Archivio del Tag ‘Abdel Fattah Al-Sisi’
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L’Egitto ’schiera’ i suoi faraoni contro i signori del Covid
Attenti all’Egitto: ora riesuma i suoi antichi faraoni, per far rinascere lo spirito nazionale. E lo fa con una gigantesca kermesse, che rivela due intenti: scrollarsi di dosso un certo globalismo-canaglia, quello che ha imposto il “panico Covid” nella sua agenda, e al tempo stesso “resuscitare” l’antico culto egizio, quello della civiltà delle piramidi ereditata dai Figli delle Stelle, per avvertire quella élite che ancora oggi, segretamente e in modo inconfessabile, sembra devota alle divinità mesopotamiche (Moloch) declinate in modo pericolosamente anti-umano. E’ la lettura che Matt Martini fornisce della grandiosa “Pharaohs’ Golden Parade” andata in scena il 3 aprile al Cairo, per il trasferimento di 22 salme regali, trasportate dal museo egizio della capitale al museo nazionale della civiltà egizia a Giza, proprio all’ombra della Sfinge. Senza nascondere i tratti «anche un po’ kitsch» della “Parata d’oro dei faraoni”, Martini – esperto di orientalistica e co-autore del saggio “Operazione Corona”, edito da Aurora Boreale – avverte: siamo in presenza della volontà (esibita) di far “risorgere” l’Egitto, interpretato come erede di divinità venute dal cielo, “richiamate in servizio” per soccorrere la Terra, caduta in preda agli eccessi del mondialismo più criminale.Una lettura visionaria? Per capire che così non è, basta osservare l’espressione dell’attuale “faraone” in carica, il generale Al-Sisi, appena colpito dall’oscuro, minaccioso blocco del Canale del Suez con l’anomalo incagliamento del cargo Ever Given, riconducibile (nella compagine azionaria degli armatori) al club di Bill Gates e Hillary Clinton. Nelle immagini televisive della “Pharaohs’ Golden Parade”, Al-Sisi ostenta un’espressione inequivocabile: ai suoi occhi, quelle mummie in viaggio sono una sorta di totem nazionale, il cuore sacro dell’Egitto. Attenzione: è un classico, il ricorso alla simbologia (esoterica) da parte del grande potere. Sul suo canale YouTube, Giorgio Di Salvo ha sottolineato le stranezze della cerimonia di insediamento dello stesso Joe Biden: «E’ stata la rappresentazione di un vero e proprio rito di iniziazione, incentrato sulla figura dell’eccentrica Lady Gaga, abbigliata in modo da riprodurre il vestiario e il corredo della Statua della Libertà: non quella famosa, al porto di New York, ma quella che per i massoni americani è la vera Statua della Libertà. Si tratta della statua che sormonta la cupola del Campidoglio, a Washington: la “libertà armata”, che richiama la dea greca Athena».Come se non bastasse, Di Salvo rievoca un’altra cerimonia di insediamento, quella di Emmanuel Macron a Parigi: «Per un attimo (in modo però attentamente studiato) le braccia levate del neo-eletto, sullo sfondo della piramide del Louvre, disegnano alla perfezione la combinazione simbolica costituita da squadra e compasso». Da Napoleone in poi, l’Egitto si è conquistato un posto d’onore, sulle rive della Senna. «Ma mentre i riti massonici di ispirazione egizia sono di origine moderna, nelle terre che vanno dal Nilo all’Eufrate sopravvivono in modo clandestino le ritualità cultuali antiche», precisa lo storico Nicola Bizzi, presente con Matt Martini e Tom Bosco nella trasmissione “L’Orizzonte degli Eventi”, sul canale YouTube di “Border Nights”. Lo stesso Martini cita la religione egizia tuttora praticata da «importanti sceicchi del Cairo», sotto la vernice ufficiale dell’Islam. Dal canto suo, Bizzi conferma che in Iraq «si praticano culti di origine sumerica, al riparo dei circoli Sufi (in teoria, islamici) che ospitavano personalità vicinissime al potere già all’epoca del regime di Saddam Hussein».Curioso che poi lo stesso Saddam sia stato abbattuto dai Bush – padre e figlio – che Gioele Magaldi presenta come fondatori della nefasta superloggia “Hathor Pentalpha”, dedita anche al terrorismo internazionale, avendo arruolato tra le sue fila prima Osama Bin Laden e poi Abu Bakr Al-Baghdadi, leader dell’Isis. C’è chi fa notare il collegamento tra l’acronimo Isis (Islamic State of Iraq and Sirya) e il nome della dea egizia Iside, chiamata anche Hathor. Iside-Hathor è la vedova di Osiride, nonché la madre di Horus: il trio incarna la “sacra famiglia” dell’antico Egitto faraonico, la “trimurti” fondativa del Nilo. Padre, madre e figlio, a sottolineare una tripartizione “energetica” successivamente reinterpretata in modo difforme dalla Trinità cristiana, rimodellando teologicamente la Tetractis triangolare di Pitagora: figura ricomparsa – in modo clamoroso – nella coreografia della grande Parata dei Faraoni appena proposta al Cairo, nel segno del recupero dell’antica sapienza “pagana”.«La grande kermesse egiziana è stata anche un atto di magia cerimoniale», sostiene Matt Martini a “L’Orizzonte degli Eventi”. «Obiettivo: risvegliare “l’eggregore” nazionale, il genio egizio: una vera e propria evocazione, tramite il ruolo delle mummie solennemente traslate da un museo all’altro, in mezzo ad ali di folla». Le mummie regali egizie, dice Martini, vanno considerate – nelle intenzioni degli organizzatori – come «veri e propri talismani umani: quelle salme sono state preparate ritualmente e trattate come oggetti di culto: per migliaia di anni, hanno ricevuto offerte votive». Dunque, per Martini, «sul piano magico sono strumenti perfetti, per fare da ponte con altre dimensioni». Spiega il saggista: «Si crede che la mummia, se conservata, contenga ancora il Ka del defunto: un’impronta dell’anima. A sua volta, il Ka viene visitato dal Ba, cioè l’anima che sale e scende. Infine, il Ba comunica con l’Akh, lo spirito trasfigurato dell’iniziato (il faraone), che secondo l’antica religione egizia resta in contatto con la dimensione degli Aku, i principi divini, gli Splendenti». In altre parole: un ascensore per il cielo, nel nome dell’Egitto delle piramidi.Martini invita a far caso ai numeri: sono state trasferite 22 salme, precisamente quelle di 18 faraoni e di 4 regine. Tutti regnanti compresi tra la 17esima e la 20esima dinastia. «La 17esima dinastima fu l’ultima del Secondo Periodo Intermedio, quello dominato dal caos, quando l’Egitto fu invaso dagli Hyksos. La dinastia successiva, quella Ramesside, segnò invece la restaurazione del potere faraonico egizio: l’inizio del Nuovo Regno». Anche al Cairo, assicura Martini, il potere gioca con i simboli: è come se il generale Al-Sisi paragonasse se stesso ai faraoni di nome Ramses, rifondatori dell’Egitto dopo le tempeste della storia. L’ultima, in questo caso, si chiama Covid: «Si noti: la mascherina non viene indossata né dai figuranti, spesso assiepati, né dalle migliaia di spettatori che assistono al corteo, stretti l’uno all’altro». Sembra un messaggio diretto ai “signori del coronavirus” e agli stessi vicini israeliani, che hanno trasformato il loro paese in area-test per la vaccinazione di massa. Per inciso: in concomitanza con lo strano incidente di Suez, Al-Sisi ha fatto riaprire (dopo anni) il valico di Rafah, a Gaza: l’unico non controllato da Israele.Oggi l’Egitto è un paese islamico e anche cristiano, ricorda Martini, alludendo all’importante confessione copta. Ma Al-Sisi – aggiunge – come militare impegnato in politica è pur sempre erede del nazionalismo laico, incarnaato dall’ex partito Baath, socialista e panarabo, cresciuto nel mito del grande leader terzomondista Abdel Gamal Nasser, che sfidò Francia, Gran Bretagna e Israele per rivendicare la piena sovranità del suo paese. Non si scherza, con l’Egitto: nel 1956 – quando inglesi e francesi sbarcarono a Porto Said per rovesciare Nasser, che aveva bloccato il Canale di Suez perché la Banca Mondiale non voleva concedere agli egiziani il prestito per erigere la diga di Assuan – l’Unione Sovietica (con il tacito consenso degli Usa) arrivò a minacciare gli invasori anglo-francesi di ricorrere alla bomba atomica, se non avessero lasciato l’Egitto. Finì nell’ignominia – e con il trionfo politico di Nasser – l’ultimo colpo di coda del colonialismo europeo nel Mediterraneo. Poi gli uomini del pararabismo Baath sono stati perseguitati: ucciso Saddam, invasa la Siria di Assad.Abdel Fattah Al-Sisi, in qualche modo erede di Mubarak (già allievo della scuola ufficiali di Mosca) si è imposto nel 2014 incarcerando i Fratelli Musulmani, inizialmente votati dagli egiziani dopo la turbolenta “primavera araba” innescata al Cairo dallo storico discorso incendiario del massone Obama, con l’obiettivo di “resettare” le oligarchie nordafricane non-allineate al potere di Washington (preservando invece le brutali petro-monarchie del Golfo, in primis quella saudita, devotissime al superpotere statunitense). Siamo tuttora in pieno caos: Giulio Regeni, reclutato (a sua insaputa) dall’intelligence britannica tramite una Ong universitaria, è stato barbamente assassinato per ostacolare i nascenti rapporti strategici tra Italia ed Egitto, dopo la scoperta da parte dell’Eni di un immenso giacimento marittimo di gas e petrolio al largo delle coste egiziane. Regeni – scrisse il “Giornale”, citando servizi segreti italiani – fu ucciso da manovalanza del Cairo, ma su ordine inglese, proprio per mettere in imbarazzo Al-Sisi, proprio mentre l’Italia stava chiedendo la protezione militare dell’Egitto, allora influente in Cirenaica, nell’ipotesi di inviare un contingente italiano in Libia.Oggi, Bengasi è passata sotto il controllo della Russia: è avvenuto dopo che, in modo simmetrico, Tripoli è caduta nelle mani della Turchia. Altro volto del caos di oggi è l’insidioso neo-ottomanesimo di Erdogan, supermassone reazionario e illustre membro della spietata “Hathor Pentalpha”, secondo Magaldi. Con un gesto inaudito, che riporta l’Italia al centro della scena in politica estera, Mario Draghi ha definito “un dittatore” il sultano di Ankara. Si tratta di un messaggio in codice – spiega Dario Fabbri, di “Limes” – rivolto agli Usa: Draghi li invita a non sacrificare gli interessi italiani in Libia, dopo che Ergodan ha promesso di aprire il Mar Nero alle portaerei americane (in funzione anti-russa) se lo Zio Sam chiuderà un occhio, anzi due, sulle ambizioni imperiali dei turchi nel Mediterraneo. Dalla parte dell’Italia c’è sicuramente l’Egitto, nuovo Eldorado per l’Eni dopo i problemi sopraggiunti in Libia. Nonostante le proteste per il doloroso caso Regeni, infatti, l’Italia ha appena ceduto al Cairo due fregate Fremm, gioiello della marina militare che l’Egitto immagina di dover impiegare, come arma di dissuasione, anche e soprattutto contro la Turchia di Erdogan.Modernissime fregate lanciamissili, ma non solo: la vera arma di Al-Sisi, a quanto pare, potrebbero essere proprio i venerati faraoni della 18esima dinastia, omaggiati come il Graal dell’Egitto. «Nella “Pharaohs’ Golden Parade” – insiste Matt Martini – si può leggere il ritorno alle origini ancestrali della nazione». Martini è attentissimo ai dettagli: le salme traslate con tutti gli onori sono 22, «come le lettere dell’alfabeto ebraico, che potrebbe derivare dall’alfabeto geroglifico egizio». Il trait d’union, dice l’analista, potrebbe essere stato l’alfabeto proto-sinaitico, una forma linguistica di transizione tra l’egizio geroglifico e gli alfabeti semitici (fenicio e aramaico, fino poi al più recente ebraico biblico). Sempre 22 – aggiunge Martini – erano anche i Nòmoi (i distretti amministrativi) dell’Alto Egitto, che aveva per capitale Tebe, la città della dinastia Ramesside. «Sono numeri non casuali: esprimono un preciso linguaggio, simbolico e operativo: quello di un’operazione di magia cerimoniale, a scopi politici e meta-politici».Indicazioni che Martini trae dall’analisi della grande parata del Cairo. «Allì’inizio, la soprano al centro della scena canta un inno a Iside. Poi, i militari sfilano in un viale illuminato di rosso, che è il colore di Seth e anche degli Hyksos: quindi, è come se i militari egiziani stessero calpestando gli Hyksos, nemici dell’Egitto». Quindi, il cambio di scenografia: «A un certo punto, il viale diventa blu: ed entra in scena una figurante (blu, anch’essa) che incarna Nuit, o Nut, la dea egizia del cielo stellato». Si vede una moltitudine di ancelle agitare un contenitore luminoso: «Qui punti di luce simboleggiano proprio le stelle, con un’allusione precisa: i nostri antenati ancestrali – di cui i faraoni erano i rappresentanti terreni – venivano dal cielo: erano Figli delle Stelle».Al Cairo, la grande parata è conclusa dal corteo dalle mummie, racchiuse nei loro sarcofagi trasportati su carri scenografati in modo un po’ hollywoodiano, per ricordare i mezzi di trasporto di migliaia di anni fa. «Per la religione tradizionale egizia – precisa Martini – le mummie vengono dal Duat, dalla dimensione stellare degli Aku. Questi faraoni non sono comuni mortali: sono tecnicamente delle divinità, non vengono dall’oltretomba infero ma dalla dimensione stellare». Significati sottolineati dalla stessa data scelta per la grandiosa cerimonia: «Il 3 aprile è il 23esimo giorno del mese di Ermuti, dedicato a Iside. Ed è l’ultimo giorno di un ciclo di festività dedicate a Horus, che è il vendicatore di suo padre, e dunque il vendicatore dell’Egitto». Messaggio: «Il potere che ha allestito la parata ha voluto celebrare un atto magico, per il risveglio nazionale dell’Egitto». Si tratta di un’élite che «lavora anche sul piano “sottile” e pratica ancora la teurgia, cioè l’arte di comunicare con le divinità». Non pensiate – assicura Martini – che la cosa sia sfuggita, ai “signori del Covid”: «Queste sono operazioni molto temute, da chi vuole nascondere certe cose». L’oligarchia ostile è avvisata: contro i nemici, ora l’Egitto schiera i suoi faraoni.Attenti all’Egitto: ora riesuma i suoi antichi faraoni, per far rinascere lo spirito nazionale. E lo fa con una gigantesca kermesse, che rivela due intenti: scrollarsi di dosso un certo globalismo-canaglia, quello che ha imposto il “panico Covid” nella sua agenda, e al tempo stesso “resuscitare” l’antico culto egizio, quello della civiltà delle piramidi ereditata dai Figli delle Stelle, per avvertire quella élite che ancora oggi, segretamente e in modo inconfessabile, sembra devota alle divinità mesopotamiche (Moloch) declinate in modo pericolosamente anti-umano. E’ la lettura che Matt Martini fornisce della grandiosa “Pharaohs’ Golden Parade” andata in scena il 3 aprile al Cairo, per il trasferimento di 22 salme regali, trasportate dal museo egizio della capitale al museo nazionale della civiltà egizia a Giza, proprio all’ombra della Sfinge. Senza nascondere i tratti «anche un po’ kitsch» della “Parata d’oro dei faraoni”, Martini – esperto di orientalistica e co-autore del saggio “Operazione Corona”, edito da Aurora Boreale – avverte: siamo in presenza della volontà (esibita) di far “risorgere” l’Egitto, interpretato come erede di divinità venute dal cielo, “richiamate in servizio” per soccorrere la Terra, caduta in preda agli eccessi del mondialismo più criminale.
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Bill Gates, la Clinton e lo stranissimo incidente di Suez
Ci sono anche Bill Gates e Hillary Clinton, nel puzzle azionario che fa capo all’armatore della gigantesca portacontainer Ever Given, incagliatasi il 23 marzo nel Canale di Suez, ostruendo per giorni l’idrovia mercantile più importante del mondo. Lo segnala “Come Don Chisciotte”, che si interroga sull’incidente più strano della storia: un mastodone da 200.000 tonnellate, mandato a sbattere contro le rive da una semplice tempesta di vento? Strano: l’enorme nave faceva parte di un convoglio: tra tanti cargo incolonnati, la tempesta avrebbe colpito solo lei? Altra stranezza: prima di imboccare il canale, la Ever Given aveva seguito una rotta “folle”, disegnando sui tracciati Gps – letteralmente – un gigantesco pene: la “firma” di una clamorosa beffa? «La nave non solo si è messa di traverso, ma con la prua si è addirittura conficcata in un argine-sponda del canale, manovra che a questo punto è difficile ritenere accidentale: con l’apparato motore, infatti, sarebbe stato possibile contrastare la manovra sbagliata ed evitare l’impatto».Lo afferma su “Africa ExPress” l’ingegner Bruno Brugnoni, consulente marittimo e già direttore di macchina sui grandi mercantili. Un uomo esperto, che ha passato decine di volte il Canale di Suez. «Certamente – conclude – la verità non si saprà mai. Non essendoci stati morti o feriti, tutte le questioni saranno risolte dalle assicurazioni: e queste non hanno interesse a divulgare i particolari». Il mistero del “fallo” sui tracciati tiene banco anche sui giornali: goliardata, gesto involontario o strana coincidenza? Il disegno, sottolinea il “Fatto Quotidiano”, lo si vede chiaramente dal filmato pubblicato su Twitter dal sito “Vessel Finder”, specializzato nel tracciare e registrare le tracce Gps delle navi. Le stesse autorità egiziane – vere vittime del blocco dell’idrovia – non escludono l’errore umano. Sull’inserto “InsideOver” del “Giornale”, Lorenzo Vita suggerisce un’altra possibilità: l’hackeraggio a distanza dei comandi della nave. Esistono infatti «hacker in grado di penetrare nei sistemi informatici dell’imbarcazione e impartire gli ordini».Ipotesi solo teorica, suffragata però da test come quello condotto da Gianni Cuozzo, amministratore delegato di Aspisec, durante un recente convengo sulle “rotte digitali del trasporto”: a scopo dimostrativo, a Genova, Cuozzo «ha hackerato una petroliera in navigazione nel Mar Adriatico, e ci è riuscito con un semplice pc portatile fornito dall’Autorità di Sistema Portuale genovese». L’esperto di cyber-rischi, ricorda Lorenzo Vita, «si è servito di due portali, accessibili a chiunque, per identificare la nave e capire quale fosse il sistema informatico che la governava. Attraverso il sistema di tracking è penetrato nella rete della nave e in quel momento aveva tutte le capacità di controllare le attività all’interno dell’imbarcazione». Nella sostanza, alle ore 7.40 del mattino, la Ever Given – proveniente dalla Malesia e diretta nel Mediterraneo, per poi scaricare a Rotterdam i suoi 18.300 container imbarcati – si è incagliata su una delle sponde del canale, ostruendolo completamente e impedendo il passaggio di qualsiasi nave, essendo lunga 400 metri.Il giorno successivo all’incidente, almeno altre 15 navi erano trattenute agli ancoraggi e almeno 237 navi erano in coda per passare. Purtroppo, la nave si era incagliata nella sezione del canale non ampliata, rendendone impossibile l’aggiramento. Il 29 marzo, infine, la nave è stata sbloccata e lentamente raddrizzata. Nei giorni successivi all’incagliamento, molte navi hanno deciso di intraprendere la circumnavigazione dell’Africa, che comporta costi maggiori e tempi più lunghi di almeno 10 giorni. In tutto, l’incidente ha impedito la circolazione di più di 400 navi, tra cui 25 petroliere. L’agenzia “Bloomberg” stima che l’ostruzione del Canale di Suez, attraverso il quale transitano 19.000 navi all’anno (il 12% delle merci mondiali e il 30% del traffico dei container spediti via mare), abbia creato una perdita economica di almeno 9,6 miliardi di dollari al giorno, per la mancata consegna delle merci (oltre 8 miliardi, secondo i Lloyd’s, il valore delle merci bloccate nei giorni scorsi nel canale).«È certo che una nave di quel tipo non può arenarsi tanto facilmente su un tratto rettilineo e ipercontrollato», scrive Marco Di Mauro su “Come Don Chisciotte”. La Ever Given, poi, è un gioiello dell’ingegneristica navale d’avanguardia, di marca giapponese (Imabari Shipbuilding). Nel Cda di Imabari, scrive il blog, a farla da padrone è Mitsui, che a sua volta è compartecipata da un’infinità di soggetti, tra cui – in modo diretto e indiretto, anche attraverso il gruppo Evergreen – i maggiori fondi d’investimento (Vanguard e BlackRock, letteralmente “padroni del mondo”), oltre al miliardario Bill Gates, passato dall’informatica ai vaccini, e alla signora Clinton in persona. «Dunque – sintetizza Di Mauro – possiamo affermare con certezza che la Ever Given è una nave di proprietà dei gruppi speculativi globalisti, quelli che stanno operando il Great Reset attraverso l’Operazione Covid, quelli che si sono specializzati nell’approfittare di emergenze e crisi globali da loro create».Il regime egiziano del generale Al-Sisi, aggiunge “Come Don Chisciotte”, «è sempre stato nella lista nera dei globalisti, che hanno nel mirino i giacimenti dello Zor, scoperti da Eni, e legati alla morte di Giulio Regeni». Non solo: il blocco di Suez è stato solo uno dei molteplici incidenti che in questi giorni hanno tagliato l’Egitto in due. «Ora il paese, oltre a dover rimborsare tutte le compagnie di navigazione e ad aver perso somme ingentissime per la chiusura di Suez, si trova a fronteggiare una crisi interna senza precedenti». Sempre Di Mauro segnala che l’Egitto ha incoraggiato «colloqui tra realtà indipendentiste palestinesi», e ha appena riaperto – dopo anni – il valico di Rafah, unico accesso a Gaza non controllato da Israele. «Come dimostra il suo essersi prestato come laboratorio a cielo aperto di Pfizer (traduci BlackRock), Israele è l’avamposto più importante della strategia globalista in Medio Oriente». Si domanda Di Mauro: «Che il blocco di Suez sia stata una rivalsa israeliana sulle aperture di Al-Sisi, supportata dai cinesi e dai globalisti?».Una rappresaglia, dunque, o magari un oscuro avvertimento? Mitt Dolcino parla delle «incredibili giustificazioni» (la tempesta di vento) per «l’incredibile incidente di una delle navi più grandi del mondo nel Canale di Suez», per giunta «dopo aver disegnato un gigantesco pene con le sue manovre prima di incagliarsi». E non è che, magari, nei prossimi giorni – si domanda Dolcino – qualcuno deciderà di proibire ai maxi-cargo, per “rischi simili e mai analizzati prima”, l’accesso al Canale di Panama? Singolari concidenze: il giorno 24 marzo (del 1999) esplosero strani incendi nei trafori autostradali del Monte Bianco e del Tauern in Austria, e sempre il 24 marzo (del 2001) ci fu il rogo del San Gottardo in Svizzera. Incendi costati quasi cento vittime, tutti nel giorno del calendario che segue quello dell’incidente di Suez. «Dopo l’ultimo incendio nei tunnel europei – scrive Mitt Dolcino – si sbloccò, di lì a breve, il progetto ingegneristico ancora oggi più rilevante del mondo, l’Alptransit ferroviario (da cui scaturì anche l’implementazione del progetto Tav se volete). Poi nessun, altro incidente devastante dello stesso tipo». E adesso, il “mistero” dell’incagliamento di Suez.Ci sono anche Bill Gates e Hillary Clinton, nel puzzle azionario che fa capo all’armatore della gigantesca portacontainer Ever Given, incagliatasi il 23 marzo nel Canale di Suez, ostruendo per giorni l’idrovia mercantile più importante del mondo. Lo segnala “Come Don Chisciotte“, che si interroga sull’incidente più strano della storia: un mastodonte da 200.000 tonnellate, mandato a sbattere contro le rive da una semplice tempesta di vento? Strano: l’enorme nave faceva parte di un convoglio: tra tanti cargo incolonnati, la tempesta avrebbe colpito solo lei? Altra stranezza: prima di imboccare il canale, la Ever Given aveva seguito una rotta “folle”, disegnando sui tracciati Gps – letteralmente – un gigantesco pene: la “firma” di una clamorosa beffa? «La nave non solo si è messa di traverso, ma con la prua si è addirittura conficcata in un argine-sponda del canale, manovra che a questo punto è difficile ritenere accidentale: con l’apparato motore, infatti, sarebbe stato possibile contrastare la manovra sbagliata ed evitare l’impatto».
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Regeni, 007 ucciso dagli inglesi in vista della guerra in Libia
Giulio Regeni non era solo un talento, un ragazzo prodigio, ma anche uno 007 di primo livello reclutato dall’Aise, l’intelligence italiana all’estero, che utilizzava l’ateneo di Cambridge come copertura, dando cioè l’illusione di lavorare per Londra. Missione: tenere sotto pressione il regime di Al-Sisi, sul mancato rispetto dei diritti umani, raccogliendo prove. Vero obiettivo: aiutare l’Italia a “convincere” l’Egitto – anche in cambio del silenzio su quel dossier – a dare pieno appoggio a Roma nella imminente missione di guerra in Libia. Opzione temutissima soprattutto da Londra, preoccupata dalle ottime relazioni italiane con il Cairo. Da qui la contromossa dell’intelligence britannica, l’Mi6, che avrebbe infiltrato il Mukhabarat, il servizio segreto egiziano, ordinando a una sua cellula di sequestrare il giovane, torturarlo e ucciderlo, per poi farlo ritrovare orribilmente martoriato. Conseguenza evidente: una crisi diplomatica tra Roma e l’ignaro governo di Al-Sisi, altra vittima del complotto inglese, insieme all’Italia e soprattutto al povero Regeni, intrappolato in una sanguinosa spy-story.La vicenda avrebbe anche potuto avere un finale diverso: la liberazione del ragazzo, se i colleghi 007 italiani avessero a loro volta sequestrato un agente inglese, per poi organizzare lo scambio di prigionieri, come ai tempi della guerra fredda. E’ la testi esposta nei giorni scorsi da un grande giornalista come Marco Gregoretti, già inviato di “Panorama”, vincitore del Premio Saint-Vincent per i suoi servizi sulle violenze (stupri, torture) commesse nelle missioni di pace in Somalia, dove furono assassinati Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Tralasciando le ovvie smentite dei familiari di Regeni, Gregoretti si sofferma sull’anomalia assoluta della smentita ufficiale fornita dall’Aise (normalmente, i servizi segreti non “esternano”, men che meno con comunicati stampa). Soprattutto, il giornalista sottolinea il silenzio delle principali istituzioni: nessuna smentita, sul ruolo di Regeni in Egitto, né da Palazzo Chigi né dalla Farnesina, a conferma del basso profilo che sta tenendo il governo Renzi, «saggiamente orientato alla prudenza», di fronte all’inaudita gravità del complotto inglese.Dopo svariati articoli pubblicati sul suo blog, ripresi anche dal “Giornale” (non senza conseguenze: il reporter racconta di aver ricevito «esplicite minacce»), Gregoretti ha riassunto la sua posizione in un’intervista a Stefania Nicoletti per “Border Nights”, trasmissione web-radio. Premessa obbligatoria: si tratta di analisi, considerazioni e deduzioni, data l’impossibilità di esibire riscontri e rivelare fonti riservate, cui il giornalista ha evidentemente accesso. Punto di partenza, a livello geopolitico: l’insofferenza di Londra per il rapporto privilegiato tra l’Italia e Al-Sisi, come in Libia ai tempi di Gheddafi. «L’ombra efficiente del Mi6, la gloriosa intelligence britannica, si allunga sempre più sulla morte dell’agente dell’Aise, (il servizio segreto italiano che si occupa di estero) Giulio Regeni». Gregoretti cita una delle sue fonti, secondo cui «gli inglesi, in Egitto, hanno giocato sporco come in Libia, soltanto che là c’erano anche i francesi». A Londra «non vogliono che si mantenga il canale aperto tra il nostro governo e Al-Sisi, soprattutto in vista della guerra in Libia».Quel che è successo al Cairo, scrive Gregoretti, ha il ritmo e la suspense di un giallo di John Le Carré. «Regeni era un operativo della nostra intelligence, ma non nel senso degli interventi armati o di azione fisica, la sua operatività era di tipo informativo». Per la fonte di Gregoretti, il giovane friulano barbaramente assassinato in Egitto era «molto intelligente, serio e a modo». Ma, «contrariamente a quanto si potrebbe evincere dalle fotografie con il gattino, anche preparato fisicamente». Per questo avrebbe reagito alla cattura, «lottando in maniera determinata», prima di essere «sopraffatto numericamente». Che c’entra l’Mi6? «Tutto, o quasi», scrive Gregoretti. «Le università britanniche sono terreno fertile dei servizi segreti inglesi: sono una delle coperture maggiormente praticate. E a quella di Cambrige, una delle più prestigiose, era collegato Regeni. Ed è proprio da lì che il suo contatto, la professoressa Maha Abdelharam, esperta di Medio Oriente, interrogata in questi giorni dal pm Sergio Colaiocco (che ha sentito anche il professor Gennaro Gervasio, l’uomo che la sera del 25 gennaio diede l’allarme della scomparsa di Regeni), gli chiese di approfondire le informazioni sui sindacati e sui Fratelli Musulmani». Il giovane aveva anche ricevuto una precisa scaletta di notizie che doveva trasmettere all’ateneo inglese: un documento molto importante, che in questo momento dovrebbe essere nelle mani dei carabinieri del Ros.Insomma, l’ Mi6 avrebbe usato l’università di Cambrige con una doppia finalità: avere il materiale e sapere che cosa era a conoscenza dei servizi italiani: «Regeni, pensando di avvalorare la copertura, infatti, mandava una copia a Cambrige (senza sapere che in realtà era una trappola inglese) e una all’Aise». Per liquidarlo, gli agenti britannici avrebbero utilizzato una sezione del Mukhabarat, che è un servizio segreto diviso in tre tronconi che non comunicano tra loro. In più, secondo la fonte di Gregoretti, «In Egitto ci sono alcuni generali che si oppongono ad Al-Sisi». Sicché, per l’intelligence britannica, «geniale in questo tipo di operazione», il gioco è stato facile: «In un paese dove il livello di corruzione è piuttosto alto, l’Mi6 non ha avuto problemi a mettere al proprio soldo un paio di agenti del Mukhabarat e a fargli fare il lavoro sporco». Dunque, concluce Gregoretti, il presidente egiziano davvero non sapeva nulla. «Tant’è che il cadavere è stato ritrovato dopo il suo intervento. Ma il contesto era perfetto per creare un problema serio tra l’Egitto e l’Italia: c’era la visita del ministro dello sviluppo economico Federica Guidi, si stavano prendendo importanti accordi economici e, soprattutto, militari in vista della guerra».L’Mi6 teneva d’occhio Regeni da tempo, continua Gregoretti. E sapeva benissimo che era un agente segreto italiano. «D’altronde, Regeni stesso ne diede indirettamente conferma quando, l’11 dicembre, partecipando a una assemblea sindacale, disse di essersi accorto che qualcuno lo stava fotografando. Erano i giorni in cui da Cambrige gli avevano chiesto gli approfondimenti di ricerca». Quindi, ricapitolando, Regeni è stato prelevato da due persone del Mukhabarat che lo hanno torturato per avere informazioni su quanto ancora non aveva relazionato della sua ricerca (sul sindacato degli autotrasportatori, per esempio) e poi l’hanno ucciso e mutilato facendo ritrovare il cadavere il 3 febbraio, con lo scopo di creare un incidente tra il nostro paese e l’Egitto di Al-Sisi. E l’Aise? Risponde l’informatore: «L’Aise gioca, questi no: questi uccidono. Il problema è che ognuno di noi all’estero, con i servizi segreti che abbiamo, è un Regeni in pericolo». Che fare, allora? Secondo la fonte, bisognava «catturare il primo loro spione in Italia, tanto si conosce l’elenco, e far capire che non era aria. Secondo me – aggiunge il funzionario – inglesi o non inglesi, ci avrebbero restituito Regeni in un batter d’occhio. Queste sono operazioni che si sono sempre fatte sul campo. Ma oggi, sul campo chi c’è?».Giulio Regeni non era solo un talento, un ragazzo prodigio, ma anche uno 007 di primo livello reclutato dall’Aise, l’intelligence italiana all’estero, che utilizzava l’ateneo di Cambridge come copertura, dando cioè l’illusione di lavorare per Londra. Missione: tenere sotto pressione il regime di Al-Sisi, sul mancato rispetto dei diritti umani, raccogliendo prove. Vero obiettivo: aiutare l’Italia a “convincere” l’Egitto – anche in cambio del silenzio su quel dossier – a dare pieno appoggio a Roma nella imminente missione di guerra in Libia. Opzione temutissima soprattutto da Londra, preoccupata dalle ottime relazioni italiane con il Cairo. Da qui la contromossa dell’intelligence britannica, l’Mi6, che avrebbe infiltrato il Mukhabarat, il servizio segreto egiziano, ordinando a una sua cellula di sequestrare il giovane, torturarlo e ucciderlo, per poi farlo ritrovare orribilmente martoriato. Conseguenza evidente: una crisi diplomatica tra Roma e l’ignaro governo di Al-Sisi, altra vittima del complotto inglese, insieme all’Italia e soprattutto al povero Regeni, intrappolato in una sanguinosa spy-story.
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Benvenuti nel Grande Caos, quello che ci farà a pezzi
I tempi in cui ci tocca di vivere stanno diventando cupi e tetri. Pur senza concedere nulla al pessimismo della ragione, sentire un pontefice evocare la Terza Guerra Mondiale, il segretario della Nato non escluderla come scenario, e importanti giornali proporci quotidianamente una mappa dei conflitti che incendiano le regioni strategiche del mondo in cui viviamo, non è certo rassicurante. Soprattutto perchè la realtà incasella e aggiunge giorno dopo giorno le conferme che la pallina collocata sul piano inclinato continua a scivolare pericolosamente. Accelerando. Ma le guerre non sono una fatalità. Possono esplodere quando un incidente accelera i processi storici; ma si verificano perchè ci sono forze materiali che hanno spinto i processi verso la rottura, lo scontro, il “clash tra le potenze”, come scrissero in un ottimo libro Petras, Casadio e Vasapollo. La cosa che colpisce – che deve colpire anche gli ottusi “di sinistra” – è che il novanta per cento dei focolai di conflitto circonda l’Europa come un cerchio di fuoco.L’ovest appare pacifico solo perchè confina con l’Atlantico, un oceano che divide l’Europa dagli Stati Uniti, ovvero la sponda da cui arrivano le spinte più forti a coinvolgere l’Europa verso il “clash”. La linea intrapresa dai governi dell’Unione Europea sulla crisi e il conflitto in Ucraina è emblematica. Gli Usa spingono i paesi europei verso il conflitto con il più grande e armato di essi: la Russia. Il prossimo vertice Nato a Newport appare foriero di pessime decisioni che accentueranno e non depotenziaranno i pericoli di guerra sulla frontiera est. Resistenze e dubbi, se ancora esistono, abitano menti silenziose. Ma a sud non va meglio. La destabilizzazione creativa (una categoria rassicurante per descrivere le guerre asimmetriche di aggressione scatenate dal 2001 a oggi), ha creato una fascia di instabilità belligerante nella vicina Libia e in Iraq, Siria, Palestina ed Egitto dove, tra Gaza e Sinai, la normalizzazione militare imposta dal generale Al Sisi – diventato beniamino delle cancellerie occidentali – riesce a malapena a comprimere il fuoco sotto le braci.Insomma, la sponda sud dell’Europa è l’area di instabilità e guerra più infuocata del globo. Oggi appare evidente come nessuna delle potenze in campo abbia chiaro quali siano le prospettive, se non quella di ripetuti bagni di sangue e instabilità da gestire a distanza, attraverso la logica del bombardamento con i droni quando gli effetti rischiano di tracimare, mettendo in discussione parametri vitali come le forniture energetiche, idriche, o gli equilibri geopolitici. I ripetuti cambi di campo e di alleanze appaiono molto più che inevitabili cinismi della governance. Il doppio e triplo gioco di Stati Uniti e potenze europee ha entusiasmato e coinvolto anche altri soggetti, come le petromonarchie del Golfo o la Turchia, che usano gli ingenti introiti che vengono dalle rendite petroliferi o dalle royalties sui diritti di passaggio per finanziare milizie in guerra tra loro. Una disamina delle ingerenze di petromonarchie come Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi, dalla Bosnia del ‘93 passando per la Cecenia, l’Afghanistan fino a Libia, Iraq, Libano, Siria, Palestina e Sudan, ci consegna uno scenario di guerra di tutti contro tutti e una brusca rimessa in discussione dei confini coloniali definiti dalle potenze europee alla fine della Prima Guerra Mondiale.In realtà questo assetto era già stato sconvlto dall’entrata in campo degli Stati Uniti in Medio Oriente, fin dal colpo di Stato del 1953 contro Mossadeq in Iran e poi lo stop imposto a Francia e Gran Bretagna nel 1956 a Suez. Da quel momento, il Medio Oriente è diventato terreno di caccia privilegiato di Washington; un’enclave in cui le potenze europee, Italia inclusa, potevano al massimo ritagliarsi interstizi per i propri limitati interessi (vedi la Libia). Ma gli ultimi anni, quelli in cui gli Stati Uniti hanno visualizzato e cercato di contrastare con ogni mezzo il proprio lento declino, hanno assestato un nuovo scossone all’assetto precedente. Via l’Iraq di Saddam, la Libia di Gheddafi, la Siria di Assad, ma anche la Palestina dell’Olp; sostituendoli con il caos e la balcanizzazione, abolendo gli Stati. Senza mai dimenticarsi la disintegrazione della Jugoslavia e della ex Urss. Altri territori “vergini” che hanno visto nascere a est di Berlino ben 30 Stati dove prima ve ne erano otto; e solo la metà di questi hanno più di dieci milioni di abitanti. Staterelli, dunque, poco più che “granducati”. Facili da piegare, minacciare, ricattare, eventualmente cancellare o sovvertire.Fino a un certo punto.Ecco, è questo “certo punto” che indica la soglia di crisi che si va raggiungendo. E non solo perchè oggi la Russia di Putin punta i piedi nel proprio “cortile di casa”, ma perchè somiglia, assai più che l’Urss, ai suoi competitori; e perchè tra i paesi a capitalismo di Stato (usiamo una forzatura per semplificare una realtà complessa come i Brics) e quelli a capitalismo mercantilista che caratterizzano Stati Uniti ed Unione Europea (cioè potenze più compiutamente imperialiste), non ci sono più i margini per spartirsi in modo concertato come in passato il mondo. Dunque se la concertazione e le camere di compensazione – per quanto asimmetriche, rispetto al Washington Consensus – non hanno più la materia per realizzarsi, il mondo diventa oggetto di competizione. E la competizione avviene con ogni mezzo. Il caos e l’instabilità nel cortile di casa degli altri possibili competitori diventano la condizione preliminare e necessaria, anche se mai sufficiente. Che tutto questo abbia un costo umano sempre più alto non pare essere un problema. Un capitalismo in crisi distrugge i capitali in eccesso, è noto. E per un sistema che punta solo alle risorse, alla sopravvivenza competitiva, anche il “capitale umano” – definito anche e non a caso “capitale variabile” – può diventare un eccesso da dover distruggere.(Sergio Cararo, “Il caos che sfugge di mano”, da “Contropiano” del 27 agosto 2014).I tempi in cui ci tocca di vivere stanno diventando cupi e tetri. Pur senza concedere nulla al pessimismo della ragione, sentire un pontefice evocare la Terza Guerra Mondiale, il segretario della Nato non escluderla come scenario, e importanti giornali proporci quotidianamente una mappa dei conflitti che incendiano le regioni strategiche del mondo in cui viviamo, non è certo rassicurante. Soprattutto perchè la realtà incasella e aggiunge giorno dopo giorno le conferme che la pallina collocata sul piano inclinato continua a scivolare pericolosamente. Accelerando. Ma le guerre non sono una fatalità. Possono esplodere quando un incidente accelera i processi storici; ma si verificano perchè ci sono forze materiali che hanno spinto i processi verso la rottura, lo scontro, il “clash tra le potenze”, come scrissero in un ottimo libro Petras, Casadio e Vasapollo. La cosa che colpisce – che deve colpire anche gli ottusi “di sinistra” – è che il novanta per cento dei focolai di conflitto circonda l’Europa come un cerchio di fuoco.