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Archivio della Categoria: ‘segnalazioni’

  • Lerner: Mario Caniggia, l’Italia che disse no all’orrore

    Scritto il 22/12/13 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Si è spento a Pozzengo, nella nostra Vallecerrina, il partigiano Mario Caniggia. Nel rendergli omaggio vi propongo l’introduzione che alcuni anni fa scrissi al suo libro di memorie sulla Brigata Monferrato. Adesso la fotografia della brigata partigiana “Monferrato” che entra vittoriosa a Torino il giorno della Liberazione, è appesa qui nella mia stanza di lavoro in cascina. Tra gli altri c’è lui, Mario Caniggia, ancora ragazzo ma reso uomo da un’esperienza di quelle che segnano la vita intera. E che spetta alla nostra comunità democratica tramandare di generazione in generazione. Ricordo ancora il pomeriggio assolato in cui un signore dai capelli bianchi si affacciò timidamente alla porta di casa. «Disturbo? Era da tanto tempo che non venivo qui. Eppure il posto mi è familiare, qui s’è sparato. I repubblichini tiravano col mortaio dall’altura di Odalengo Piccolo, un nostro compagno è stato ferito alla gamba, i tedeschi presidiavano il fondovalle…».
    Ho chiamato i miei figli perché lo ascoltassero e gli stringessero la mano, grati. Mario Caniggia era venuto da un paese vicino, Pozzengo, a testimoniarci la storia che nobilita il nostro territorio. Già sapevamo che le due case diroccate sul bricco della vigna, alle nostre spalle, erano il rifugio dei partigiani valcerrinesi. I vecchi le chiamano ancora così: le case dei partigiani. Un nome che la nostra famiglia s’impegna a mantenere vivo. Caniggia raccontava e gli si inumidivano gli occhi. Non aveva ancora compiuto diciotto anni quando fece la scelta del rischio e della coerenza, e gli toccò guardare in faccia la morte dei suoi compagni. Ma non solo: la morte per rappresaglia dei civili innocenti, come i capifamiglia e il parroco di Villadeati. Quella sua emozione si è trasmessa a noi stretti intorno a lui, ed è come se avesse permeato di sé le mura di cascina Bertana, gli ippocastani e il prato lì davanti, il ruscello, la collina… luoghi incantevoli che racchiudono una storia significativa, e dunque acquistano un valore da non disperdere.
    Dal giorno di quella visita indimenticabile, a ogni visitatore che viene anche da lontano io mi sento in dovere di raccontare quel che è stato. Per ricordare a me stesso e agli altri che il passaggio della libertà, la via stretta e dolorosa della lotta di liberazione dal nazifascismo, si sono realizzati solo grazie al fatto che tante persone semplici, perbene, hanno trovato in se stesse la forza di dire no all’indifferenza. Senza quel movimento dal basso, senza l’eroismo silenzioso di chi ha sentito come un dovere schierarsi contro un potere oppressivo, forse i nazifascisti sarebbero stati sconfitti lo stesso (ma chissà quando, dopo mesi o anni di ulteriori sofferenze). Senza i partigiani la società del dopoguerra non avrebbe potuto guardarsi allo specchio, digiuna di buoni esempi e di cultura democratica.
    Ogni tanto incontro ancora Mario Caniggia, magari la domenica mattina al mercato di Valle Cerrina. Delle volte par quasi che voglia scusarsi, con quel sorriso impacciato, del peso della storia di cui è portatore. Come se recasse fastidio a noi fortunati che siamo arrivati dopo, e percorriamo ignari lo stesso territorio. Come se noi avessimo il diritto di infischiarcene di quel che è stato, solo l’altro ieri, nel Monferrato Casalese così come in tante altre parti d’Italia. Dimenticare significherebbe ricadere nell’analfabetismo della coscienza. Insista, Mario Caniggia, finchè ne ha le forze. Faccia parlare questi luoghi per quel che di tragico hanno vissuto, perché altrimenti nulla potrà garantirci che l’oppressione liberticida, la discriminazione razziale, il terrore della rappresaglia, possano ripetersi.
    Quando Mario Caniggia mi ha consegnato il manoscritto della sua testimonianza sulla VII Divisione Autonoma “Monferrato”, insieme alla fotografia in cui si riconosce lui giovane partigiano Alì, l’ho letta d’un fiato. Sono rimasto colpito dalla sua sobrietà piemontese. Si trova qui un’interpretazione difficilmente contestabile a episodi tragici, come la strage di Villadeati, su cui di recente una storiografia scandalistica (Giampaolo Pansa) invano tenta di riaprire controversie. Sono lieto che l’Anpi di Alessandria abbia confermato il valore storico di questo memoriale, contributo prezioso a una storia del nostro territorio. E’ con orgoglio e gratitudine che ne raccomando ai giovani la lettura. Anche pensando al mio più caro amico, ebreo casalese, di vent’anni più anziano di me, che su queste colline ha trovato rifugio e salvezza grazie alla generosità di persone incapaci di voltare la testa dall’altra parte.
    (Gad Lerner, “In memoria del partigiano Mario Caniggia, Brigata Monferrato”, dal blog di Lerner del 15 dicembre 2013).

    Si è spento a Pozzengo, nella nostra Vallecerrina, il partigiano Mario Caniggia. Nel rendergli omaggio vi propongo l’introduzione che alcuni anni fa scrissi al suo libro di memorie sulla Brigata Monferrato. Adesso la fotografia della brigata partigiana “Monferrato” che entra vittoriosa a Torino il giorno della Liberazione, è appesa qui nella mia stanza di lavoro in cascina. Tra gli altri c’è lui, Mario Caniggia, ancora ragazzo ma reso uomo da un’esperienza di quelle che segnano la vita intera. E che spetta alla nostra comunità democratica tramandare di generazione in generazione. Ricordo ancora il pomeriggio assolato in cui un signore dai capelli bianchi si affacciò timidamente alla porta di casa. «Disturbo? Era da tanto tempo che non venivo qui. Eppure il posto mi è familiare, qui s’è sparato. I repubblichini tiravano col mortaio dall’altura di Odalengo Piccolo, un nostro compagno è stato ferito alla gamba, i tedeschi presidiavano il fondovalle…».

  • Iper-globalizzazione: noi, sudditi della fabbrica-mondo

    Scritto il 20/12/13 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Neutralizzare lo Stato, lasciarlo senza soldi e imbrigliarlo in una rete sempre più fitta di vincoli. Sta avvenendo da tempo. Obiettivo: disarticolare le funzioni pubbliche sovrane, a vantaggio di un super-potere esterno – dominante, affaristico, privatizzatore. Dietro a politiche regolarmente insufficienti, deludenti e in apparenza incomprensibili, c’è un orizzonte chiarissimo, chiamato iper-globalizzazione. Funziona così: la catena produttiva delle merci è spezzettata e subappaltata nelle regioni del mondo dove il lavoro costa meno. Così, le istituzioni nazionali – completamente svuotate – anziché a tutelare i propri cittadini sono chiamate essenzialmente a facilitare il nuovo business, rimuovendo ostacoli e regole. Quello che ormai abbiamo di fronte, sostiene Christophe Ventura, è una integrazione mondiale delle élite, come «super-classi oligarchiche mondializzate». Sono “avanti” anni luce: hanno di fronte sindacati inoffensivi, politici compiacenti e media colonizzati. L’area nazionale, con le sue crisi economiche, è solo l’ultimo livello, ormai irrilevante, del grande gioco planetario.
    Nonostante la crisi finanziaria del 2008 e la conseguente riduzione della domanda negli Usa, in Cina e in Europa, nel 2012 il volume mondiale del commercio è aumentato del 2% contro il 5,1% del 2011, e ci si aspetta un incremento del 2,5% per il 2013. Il trading ormai rappresenta il 33% del Pil mondiale. Questo inedito aumento della combinazione commerciale planetaria, secondo gli economisti Arvind Subramanian e Martin Kessler costituisce la prima caratteristica della iper-mondializzazione che ci sta letteralmente travolgendo. Lo dice il Wto: tra il 1980 e il 2011, il volume delle merci scambiate su scala globale si è quadruplicato. E ogni anno il commercio cresce due volte più rapidamente della produzione. La nuova mappa mondiale della merci, annota Ventura in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, rivela una clamorosa frammentazione geografica della produzione e della disgregazione delle funzioni produttive su scala mondiale: «I flussi commerciali si inscrivono attualmente in “catene internazionali di valore” che organizzano i processi di produzione secondo distinte sequenze, realizzate (spesso contemporaneamente) in differenti luoghi del pianeta, secondo logiche di ottimizzazione del territorio».
    Tutto questo, aggiunge Ventura, è in funzione della strategia delle multinazionali: fisco, organizzazione sociale, salari, dimensione finanziaria, sviluppo tecnologico e persino educazione e assetti istituzionali. Così, negli ultimi vent’anni abbiamo assistito alla nascita di uno schema consolidato: la proprietà delle società, dei brevetti e dei marchi, incluse ricerca e sviluppo, si concentrano al centro dell’economia mondiale (specialmente nei paesi della Triade – Usa, Europa e Cina), mentre la creazione e l’assemblaggio dei prodotti si realizzano in paesi minori (Asia, America Latina, Africa, Oriente) attraverso aziende alle quali si subappalta questa funzione, come anche la distribuzione, la vendita e i servizi post-vendita (nel Maghreb o in India, per esempio). In questo modo, riassume Ventura, le 80.000 multinazionali registrate nel mondo (che assorbono i due terzi del commercio internazionale) controllano la manodopera del pianeta.
    Secondo la Cepal, organismo economico delle Nazioni Unite, a trainare il business mondiale sono tre grandi reti di produzione: la “fabbrica America” guidata dagli Usa, la “fabbrica Europa” con a capo la Germania e la “fabbrica Asia”, di cui Pechino ha assunto la leadership, superando Tokyo. «Queste tre “fabbriche” si caratterizzano per l’alto livello del commercio intra-regionale, che a sua volta si organizza attorno alla produzione di beni intermedi per questi stessi centri». Secondo le stime del ministero per il commercio francese, nel mondo la metà del valore delle merci esportate è composta da parti e componenti importati. «In Francia la proporzione è del 25%. Nei paesi in via di sviluppo è del 60%. L’iPhone e la Barbie sono i simboli di questo mercato “Made in the World”». Ne emerge un contesto dove si nota come, a partire dal 2010 e ancor di più nel 2013, sono nate nuove forme di accordi di libero commercio al di fuori dei contesti multilaterali del Wto. Sono chiamati accordi “mega-regionali” o “mega-bilaterali”, e investono ogni aera del mondo, dall’Atlantico al Pacifico. «La loro funzione è allo stesso tempo politica, geopolitica ed economica», spiega Ventura. «Si tratta di organizzare a lungo termine la sicurezza degli investimenti e delle attività – come pure facilitare le loro operazioni – degli attori finanziari ed economici globalizzati».
    Facilitare il business, scavalcando ogni ostacolo: «Tutto questo con l’obiettivo di consolidare e sviluppare il valore aggiunto delle merci nel contesto degli spazi transnazionali adeguati alle catene globali della produzione, nell’agire e nel dispiegare le multinazionali del centro dell’economia mondiale che dividono interessi comuni con gli attori economici, commerciali e finanziari locali e regionali». Il grande traguardo dei globalizzatori è sempre lo stesso: bypassare la geografia locale (incluse le sue leggi a tutela del lavoro) e disegnare nuove frontiere economiche, finanziarie e commerciali tra i paesi. Non si punta solo ad “armonizzare” i diritti doganali, ma anche ad imporre «gli standard giuridici dei paesi egemoni della Triade», oltrepassando la cosiddetta barriera “senza tariffe: norme sanitarie e fitosanitarie, condizioni di accesso ai mercati pubblici, diritti di proprietà, sicurezza degli investimenti, politiche di competenza. «Questa nuova trasformazione del capitalismo – rileva Ventura – tonifica le dinamiche di fusione tra gli Stati interessati ai mercati, disconnettendo così la capacità di controllo democratico del popolo – l’unico capace di controllare il potere del capitale – e in ultimo sottomettere le nostre società alla sua distruttiva dominazione».

    Neutralizzare lo Stato, lasciarlo senza soldi e imbrigliarlo in una rete sempre più fitta di vincoli. Sta avvenendo da tempo. Obiettivo: disarticolare le funzioni pubbliche sovrane, a vantaggio di un super-potere esterno – dominante, affaristico, privatizzatore. Dietro a politiche regolarmente insufficienti, deludenti e in apparenza incomprensibili, c’è un orizzonte chiarissimo, chiamato iper-globalizzazione. Funziona così: la catena produttiva delle merci è spezzettata e subappaltata nelle regioni del mondo dove il lavoro costa meno. Così, le istituzioni nazionali – completamente svuotate – anziché a tutelare i propri cittadini sono chiamate essenzialmente a facilitare il nuovo business, rimuovendo ostacoli e regole. Quello che ormai abbiamo di fronte, sostiene Christophe Ventura, è una integrazione mondiale delle élite, come «super-classi oligarchiche mondializzate». Sono “avanti” anni luce: hanno di fronte sindacati inoffensivi, politici compiacenti e media colonizzati. L’area nazionale, con le sue crisi economiche, è solo l’ultimo livello, ormai irrilevante, del grande gioco planetario.

  • La Svizzera: Torino-Lione inutile, non ci sono più merci

    Scritto il 17/12/13 • nella Categoria: segnalazioni • (7)

    L’ultima barzelletta sulla Torino-Lione la raccontano gli svizzeri, solitamente noti per la loro austera serietà. E infatti non si scherza neanche stavolta: perché all’appello non mancano i binari, ma le merci. In valle di Susa, si apprende, transita appena un decimo del carico che già ora potrebbe essere tranquillamente trasportato. Attenzione: a essere semi-deserta è la linea ferroviaria attuale, la Torino-Modane, appena riammodernata. Inappellabile la sentenza dei numeri: il traffico alpino Italia-Francia è letteralmente crollato. Anziché nuove linee, servirebbero treni da far circolare sulla ferrovia che già esiste. E invece – questa è la “barzelletta” – il governo italiano pensa sempre di costruire ex novo il più costoso e inutile dei doppioni, la famigerata linea Tav a cui la valle di Susa si oppone da vent’anni con incrollabile determinazione, confortata dai più autorevoli esperti dell’università italiana. Tutti concordi: la super-linea Torino-Lione (il doppione) sarebbe devastante per l’ambiente, pericolosa per la salute e letale per il debito pubblico, dato che costerebbe almeno 26 miliardi di euro. Ma soprattutto: la grande opera più contestata d’Italia sarebbe completamente inutile.
    L’ennesima conferma ufficiale viene dall’ultimo rapporto dell’Uft, l’ufficio federale dei trasporti elvetico. Si tratta della raccolta totale dei dati delle merci – su strada e su ferrovia – che attraversano annualmente tutti i valichi alpini, da Ventimiglia fino a Wechsel, a sud di Vienna. Da giugno 2002, questo studio è seguito anche dall’Osservatorio del traffico merci nella Regione Alpina dell’Unione Europea. Su tutti i valichi italo-francesi (Ventimiglia, Monginevro, Moncenisio, Fréjus e Monte Bianco) sono passati complessivamente 22,4 milioni di tonnellate di merci, sia su strada che su ferrovia, rispetto al totale di 190 milioni dell’intero arco alpino. Quanto alla valle di Susa, lo stesso osservatorio tecnico istituito dal governo italiano ha stabilito in 32,1 milioni di tonnellate annue la capacità della attuale ferrovia a doppio binario, la linea “storica” che già collega Torino a Lione attraverso Modane. La valutazione risale al 2007, ma ora la linea è stata ulteriormente ammodernata: nel traforo del Fréjus possono transitare treni con a bordo Tir e grandi container. Il “problema”? Presto detto: nell’ultimo anno, in valle di Susa sono transitate appena14 milioni di tonnellate di merci. E di queste, solo 3,4 su ferrovia.
    «I numeri parlano chiaro», commenta Luca Giunti, attivista No-Tav e referente tecnico per la Comunità Montana valsusina: «Il traffico globale tra Italia e Francia avrebbe potuto tranquillamente essere ospitato soltanto sull’attuale ferrovia, e senza neppure riuscire a saturarla completamente. Invece, sulla direttrice della val Susa è transitato appena un decimo delle merci trasportabili». E il confronto con i rapporti degli anni precedenti, tutti disponibili sul sito svizzero, conferma un trend in continua diminuzione sul versante occidentale delle Alpi, iniziato ben prima della crisi del 2008, mentre a crescere è il trasporto transalpino verso Svizzera e Austria. Motivo: «Italia e Francia hanno economie mature, interessate soltanto da scambi commerciali di sostituzione, mentre il percorso nord-sud collega il centro e l’est Europa con i mercati orientali in espansione». Per contro, la frontiera di Ventimiglia ha accolto, da sola e quasi interamente su strada, 17,4 milioni di tonnellate, 3 in più di quelle piemontesi. «Laggiù la ferrovia ha stretti vincoli e andrebbe ammodernata, con spese e disagi tutto sommato contenuti perché si lavorerebbe a livello del mare e senza dover traforare le montagne. Inspiegabilmente, invece, quel passaggio è trascurato da ogni politica».
    Anziché potenziare il valico di Ventimiglia, il governo italiano insiste – contro ogni ragionevolezza – nel voler realizzare ad ogni costo il “doppione” valsusino: cioè il progetto «più difficile, più costoso e lapalissianamente più inutile». Decine di miliardi di euro, con benefici attesi soltanto per il lontanissimo 2070, «ma solo se le mostruose previsioni di incremento dei traffici saranno rispettate: ed evidentemente non lo sono!». Ne tiene conto sicuramente la Francia, che ha già escluso la Torino-Lione della sua agenda lavori: l’opera verrà ripresa in considerazione, eventualmente, solo dopo il 2030. In Italia è aperto solo il mini-cantiere di Chiomonte: da quella galleria però non transiterà mai nessun treno, perché quello in via di realizzazione è solo un piccolo tunnel geognostico. Terminato il quale, il buon senso consiglierebbe di fermarsi, tanto più che – a valle di Susa – la stessa progettazione operativa della futura linea, verso Torino, è praticamente ancora inesistente. «Quando si prenderà finalmente atto che il progetto della Torino-Lione è vecchio, inutile ed esoso?», conclude Giunti. «Quando, semplicemente, si rispetteranno i documenti ufficiali e gli atti governativi?». Parlano chiaro persino quelli italiani: le iniziali previsioni di incremento si sono rivelate pura fantascienza, messe a confronto con la realtà. Già oggi, conferma la Svizzera, in valle di Susa il traffico potrebbe crescere del 900%. E senza bisogno di nuove ferrovie.

    L’ultima barzelletta sulla Torino-Lione la raccontano gli svizzeri, solitamente noti per la loro austera serietà. E infatti non si scherza neanche stavolta: perché all’appello non mancano i binari, ma le merci. In valle di Susa, si apprende, transita appena un decimo del carico che già ora potrebbe essere tranquillamente trasportato. Attenzione: a essere semi-deserta è la linea ferroviaria attuale, la Torino-Modane, appena riammodernata. Inappellabile la sentenza dei numeri: il traffico alpino Italia-Francia è letteralmente crollato. Anziché nuove linee, servirebbero treni da far circolare sulla ferrovia che già esiste. E invece – questa è la “barzelletta” – il governo italiano pensa sempre di costruire ex novo il più costoso e inutile dei doppioni, la famigerata linea Tav a cui la valle di Susa si oppone da vent’anni con incrollabile determinazione, confortata dai più autorevoli esperti dell’università italiana. Tutti concordi: la super-linea Torino-Lione (il doppione) sarebbe devastante per l’ambiente, pericolosa per la salute e letale per il debito pubblico, dato che costerebbe almeno 26 miliardi di euro. Ma soprattutto: la grande opera più contestata d’Italia sarebbe completamente inutile.

  • Revelli: in piazza l’ex ceto medio rovinato dalla crisi

    Scritto il 16/12/13 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Ceto medio impoverito: indebitati, esodati, falliti o sull’orlo del fallimento, piccoli commercianti strangolati dalle ingiunzioni e costretti alla chiusura, artigiani con le cartelle di Equitalia e il fido tagliato, autotrasportatori e “padroncini” con l’assicurazione in scadenza e senza i soldi per pagarla. E ancora: disoccupati, ex muratori e manovali, ex impiegati, ex magazzinieri, ex titolari di partite Iva divenute insostenibili. E precari, naturalmente: lavoratori non rinnovati per colpa della riforma Fornero ed espulsi dai cantieri e dalle piccole aziende chiuse. Così Marco Revelli legge il “popolo” sceso in piazza, nella protesta spontanea che i media hanno chiamato “dei forconi”. Le riconosci dai vestiti, dall’espressione, dal modo di muoversi: sono «le tante facce della povertà, oggi. Soprattutto di quella nuova». Sono le fasce marginali di ogni categoria produttiva, quelle “al limite” o già cadute fuori, «fino a un paio di anni fa ancora sottili», ma oggi «in rapida, forse vertiginosa espansione».
    Unica frase ripetuta: non ce la facciamo più. Folla in emergenza, annota Revelli sul “Manifesto” in un intervento ripreso da “Micromega”. Connotato comune: «Una viscerale, profonda, costitutiva, antropologica estraneità-ostilità alla politica». Nient’altro che «un pezzo di società disgregata», straziata dalla crisi. La domanda vera? E’ chiedersi perché si è materializzato questo popolo, fino a ieri invisibile. Epicentro della protesta è Torino, capitale italiana degli sfratti per “morosità incolpevole”, cioè impossibilità di pagare l’affitto: 4.000 provvedimenti esecutivi solo nel 2012, il 30% in più rispetto all’anno precedente, mentre altri 1.000 sono già in arrivo. “Maglia nera”, il capoluogo piemontese, anche per le attività commerciali: nei primi due mesi dell’anno in città hanno chiuso 306 negozi (il 2% degli esistenti, 15 al giorno) mentre in provincia hanno sprangato 626 esercizi, di cui 344 tra bar e ristoranti). E altri 1.500 esercizi erano “morti” l’anno prima. Altra strage per le piccole imprese, 16.000 scomparse nell’ultimo anno.
    Letta attraverso la mappa dei grandi cicli socio-produttivi succedutisi nella transizione all’oltre-novecento, scrive Revelli, a franare è la composizione sociale che la vecchia metropoli di produzione fordista aveva generato nel suo passaggio al post-fordismo, con l’estroflessione della grande fabbrica centralizzata e meccanizzata nel territorio, la disseminazione nelle filiere corte della sub­fornitura monoculturale, la moltiplicazione delle ditte individuali messe al lavoro in ciò che restava del grande ciclo produttivo automobilistico, le consulenze esternalizzate, il piccolo commercio come surrogato del welfare, insieme ai prepensionamenti, ai co.co.pro, ai lavori a somministrazione e interinali di fascia bassa. «Composizione fragile, che era sopravvissuta in sospensione dentro la “bolla” del credito facile, delle carte revolving, del fido bancario tollerante, del consumo coatto. E andata giù nel momento in cui la stretta finanziaria ha allungato le mani sul collo dei marginali, e poi sempre più forte, e sempre più in alto». La protesta nelle piazze? “Brutta e cattiva”, perché «la povertà non è mai serena». Eppure, questa rabbia è «più vera dei riti vacui riproposti in alto, nei gazebo delle primarie o nei talk show televisivi».

    Ceto medio impoverito: indebitati, esodati, falliti o sull’orlo del fallimento, piccoli commercianti strangolati dalle ingiunzioni e costretti alla chiusura, artigiani con le cartelle di Equitalia e il fido tagliato, autotrasportatori e “padroncini” con l’assicurazione in scadenza e senza i soldi per pagarla. E ancora: disoccupati, ex muratori e manovali, ex impiegati, ex magazzinieri, ex titolari di partite Iva divenute insostenibili. E precari, naturalmente: lavoratori non rinnovati per colpa della riforma Fornero ed espulsi dai cantieri e dalle piccole aziende chiuse. Così Marco Revelli legge il “popolo” sceso in piazza, nella protesta spontanea che i media hanno chiamato “dei forconi”. Le riconosci dai vestiti, dall’espressione, dal modo di muoversi: sono «le tante facce della povertà, oggi. Soprattutto di quella nuova». Sono le fasce marginali di ogni categoria produttiva, quelle “al limite” o già cadute fuori, «fino a un paio di anni fa ancora sottili», ma oggi «in rapida, forse vertiginosa espansione».

  • Ci tosano come Cipro: e grazie ai forconi, non se ne parla

    Scritto il 14/12/13 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Eterodiretti? Chissà. Una cosa è certa: «Il timing è perfetto». Come quando è esplosa a Istanbul la protesta di Gezi Park (per poi sparire subito) nel momento in cui «la Turchia di Erdogan doveva essere un po’ spennata sui mercati finanziari perché cresceva troppo e qualche scommessa era a rischio». O come adesso in Ucraina, dove «le proteste vanno avanti da settembre, ma solo ora che è diventato conveniente speculare su quel paese hanno assunto proporzioni mediatiche». Attenzione, avverte Mauro Bottarelli: nei giorni dell’emergenza “forconi”, in Italia stanno succedendo cose inenarrabili: «Ci sono almeno tre banche clinicamente morte che andranno o salvate o mantenute in vita artificialmente», l’indice Mib va male, Banca Etruria ha perso il 22% in due sedute e necessita di un aumento di capitale «miracolistico» ed è appena stato tagliato il rating di Banca Carige, «eppure lo spread non si muove». Che sta succedendo? Semplice: in sede europea è stato appena ufficializzata l’introduzione della procedura-Cipro: prelievo forzoso sui correntisti. E nessuno, per ora, ne deve parlare.

  • Benvenuti in Albania, al call center si lavora per 600 euro

    Scritto il 13/12/13 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    «Se il call center si sposta in Albania, portiamo l’Albania qui da noi. Cioè, riduciamo drasticamente i salari». Lo rivela l’ultimo contratto di settore siglato da Cgil, Cisl e Uil con le due strutture padronali, Assotelecomunicazioni e Assocontact, in cui si prevede una sorta di “salario di ingresso” al 60% della paga minima, riferisce il “Fatto Quotidiano”. Coi loro 100.000 occupati – senza contare quelli interni alle aziende – i call center «sono la vetrina per clienti in cerca di informazioni oppure da assoldare con proposte “allettanti”». Il contratto si riferisce a questi ultimi, i lavoratori a progetto (co.co.pro.) in “outbound”, cioè coloro che effettuano chiamate verso l’esterno (telemarketing, televendite, ricerche di mercato). Si tratta di 30.000 addetti, per i quali la riforma Fornero ha richiesto il ricorso alla contrattazione per determinarne la retribuzione. E così, aziende e sindacati di categoria hanno siglato un contratto che prevede il riconoscimento del minimo tabellare (circa 1.000 euro netti al mese) ma ridotto al 60% fino a gennaio 2015. Da quella data, poi, si risale di anno in anno fino a tornare al 100% (del minimo) nel 2018.
    «Una forma originale di “salario di ingresso” prolungato nel tempo», la definisce Salvatore Cannavò sul “Fatto”. Inoltre, per le nuove assunzioni al termine del contratto, l’azienda utilizzerà lavoratori presenti in una speciale graduatoria: per potervi accedere, gli aspiranti dipendenti dovranno sottoscrivere “un atto di conciliazione individuale”, di valore giuridico, che li impegna in anticipo a rinunciare «a diritti pregressi, che non vengono nemmeno specificati». Anche da parte sindacale, l’accordo è stato difeso come «una importante novità nel panorama delle relazioni industriali». Le parti hanno addirittura siglato un comunicato congiunto. Cesare Avenia di AssTel sostiene che «non era mai avvenuto prima che si stipulasse un accordo avente come oggetto dei lavoratori non dipendenti». La retribuzione’ Ultra-minima, certo. Però «amplia le certezze per i lavoratori». Tra queste: la contrattazione separata, che secondo fonti sindacali «impedisce loro di accedere al contratto generale».
    Nati impetuosamente agli inizi degli anni Duemila, ricorda Cannavò, i call center si sono evoluti confusamente con contratti “selvaggi”, messi in evidenza da film come “Parole sante” di Ascanio Celestini e “Tutta la vita davanti”, di Paolo Virzì, tratto dal libro di Michela Murgia “Il mondo deve sapere”. «Il call center sembra la catena di montaggio degli anni Duemila», sottolinea il “Fatto”. Nel 2006, l’allora ministro del lavoro Cesare Damiano, «uno dei pochi che si occupa ancora di lavoro», con una circolare riuscì a stabilizzare circa 24.000 lavoratori, ma il dispositivo fu poi “smontato” dal successivo governo Berlusconi. «Nel frattempo si è ampliato il fenomeno di delocalizzazione alla ricerca del costo del lavoro più basso», parzialmente mitigato da una misura introdotta nel 2012 dal governo Monti, che sospende gli incentivi per le aziende che delocalizzino fuori dai confini dell’Ue.
    Per i call center, «settore simbolo del precariato», lo spettro della delocalizzazione incombe da sempre sui lavoratori di marchi come Sky, Fastweb, Vodafone. «Tra i paesi preferiti la vicina Albania, con circa 60 aziende tra Durazzo, Valona e Tirana. Ma anche la Romania o la Tunisia». Attenzione: se negli anni Duemila i lavoratori manifestavano soprattutto per regolarizzare il proprio lavoro, ora la protesta è contro le delocalizzazioni, come dimostrano le recenti agitazioni dei dipendenti Fastweb, Almaviva, E-Care. «In tempi di crisi ogni lavoro è essenziale, anche quello meno professionale dei call center, per quanto si tratti ormai di una occupazione rilevante», conclude Cannavò. «In Puglia, ad esempio, Teleperformance è la seconda azienda dopo l’Ilva con 3.000 dipendenti, mentre Almaviva (ex Atesia) ne occupa 24.000 in Italia». Per i nuovi addetti al telemarketing, la paga scende dunque a 600 euro, full time. I sindacati? Firmano, entusiasti: benvenuti in Albania. «Di questo passo», commenta Giuliana Cupi di “Alternativa”, «tra poco, per lavorare dovremo pagare: e scommetto che qualche sindacato riuscirà pure a vantarsi di aver salvaguardato i posti di lavoro».

    «Se il call center si sposta in Albania, portiamo l’Albania qui da noi. Cioè, riduciamo drasticamente i salari». Lo rivela l’ultimo contratto di settore siglato da Cgil, Cisl e Uil con le due strutture padronali, Assotelecomunicazioni e Assocontact, in cui si prevede una sorta di “salario di ingresso” al 60% della paga minima, riferisce il “Fatto Quotidiano”. Coi loro 100.000 occupati – senza contare quelli interni alle aziende – i call center «sono la vetrina per clienti in cerca di informazioni oppure da assoldare con proposte “allettanti”». Il contratto si riferisce a questi ultimi, i lavoratori a progetto (co.co.pro.) in “outbound”, cioè coloro che effettuano chiamate verso l’esterno (telemarketing, televendite, ricerche di mercato). Si tratta di 30.000 addetti, per i quali la riforma Fornero ha richiesto il ricorso alla contrattazione per determinarne la retribuzione. E così, aziende e sindacati di categoria hanno siglato un contratto che prevede il riconoscimento del minimo tabellare (circa 1.000 euro netti al mese) ma ridotto al 60% fino a gennaio 2015. Da quella data, poi, si risale di anno in anno fino a tornare al 100% (del minimo) nel 2018.

  • Spagna, tragica lotteria: premio in palio, uno stipendio

    Scritto il 11/12/13 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Il lavoro rende liberi, recitava l’insegna irridente alle porte dell’inferno nazista, dove – oltre allo sterminio di massa – si sperimentava anche l’enorme vantaggio economico di milioni di operai ridotti in schiavitù. Oggi, dopo settant’anni, il lavoro come diritto è finito. E’ scomparso il lavoro come percorso di vita e progresso sociale, avverte Gennaro Carotenuto: «Il lavoro nel quale fare emergere le proprie capacità, il proprio impegno, la propria fatica e mettere a frutto le proprie inclinazioni e talenti è definitivamente alle nostre spalle». Adesso, sotto il regime dell’euro-rigore in cui deflagra la grande recessione occidentale, il lavoro stabile è il “sogno di una vita”, da raggiungere magari in età avanzata e per un colpo di fortuna. La notizia che arriva dalla Spagna «è di quelle difficili da digerire». Per il 6 gennaio un’impresa catalana, il gruppo Enrique Tomás, «metterà in palio in una lotteria abbinata a quella tradizionale del Niño, un posto di lavoro a tempo indeterminato».
    Lo slogan con il quale si pubblicizza l’iniziativa è altrettanto sintomatico, aggiunge Carotenuto nel suo blog. Il lavoro – un lavoro qualsiasi, ovviamente: un semplice posto di lavoro, cioè uno stipendio – ormai è proprio “il sogno di una vita”. «Per l’iniziativa verranno messi in palio 100.000 biglietti a cinque euro l’uno e il vincitore avrà perfino il diritto di cedere il posto di lavoro ad un “consanguineo o affine fino al terzo grado”». Sarà l’impresa Enrique Tomás a stabilire dove impiegare il vincitore, con una retribuzione in linea con gli altri salari del gruppo. Tra i premi minori, anche tre anni di mutuo pagato. Chiosa Carotenuto, docente universitario e saggista: «Chi scrive – e sono fortunato – è nella condizione di potersi prendere il lusso di indignarsi ma non di giudicare chi invece volesse provare». Non giudicare: sarebbe come schernire i poveri in fila per un piatto di minestra.
    Sempre sul suo blog, Carotenuto spiega chiaramente come la pensa: «Non brindo certo alla decadenza di Berlusconi», a lungo “protetto” dai «burocratini» del Pd. «Non dovevate farcelo entrare, in Parlamento: era ineleggibile, e non vi siete opposti. C’era un enorme conflitto d’interesse, e avete trattato. Ci avete mangiato la crostata insieme e ancora dovete spiegare perché. Gli avete lasciato fare la grande porcata perché conveniva anche a voi autonominarvi invece che farvi eleggere». Intanto, l’Italia crollava. Drammatica la sintesi che Paolo Barnard offre nello studio di Paragone, su La7: nel 2011, la Bce ha ricattato il governo Berlusconi (cioè i cittadini italiani) cessando di colpo di acquistare i nostri titoli di Stato, facendo salire alle stelle il debito pubblico. Volevano imporre Monti e il pacchetto-austerità della Troika. Letta e il Pd? Non pervenuti. Intanto, là fuori, le aziende chiudono e il lavoro sparisce. Se aprissero una lotteria anche in Italia, ci sarebbe la coda.

    Il lavoro rende liberi, recitava l’insegna irridente alle porte dell’inferno nazista, dove – oltre allo sterminio di massa – si sperimentava anche l’enorme vantaggio economico di milioni di operai ridotti in schiavitù. Oggi, dopo settant’anni, il lavoro come diritto è finito. E’ scomparso il lavoro come percorso di vita e progresso sociale, avverte Gennaro Carotenuto: «Il lavoro nel quale fare emergere le proprie capacità, il proprio impegno, la propria fatica e mettere a frutto le proprie inclinazioni e talenti è definitivamente alle nostre spalle». Adesso, sotto il regime dell’euro-rigore in cui deflagra la grande recessione occidentale, il lavoro stabile è il “sogno di una vita”, da raggiungere magari in età avanzata e per un colpo di fortuna. La notizia che arriva dalla Spagna «è di quelle difficili da digerire». Per il 6 gennaio un’impresa catalana, il gruppo Enrique Tomás, «metterà in palio in una lotteria abbinata a quella tradizionale del Niño, un posto di lavoro a tempo indeterminato».

  • Lo shopping che co-finanzia l’occupazione della Palestina

    Scritto il 10/12/13 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Il Medio Oriente sarà anche lontano, ma Israele è vicinissimo agli Stati Uniti: ogni anno, al momento di pagare le tasse, Tel Aviv “costa” ad ogni americano esattamente 21 dollari e 59 centesimi, secondo la “Us Campaign to End the Occupation”, organizzazione che si batte per la fine dell’occupazione della Palestina. Ma non è tutto: senza neppure rendersene conto, l’americano medio contribuisce in molti modi, ogni giorno, a “finanziare” indirettamente l’apartheid israeliano. Non è difficile: basta scendere al supermercato sotto casa e acquistare prodotti sfornati da stabilimenti installati in aree “abusive”, occupate in violazione di risoluzioni dell’Onu, in cui ai palestinesi si prelevano risorse vitali, mentre gli operai sono sottoposti a un regime di sfruttamento. Lo sostiene il newkorkese Alex Kane, editor mondiale di “AlterNet” e collaboratore di “Mondoweiss”. Le aziende contestate si chiamano Sodastream (acqua), Sabra Hummus (salse), Ahava (cosmetici), ma anche Hewlett Parckard e Motorola. Alcuni dei loro prodotti finiscono tra le scorte di reparti d’élite, responsabili di operazioni di sterminio come quella di Gaza.
    I consumatori statunitensi non lo sanno, scrive Kane in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, ma l’acquisto di prodotti come Sabra Hummus e Sodastream», salse tradizionali e macchine per produrre acqua gasata, «potenzia l’occupazione militare di Israele in Palestina», che dura da 46 anni. «Alcune aziende hanno stabilimenti situati in una delle 125 colonie ufficialmente note nella Palestina occupata, le quali in base al diritto internazionale sono illegali». Altre aziende «contribuiscono al mantenimento dell’occupazione attraverso la cooperazione con le Forze di Difesa Israeliane», anche se l’obiettivo principale dell’esercito di Tel Aviv «è quello di proteggere gli insediamenti illegali e di esercitare il dominio sulle vite di milioni di palestinesi». L’acquisto “innocente” di quei prodotti, di fatto, «dà profitti alle aziende che sfruttano le terre e le risorse palestinesi». Sodastream, che trasforma l’acqua del rubinetto in acqua gassata e in altre bevande aromatizzate, è un caso di successo negli Usa: secondo la Cnn, nel 2012 ha raddoppiato i profitti (quasi mezzo miliardo di dollari) dopo esser stata acquistata da una società israeliana, che l’ha poi ceduta a un fondo finanziario d’investimento.
    Nella pubblicità, l’azienda si dichiara “amica dell’ambiente”. «Ma il lato meno progressista di Sodastream – scrive Kane – si trova nella posizione della sua fabbrica», nell’insediamento di Mishor Adumim, alla periferia di Gerusalemme. La compagnia sostiene di non aver violato il diritto internazionale perché la fabbrica avvantaggia la popolazione palestinese, ma secondo la rivista “Who Profits?” gli operai palestinesi «soffrono condizioni di lavoro difficili». Forza lavoro a basso costo da sfruttare, e senza il diritto di protestare – pena il licenziamento. Rafforzando l’insediamento, Sodastream «contribuisce a uccidere ogni possibilità di uno Stato palestinese vitale e contiguo», dal momento che il distretto industriale «è stato strategicamente costruito per interrompere un facile accesso tra Ramallah e Betlemme, due importanti città della Cisgiordania».
    Discorso analogo per i produttori di “hummus”, tradizionale salsa a base di pasta di ceci e semi di sesamo, aromatizzata con essenze mediterranee. Gli americani ne vanno pazzi e, secondo l’“Huffington Post”, il produttore israeliano Sabra Hummus ha conquistato il 60% del mercato Usa. Problema: l’azienda «è in parte di proprietà di una società israeliana denominata Strauss Group, che ha “adottato” una unità di élite» dell’esercito. Si tratta della Brigata Golani, ritenuta responsabile di alcune operazioni di “macelleria” contro i civili di Gaza durante l’operazione “Piombo Fuso”. Oltre ad equipaggiare i soldati con kit alimentari e per la cura personale, il Gruppo Strauss – riferisce sempre Kane – ha inoltre ammesso di sostenere anche finanziariamente questa unità militare, per «attività assistenziali, culturali ed educative», ad esempio «aiuti economici per i soldati svantaggiati, attrezzature sportive e ricreative, pacchetti di assistenza, libri e giochi per il club dei soldati». L’analista statunitense accusa anche l’altro grande produttore di condimenti israeliani, Tribe Hummus: la società sarebbe, in parte, di proprietà di Osem, struttura che «collabora con il Fondo Nazionale Ebraico (Jnf)», gruppo che «ha giocato un ruolo chiave prima ancora della creazione dello Stato di Israele, partecipando a progetti con il fondatore dello Stato ebraico, David Ben Gurion». In pratica: «Operazioni di pulizia etnica», per strappare ai palestinesi le loro terre. Divenuto proprietario del 13% dei terreni in Israele, il Jnf collabora attivamente col governo per demolire villaggi palestinesi.
    Altro capitolo, la gamma di prodotti Ahava, che popolano le migliori vie dello shopping statunitense: «In ebraico, “Ahava” significa “amore”», ricorda Alex Kane, «ma ciò che non sarà mai scritto sui prodotti è che sono realizzati in un insediamento in Cisgiordania, di proprietà delle industrie che stanno illegalmente sfruttando le risorse naturali palestinesi», in primo luogo i rinomati fanghi del Mar Morto, che l’azienda «scava, in violazione del diritto internazionale per lo sfruttamento delle risorse di un territorio occupato». Da questa “sindrome” non è immune l’industria tecnologica: forse non tutti sanno che un colosso mondiale come Hewlett Packard (stampanti, fotocamere, computer e smartphone) possiede anche Eds Israele, la società che controlla – con la biometria – i lavoratori palestinesi. Dal 2009, Hp gestisce le informazioni per l’infrastruttura tecnologica della marina militare e dell’esercito israeliano, oltre a collaborare al progetto “Smart City” nella «colonia illegale» di Ariel in Cisgiordania. Quanto alla telefonia, tra le società “sussidiarie” della compagnia telefonica che si occupa dei militari israeliani figurerebbe anche un marchio come Motorola.

    Il Medio Oriente sarà anche lontano, ma Israele è vicinissimo agli Stati Uniti: ogni anno, al momento di pagare le tasse, Tel Aviv “costa” ad ogni americano esattamente 21 dollari e 59 centesimi, secondo la “Us Campaign to End the Occupation”, organizzazione che si batte per la fine dell’occupazione della Palestina. Ma non è tutto: senza neppure rendersene conto, l’americano medio contribuisce in molti modi, ogni giorno, a “finanziare” indirettamente l’apartheid israeliano. Non è difficile: basta scendere al supermercato sotto casa e acquistare prodotti sfornati da stabilimenti installati in aree “abusive”, occupate in violazione di risoluzioni dell’Onu, in cui ai palestinesi si prelevano risorse vitali, mentre gli operai sono sottoposti a un regime di sfruttamento. Lo sostiene il newkorkese Alex Kane, editor mondiale di “AlterNet” e collaboratore di “Mondoweiss”. Le aziende contestate si chiamano Sodastream (acqua), Sabra Hummus (salse), Ahava (cosmetici), ma anche Hewlett Parckard e Motorola. Alcuni dei loro prodotti finiscono tra le scorte di reparti d’élite, responsabili di operazioni di sterminio come quella di Gaza.

  • Missione, salvare l’Italia: ora Renzi non ha più alibi

    Scritto il 09/12/13 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Tre milioni di votanti: una mobilitazione popolare inattesa, in un paese assediato dallo sciopero dei “forconi”. Anche chi guarda al Pd con scetticismo e preoccupazione deve ammettere che i numeri popolari espressi dalle primarie dell’8 dicembre che hanno largamente incoronato Matteo Renzi rappresentano un segnale chiaro: la speranza che un cambiamento sia ancora possibile, e che possa avvenire per via elettorale. E’ una sorta di “sentimento democratico”, che – nonostante le abissali differenze – induce periodicamente milioni di italiani a recapitare un messaggio: ai referendum per fermare il nucleare e la privatizzazione dell’acqua, e alle politiche per indirizzare un ultimatum alla casta attraverso Grillo. Così, grazie agli italiani che hanno votato per il sindaco di Fiorenze, la tombale “stabilità” costruita da Napolitano è già in crisi. «Mentre Renzi riceve i voti di milioni di elettori democratici, il premier del Pd, Enrico Letta, riceverà una fiducia scontata con i voti di Alfano, Formigoni, Schifani. E’ molto difficile pensare che queste scene possano stare insieme».
    Lo sintetizza Jacopo Iacoboni, sulla “Stampa”: il difficile per Renzi comincia ora, perché «si delineano due scene stridenti e totalmente incompatibili». Da una parte «un uomo non ancora quarantenne che conquista la guida del partito con una campagna aperta, popolare, e chiedendo un voto agli italiani», e dall’altra, «in stanze divenute grigie, purtroppo, il Parlamento delle “larve intese” (neanche più larghe)». Dal corpo elettorale del Pd arrivano indicazioni inequivocabili: l’outsider Civati «è andato piuttosto bene, senza fare sfracelli ma dando segno di vitalità», mentre il dalemiano Cuperlo è colato a picco, «non perché non fosse un uomo di valore: semplicemente perché è apparso totalmente schiacciato e legato all’abbraccio mortale della burocrazia del partito (e della Cgil): un tandem micidiale che farebbe perdere una partita anche a Maradona, se esistesse, nell’Italia 2013».
    «In tempi di disaffezione e di protesta dilagante», scrive Ezio Mauro su “Repubblica”, la risposta dell’8 dicembre è «sorprendente e confortante», perché rappresenta «un atto di fede nella democrazia e persino nella politica, unito a una speranza testarda di cambiamento: in mezzo ad una crisi gravissima, che con la mancanza di lavoro sta erodendo la democrazia materiale del paese, le primarie dicono che per il popolo di sinistra la politica è ancora l’unico strumento per cambiare l’Italia, a patto che incominci a cambiare se stessa». Aggiunge Mauro: «Ogni volta che la sinistra dischiude le sue porte e chiede ai cittadini di partecipare la reazione è positiva, nonostante le delusioni e le frustrazioni accumulate in passato per la dissipazione dei dirigenti». Secondo il direttore di “Repubblica”, giornale “organico” al Pd, «la sinistra è seduta su un giacimento di energia democratica». Archiviata l’ombra lunga della nomenklatura dalemiana, ora non ci sono più alibi: «Renzi ha vinto soprattutto per questo: per la promessa di cambiare il Pd e il paese. Dovrà farlo subito, cominciando dalla legge elettorale, dai costi della politica, dalla crisi del lavoro».
    Guai se il sindaco di Firenze disperdesse l’ultima speranza, aggiunge Mauro, perché i milioni di elettori che hanno votato Renzi pretendono un cambiamento radicale. Un notevolissimo atto di fiducia, se si considera che il neosegretario non ha ancora detto praticamente nulla su come “rivoluzionerebbe” l’Italia. Pochi spiragli anche dal discorso della vittoria, pronunciato a caldo: «Ci siamo resi conto che tocca a noi perché abbiamo conosciuto l’euro e non l’Europa». L’orizzonte che conta è quello delle europee: con l’annunciata battaglia no-euro affidata alla credibilità di un certo Berlusconi e alle sgangherate analisi che Grillo ha offerto alla platea del V-Day di Genova. Finora, Renzi ha ignorato il problema, sostenendo che l’Italia può rimediare – da sola – ai guasti di Bruxelles, semplicemente ripulendo se stessa dai suoi vizi. Nel frattempo, il paese sta affondando, col premier di turno costretto a tagliare servizi vitali per rispettare i lacci e le tagliole fiscali imposte da una Troika che nessuno ha eletto. Attenti a non dare per morto il Pd, avverte Aldo Giannuli, perché i suoi elettori (regolarmente frustrati da pessimi dirigenti) pretendono una svolta “di sinistra”, che punti cioè a tutelare i diritti della maggioranza. Manca ancora l’attesa spiegazione: nemmeno Renzi ha finora spiegato perché il paese stia crollando, ricattato dai poteri forti che dominano le istituzioni europee e impongono la capitolazione del sistema-Italia. Tre milioni di voti sono un’enorme apertura di credito. L’ultima, prima che qualcuno spenga la luce.

    Tre milioni di votanti: una mobilitazione popolare inattesa, in un paese assediato dallo sciopero dei “forconi”. Anche chi guarda al Pd con scetticismo e preoccupazione deve ammettere che i numeri popolari espressi dalle primarie dell’8 dicembre che hanno largamente incoronato Matteo Renzi rappresentano un segnale chiaro: la speranza che un cambiamento sia ancora possibile, e che possa avvenire per via elettorale, persino attraverso gli attuali partiti. E’ una sorta di “sentimento democratico”, che – nonostante le abissali differenze – induce periodicamente milioni di italiani a recapitare messaggi espliciti: ai referendum per fermare il nucleare e la privatizzazione dell’acqua, e alle politiche per indirizzare un ultimatum alla casta attraverso Grillo. Così, grazie agli italiani che hanno votato per il sindaco di Firenze, la tombale “stabilità” costruita da Napolitano è già in crisi. «Mentre Renzi riceve i voti di milioni di elettori democratici, il premier del Pd, Enrico Letta, riceverà una fiducia scontata con i voti di Alfano, Formigoni, Schifani. E’ molto difficile pensare che queste scene possano stare insieme».

  • L’euro-oligarchia tortura i greci, senza più cibo né farmaci

    Scritto il 09/12/13 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Il 20 novembre il capo dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, ha chiesto che i greci «facciano altri sacrifici» per raggiungere gli obiettivi stabiliti dalla Troika. Definire questa una richiesta di sacrifici di sangue non è un’iperbole. Il grosso dei tagli al bilancio greco avviene nel settore sanitario e sociale. Stando al rapporto appena pubblicato dall’Ocse, “Health at a Glance 2013”, la spesa pro capite per la sanità in Grecia è crollata dell’11,1% tra il 2010 ed il 2011, il crollo peggiore in tutti i 34 paesi membri dell’Ocse. È aumentata la mortalità infantile. Come c’era da aspettarsi, il secondo posto va ad un’altra vittima della Troika, l’Irlanda, dove la spesa per la sanità è diminuita del 6,6%. Negli anni successivi la situazione è peggiorata drammaticamente. Ad un incontro dell’Associazione Medica di Atene il 16 novembre, il ministro della sanità greco Andonis Georgiadis è stato accolto da urla di “assassino economico” dalle centinaia di medici e operatori sanitari presenti.
    Pochi giorni prima Georgiadis, confermando che l’ente sanitario nazionale avrebbe licenziato oltre 1.200 medici, si era preso tutto l’onore di questa decisione. Oltre 6.000 medici sono già emigrati in cerca di un impiego. La stessa settimana Georgiadis ha ammesso che i pazienti di oncologia hanno liste di attesa di un anno per le cure negli ospedali pubblici, inclusi quelli di Atene e Thessaloniki. Al Policlinico di Iraklio, a Creta, devono aspettare fino all’ottobre 2014! Tutto il sistema è stato gettato nel caos quando sono stati chiusi otto ospedali nell’area di Atene. Uno studio condotto dalla Scuola nazionale di sanità pubblica dimostra che un greco su tre ha ridotto il dosaggio dei propri farmaci per farli durare più a lungo. I pazienti cronici hanno ridotto del 30% le visite dal 2011 al 2013, perché non possono più permettersi di pagare il ticket.
    Questa politica uccide, come dimostra il fatto che negli ultimi 4 anni l’aspettativa di vita è scesa da 81 a 78 anni. E questo non vale solo per gli anziani e gli infermi. L’Unicef riferisce che 600.000 bambini e giovani in Grecia sono malnutriti e vivono al di sotto del livello di povertà, mentre un altro studio ha rilevato che il 60% degli scolari affronta «l’incertezza del cibo» mentre il 23% patisce la fame. Tre famiglie su cinque in aree «socialmente vulnerabili» non sono neanche in grado di offrire ai propri figli una fetta di pane a colazione prima di mandarli a scuola. Decine di migliaia di genitori si sono dovuti rivolgere ad enti per l’infanzia quali “Sos Children’s Villages”, perché non possono più permettersi di nutrirli. Nonostante questi effetti killer, l’intenzione del governo è di ridurre la spesa sociale di un altro 10%. La disoccupazione aumenterà così dal 28 al 34%, con la disoccupazione giovanile arrivata ad un incredibile 64%.
    (“L’oligarchia euro chiede altri sacrifici di sangue”, intervento pubblicato da “Movisol” e ripreso da “Megachip” il 3 dicembre 2013).

    Il 20 novembre il capo dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, ha chiesto che i greci «facciano altri sacrifici» per raggiungere gli obiettivi stabiliti dalla Troika. Definire questa una richiesta di sacrifici di sangue non è un’iperbole. Il grosso dei tagli al bilancio greco avviene nel settore sanitario e sociale. Stando al rapporto appena pubblicato dall’Ocse, “Health at a Glance 2013”, la spesa pro capite per la sanità in Grecia è crollata dell’11,1% tra il 2010 ed il 2011, il crollo peggiore in tutti i 34 paesi membri dell’Ocse. È aumentata la mortalità infantile. Come c’era da aspettarsi, il secondo posto va ad un’altra vittima della Troika, l’Irlanda, dove la spesa per la sanità è diminuita del 6,6%. Negli anni successivi la situazione è peggiorata drammaticamente. Ad un incontro dell’Associazione Medica di Atene il 16 novembre, il ministro della sanità greco Andonis Georgiadis è stato accolto da urla di “assassino economico” dalle centinaia di medici e operatori sanitari presenti.

  • Mandela e la vergogna dell’altro apartheid: Israele

    Scritto il 08/12/13 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    L’opera di Nelson Mandela si celebra ovunque nel mondo in occasione della sua morte. Ma a cosa serve il suo esempio se accettiamo che possa perdurare in uno Stato – Israele – l’ideologia razziale che lui aveva sconfitto in Sud Africa? Il sionismo non è un frutto del giudaismo, che anzi gli fu a lungo ferocemente contrario. È semmai un progetto imperialista nato in seno all’ideologia puritana britannica. Nel XVII secolo, Lord Cromwell rovesciò la monarchia inglese e proclamò la Repubblica. Instaurò una società egualitaria e intese ampliare quanto più possibile la potenza del suo paese. Per questo, sperava di stringere un’alleanza con la diaspora ebraica che sarebbe diventata l’avanguardia dell’imperialismo britannico. Autorizzò quindi il ritorno degli ebrei in Inghilterra, da cui erano stati cacciati quattrocento anni prima, e annunciò che avrebbe creato uno stato ebraico, Israele. Tuttavia, morì senza essere riuscito a convincere gli ebrei a partecipare al progetto.
    L’impero britannico da allora non ha smesso di sollecitare la diaspora ebraica e di proporre la creazione di uno stato ebraico, come fece Benjamin Disraeli, primo ministro della regina Vittoria alla Conferenza di Berlino (1884). Le cose cambiarono con il teorico dell’imperialismo britannico, il “molto onorevole” Cecil Rhodes – il fondatore dei diamanti De Beers e della Rhodesia – che trovò in Theodor Herzl il lobbista di cui aveva bisogno. I due uomini si scambiarono una fitta corrispondenza, la cui riproduzione fu vietata dalla Corona in occasione del centenario della morte di Rhodes. Il mondo doveva essere dominato dalla «razza germanica» (ossia secondo loro gli inglesi, irlandesi inclusi, gli statunitensi e canadesi, gli australiani e neozelandesi e i sudafricani), che dovevano estendere il loro impero conquistando nuove terre con l’aiuto degli ebrei.
    Theodor Herzl non solo era riuscito a convincere la diaspora a partecipare a questo progetto, ma rovesciò il parere della sua comunità utilizzando i suoi miti biblici. Lo Stato ebraico non sarebbe stato una terra vergine in Uganda o in Argentina, ma in Palestina, con Gerusalemme come sua capitale. Ne deriva che l’attuale Stato di Israele sia il figlio tanto dell’imperialismo quanto dell’ebraismo. Israele, fin dalla sua proclamazione unilaterale, si è rivolto verso il Sud Africa e la Rhodesia, gli unici Stati assieme ad esso che manifestavano il colonialismo di Rhodes. Poco importa da questo punto di vista che gli Afrikaneers avessero sostenuto il nazismo, perché si erano nutriti con la stessa visione del mondo.
    Benché il primo ministro John Vorster fece viaggi ufficiali nella Palestina occupata solo nel 1976, già nel 1953 l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite aveva condannato «l’alleanza tra il razzismo sudafricano e il sionismo». I due Stati lavorarono con una collaborazione stretta tanto in materia di manipolazione dei media occidentali, quanto nei trasporti per aggirare l’embargo, o ancora per sviluppare la bomba atomica. L’esempio di Nelson Mandela dimostra che è possibile superare questa ideologia e ottenere la pace civile. Oggi Israele è l’unico erede al mondo dell’imperialismo alla maniera di Cecil Rhodes. La pace civile presuppone che israeliani e palestinesi trovino il loro De Klerk e il loro Mandela.
    (Thierry Meyssan, “Mandela e Israele”, da “Megachip” dell8 dicembre 2013).

    L’opera di Nelson Mandela si celebra ovunque nel mondo in occasione della sua morte. Ma a cosa serve il suo esempio se accettiamo che possa perdurare in uno Stato – Israele – l’ideologia razziale che lui aveva sconfitto in Sud Africa? Il sionismo non è un frutto del giudaismo, che anzi gli fu a lungo ferocemente contrario. È semmai un progetto imperialista nato in seno all’ideologia puritana britannica. Nel XVII secolo, Lord Cromwell rovesciò la monarchia inglese e proclamò la Repubblica. Instaurò una società egualitaria e intese ampliare quanto più possibile la potenza del suo paese. Per questo, sperava di stringere un’alleanza con la diaspora ebraica che sarebbe diventata l’avanguardia dell’imperialismo britannico. Autorizzò quindi il ritorno degli ebrei in Inghilterra, da cui erano stati cacciati quattrocento anni prima, e annunciò che avrebbe creato uno stato ebraico, Israele. Tuttavia, morì senza essere riuscito a convincere gli ebrei a partecipare al progetto.

  • Sawant: ora gli americani vogliono un partito di sinistra

    Scritto il 08/12/13 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    I tempi stanno davvero per cambiare, a quanto pare: e gli americani ora chiedono un terzo partito, che sia veramente di sinistra. La conquista di un seggio alle elezioni comunali di una grande città americana come Seattle è un evento storico per la candidata del piccolo partito “Alternativa Socialista”: Kshama Sawant è un’immigrata indiana di 41 anni, insegnante universitaria part time ed ex attivista locale di Occupy Wall Street, impostasi alle recenti elezioni amministrative della capitale dello Stato di Washington. Ha conquistato gli elettori di Seattle con un programma radicale di sinistra: aumento del salario minimo a 15 dollari l’ora, controllo del prezzo degli affitti, tassa milionaria sui maxi-redditi per finanziare il trasporto pubblico e l’istruzione. Nel mirino della leader socialista americana anche le grandi opere, come il progetto iper-inquinante che prevede il transito lungo Seattle di un elevato numero di treni che trasportano il carbone verso il porto di Bellingham, che diverrebbe il più grande terminale di esportazione del carbone nel Nord America.
    Il successo alle amministrative di Seattle è una conquista storica, dice l’attivista a Marco Orlando in un’intervista per “Micromega”. «Siamo stati gli unici senza finanziamenti delle grandi aziende ma abbiamo ricevuto più di 120.000 dollari, in gran parte piccole donazioni effettuate dalla gente comune». Campagna elettorale porta a porta, grazie a 300 volontari. L’estremo nord-ovest degli States come banco di prova: «La società americana esprime il desiderio di una politica alternativa ai due partiti che, secondo noi, sono entrambi rappresentativi degli interessi delle grandi imprese». Le crisi politiche come il recente “shutdown”, le pressioni di Obama per scatenare la guerra in Siria e le rivelazioni sul Datagate dell’Nsa «hanno minato il supporto sia per i democratici che per i repubblicani». Inoltre, «la grande recessione in corso ha rivelato che il capitalismo non funziona più per la maggior parte delle persone: molti, soprattutto tra i giovani, hanno maturato conclusioni radicali e sono alla ricerca di un’alternativa».
    Alcuni recenti sondaggi hanno rilevato che solo il 28% degli americani crede che democratici e repubblicani stiano governando in maniera soddisfacente, mentre il 60% riconosce la necessità di un terzo partito politico. «La nostra campagna, quindi, ha dato voce alla rabbia contro le politiche influenzate dalle grandi corporation», continua Kshama Sawant. «Siamo partiti dai bisogni di lavoratori, studenti e poveri di Seattle: un salario di sussistenza, il trasporto pubblico, alloggi a prezzi accessibili e finanziamenti per l’istruzione». Chiaro l’orizzonte intellettuale: «Abbiamo indicato il sistema capitalistico come la radice del problema e presentato il socialismo democratico come alternativa», del resto già presente all’interno di Occupy Wall Street. «Abbiamo conquistato la fiducia e il supporto necessari per dirigere i movimenti locali in direzioni efficaci».
    Seattle e Minneapolis – altra città dove i socialisti si sono affermati – faranno da apripista per seggi a Washington nelle elezioni di medio termine? «Uno dei principali obiettivi raggiunti era dimostrare l’esistenza di uno spazio a sinistra del Partito Democratico», spiega Sawant. «Abbiamo provato che i candidati indipendenti, non finanziati dalle grandi multinazionali, possono avere un grandissimo impatto sulla politica locale». Il gruppo è già al lavoro per «stringere coalizioni in tutto il paese, in modo da far correre insieme 100 candidati della sinistra indipendente alle elezioni politiche di medio termine: è il primo passo per costruire un partito politico che rappresenti milioni di cittadini americani e non i soliti ricchi».

    I tempi stanno davvero per cambiare, a quanto pare: e gli americani ora chiedono un terzo partito, che sia veramente di sinistra. La conquista di un seggio alle elezioni comunali di una grande città americana come Seattle è un evento storico per la candidata del piccolo partito “Alternativa Socialista”: Kshama Sawant è un’immigrata indiana di 41 anni, insegnante universitaria part time ed ex attivista locale di Occupy Wall Street, impostasi alle recenti elezioni amministrative della capitale dello Stato di Washington. Ha conquistato gli elettori di Seattle con un programma radicale di sinistra: aumento del salario minimo a 15 dollari l’ora, controllo del prezzo degli affitti, tassa milionaria sui maxi-redditi per finanziare il trasporto pubblico e l’istruzione. Nel mirino della leader socialista americana anche le grandi opere, come il progetto iper-inquinante che prevede il transito lungo Seattle di un elevato numero di treni che trasportano il carbone verso il porto di Bellingham, che diverrebbe il più grande terminale di esportazione del carbone nel Nord America.

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