – scrisse Barnard, un anno fa – mi ha confidato che l’ordine, in redazione, era di dimenticare Assange e abbandonarlo al suo destino». Oggi, Magaldi (che pure contesta al fondatore di WikiLeaks di non esser stato impeccabile) insiste: meglio sarebbe se si intavolasse un dialogo chiarificatore onesto. E sarebbe un gran gesto, da parte di Trump, concedere la grazia a Julian Assange.«Gli Stati Uniti concedano la grazia a Julian Assange, vittima di una vera e propria persecuzione». Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, interviene sul caso del giornalista australiano, creatore di WikiLeaks tuttora in carcere nel Regno Unito, in attesa di essere estradato negli Usa. «Se le rivelazioni di WikiLeaks sulle nefandezze commesse dal potere militare non hanno causato vittime – precisa Magaldi, in video-chat su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” – sarebbe bene che le autorità statunitensi mettessero fine a questa tormentata vicenda, graziando Assange». Secondo Magaldi, va comunque tenuto conto che i “leaks” diffusi da Assange potrebbero aver messo in pericolo operatori dell’intelligence, svelandone l’identità. «Inoltre – aggiunge Magaldi – la denuncia di Assange si è concentrata esclusivamente sugli Usa, ignorando le analoghe scorrettezze commesse da paesi come la Russia e la Cina: di questo, dovrebbe essere lo stesso Assange a scusarsi pubblicamente». Oltretutto, «solo un’assoluta imparzialità rende più autorevole la fonte, che viceversa potrebbe essere accusata di aver fatto il gioco di qualcuno».
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L’influenza stagionale uccide 1.000 volte più del coronavirus
Se il coronavirus si rivela grave, poiché al momento non sembra esserlo, molte economie potrebbero essere influenzate negativamente. La Cina è la fonte di molte parti fornite ai produttori di altri paesi e la Cina è la fonte dei prodotti finiti di molte aziende statunitensi come Apple. Se non è possibile effettuare spedizioni, le vendite e la produzione al di fuori della Cina ne risentono. Senza entrate, i dipendenti non possono essere pagati. A differenza della crisi finanziaria del 2008, si tratterebbe di una crisi di disoccupazione e di un fallimento delle grandi società manifatturiere e commerciali. Questo è il pericolo a cui il globalismo ci rende vulnerabili. Se le società statunitensi producessero negli Stati Uniti i prodotti che commercializzano negli Stati Uniti e nel mondo, un’epidemia in Cina influenzerebbe solo le loro vendite cinesi, non minaccerebbe i ricavi delle società. Le persone sconsiderate che hanno costruito il “globalismo” hanno trascurato che l’interdipendenza è pericolosa e può avere enormi conseguenze indesiderate. Con o senza un’epidemia, le forniture possono essere tagliate per una serie di motivi. Ad esempio, scioperi, instabilità politica, catastrofi naturali, sanzioni e altre ostilità come guerre e così via.Chiaramente, questi pericoli per il sistema non sono giustificati dal minor costo del lavoro e dalle conseguenti plusvalenze per gli azionisti e bonus per i dirigenti aziendali. Solo l’uno per cento beneficia del globalismo. Il globalismo è stato costruito da persone motivate dall’avidità a breve termine. Nessuna delle promesse del globalismo è stata mantenuta: il globalismo è un errore enorme. Tuttavia, quasi ovunque i leader politici e gli economisti sono protettivi nei confronti del globalismo. Questo per quanto riguarda l’intelligenza umana. A questo punto, è difficile comprendere l’isteria sul coronavirus e le previsioni della pandemia globale. In Cina ci sono circa 24.000 infezioni e 500 morti in una popolazione di 1,3 miliardi di persone. Questa è una malattia insignificante. Rispetto alla normale influenza stagionale che infetta milioni di persone in tutto il mondo e uccide 600.000, il coronavirus finora non equivale a nulla. Le infezioni al di fuori della Cina sono minuscole e sembrano essere limitate ai cinesi. È difficile sapere con certezza, a causa della riluttanza a identificare le persone per razza. Eppure la Cina ha vaste aree in quarantena e i viaggi da e verso il paese sono limitati.Nulla di simile a queste precauzioni è preso contro l’influenza stagionale. Finora questa stagione influenzale nei soli Stati Uniti 19 milioni di persone sono state ammalate, 180.000 ricoverate in ospedale e 10.000 sono morte. L’ultimo rapporto è che 16 persone negli Stati Uniti (forse tutti cinesi) hanno avuto il coronavirus, e nessuno è morto. Forse il coronavirus si sta appena scaldando e molto peggio deve arrivare. In tal caso, il Pil mondiale subirà un colpo. Le quarantene impediscono il lavoro. I prodotti e le parti finiti non possono essere realizzati e spediti. Le vendite non possono avvenire senza prodotti da vendere. Senza entrate le aziende non possono pagare dipendenti e altre spese. I redditi diminuiscono in tutto il mondo. Le aziende falliscono. Se scoppia una micidiale pandemia di coronavirus o di qualosa’altro e c’è una depressione mondiale, dovremmo essere molto chiari nella nostra mente che il globalismo ne sarà stata la causa. I paesi i cui governi sono così sconsiderati o corrotti da rendere le loro popolazioni vulnerabili a eventi dirompenti all’estero sono instabili dal punto di vista medico, economico, sociale e politico. La conseguenza del globalismo è l’instabilità mondiale.(Paul Craig Roberts, “La conseguenza del globalismo è l’instabilità mondiale”, dal blog di Craig Roberts del 5 febbraio 2020).Se il coronavirus si rivela grave, poiché al momento non sembra esserlo, molte economie potrebbero essere influenzate negativamente. La Cina è la fonte di molte parti fornite ai produttori di altri paesi e la Cina è la fonte dei prodotti finiti di molte aziende statunitensi come Apple. Se non è possibile effettuare spedizioni, le vendite e la produzione al di fuori della Cina ne risentono. Senza entrate, i dipendenti non possono essere pagati. A differenza della crisi finanziaria del 2008, si tratterebbe di una crisi di disoccupazione e di un fallimento delle grandi società manifatturiere e commerciali. Questo è il pericolo a cui il globalismo ci rende vulnerabili. Se le società statunitensi producessero negli Stati Uniti i prodotti che commercializzano negli Stati Uniti e nel mondo, un’epidemia in Cina influenzerebbe solo le loro vendite cinesi, non minaccerebbe i ricavi delle società. Le persone sconsiderate che hanno costruito il “globalismo” hanno trascurato che l’interdipendenza è pericolosa e può avere enormi conseguenze indesiderate. Con o senza un’epidemia, le forniture possono essere tagliate per una serie di motivi. Ad esempio, scioperi, instabilità politica, catastrofi naturali, sanzioni e altre ostilità come guerre e così via.
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Scienziati: se gli alieni sono tra noi, non riusciamo a vederli
Helen Sharman, chimica e primo astronauta inglese a raggiungere la stazione spaziale Mir nel 1991, ha dichiarato recentemente che possiamo anche andare a cercare gli alieni in mondi lontani, ma in realtà potrebbero già vivere tra noi. E se non riusciamo a identificarli è perché non hanno la forma umanoide che abbiamo sempre immaginato, e soprattutto sono basati su una chimica e una genetica totalmente diverse dalle nostre. Risultato: non riusciamo a vederli. Samatha Rolfe, astronoma e astrobiologa del Bayfordbury Observatory inglese, ritiene che vivano nella biosfera nascosta, quella che sfugge alle nostre ricerche, solo perché non sappiamo come indagare. Sono infatti sicuramente basati su una biochimica completamente diversa dalla nostra. E sono piccolissimi. Sharman ha sollevato un problema annoso.La Nasa ha deciso di investire nell’obbiettivo di trovarli ma cercare altri modi di vivere non è facile, soprattutto se lo si fa basandosi quello che conosciamo già. Noi umani riteniamo che la vita debba avere determinate caratteristiche che i biologi riassumono nell’acronimo Mrsgren (Movement, Respiration, Sensitivity, Growth, Reproduction, Excretion and Nutrition). Ovvero devono muoversi, respirare, essere sensibili, crescere, produrre rifiuti organici e nutrirsi.Questa definizione però può essere contestabile. Tutte queste caratteristiche dovrebbero essere contemporaneamente presenti, ma ci sono casi in cui non lo sono. Una stampante 3d per esempio è in grado di autoriprodursi, ma non è considerabile come un essere vivente. In compenso il mulo, che non può riprodursi perché è sterile è decisamente vivo. Una alternativa che è stata proposta è di definire vivo un sistema chimico che si autosostiene ed è capace di evolversi. Il dibattito che ha appassionato migliaia di scienziati e filosofi per centinaia di anni sta alla base delle ricerche spaziali. Ed effettivamente molti astrobiologi ammettono che potrebbero non essere in grado di riconoscere altri organismi e pensare che un pianeta sia inabitabile quando per altri non lo è. Il Breakthrough Listen Project è il più importante progetto di ricerca di comunicazioni extraterrestri intelligenti. Finanziato con oltre 100 milioni di dollari, collabora con il Seti (Search for Extraterrestrial Intelligence). Usa strutture all’avanguardia ed è la ricerca più avanzata presente fino a oggi. Usa per esempio l’intelligenza artificiale, ma gli antropologi hanno fatto notare che potrebbe essere un errore: viene infatti allenata in base a criteri umani e cerca elementi in base alle nostre previsioni, perché si suppone che il nostro grado di evoluzione corrisponda con elementi che riteniamo universali.Le forme aliene però potrebbero basarsi su tutt’altri criteri, come usare le onde gravitazionali o i neutrini. Per quanto ne sappiamo, dunque, gli alieni potrebbero vivere già sulla Terra. Per esempio potrebbero essere costituiti da silicio, invece che carbonio come siamo noi. Il 90 per cento della Terra è fatto di silicio. C’è quindi parecchia risorsa prima da sfruttare. Il silicio è simile al carbonio e ha 4 elettroni disponibili per formare legami con altri atomi. E’ però più pesante: ha 14 e non 6 protoni. Il carbonio è più flessibile e può creare lunghe catene molecolari. Il silicio non può, è meno stabile. Ma ciò non significa che non possa dare origine a forme di vita, come hanno dimostrato i ricercatori del Caltech che sono riusciti a sintetizzare cellule basate su questo elemento. C’è dunque un’effettiva possibilità che questo possa essere accaduto altrove nell’universo. Se anche li trovassimo, come potremmo sostenere che provengono dallo spazio e non dalla Terra? La Terra è costituita soprattutto da ossigeno, idrogeno e carbonio. Il silicio è immobilizzato e si trova nelle rocce e nei sedimenti. Dunque chi lo usa deve essersi per forza evoluto altrove.La difficoltà nell’individuarli, secondo Rolfe, sta anche nel fatto che sono per l’appunto microscopici. Noi però abbiamo metodi limitati per studiare il mondo a questa scala. Analizziamo solo quelli che possono essere allevati in laboratori e visti in un microscopio. E non abbiamo ancora scoperto tutto quello che c’è sul nostro pianeta. Inoltre possiamo sequenziare per esempio il Dna, ma non è detto che loro lo usino. Anche Zaza Osmanov, astrofisica dell’Università di Tiblisi, Georgia, sostiene che abbiamo perso gli alieni nello spazio a causa delle loro dimensioni. Le loro astronavi potrebbero essere grandi appena un nanometro e potrebbero essere delle sonde di von Neuman, ovvero veicoli che sono in grado di replicarsi. Rolfe però puntualizza: non è detto che siano venuti intenzionalmente a visitarci. Ci sono molte molecole che sono arrivate con i meteoriti, che avrebbero potuto portare anche forme di vita diverse.(”Secondo alcuni scienziati gli alieni potrebbero essere già sulla Terra. Ma non sappiamo vederli. Ecco perché”, da “Msn Notizie” del 4 febbraio 2020).Helen Sharman, chimica e primo astronauta inglese a raggiungere la stazione spaziale Mir nel 1991, ha dichiarato recentemente che possiamo anche andare a cercare gli alieni in mondi lontani, ma in realtà potrebbero già vivere tra noi. E se non riusciamo a identificarli è perché non hanno la forma umanoide che abbiamo sempre immaginato, e soprattutto sono basati su una chimica e una genetica totalmente diverse dalle nostre. Risultato: non riusciamo a vederli. Samatha Rolfe, astronoma e astrobiologa del Bayfordbury Observatory inglese, ritiene che vivano nella biosfera nascosta, quella che sfugge alle nostre ricerche, solo perché non sappiamo come indagare. Sono infatti sicuramente basati su una biochimica completamente diversa dalla nostra. E sono piccolissimi. Sharman ha sollevato un problema annoso.La Nasa ha deciso di investire nell’obbiettivo di trovarli ma cercare altri modi di vivere non è facile, soprattutto se lo si fa basandosi quello che conosciamo già. Noi umani riteniamo che la vita debba avere determinate caratteristiche che i biologi riassumono nell’acronimo Mrsgren (Movement, Respiration, Sensitivity, Growth, Reproduction, Excretion and Nutrition). Ovvero devono muoversi, respirare, essere sensibili, crescere, produrre rifiuti organici e nutrirsi.
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Bifarini: l’Ue “guarisce” solo con un New Deal rooseveltiano
Nel mio libro “Inganni economici” parlo di un fenomeno preciso, la “divinizzazione dell’economia”, in base al quale i postulati economici diventano dogmi, e le previsioni profezie. L’inganno principale è credere che l’economia sia una scienza esatta come la matematica. Oggi, un modello economico (valido, forse, in alcune circostanze) viene fatto passare per una legge universale. E’ la logica del “there is no alternative”, non c’è alternativa: il principio con il quale ci è stata propugnata l’austerity. Da questo concetto discendono tanti luoghi comuni. Come la convinzione che la disuguaglianza sociale alla lunga possa portare alla crescita e che le riforme strutturali siano la panacea di tutti i mali, quando spesso si traducono in riduzioni dei salari e dei diritti dei lavoratori e possono addirittura aumentare la disoccupazione nel breve periodo, in una situazione di crisi della domanda quale quella stiamo vivendo oggi. A Davos la Merkel ha detto che la Grecia sarebbe tornata a crescere? Ci vuole un grande coraggio per parlare di successo sulla Grecia. Anzi, è una frase che nasconde una profonda mancanza di sensibilità per il lato umano del dramma greco.E non parlo solo di disoccupazione giovanile inaccettabile, del Pil caduto del 25%, del debito pubblico che dopo la cura della Troika era arrivato al 180%. A causa dei tagli nel settore sanitario in Grecia si è assistito addirittura ad aumento di casi di Hiv, e al ritorno della malaria. L’errore che si fa quando si disumanizza l’economia è non pensare al paese reale: per valutare lo stato di salute di un paese occorre guardare all’occupazione, alle sue imprese, agli investimenti interni, al livello di equità e a quanto la crescita non sia legata a fattori endogeni e contingenti. E sotto questi punti di vista la situazione non è ancora così rosea come si vuol far credere. Intanto, la locomotiva tedesca rallenta vistosamente. La Germania è uno dei paesi più in crisi in questo periodo: la crescita è timidissima, ha sfiorato la recessione tecnica. E’ l’emblema di un modello fallimentare, quello neomercantilista, tutto basato sull’export. Non è solo una crisi industriale, ma anche sociale: è vero che hanno un basso tasso di disoccupazione, ma scontano un alto livello di “working poors”, lavoratori precari e con salari molto bassi. Troppo rigore e pochi investimenti. Per questo la Germania potrebbe implodere su se stessa. Una fragilità tanto più marcata, nel momento in cui Donald Trump, siglato l’accordo con la Cina, adopera lo strumento dei dazi come arma di ricatto in chiave antieuropea.Anche la salute bancaria tedesca non fa ben sperare. Deutsche Bank è uno degli istituti che da tempo ha un problema di sofferenze bancarie e ha subito già dei declassamenti da parte delle agenzie di rating. Pare abbia derivati per oltre 14 volte il Pil della Germania, di cui un alto quantitativo ritenuti tossici. Se la situazione dovesse precipitare, il contagio potrebbe diffondersi, a catena, sulla stabilità dei mercati europei. Quale futuro prevedo per l’Eurozona? Sui tempi non sono ottimista, ma per forza di cose dovrà esserci un cambiamento radicale. Ci sono dei segnali di apertura, anche se restano fazioni di resistenza interne, dovuti agli adoratori dell’austerity, che come cultori di una religione continuano a spingere per un modello economico sbagliato. Il peccato originale dell’Unione Europea? Il problema fondamentale è che la moneta unica è stata anteposta al percorso di integrazione politica e fiscale, che di fatto non c’è ancora. È come costruire un palazzo senza partire dalle fondamenta. Questo rappresenta un handicap di partenza pesantissimo. La crisi del 2008 è nata negli Usa, ma dagli Usa è stata superata, a differenza dell’Europa, che è rimasta ingabbiata nelle sue regole. Dunque le alternative sono due: o una rottura totale, che è alquanto improbabile, oppure continuare il processo di integrazione.Ultimamente c’è chi pensa che la via ambientale possa essere una valida via d’uscita. Larry Fink, il capo del più grande fondo d’investimento mondiale, BlackRock, sostiene che il “climate change” cambierà per sempre il volto della finanza. L’ambientalismo potrebbe essere la leva del cambiamento, l’innesco che ci costringerà a rivedere l’attuale modello economico. Inoltre può essere un incentivo a rivedere tante assurdità di questo sistema, come le delocalizzazioni alimentari, ad esempio, per cui importiamo prodotti che potremmo produrre. Anche il Premio Nobel Joseph Stiglitz, uno dei più accesi critici dell’euro, sostiene che il cosiddetto “green new deal” salverà la moneta unica, perché gli investimenti verdi porranno fine all’austerity. E’ uno scenario credibile? Sicuramente è una visione molto ottimistica. Bisogna vedere se riuscirà a passare la proposta che consente di scorporare dal conteggio del deficit gli investimenti sostenibili, superando il Patto di Stabilità. Ma ad oggi c’è stato un rifiuto soprattutto dai paesi del Nord Europa. Da dove passa il cambiamento?Dobbiamo sperare che qualcuno si svegli: per ritornare a crescere occorre un New Deal di stampo rooseveltiano. Che poi sia verde o di qualsiasi altro colore, poco importa. Anzi, meglio.(Ilaria Bifarini, dichiarazioni rilasciate a “La Verità” per l’intervista pubblicata il 27 gennaio 2020, ripresa dal blog dell’economista: “Economia, Unione Europea, ambiente: cosa ci aspetta?”).Nel mio libro “Inganni economici” parlo di un fenomeno preciso, la “divinizzazione dell’economia”, in base al quale i postulati economici diventano dogmi, e le previsioni profezie. L’inganno principale è credere che l’economia sia una scienza esatta come la matematica. Oggi, un modello economico (valido, forse, in alcune circostanze) viene fatto passare per una legge universale. E’ la logica del “there is no alternative”, non c’è alternativa: il principio con il quale ci è stata propugnata l’austerity. Da questo concetto discendono tanti luoghi comuni. Come la convinzione che la disuguaglianza sociale alla lunga possa portare alla crescita e che le riforme strutturali siano la panacea di tutti i mali, quando spesso si traducono in riduzioni dei salari e dei diritti dei lavoratori e possono addirittura aumentare la disoccupazione nel breve periodo, in una situazione di crisi della domanda quale quella stiamo vivendo oggi. A Davos la Merkel ha detto che la Grecia sarebbe tornata a crescere? Ci vuole un grande coraggio per parlare di successo sulla Grecia. Anzi, è una frase che nasconde una profonda mancanza di sensibilità per il lato umano del dramma greco.
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Gli eroi di Stalingrado: vinsero la Seconda Guerra Mondiale
Il 2 febbraio di quest’anno è stato il 75° anniversario della fine della più grande, più lunga e sanguinosa battaglia della storia del genere umano: uno scontro che aveva distrutto la punta di lancia di quella invincibile macchina da guerra nazista che aveva conquistato tutta l’Europa in soli tre anni e che sembrava in procinto di conquistare il mondo intero: eppure, incredibilmente, tutti i media occidentali, specialmente negli Stati Uniti, lo hanno fino ad ora completamente ignorato. La battaglia di Stalingrado era stata la svolta definitiva del destino: aveva deciso il risultato della Seconda Guerra Mondiale. La scala colossale di quello straordinario scontro, all’epoca, era ben nota agli americani e ai britannici, ma da allora è stata completamente dimenticata. Le nazioni occidentali l’hanno seppellita in fondo al buco nero dei ricordi proibiti, che George Orwell riconoscerebbe fin troppo bene. Nonostante ciò, Stalingrado ha fatto passare in secondo piano tutte le altre battaglie di quella guerra. Era iniziata nell’agosto del 1942 come ultima, disperata difesa di quella che sembrava essere un’Armata Rossa condannata alla sconfitta da una invincibile Wehrmacht che, in meno di tre anni, aveva conquistato l’intero continente europeo, dalla punta settentrionale della Norvegia a Creta e il deserto del Sahara libico. Ma a Stalingrado era cambiato tutto.“Al di là del Volga non c’è niente!”, era il grido di battaglia sovietico, e non c’era veramente nulla. Ancora oggi, guardando ad est dall’alto della collina di Mamayev Kurgan, è inquietante vedere che, dall’altra parte del grande Volga, l’incarnazione dell’anima russa, non c’è letteralmente niente. Mamayev Kurgan è un monumento ai caduti come nessun altro sulla Terra, perchè è dominato da una dea irata. La statua più gigantesca, impressionante ed inquietante del mondo, Rodina-Mat, la dea madre della Russia, si eleva per quasi 50 metri senza piedistallo, 6 metri più in alto della Statua della Libertà. Pesa 1.000 tonnellate, oltre 15 volte la Statua della Libertà. Ma questo è il meno. A New York, Lady Liberty è tranquilla e serena, ma Rodina-Mat è dinamica e furiosa. Il suo viso bellissimo e sorprendentemente giovanile trasmette shock, rabbia e una furia da incubo. Il braccio di Rodina-Mat non è rilassato e disteso e non porta una torcia come quello di Lady Liberty. È sollevato e regge una spada lunga più di 20 metri, e la alza così in alto nel cielo che sulla punta hanno dovuto installare una luce di navigazione rossa per allertare gli aerei che volano a bassa quota.Visto da lontano, lo spettacolo è ancora più impressionante, persino terrificante. Perché Rodina-Mat è nel punto più alto delle alture che dominano la città, il luogo dove si era combattuto con più accanimento. La si può vedere da qualunque parte lungo le principali arterie nord-sud che costeggiano il Volga. Sembra sempre in movimento, viva, pronta a calare sugli invasori la sua incredibile spada. È come se Atena o Afrodite fossero uscite dalle pagine dell’Iliade di Omero e, attraverso il tempo, dai campi di battaglia di Troia, o come se un gigantesco dio-astronauta idealizzato da Erich von Daniken fosse nuovamente giunto sulla Terra. Nei 200 giorni della Battaglia di Stalingrado, a Mamayev Kurgan si era combattuto per 130. Oggi è il luogo dove riposano 35.000 soldati sovietici. Gli storici militari occidentali riconoscono che nella battaglia di Stalingrado erano morti 1,1 milioni di soldati sovietici, e questo calcolo non include almeno 100.000 civili (e forse il triplo) massacrati dai bombardamenti aerei indiscriminati della Luftwaffe.Nella prima settimana di incursioni aeree a Stalingrado erano morti il doppio dei civili rispetto ai bombardamenti alleati di Dresda. Quando gli interrogatori sovietici avevano chiesto al maresciallo di campo Friedrich Paulus, il comandante catturato della Sesta Armata, perché avesse autorizzato un massacro così inutile, aveva risposto che stava solo eseguendo gli ordini. Anche le perdite naziste erano state colossali. Secondo le stime russe, 1,5 milioni di soldati tedeschi e dell’Asse avevano perso la vita durante l’intera campagna, più di cinque volte i morti in combattimento degli Stati Uniti durante tutta la guerra, e più del doppio dei morti combinati dell’Unione e dei Confederati nella Guerra Civile Americana. Neanche uno dei resti dei soldati dell’Asse, trovati e identificati, sono sepolti all’interno della città. È terreno sacro per il popolo russo. Solo gli eroici difensori di Stalingrado e della patria, o Rodina, hanno il massimo onore di riposarvi.L’intera Sesta Armata tedesca, 300.000 uomini, all’epoca considerata la forza militare più invincibile della Terra, era stata distrutta a Stalingrado. Solo 90.000 di loro erano sopravvissuti ed erano stati fatti prigionieri quando Paulus si era arreso. Il quartier generale di Paulus, nel seminterrato dell’Univermag, il grande magazzino nel centro della città, è stato trasformato in museo, uno dei più strani al mondo e in sorprendente contrasto con l’imponenza primordiale, eroica, epica della statua e dei monumenti di Mamayev Kurgan. Nel 2005, quando l’avevo visitato l’ultima volta, Univermag era ancora un grande magazzino, molto simile a quelli che si trovano nel cuore degli Stati Uniti, in luoghi come Sioux City o Iowa City, costruiti negli anni ’20 e che avevano prosperato fino a quando Wal-Mart non li aveva inghiottiti tutti. Si entra nell’Univermag di Volgograd attraverso l’ingresso principale, si passa accanto ai giocattoli per bambini, si gira a sinistra, oltre i pigiami per signora e gli oggetti in vetro e, senza alcun preavviso, si è lì.Il seminterrato è pieno di ricostruzioni dell’ultima resistenza della Sesta Armata. Dietro una porta, i manichini di due soldati tedeschi morenti giacciono in quella che sembra veramente una sala operatoria di emergenza. Dietro un’altra porta, un robotico Paulus continua ad alzarsi dalla sua scrivania per ascoltare da un altro ufficiale le ultime notizie della catastrofe. Dappertutto, il lamento dell’impietoso vento invernale della steppa e lo spietato sibilo delle Katyushe sovietiche, i lanciarazzi “Caterina,” fanno da accompagnamento. Ilya Ehrenburg, il più grande di tutti i corrispondenti di guerra, aveva scritto che i soldati arroccati nei seminterrati e fra le macerie e che resistevano sulle rive del Volga a pochi metri dall’acqua, adoravano quei lanciarazzi. Ed era ancora vero nel 2005: i volti dei veterani ottantenni e superdecorati si erano illuminati di entusiasmo e di gioia fanciullesca quando avevo chiesto loro quale fosse stata la loro arma preferita dell’intera guerra. “Katyusha!” avevano gridato quei meravigliosi vecchietti, saltando su e giù, mentre gli anni sparivano come per magia. “Katyusha!”.Settantacinque anni dopo la resa di Paulus e dopo più di settant’anni dalla sconfitta del Terzo Reich, i ricordi e le cicatrici di quella lotta fanno ancora parte della Russia moderna. Il comunismo è morto. Ma il patriottismo russo no. Ed è per questo che, in questa era di crescenti differenze e alienazione tra la Russia e l’Occidente, lo straordinario eroismo e il sacrificio di tutti quei soldati dell’Armata Rossa e il prezzo terribile che avevano pagato per salvare il mondo devono essere ricordati dai vecchi alleati della Russia. Le emozioni selvagge, feroci ma assolutamente autentiche che appaiono sullo straordinario volto di Rodina-Mat testimoniano gli incredibili sacrifici che si erano consumati sulle rive del Volga per distruggere il male estremo. I leader e i popoli occidentali devono ricordare, ancora una volta, coloro avevano distrutto quel male, il prezzo terribile che avevano pagato e la gratitudine che ancora dobbiamo loro.(Martin Sieff, “Gli eroi di Stalingrado e il debito che abbiamo con loro”, da “Strategic Culture” del 31 gennaio 2020; articolo tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”. Analista geopolitico e reporter per testate come “Washington Times” e “The Globalist”, Sieff è stato dirigente della United Press International e tre volte candidato al Premio Pulitzer).Il 2 febbraio di quest’anno sarà il 75° anniversario della fine della più grande, più lunga e sanguinosa battaglia della storia del genere umano: uno scontro che aveva distrutto la punta di lancia di quella invincibile macchina da guerra nazista che aveva conquistato tutta l’Europa in soli tre anni e che sembrava in procinto di conquistare il mondo intero: eppure, incredibilmente, tutti i media occidentali, specialmente negli Stati Uniti, lo hanno fino ad ora completamente ignorato. La battaglia di Stalingrado era stata la svolta definitiva del destino: aveva deciso il risultato della Seconda Guerra Mondiale. La scala colossale di quello straordinario scontro, all’epoca, era ben nota agli americani e ai britannici, ma da allora è stata completamente dimenticata. Le nazioni occidentali l’hanno seppellita in fondo al buco nero dei ricordi proibiti, che George Orwell riconoscerebbe fin troppo bene. Nonostante ciò, Stalingrado ha fatto passare in secondo piano tutte le altre battaglie di quella guerra. Era iniziata nell’agosto del 1942 come ultima, disperata difesa di quella che sembrava essere un’Armata Rossa condannata alla sconfitta da una invincibile Wehrmacht che, in meno di tre anni, aveva conquistato l’intero continente europeo, dalla punta settentrionale della Norvegia a Creta e il deserto del Sahara libico. Ma a Stalingrado era cambiato tutto.
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Italia senza onore, derubata dai ladri e distrutta dagli onesti
Avviso a tutti i manettari, grillini, sinistri e travagliati: l’onestà non è l’unica virtù del politico, né la principale. I danni compiuti dai cretini e dagli incompetenti al potere solitamente sono più devastanti; senza dire che un cretino al potere lascia rubare chi gli è accanto o è sotto di lui. Benedetto Croce in “Etica e politica” criticò il moralismo sostenendo che la vera onestà in politica sia la capacità: «L’ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli e prende forma in tutte le loro invettive e utopie è quello di una sorta d’areopago, composto d’onest’uomini, ai quali dovrebbero affidarsi gli affari del Paese». Un disastro, per il filosofo liberale e conservatore. E non aveva conosciuto i grillini. Croce cita l’esempio inverso di Mirabeau che «prendeva soldi dalla corte, ma servendosi dal denaro pei suoi bisogni particolari, si serviva della corte e insieme dell’assemblea nazionale per cercar di attuare in Francia la sua idea di monarchia costituzionale». Don Benedetto forse esagerava, per una volta, in realismo, preferendo i corrotti capaci agli incapaci onesti, ma non aveva tutti i torti.Del resto, la storia della Prima Repubblica non ci ha risparmiato nemmeno la terza via, sintesi delle due opzioni: i ladri incapaci. Diciamo allora che un politico va giudicato per la sua capacità, per la sua utilità al paese, oltre che per la sua onestà. Ma non solo: l’onestà non esaurisce la moralità di un politico. Ci sono da considerare anche altre due qualità etiche: la sua lealtà nei confronti dei cittadini, delle istituzioni e della nazione e la sua fedeltà al mandato che ha ricevuto e ai suoi elettori. Chi ha tradito il suo mandato, i suoi elettori, la sua nazione, le sue istituzioni può considerarsi migliore di chi ha rubato? Insomma, l’onestà da sola non basta: è un prerequisito e funziona se si sposa alla capacità e alla responsabilità. Infine, scusate se insisto ma sono convinto che ci sia una virtù che precede e sovrasta l’onestà, la lealtà e la fedeltà: è l’onore. Parola mancante nel lessico contemporaneo.(Marcello Veneziani, “Un paese derubato dai ladri e distrutto dagli ‘onesti’”, dal blog di Veneziani del 1° febbraio 2020. Provieniente da studi filosofici, Veneziani ha fondato e diretto riviste, lavorando a quotidiani, settimanali e alla Rai. Tra i suoi saggi di filosofia politica spiccano “La rivoluzione conservatrice in Italia”, “Processo all’Occidente”, “Comunitari o liberal”, “Di Padre in figlio”, “Elogio della Tradizione”, “La cultura della destra” e “La sconfitta delle idee”, editi da Laterza, nonché “Lettera agli italiani” (Marsilio) e “I vinti”, “Rovesciare il 68″, “Dio, Patria e Famiglia” e “Dopo il declino” (Mondadori). È poi passato a temi esistenziali pubblicando saggi filosofici e letterari come “Vita natural durante” dedicato a Plotino e “La sposa invisibile”, e ancora con Mondadori “Il segreto del viandante” e “Amor fati”, “Vivere non basta”, “Anima e corpo” e “Ritorno a sud”. Ha pubblicato di recente “Tramonti” (Giubilei Regnani) e per Marsilio “Alla luce del Mito”, “Imperdonabili” e “Nostalgia degli dei”).Avviso a tutti i manettari, grillini, sinistri e travagliati: l’onestà non è l’unica virtù del politico, né la principale. I danni compiuti dai cretini e dagli incompetenti al potere solitamente sono più devastanti; senza dire che un cretino al potere lascia rubare chi gli è accanto o è sotto di lui. Benedetto Croce in “Etica e politica” criticò il moralismo sostenendo che la vera onestà in politica sia la capacità: «L’ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli e prende forma in tutte le loro invettive e utopie è quello di una sorta d’areopago, composto d’onest’uomini, ai quali dovrebbero affidarsi gli affari del Paese». Un disastro, per il filosofo liberale e conservatore. E non aveva conosciuto i grillini. Croce cita l’esempio inverso di Mirabeau che «prendeva soldi dalla corte, ma servendosi dal denaro pei suoi bisogni particolari, si serviva della corte e insieme dell’assemblea nazionale per cercar di attuare in Francia la sua idea di monarchia costituzionale». Don Benedetto forse esagerava, per una volta, in realismo, preferendo i corrotti capaci agli incapaci onesti, ma non aveva tutti i torti.
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Trump in Medio Oriente: lo status quo, con il minimo sforzo
Prima l’uccisione di Soleimani in Iraq, poi la strana proposta unilaterale di pace per chiudere il conflitto israelo-palestinese. «Al centro delle preoccupazioni statunitensi rimane l’Iran, Stato-civiltà, nascente potenza nucleare che con la sua carica rivoluzionaria è in grado di sovvertire gli equilibri dal Mare Arabico al Mediterraneo, dallo Yemen al Libano». Lo afferma Leonardo Tirabassi, autore di un’articolata analisi sugli sviluppi mediorientali proposta dal “Sussidiario”. Dopo che nel 2011 gli americani avevano lasciato Baghdad, premette Tirabassi, insieme ai soldati di altri 22 nazioni erano tornati in Iraq nel 2014, richiamati dal governo iracheno per contrastare l’Isis. «Ma a combattere la sunnita Daesh in Iraq e in Siria era arrivato fin da subito anche Soleimani, con i propri uomini e fornendo addestramento, finanziamenti e armi alle milizie sciite irachene: tutte forze che operavano in modo indipendente dalla coalizione internazionale a guida Usa». L’Iran, sottolinea l’analista, agisce con un disegno preciso: assumere l’egemonia regionale e realizzare sul terreno il sogno della Mezzaluna Sciita, unendo sotto un’unica bandiera le province sciite e “farsi” (persiane), dall’Afghanistan al Libano, con l’ambizione di veder rinascere l’Impero Persiano al di là dei confini stabiliti con il Trattato di Zuhab concluso il 17 maggio 1639 tra la Persia e l’Impero Ottomano.Difficilmente difendibile la responsabilità di Trump nella violenta eliminazione di Soleimani: ha ucciso un soldato con importanti ruoli politici, e l’ha fatto di un paese non in guerra. Un omicidio mirato in uno Stato terzo, senza chiederne l’autorizzazione né informarne le autorità, oltretutto uccidendo anche cittadini iracheni. E comunque: si può giudicare razionale l’azione americana di eliminazione del generale iraniano? Inoltre: quali sono gli obiettivi di lungo periodo che gli Usa vogliono raggiungere, in Medio Oriente? Infine: quali mezzi militari sono adatti a raggiungere questi obiettivi strategici? L’uccisione di Soleimani, scrive Tirabassi, conferma la storica ostilità americana verso Teheran: l’Iran non deve avere armi nucleari e deve cessare la ricerca di un’egemonia regionale, dall’Iraq allo Yemen, alla Siria e al Libano (con gli alleati Hezbollah e Hamas), smettendo di minacciare Israele e l’Arabia Saudita. Massima pressione contro il regime degli ayatollah, confermata anche dall’uscita dall’accordo sul nucleare e dall’inasprimento delle sanzioni economiche. Obiettivo: interrompere il flusso di finanziamenti da parte iraniana ai vari partner stranieri (Hezbollah e Hamas, gli Huthi in Yemen), «con la conseguenza di dissanguare le casse dello Stato, ormai ridotte allo stremo, incrinando il consenso, e quindi la forza degli ayatollah».Mentre la tecnologia estrattiva del fracking ha assicurato agli Stati Uniti un’autosufficienza energetica che li mette al riparo dal ricatto petrolifero, le conseguenze delle sanzioni sull’economia iraniana non si sono fatte attendere: nel 2019 il Pil di Teheran si è contratto del 9,5%. Se le cose non cambiamo, nel 2020 l’economia iraniana «calerà più del doppio, mentre l’inflazione viaggia al 30%». La deterrenza militare esibita da Trump nell’operazione-Soleimani «dimostra il predominio militare americano», e sopratutto «manda in frantumi la percezione di impunità che avevano a Teheran». Secondo Tirabassi, gli ayatollah avevano scambiato per debolezza l’indecisione degli Usa, che aveva disorientato gli alleati americani in Medio Oriente, «sorpresi e impauriti dalla mancanza di reazione di Trump e dalle sue parole concilianti dopo l’abbattimento da parte iraniana di un drone americano il 20 giugno dello scorso anno e l’attacco ai pozzi di petrolio sauditi del settembre 2019». Ben 20 droni e 11 missili, partiti da una base iraniana al confine con l’Iraq, avevano colpito i siti di Abqaiq e Khurais. «Azioni culminate con l’uccisione del contractor americano a Kirkuq e l’assalto all’ambasciata americana di Baghdad, orchestrato secondo gli Usa dagli iraniani, in conseguenza del bombardamento di una base della milizia irachena».Azioni però destinate a far cambiare idea al presidente americano – spiega Tirabassi – perché colpivano immediatamente l’autorevolezza Usa avendo anche un’enorme potenza mediatica, facendo ricordare i giorni bui del sequestro di 52 membri dell’ambasciata statunitense a Teheran, dal 4 novembre 1979 al 20 gennaio 1981. Il lancio del missile su Soleimani? «Risponde alla logica del colpo su colpo, affinché il nemico capisca in modo inequivocabile che non può agire impunemente». Ed è anche un messaggio chiaro per il governo di Baghdad, o meglio di quella parte che flirta con l’Iran. Ma, a parte questo, la Casa Bianca ha una visione per il Medio Oriente? Nonostante la raggiunta indipendenza energetica, spiega sempre Tirabassi, gli Usa puntano comunque alla stabilità della produzione petrolifera, fondamentale per far l’economia del mondo. Questo comporta l’impegno automatico al fianco dell’Arabia Saudita. Altro caposaldo: lo strettissimo rapporto di Trump con Israele, al punto da proporre un piano di pace che però impedisca ai profughi palestinesi di tornare alle loro case. Se Bush voleva ridisegnare la mappa del Medio Oriente, e Obama tentava accordi “impossibili” «con regimi e nemici che tutto vogliono meno che la pace», Trump si muove in modo diverso: vorrebbe «mettere fine ai “regime change” sia in veste neocon che democratica, lezione rafforzata dal caso venezuelano».Quello che emerge, secondo Tirabassi, è un disegno americano del Medio Oriente dai tratti negativi: «Trump non fa altro che fissare di nuovo gli interessi in purezza degli Stati Uniti, al di là dei desideri, volontà e ideologie. E da questa considerazione traccia una conseguente strategia militare, del massimo risultato con le minime perdite, ottenuto sfruttando appieno il “vantaggio competitivo” Usa della sua strabiliante forza militare che a sua volta riposa su un predominio economico, tecnologico e logistico senza pari nel mondo». Tradizione anglosassone declinata in epoca postmoderna: una «visione isolazionista-imperiale», fatta di «controllo assoluto dei mari, dell’aria, dello spazio e del cyberspace: flotte che solcano i mari, aerei continuamente in volo, satelliti nello spazio, basi Usa dislocate in tutto il mondo». In sostanza: «Obiettivi politici limitati», ottenuti grazie alla superiorità militare, e senza puntare a cambi di regime (neppure in Siria, dove la Russia ha potuto esercitrare un ruolo decisivo, concordato con la Casa Bianca). «Rimane tutto da vedere – conclude Tirabassi – se questo tipo di strategia è capace di produrre qualche tipo di ordine, e se permetta di sganciarsi dal caos mondano, consentendo agli Stati Uniti di rompere solo saltuariamente e per il tempo strettamente necessario il loro nuovo isolamento». Fosse per Trump, aggiunge l’analista, il compito di stare sul terreno sarebbe demandato di volta in volta agli altri Stati, dalla Russia ai partner della Nato. Basterà?Prima l’uccisione di Soleimani in Iraq, poi la strana proposta unilaterale di pace per chiudere il conflitto israelo-palestinese. «Al centro delle preoccupazioni statunitensi rimane l’Iran, Stato-civiltà, nascente potenza nucleare che con la sua carica rivoluzionaria è in grado di sovvertire gli equilibri dal Mare Arabico al Mediterraneo, dallo Yemen al Libano». Lo afferma Leonardo Tirabassi, autore di un’articolata analisi sugli sviluppi mediorientali proposta dal “Sussidiario“. Dopo che nel 2011 gli americani avevano lasciato Baghdad, premette Tirabassi, insieme ai soldati di altri 22 nazioni erano tornati in Iraq nel 2014, richiamati dal governo iracheno per contrastare l’Isis. «Ma a combattere la sunnita Daesh in Iraq e in Siria era arrivato fin da subito anche Soleimani, con i propri uomini e fornendo addestramento, finanziamenti e armi alle milizie sciite irachene: tutte forze che operavano in modo indipendente dalla coalizione internazionale a guida Usa». L’Iran, sottolinea l’analista, agisce con un disegno preciso: assumere l’egemonia regionale e realizzare sul terreno il sogno della Mezzaluna Sciita, unendo sotto un’unica bandiera le province sciite e “farsi” (persiane), dall’Afghanistan al Libano, con l’ambizione di veder rinascere l’Impero Persiano al di là dei confini stabiliti con il Trattato di Zuhab concluso il 17 maggio 1639 tra la Persia e l’Impero Ottomano.
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Ti svuoto il conto, violando l’home banking su smartphone
Il primo pensiero, quando se ne sente parlare, è che a noi non capiterà mai. Eppure, con gli smartphone ormai diventati dei veri e propri terminali bancari, il rischio c’è. E per perdere i risparmi di una vita possono bastare poche ore. Lo scrive Stefano Galeotti sul “Fatto Quotidiano”, denunciando lo svuotamento improvviso dei conti correnti. Parla una delle vittime: «I soldi sono spariti tramite quattro bonifici, ordinati con causali fantasiose». E addio denaro: «Abbiamo provato a fare il richiamo delle operazioni, ma non è stato possibile». Il giorno dopo è scattata la denuncia alla polizia postale. Il verdetto: vittime di “sim swap”. È una tipologia di frode informatica articolata in vari passaggi, spiega Marcello La Bella, dirigente della polizia postale della Sicilia Orientale, che nel 2018 ha compiuto la prima operazione in Italia contro questo tipo di truffa, con 13 persone arrestate e un bottino totale di oltre 600.000 euro. «Una volta individuata la vittima si procede all’acquisizione delle credenziali di home banking tramite tecniche di hacking. Poi, utilizzando documenti falsi, si sostituisce la sim card della vittima e, attraverso lo stesso numero telefonico, si ottengono dalla banca le credenziali per operare sul conto corrente online».La pericolosità di questa truffa, aggiunge il “Fatto”, sta nel superamento del secondo fattore di autenticazione, di recente legato al numero di telefono: «Il cellulare viene identificato con la sim, e chi ne entra fisicamente in possesso ha un grande vantaggio», rivela Stefano Zanero, docente di elettronica al Politecnico di Milano ed esperto di cyber-sicurezza: « Il numero di telefono infatti è anche il canale di comunicazione utilizzato dalle banche per notificare i movimenti e per fare eventuali controlli di sicurezza. In questo caso però messaggi e chiamate di verifica arrivano a chi sta commettendo il reato». I guai cominciano con l’assenza di segnale sul telefono. «Da Tim ci rassicurano, dicono che si tratta di un errore nella configurazione», racconta uno dei derubati: «Consigliano di spegnere e riaccendere il telefono, di farlo più volte». Ma è inutile: ormai quel numero è collegato a una sim che sta nelle mani del truffatore. Agli operatori, le vittime raccontano: «Lo stesso giorno abbiamo ricevuto un messaggio che confermava l’avvenuta disattivazione della sim, da noi però mai richiesta». Nel pomeriggio, la Tim conferma: alle 10 del mattino la sim era stata sospesa per furto e smarrimento e poi, in un altro centro, era stato fatto un duplicato della scheda.Le ore trascorse, continua il “Fatto”, hanno permesso a chi ha rubato la sim di utilizzare il numero di telefono per effettuare bonifici, verosimilmente istantanei, e svuotare completamente il conto. Recuperare il maltolto, almeno in parte? Su questa materia regna il caos, e la lentezza della giustizia italiana non aiuta. «Questa truffa informatica – scrive il quotidiano – è strettamente legata alla recente entrata in vigore di una direttiva europea dedicata ai servizi di pagamento digitali, la “Psd2”, Payment Services Directive 2, che ha reso necessario un doppio fattore di autenticazione, in aggiunta a username e password dell’internet banking, legato al contenuto dell’operazione». Per sostituire i vecchi “token” fisici, quasi tutti gli istituti bancari hanno deciso di puntare sull’autenticazione tramite un’applicazione su smartphone. L’introduzione di un passaggio ulteriore ha aumentato il livello di sicurezza complessivo, ma espone a un altro tipo di rischio: «Chi entra in possesso della sim – dice il professor Zanero – ottiene l’accesso a tutte le comunicazioni legate ai pagamenti». Ovvero: «Nel caso di un’operazione sospetta, come un bonifico molto consistente, la banca manda un sms al cliente per verificare che tutto sia regolare. Con l’attacco di sim swap, l’avviso arriva a chi ha rubato la sim. E se l’utente ha già presentato login e password corretti, il secondo fattore e anche il codice contenuto nel messaggio di avviso, è difficile dubitare della sua identità».Insomma, le banche non possono farci granché, se non insistere con gli operatori telefonici per ottenere un cambiamento nelle procedure di duplicazione della sim: «Negli Stati Uniti, dove questa truffa è molto diffusa già da qualche anno, i clienti che si sentono a rischio possono chiedere al proprio operatore di non rilasciare duplicati della sim in centri servizi standard», dice ancora Zanero. «Questo passaggio è scomodo quando capita di perdere per davvero la sim, ma forse è il momento di rivalutarlo vista la crescita di questo tipo di truffe». Il punto di partenza rimane in ogni caso il furto delle credenziali di home banking, che nella grande maggioranza dei casi avviene tramite il cosiddetto phishing: «Il caso classico è una mail che sembra provenire dalla nostra banca. All’interno, con tecniche di inganno differenti, ci viene chiesto di inserire le nostre credenziali, magari tramite il link a un sito che presenta la stessa interfaccia di quello della nostra banca, ma che in realtà è un falso». Inserendo il codice utente e la password, stiamo regalando le chiavi di accesso del nostro conto online. E questo rende pressoché impossibile indurre la banca a restituire il denaro. Mai aprire quei link, ovviamente. Altro consiglio, aggiornare il sistema operativo dei dispositivi cui cui operiamo: «Molti attacchi avvengono tramite l’installazione di malware sul pc, e questo spesso accade perché non abbiamo aggiornato il sistema operativo e i browser con cui navighiamo».Il primo pensiero, quando se ne sente parlare, è che a noi non capiterà mai. Eppure, con gli smartphone ormai diventati dei veri e propri terminali bancari, il rischio c’è. E per perdere i risparmi di una vita possono bastare poche ore. Lo scrive Stefano Galeotti sul “Fatto Quotidiano”, denunciando lo svuotamento improvviso dei conti correnti. Parla una delle vittime: «I soldi sono spariti tramite quattro bonifici, ordinati con causali fantasiose». E addio denaro: «Abbiamo provato a fare il richiamo delle operazioni, ma non è stato possibile». Il giorno dopo è scattata la denuncia alla polizia postale. Il verdetto: vittime di “sim swap”. È una tipologia di frode informatica articolata in vari passaggi, spiega Marcello La Bella, dirigente della polizia postale della Sicilia Orientale, che nel 2018 ha compiuto la prima operazione in Italia contro questo tipo di truffa, con 13 persone arrestate e un bottino totale di oltre 600.000 euro. «Una volta individuata la vittima si procede all’acquisizione delle credenziali di home banking tramite tecniche di hacking. Poi, utilizzando documenti falsi, si sostituisce la sim card della vittima e, attraverso lo stesso numero telefonico, si ottengono dalla banca le credenziali per operare sul conto corrente online».
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Magaldi: massoni in guerra, ma per vincere serve il popolo
La guerra dei poveri, la chiamò Nuto Revelli. E i poveri erano gli alpini in Russia con le suole di cartone, i partigiani in armi dopo l’8 settembre, i montanari che li nutrivano con pane duro e castagne. Un memoriale-capolavoro, quello uscito per Einaudi nel 1962, in cui Revelli racconta in modo magistrale la vertiginosa trasformazione di un intero paese, grazie allo choc collettivo della catastrofe bellica. Metamorfosi che investe lo stesso protagonista: da ufficiale fascista, imbevuto di retorica militarista, a comandante della Resistenza, nelle brigate “Giustizia e Libertà”. Il brusco risveglio, nel 1943, è propiziato dallo sfacelo delle forze armate allo sbando, il 25 luglio. Un anno dopo, quando gli Alleati sbarcheranno in Provenza, una divisione corazzata della Wehrmacht si muoverà dal Cuneese per affrontarli. Nuto Revelli e i suoi riusciranno a rallentare i panzer per dieci giorni, inchiodandoli tra le gole della valle Stura, permettendo così agli americani di conquistare le alture di Nizza. Finita la battaglia, il comandante vorrebbe marciare verso la Liguria. Ma gli uomini glielo impediscono, vogliono svalicare in Francia. E la spuntano: votando, per alzata di mano. Democrazia, in alta montagna, dopo vent’anni di adunate nere: il riscatto della coscienza. Ma non è mai gratis, la libertà. Lo ripete anche oggi chi combatte un’altra guerra, sotterranea ma non troppo, tra le fila della cosiddetta massoneria progressista.
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Citofonare Salvini (o Sardine-Benetton, tanto è lo stesso)
Con la sua sciagurata e ormai celeberrima citofonata al presunto spacciatore tunisino al Pilastro di Bologna, Matteo Salvini ha fatto un regalo immenso a Bonaccini, allo zombie Zingaretti e a “Repubblica”, che vorrebbe “cancellare” il capo della Lega. Un desiderio coltivato anche ai piani alti del Vaticano e soprattutto accarezzato dalla maggioranza degli italiani, i milioni di cittadini che proprio non sopportano l’ostentato bullismo superficiale che contraddistingue l’estetica politica del Capitano, travestito da sceriffo. A pareggiare il conto provvede però prontamente l’altrettanto improvvida citofonata delle Sardine, fotografate con Oliviero Toscani alla corte di Luciano Benetton, patron di Altantia, dall’estate 2018 nell’occhio del ciclone per le presunte responsabilità di Austostrade Spa nell’incuria che ha portato alla tragedia genovese del viadotto Morandi. Evaporati nella vergogna i 5 Stelle insieme alle loro promesse da marinaio, la politica nazionale – dopo l’equivoca sbornia gialloverde – è ripiombata nell’antica palude post-democratica, mentre il paese perde i pezzi e il mondo gli sta letteralmente crollando addosso, a cominciare dalla Libia.
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Coronavirus, la Cina sa che il Pentagono prepara la guerra
Paolo Liguori, direttore di TgCom24, ha detto che il coronavirus sarebbe uscito da un laboratorio militare cinese di Wuhan? Siamo alle prese con mille incertezze: non possiamo ancora fare affermazioni precise. Illustri virologi, tra cui Burioni, ritengono che il vettore originario possa essere un pipistrello. “Ritengono”: prove, non ce ne sono. Altra questione: Xi Jinping è sincero oppure no? La mia tesi è questa: il problema è troppo grande, perché Xi Jinping possa scherzare, su questo, o far finta di niente. Il problema colpisce la Cina duramente, la colpirà ancora più duramente e ci colpirà tutti. Non credo sia possibile pensare che il presidente cinese sia un irresponsabile. Credo che Xi Jinping ci abbia detto la verità, o meglio quello che sa lui. Non sono sicuro che tutto quello che sa Xi Jinping sia la verità: la stanno cercando, anche loro. In secondo luogo, credo che qualunque alto dirigente cinese non possa ignorare che, nei documenti ufficiali del Pentagono, c’è scritto – nero su bianco, e in modo esplicito – che la Cina, insieme alla Russia, è un nemico decisivo degli Stati Uniti d’America. In questi documenti, ufficialmente presentati al Parlamento, il Pentagono aggiunge che gli Stati Uniti devono «prepararsi a una guerra imminente» con la Cina.Hanno ragione? Hanno torto? Non è importante. L’importante è che lo dicano, che gli Stati Uniti si stanno preparando a una guerra “imminente” con la Cina, che «implicherà grandi perdite per la stessa popolazione civile degli Stati Uniti». Sono cose che cito da un documento ufficiale del Pentagono, sottoposto al giudizio e al voto del Senato degli Stati Uniti e della Camera dei rappresentanti. Quindi: se io fossi un dirigente cinese, potrei trascurare questo fatto? No, ovviamente. Dobbiamo trascurarlo, noi? Non credo: è uno dei fattori del problema, e quindi dovrà essere tenuto sotto la lente d’ingrandimento, con la massima attenzione. C’è chi pensa che qualcuno, per conto degli Usa, possa essersi “lasciato scappare” quel virus per mettere in ginocchio quello che è il maggior competitore economico dell’America a livello mondiale? Come si sa, io non nascondo una mia precisa opinione: ritengo che il gruppo dirigente degli Stati Uniti sia dominato da un gruppo di dementi. Lo ritenevo prima dell’attuale presidente, e lo ritengo tuttora. Dico “dementi”, perché tutti i loro atti conducono a una situazione di guerra, nel mondo. Quindi, di fronte a un caso come quello del coronavirus, non posso dimenticare quello che penso. Insisto: penso che siano dei dementi, e dai dementi non ci può aspettare nulla di buono né di rassicurante.Mi limito a questo, perché non conosciamo con precisione la situazione. Posso semmai aggiungere una considerazione che ci riguarda da vicino. In tanti, ormai, stanno cominciando a capire che stiamo vivendo in un mondo assolutamente vulnerabile. A prescindere da tutte le teorie e dalle ipotesi che si possono fare, su quello che sta accadendo, davanti ai nostri occhi dovrebbe balenare, chiara come il sole, la constatazione che questo mondo è straordinariamente vulnerabile. Se ad esempio le cose che stiamo vedendo in questo momento dovessero andare male, noi ci troveremmo di fronte a un mondo radicalmente diverso, da quello che conosciamo, e questo avverrebbe nello spazio di poche decine di settimane. Di fronte a emergenze di questo tipo siamo tutti impreparati, a partire da chi deve prendere le decisioni. Quello che vediamo dice che le cose accadono più velocemente di quanto l’organizzazione economica, politica, sociale e militare del paese sia in grado di fronteggiare. Siamo colti di sorpresa, clamorosamente. Quando è stata proclamata la chiusura del collegamento Cina-Italia, erano già in volo 5 aerei italiani appena decollati dalla Cina. Che ne è stato, di quei passeggeri (italiani e cinesi) virtualmente a rischio di contagio? Sono stati posti in stato di osservazione?Tralasciando le polemiche, il fatto è che stiamo vivendo in una società vulnerabile – che è anche impazzita, visto che non è in grado di governare se stessa. E questo dovrebbe porre dei problemi, al governo delle grandi corporations e dei grandi Stati. Possiamo andare avanti in questa direzione senza introdurre dei cambiamenti radicali, in tempi rapidi? Su La7, Mentana si è scandalizzato per l’ultima indagine sociologica dell’Eurispes, secondo cui il 15% degli italiani non crede all’Olocausto, ritiene che la Shoah sia stata un’invenzione (o comunque un’esagerazione). Ma perché tanto sdegno? Caro Mentana, chi è il responsabile del fatto che il 15% degli italiani non sa niente della storia della Seconda Gerra Mondiale? Ma siete voi, che avete fatto la televisione. Siete voi, che avete dato la disinformazione. E adesso, Mentana, ti stupisci che il 15% degli italiani non ti creda? Ma tu agli italiani hai raccontato un sacco di bugie, in tutti questi anni. E non li hai formati, non li hai informati, non ti sei scandalizzato per la loro ignoranza. E così anche adesso, di fronte all’evidenza di un collasso organizzativo e intellettuale della società in cui viviamo, c’è ancora gente che dice che è tutto normale, e che le cose devono andare avanti così.(Giulietto Chiesa, dichiarazioni rilasciate il 31 gennaio 2020 a “Contro Tv”, in video-chat con Massimo Mazzucco; video ripreso su YouTube e pubblicato sul blog “Luogo Comune”).Paolo Liguori, direttore di TgCom24, ha detto che il coronavirus sarebbe uscito da un laboratorio militare cinese di Wuhan? Siamo alle prese con mille incertezze: non possiamo ancora fare affermazioni precise. Illustri virologi, tra cui Burioni, ritengono che il vettore originario possa essere un pipistrello. “Ritengono”: prove, non ce ne sono. Altra questione: Xi Jinping è sincero oppure no? La mia tesi è questa: il problema è troppo grande, perché Xi Jinping possa scherzare, su questo, o far finta di niente. Il problema colpisce la Cina duramente, la colpirà ancora più duramente e ci colpirà tutti. Non credo sia possibile pensare che il presidente cinese sia un irresponsabile. Credo che Xi Jinping ci abbia detto la verità, o meglio quello che sa lui. Non sono sicuro che tutto quello che sa Xi Jinping sia la verità: la stanno cercando, anche loro. In secondo luogo, credo che qualunque alto dirigente cinese non possa ignorare che, nei documenti ufficiali del Pentagono, c’è scritto – nero su bianco, e in modo esplicito – che la Cina, insieme alla Russia, è un nemico decisivo degli Stati Uniti d’America. In questi documenti, ufficialmente presentati al Parlamento, il Pentagono aggiunge che gli Stati Uniti devono «prepararsi a una guerra imminente» con la Cina.
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Auschwitz: Polonia e Inghilterra tra i soci occulti dell’orrore
La ricorrenza del 27 gennaio, una data commemorativa stabilita dalle Nazioni Unite per la Giornata della Memoria dell’Olocausto, è stata celebrata in tutto il mondo. In questo giorno, 75 anni fa, le truppe sovietiche avevano liberato i prigionieri del campo di concentramento di Auschwitz. Secondo i calcoli effettuati dagli storici sovietici, qui erano state uccise oltre 4 milioni di persone, di cui almeno 1,1 milioni di ebrei. Non ci sono state tragedie simili nella storia. Così tanti membri di così tanti gruppi etnici non erano mai stati sterminati, in tutto il mondo, in un’unica località. Non è un caso che Auschwitz sia un simbolo non solo dell’Olocausto, ma anche dell’essenza criminale del nazismo (fascismo). Eppure, nonostante l’importanza di Auschwitz, la sua storia è ancora piena di lati oscuri. La ragione è che la verità completa su Auschwitz è estremamente scomoda per l’Occidente. In primo luogo, è scomoda per gli stessi polacchi. Dopotutto, l’autore del progetto del campo di concentramento di Auschwitz, il generale tedesco Arpad Wigand, aveva preso come modello… l’esempio polacco. Il fatto è che, dopo la proclamazione della Seconda Repubblica Polacca nel 1918, il governo polacco aveva annunciato la costituzione di uno Stato “nazionale” e, di fatto, mono-etnico. Come conseguenza, si era presentato il problema di che cosa fare di tutti gli altri gruppi etnici, che costituivano quasi il 50% dell’intera popolazione.Questa decisione anticipava di molto l’ideologia dei nazionalsocialisti. Un certo numero di bielorussi, ucraini, lituani e russi avrebbero dovuto essere sterminati, mentre i rimanenti sarebbero stati assimilati. Era prevista l’espulsione degli ebrei. Pertanto, uno dei primi atti con cui il governo polacco aveva iniziato l’edificazione della nuova nazione era stata la costruzione dei campi di concentramento. Queste istituzioni avevano il compito di segregare non solo i prigionieri di guerra, ma anche tutti coloro che venivano considerati “inaffidabili”, cioè non soggetti ad assimilazione. Quest’ultimo gruppo comprendeva i russi. E non aveva importanza se fossero sostenitori dei bolscevichi o dell’”Idea Bianca”. Entrambi venivano considerati dal governo polacco come “nemici dello Stato”. [I polacchi] avevano lo stesso atteggiamento nei confronti degli ucraini. In alcuni campi di concentramento vi erano i sostenitori della Repubblica Socialista Sovietica Ucraina e i seguaci di Symon Petliura, insieme ai simpatizzanti della Repubblica Popolare dell’Ucraina Occidentale. C’erano anche rappresentanti delle comunità bielorusse, lituane ed ebraiche.Con gli ebrei, i polacchi si erano rivelati particolarmente cinici. Inizialmente, erano stati reclutati nell’esercito polacco e gettati in battaglia contro le forze sovietiche. Ma, quando i polacchi avevano ottenuto la vittoria nella battaglia di Varsavia, nell’agosto 1920, il ministro degli affari militari della Polonia, il generale Kazimierz Sosnkowski, aveva ordinato l’arresto di tutti gli ebrei. Erano stati arrestati 17.000 fra soldati e ufficiali dell’esercito polacco di origine ebraica. Il fatto che avessero servito lo stato polacco e che per esso avessero versato il loro sangue non aveva avuto la benchè minima importanza per la leadership della Seconda Repubblica Polacca. Erano stati dichiarati “agenti dei bolscevichi”. Alcuni degli arrestati erano stati poi inviati nei campi di concentramento situati nella zona di Cracovia, Dąbie e Wadowice. Secondo la documentazione dei campi si trattava di “spie” e di “persone sospette”. Il loro destino era stato leggermente migliore di quello dei russi, degli ucraini, dei bielorussi e dei lituani. Gran parte dei prigionieri era morta per fame, malattie infettive e violenze da parte delle guardie.Tutto questo, insieme ad altre attività svolte dai polacchi, fa sì che si possa sostenere che Seconda Repubblica Polacca era iniziata con una pulizia etnica. Un esempio simile era stato poi adottato dai nazisti. Inoltre, la leadership delle SS, per “risolvere una volta per tutte il problema ebraico”, aveva inizialmente pianificato di “usare” uno dei campi polacchi, a Dąbie o a Wadowice. Il motivo di questa scelta non era solo la disponibilità, in quelle località, delle infrastrutture dei campi. Un’altra circostanza aveva giocato un ruolo importante. Il governo polacco aveva realizzato le istituzioni per l’incarcerazione di massa in territori abitati da polacchi etnici. Allo stesso tempo, aveva incoraggiato la diffusione della xenofobia tra i normali polacchi. Il calcolo era stato semplice: la popolazione polacca, ostile alle altre etnie, sarebbe stata felice di denunciare tutti quelli che avrebbero osato fuggire dai campi. A causa della “insufficiente capacità”, la leadership delle SS, alla fine, aveva abbandonato l’idea di usare i campi di Dąbie o di Wadowice. I nazisti avevano così deciso di costruire un nuovo complesso, più grande. Ma, ai leader delle SS, era piaciuta l’idea di usare la xenofobia polacca. Pertanto, come sito per il nuovo campo di concentramento, era stato scelto Auschwitz, situato a pochi chilometri da Wadowice. Inoltre, per lavorare ad Auschwitz, erano stati reclutati dei polacchi locali, incoraggiati concretamente ad essere crudeli verso i prigionieri.Se si vuole dire tutta la verità su Auschwitz, non si può fare a meno di ricordare un’altra circostanza. Qualsiasi crimine ha alla base un interesse finanziario. La domanda è: chi è che ha guadagnato di più da questa atrocità? Per identificare i principali beneficiari del genocidio polacco e poi nazista, è necessario ricordare quanto segue. La Bank Gospodarstwa Krajowego, Bgk, aveva finanziato la costruzione degli istituti penitenziari nella Seconda Repubblica Polacca. Alcuni dei fondi utilizzati nel progetto erano stati presi in prestito. Erano stati erogati da “partner” anglo-francesi attraverso la “British and Polish Trade Bank A. G.”, istituita congiuntamente con la Bgk. Quelli che stavano dietro questa struttura erano stati i principali beneficiari della costruzione dei campi di prigionia polacchi. Dopo l’occupazione della Polonia da parte della Wehrmacht, nel settembre 1939, la Bgk era diventata di proprietà del Terzo Reich. Allo stesso tempo però, la banca aveva continuato a finanziare i progetti relativi alla costruzione e al funzionamento dei campi di concentramento. La “British and Polish Trade Bank A.G.” non aveva cessato di esistere. Al posto dei proprietari polacchi erano subentrati i tedeschi, mentre quelli francesi e britannici… erano rimasti. Non è difficile indovinare chi avesse incamerato parte dei profitti derivanti dall’esistenza dei campi di concentramento sul territorio della Polonia.Per quelli in Occidente che troveranno “non abbastanza convincente” tutto questo, citeremo un altro fatto, documentato dagli storici occidentali. Uno dei collaboratori di Bgk era stata Armia Krajowa. Aveva contribuito con fondi, anche ingenti, durante l’occupazione tedesca della Polonia, cioè quando la banca era di proprietà del Terzo Reich. Era rimasta nella Bgk fino alla rivolta di Varsavia, nell’agosto del 1944. Durante tutto questo periodo erano stati regolarmente pagati gli interessi sui depositi dell’Armia Krajowa. Somme che provenivano dallo sfruttamento dei prigionieri nei campi di concentramento nazisti. Durante questo periodo, Armia Krajowa era subordinata al “governo polacco in esilio” e si posizionava come “forza antifascista”. Tuttavia, non si conoscono battaglie importanti di questa unità militare contro i tedeschi [oltre la rivolta del Ghetto di Varsavia, Ndt.]. Ma non avevano esitato a cooperare con i nazisti e a trarre profitto dall’omicidio dei prigionieri nei campi di concentramento nazisti. Il comandante supremo dell’esercito polacco, con sede a Londra, supervisionava queste operazioni.Il consigliere politico e segretario del “comandante in capo”, che era anche capo del “governo in esilio”, era Józef Lipski. Questo è il medesimo diplomatico che aveva servito come ambasciatore della Polonia in Germania negli anni ’30 e che, in sintonia con il programma razzista di Hitler, aveva promesso di dedicare al Führer un monumento per lo sterminio degli ebrei. A Londra, come gli altri membri del “governo in esilio”, aveva operato sotto l’egida del governo britannico. È ovvio che la pista dell’Olocausto porta alla “capitale finanziaria del mondo”. Evidentemente, ciò è legato al fatto che il Regno Unito e gli Stati Uniti sono lenti a rispondere alle istanze per proteggere la memoria del genocidio dei cittadini e degli ebrei sovietici. In particolare, sono rimasti in silenzio dopo che la Russia aveva chiesto una riunione dei leader della coalizione antinazista, i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Durante l’evento, è stato proposto di discutere della conservazione della memoria del genocidio nazista e della salvaguardia della pace. Il gatto sa di chi era la carne che aveva mangiato.(Yury Gorodnenko, “Chi si era arricchito con Auschwitz”, da “Stalker Zone” del 27 gennaio 2020; articolo tradotto da Markus per “Come Don Chisciotte”).La ricorrenza del 27 gennaio, una data commemorativa stabilita dalle Nazioni Unite per la Giornata della Memoria dell’Olocausto, è stata celebrata in tutto il mondo. In questo giorno, 75 anni fa, le truppe sovietiche avevano liberato i prigionieri del campo di concentramento di Auschwitz. Secondo i calcoli effettuati dagli storici sovietici, qui erano state uccise oltre 4 milioni di persone, di cui almeno 1,1 milioni di ebrei. Non ci sono state tragedie simili nella storia. Così tanti membri di così tanti gruppi etnici non erano mai stati sterminati, in tutto il mondo, in un’unica località. Non è un caso che Auschwitz sia un simbolo non solo dell’Olocausto, ma anche dell’essenza criminale del nazismo (fascismo). Eppure, nonostante l’importanza di Auschwitz, la sua storia è ancora piena di lati oscuri. La ragione è che la verità completa su Auschwitz è estremamente scomoda per l’Occidente. In primo luogo, è scomoda per gli stessi polacchi. Dopotutto, l’autore del progetto del campo di concentramento di Auschwitz, il generale tedesco Arpad Wigand, aveva preso come modello… l’esempio polacco. Il fatto è che, dopo la proclamazione della Seconda Repubblica Polacca nel 1918, il governo polacco aveva annunciato la costituzione di uno Stato “nazionale” e, di fatto, mono-etnico. Come conseguenza, si era presentato il problema di che cosa fare di tutti gli altri gruppi etnici, che costituivano quasi il 50% dell’intera popolazione.