Archivio del Tag ‘agenda rossa’
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Carpeoro: Paolo Borsellino avrebbe fatto crollare il mondo
Si torna a parlare del milione di dollari in contanti che sarebbero stati consegnati ai Nar da Licio Gelli alla vigilia della strage di Bologna, cioè poco prima del 2 agosto 1980. I Nar, Nuclei Armati Rivoluzionari (terrorismo “nero”) hanno avuto lo stesso ruolo delle Brigate Rosse: erano infiltrati, e sono stati strumento di una serie di pratiche eversive. Dietro a tutte quelle storie c’è l’operazione Stay Behind, quindi il generale Santovito e la mano di quel gruppo che oggi è rappresentato da Michael Ledeen. Il loro obiettivo era destabilizzare il nostro paese, perché in quel momento l’Italia era un laboratorio pericoloso: c’era un Partito Socialista che stava crescendo in un certo modo, e c’era un Partito Comunista che comunque si qualificava con un apparente, progressivo allontanamento dalle posizioni sovietiche. Tutte cose che, a certi gruppi reazionari americani, non convenivano. Ma quella sovragestione non è solo statunitense: è anche inglese, per esempio. Poi gli attentati eclatanti terminano, quando l’obiettivo viene raggiunto. Gradualmente, in Italia, i personaggi pericolosi vengono fatti fuori: Moro, Berlinguer (morto per i fatti suoi), Craxi. Dal dopo-Craxi, inizia un altro tipo di stagione, rappresentata da Romano Prodi, che dura tuttora.A quel punto, mi si domanda, non c’era più bisogno di attentati? Quelli attribuiti alla mafia erano dovuti a motivi contingenti, che poi sono cessati. Oggi, se vogliamo, Matteo Messina Denaro è un apostolo della stabilità politica esattamente come Romano Prodi. L’attentato a Falcone, però, non ha la stessa matrice di quello costato la vita a Borsellino: i due giudici sono morti per motivazioni diverse. Falcone è morto perché, nella sua posizione, era diventato ancora più fastidioso, sia per la mafia che per un certo assetto politico che c’era dietro alla mafia (per come veniva governata Palermo, per esempio). Borsellino invece è morto per una sua indagine precisa, che non doveva andare avanti. Riguardava una realtà finanziaria internazionale che, a seguito di quell’inchiesta, avrebbe comportato una specie di Giudizio Universale. Soldi che arrivavano in Italia per determinati scopi? Non solo: anche soldi che partivano, dall’Italia, per determinati scopi; soldi che partivano da tutto il mondo, sempre per determinati scopi. La maggior parte dei soldi, dopo gli anni Ottanta, sono arrivati dal traffico della droga. Il narcotraffico serve a fare soldi: tanti. E i soldi servono a diventare molto potenti, e a diventare intoccabili: definitivamente. Oggi è ancora parzialmente così.Falcone ha scrutato nel Deep State internazionale? Falcone era un uomo più strategico, Borsellino era un uomo più tattico. Dietro a ogni inchiesta di Falcone c’era comunque sempre una grande strategia, mentre Borsellino stava facendo un’inchiesta specifica, in senso pragmatico e con la capacità che lo catatterizzava. Borsellino, quando chiudeva un’inchiesta, non scriveva un capitolo della storia della mafia (quello lo faceva Falcone). Qual era il meccanismo scoperto da Borsellino? Aveva scoperto una struttura di sovragestione bancaria e finanziaria inimmaginabile. Era un flusso di soldi, da e verso l’Italia: quando servivano per fare cose in Italia, arrivavano in Italia; quando servivano per fare cose altrove, andavano altrove. Per scopi privati? Per causare cambiamenti politici? Dipende. Si può dire che l’annosa retorica sulle figure di Falcone e Borsellino serva un po’ anche a distogliere l’attenzione da quello che stavano veramente facendo. Tant’è vero che “l’agenda rossa” è sparita: e là dentro, Borsellino scriveva tutto.L’Italia però non è l’unico “laboratorio”, in questo senso: esperimenti importanti, riguardo alla modernizzazione della sovragestione e della mafia, sono stati condotti anche negli Usa, in Francia, in Germania. Probabilmente Craxi avrebbe rischiato la vita, se fosse rimasto al suo posto. Prodi, ricorda qualcuno, fu toccato dall’indagine “Why Not” di De Magistris, dopo che furono trovate delle carte Sim collegate a una loggia massonica di San Marino. Tutto vero, ma chi poi fermò De Magistris sbagliò il calcolo: come giudice era talmente incapace che non avrebbe creato problemi, se lo avessero lasciato andare avanti. Quelle scoperte da Borsellino sono le stesse realtà che denunciava Kennedy? Con alcune differenze: ai tempi di Kennedy, la situazione era un po’ diversa. Gratteri è in pericolo come Falcone e Borsellino? Probabilmente sì, anche se non sono in grado di certificarlo. Le mafie, si dice, sono ormai diventate un’unica entità; oggi c’è la globalizzazione: perché, riguardo alla mafia, non dovrebbe essere successa la stessa cosa? Attualmente il potere non appartiene a nessuno, in esclusiva; a detenerlo è una serie di trust e di organismi complessi, che costituiscono quella che io chiamo sovragestione.Prodi non è legato solo a Usa, Francia e Germania; collabora anche con la Cina. In questa sovragestione, la Cina ha il ruolo – di diritto – di un super-soggetto economico, che ha rivendicato il suo spazio e se l’è conquistato. Il suo peso, rispetto a quello degli Usa, dipende un po’ dai momenti: quattro o cinque anni fa contava di più. Nella sovragestione è compresa anche una parte del Vaticano, anche se il suo ruolo è ormai marginale rispetto a quello di vent’anni fa. Oggi il Vaticano è più debole, dal punto di vista del potere: ha sempre meno seguaci, e quindi in prospettiva anche meno risorse finanziarie. Quanto alla mafia, capace di firnare stragi e condurre trattative con lo Stato, è una struttura che è potuta crescere in assenza dello Stato. La figura ingombrante di Casalino, accanto a Conte? Fa parte dello specchio del degrado di questo paese: c’è uno specchio generale di degrado, nel quale anche la vicenda politico-personale di Rocco Casalino fa la sua porca figura. Il rapporto tra Conte e la sovragestione? Conte è un frutto della sovragestione. Lui lo sa? Penso di sì. L’appoggio vaticano di cui gode conta quanto il Vaticano oggi, cioè abbastanza poco, però Conte ne fa buon uso. E Mattarella? E’ sostanzialmente una persona per bene, che per una serie di motivi ha comunque fatto delle scelte che io non condivido.(Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate nell’ambito della conversazione web-streaming “Carpeoro Racconta”, con Fabio Frabetti di “Border Nights”, su YouTube il 26 luglio 2020. Scrittore e saggista, eminente simbologo e autore di volumi come “Dalla massoneria al terrorismo” uscito nel 2016 per Revoluzione, sei mesi fa Carpeoro si era già espresso sulla fine di Borsellino, affermando che il magistrato aveva scoperto un flusso di denaro mafioso utilizzato per finanziare importanti politici del Nord Europa, perché usassero l’Ue in chiave anti-italiana).Si torna a parlare del milione di dollari in contanti che sarebbero stati consegnati ai Nar da Licio Gelli alla vigilia della strage di Bologna, cioè poco prima del 2 agosto 1980. I Nar, Nuclei Armati Rivoluzionari (terrorismo “nero”) hanno avuto lo stesso ruolo delle Brigate Rosse: erano infiltrati, e sono stati strumento di una serie di pratiche eversive. Dietro a tutte quelle storie c’è l’operazione Stay Behind, quindi il generale Santovito e la mano di quel gruppo che oggi è rappresentato da Michael Ledeen. Il loro obiettivo era destabilizzare il nostro paese, perché in quel momento l’Italia era un laboratorio pericoloso: c’era un Partito Socialista che stava crescendo in un certo modo, e c’era un Partito Comunista che comunque si qualificava con un apparente, progressivo allontanamento dalle posizioni sovietiche. Tutte cose che, a certi gruppi reazionari americani, non convenivano. Ma quella sovragestione non è solo statunitense: è anche inglese, per esempio. Poi gli attentati eclatanti terminano, quando l’obiettivo viene raggiunto. Gradualmente, in Italia, i personaggi pericolosi vengono fatti fuori: Moro, Berlinguer (morto per i fatti suoi), Craxi. Dal dopo-Craxi, inizia un altro tipo di stagione, rappresentata da Romano Prodi, che dura tuttora.
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Mafia, euro-rigore e Covid: tramonta il paradiso dei cretini
Quattro mesi fa, a “Border Nights”, Gianfranco Carpeoro fece una dichiarazione clamorosa: Paolo Borsellino, assassinato a Palermo proprio mentre la Prima Repubblica stava crollando sotto i colpi di Mani Pulite, aveva fatto una scoperta sconcertante. E cioè: da anni, Cosa Nostra finanziava politici europei di prima grandezza, alcuni dei quali tuttora in auge in paesi come Francia, Germania e Olanda. Obiettivo: contribuire all’assetto oligarchico di un’Ue progettata per sottomettere le popolazioni, spingendo i governi (costretti all’austerity) a trasformarsi in arcigni esattori. Vittima predestinata, il Belpaese. Un grande disegno: indebolire le possibilità di tutti, tranne pochissimi. E se in tanti ormai hanno messo a fuoco la tragedia storica dell’ordoliberismo eurocratico che ha sventrato prima la Grecia e poi l’Italia, Borsellino – già all’inizio degli anni ‘90, in odore di Maastricht e tra il giubilo dei Romano Prodi di turno – ne aveva prima intuito e poi scoperto anche la componente mafiosa, cioè il ruolo finanziario (nella politica europea) di un player impresentabile come la criminalità organizzata. Un partner-ombra, oscuro e ambiguo quanto la catena di comando che il 19 luglio 1992 ordinò che venisse azionato il fatidico detonatore in via D’Amelio, facendo poi sparire subito la tristemente famosa “agenda rossa” da cui il magistrato non si separava mai.Un’esternazione, quella di Carpeoro, particolarmente attuale oggi, tra le miserevoli polemiche innescate a Merkelandia da “Die Welt”, che accusa la mafia di tifare per gli aiuti europei destinati a un’Italia che Conte ha sottoposto al coprifuoco, dopo aver lasciato “scappare” in tutta la penisola migliaia di potenziali “untori” provenienti dal focolaio iniziale, lombardo. Specularità inquietanti: alla “piccola” mafia italiana corrisponderebbe la grande cupola tecno-finanziaria della galassia neoliberale europea, il cui potenziale di fuoco fa impallidire quello dei colleghi nostrani, picciotti e boss. Che poi la tre due consorterie esistesse addirittura un legame diretto e operativo, a quanto pare – secondo Carpeoro – lo scoprì Borsellino, ereditando alcune intuizioni di Giovani Falcone sul ruolo delle “menti raffinatissime” (cioè non-corleonesi) dietro alla strategia della tensione inaugurata in Italia in modo sincronico, rispetto alla devastante stagione di Tangentopoli. L’argomento naturalmente resta controverso, arduo da dipanare e letteralmente proibitivo per moltissimi cervelli politici, come quelli che hanno monopolizzato il paese nel deprimente derby a puntate degli ultimi anni, prima i 5 Stelle contro il Pd, poi le Sardine contro Salvini. E ora a fischiare la fine del match è intervenuto l’arbitro più spietato, il coronavirus.La verminosa inflessibilità di Bruxelles – il Re Nudo che intende negare all’Italia qualsiasi vero sostegno finanziario, svincolato dal debito – oggi ammutolisce i tanti coristi del “ce lo chiede l’Europa”, che in questi decenni hanno sistematicamente applaudito lo smantellamento progressivo dell’ex quinta potenzia industriale del mondo. L’ipocrisia euro-cannibale si avvale della spettacolare perfidia dell’Olanda, utilizzata come Stato-canaglia in funzione anti-italiana. L’Olanda – accusa Carpeoro – si sta rivelando la fogna d’Europa: grazie al dumping fiscale che l’Ue le consente di attuare, drena risorse strategiche proprio a quell’Italia a cui si nega risolutamente ogni aiuto, persino in mezzo alla catastrofe del Covid-19. Domanda: se ne saranno accorti, gli italiani? Lo sanno che proprio l’Olanda è una delle sedi strategiche dell’ex Fiat, il colosso industriale lautamente foraggiato per decenni dallo Stato italiano e poi involatosi verso lidi fiscali più confortevoli, senza neppure garantire il futuro degli stabilimenti della Penisola? Si rendono conto, i connazionali, del fatto che le news a loro disposizione sono amministrate da network tra cui spiccano gli alfieri di “Repubblica”, pronti a demonizzare Salvini dopo aver perseguitato Berlusconi? E’ chiaro, ai lettori, che il titolare dell’intero Gruppo Espresso oggi si chiama John Elkann?Non fa prigionieri, la falce del coronavirus. Solo ieri, il paese era infestato da notizie funeree facenti capo a sigle come Ilva, Atlantia, Alitalia. Frantumi di un paese in via di dissoluzione, da trent’anni in avanzo primario: lo Stato costretto a incamerare, con le tasse, più soldi di quanti ne potesse fornire a famiglie e aziende, sotto forma di servizi. Uno squilibrio scandaloso, coperto dal coro del “ce lo chiede l’Europa”, con i suoi solisti – tanto simili ai simpatici tedeschi del “Welt” – sempre prontissimi a parlare solo di mafia, evasione fiscale e debito pubblico. Se quello era un tempio, un santuario di menzogne, adesso il tetto è crollato. Sessanta milioni di persone fremono, rinchiuse in casa dal protocollo “cinese” della quarantena infinita imposto dal nuovo padrone delle loro vite, l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Milioni di connazionali sono ridotti alla disperazione: senza soldi, e con la quasi-certezza di non poter riaprire le loro attività. Lo spettacolo è inquietante: un intero paese nelle mani di un piccolo, oscuro premier venuto dal nulla, mai eletto da nessuno, ora costretto – almeno – a cercare di salvare la pelle, tenendo testa ai famelici squali europei. Decenni di finzioni si stanno sbriciolando, giorno per giorno, grazie alla drammatica severità del momento. Si scopre, di colpo, che è perfettamente possibile erogare centinaia di miliardi, creandoli dal nulla. Non lo si poteva fare, prima? Certo, ma non lo si voleva. Non ci saranno più poltrone comode, per i coristi: a quanto pare, questo non sarà più il paradiso dei cretini.(Giorgio Cattaneo, “Mafia, Ue, Covid: tramonta il paradiso dei cretini”, dal blog del Movimento Roosevelt del 10 aprile 2020).Quattro mesi fa, a “Border Nights”, Gianfranco Carpeoro fece una dichiarazione clamorosa: Paolo Borsellino, assassinato a Palermo proprio mentre la Prima Repubblica stava crollando sotto i colpi di Mani Pulite, aveva fatto una scoperta sconcertante. E cioè: da anni, Cosa Nostra finanziava politici europei di prima grandezza, alcuni dei quali tuttora in auge in paesi come Francia, Germania e Olanda. Obiettivo: contribuire all’assetto oligarchico di un’Ue progettata per sottomettere le popolazioni, spingendo i governi (costretti all’austerity) a trasformarsi in arcigni esattori. Vittima predestinata, il Belpaese. Un grande disegno: indebolire le possibilità di tutti, tranne pochissimi. E se in tanti ormai hanno messo a fuoco la tragedia storica dell’ordoliberismo eurocratico che ha sventrato prima la Grecia e poi l’Italia, Borsellino – già all’inizio degli anni ‘90, in odore di Maastricht e tra il giubilo dei Romano Prodi di turno – ne avrebbe prima intuito e poi scoperto anche la componente mafiosa, cioè il ruolo finanziario (nella politica europea) di un player impresentabile come la criminalità organizzata. Un partner-ombra, oscuro e ambiguo quanto la catena di comando che il 19 luglio 1992 ordinò che venisse azionato il fatidico detonatore in via D’Amelio, facendo poi sparire subito la tristemente famosa “agenda rossa” da cui il magistrato non si separava mai.
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Dalla mafia soldi in Ue contro l’Italia: il segreto di Borsellino
«Soldi della mafia a fior di politici europei». A che scopo, negli anni Novanta? Inguaiare l’Italia, già terremotata da Tangentopoli, in vista della nascita dell’Ue? Era il grande segreto di Paolo Borsellino, assassinato a Palermo il 19 luglio 1992. Chi lo dice? Gianfranco Carpeoro, saggista e osservatore privilegiato dell’attualità in virtù del suo curriculum: per trent’anni avvocato (vero nome, Pecoraro) e a lungo “sovrano gran maestro” del Rito Scozzese italiano. E come sa, Carpeoro, che Borsellino aveva scoperto l’indicibile? «Sono cose che leggo e che sento», taglia corto, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights”, l’8 dicembre. Già vicino a Craxi, Carpeoro – benché fuoriuscito dal mondo delle logge – coltiva una sua riservatissima diplomazia massonica, estesa in Italia e all’estero. Nell’estate 2018 le sue affermazioni, di fatto, sventarono il complotto ordito dal francese Jacques Attali, mentore di Macron, per impedire l’elezione di Marcello Foa alla presidenza della Rai (beffando Salvini, che l’aveva candidato). Operazione, secondo Carpeoro, architettata con la collaborazione di Napolitano, Tajani e Berlusconi, ma poi sfumata dopo le esternazioni dell’avvocato, riprese dal quotidiano “La Verità” diretto da Maurizio Belpietro.
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Totò Riina, un progetto organico al tritacarne del potere
Totò Riina? E’ stato un progetto di potere, inserito in uno schema. «Dobbiamo immaginare lo schema del potere come una specie di enorme tritacarne. Lo scopo del potere è realizzare la carne tritata. E’ indifferente di chi sia, la carne, nel senso che poi il potere utilizza di volta in volta schemi, persone, associazioni». E in Sicilia, storicamente, il potere ha utilizzato la mafia. Parola di Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” e del nuovissimo “Il compasso, il fascio e la mitra”, che illumina i retroscena dell’origine del fascismo. «Sicuramente – dice – Riina ha risposto allo schema generale del potere, che di volta in volta attiva i personaggi che gli sono funzionali». L’ex super-boss di Corleone è stato accusato di oltre 100 omicidi? «Era il capo, di basso livello, di una associazione criminale che ha commesso quegli omicidi, ma che rispondeva comunque a uno schema di ordine superiore». Ingranaggi di un meccanismo infernale: quei personaggi che stanno al di sopra di Riina hanno certamente preordinato le varie azioni, «ma anche loro sono burattini, in mano a uno schema astratto». Semplice manovalanza criminale, Riina? «Sì, e anche di basso livello, oserei dire», afferma Carpeoro, in diretta streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights”. La narrativa sul “boss dei boss”? In parte, creata solo per depistare l’opinione pubblica: la fabbricazione dell’Uomo Nero, l’incarnazione del male.«Il potere – spiega Carpeoro – cerca sempre di additare un responsabile con cui te la devi prendere, altrimenti fininisci per mettere in discussione il vero potere: l’autoconservazione del potere impone che tu te la prenda con qualcuno, non con qualcosa». Per contro, aggiunge, per uno Stato che si ponga obiettivi di progresso «è necessario sgominare un’organizzazione criminale come quella di Totò Riina». E’ esistita una trattativa Stato-mafia? «Sì, più volte», risponde Carpeoro. «Nel momento in cui la mafia ha un riferimento nel potere politico che governa, di questi accordi ce ne saranno stati migliaia». Molte volte, addirittura, «è stata la mafia stessa a consegnare alla pubblica gogna (e alle forze dell’ordine) alcuni suoi esponenti divenuti ingombranti, indifendibili e ingestibili, troppo nell’occhio del ciclone». E l’ha fatto «con l’obiettivo (concordato) di tacitare tutte le altre iniziative di contrasto della criminalità mafiosa». Aggiunge Carpeoro: «Se uno vuole fare davvero la lotta alla mafia, deve combattere lo schema di potere che ha deciso di utilizzare la mafia, così come si è configurata nell’arco di decenni», a partire dallo sbarco alleato in Sicilia nella Seconda Guerra Mondiale.«Per gestire anche la mafia – aggiunge Carpeoro – gli americani hanno creato appositamente una loggia massonica: hanno dato vita al cosiddetto Progetto Colosseum, da cui sono nate numerose logge». Gli statunitensi «hanno utilizzato la mafia anche a scopi bellici, per assicurarsi un’invasione indisturbata della Sicilia (a fin di bene, in quel caso, perlomeno rispetto al contrasto del nazifascismo)». I rapporti tra gli Usa e Cosa Nostra sono sempre stati organici, dice Carpeoro: «Non a caso Andreotti, nel suo processo d’appello, per ottenere l’assoluzione ha citato come testimoni consoli, diplomatici e alti dirigenti degli Stati Uniti d’America». I politici uccisi dalla mafia, da Salvo Lima a Piersanti Mattarella? «Alcuni erano obiettivi tattici, cioè davano fastidio in quel momento; altri erano obiettivi strategici, cioè rappresentavano battaglie da dissuadere fin dall’inizio». Dipende dalle circostanze, dal periodo: «Ci sono stati dei momenti in cui alla mafia è convenuto essere meno visibile, e altri momenti in cui la mafia ha valutato invece che riaffermare le proprie prerogative sul territorio comportasse una certa visibilità».Cosa conteneva la famosa Agenda Rossa di Borsellino? «Elementi delle sue indagini, credo», ipotizza Carpeoro. «Non penso fosse arrivato a indicazioni generali; credo abbia indagato sui rapporti tra la mafia e una certa politica siciliana, e che fosse andato molto avanti, in questa direzione. Non scordiamoci che quel tipo di politica, in realtà, è indispensabile per vincere le elezioni, in Sicilia: quel tipo di politica utilizza anche la mafia, il voto di scambio, tant’è vero che troviamo continuamente casi di politici siciliani coinvolti». Storicamente, continua Carpeoro, la mafia in Sicilia è stata sempre collegata alla Democrazia Cristiana: «Quindi, basta andare appresso agli ex democristiani e si trovano le radici del problema. Borsellino poi indagò anche su Forza Italia, ma perché Forza Italia, in Sicilia, per vincere le elezioni si fece infiltrare da quel tipo di politica democristiana». Le indagini di Borsellino potevano illuminare anche i retroscena della grande svendita finanziaria dell’Italia? «Quelle sono logiche che poi si sono sovrapposte, nel potere. Esistono logiche generali e logiche locali; a volte queste logiche coincidono, e allora si creano questi coaguli di pressione».Il pentito Vincenzo Calcara parla della mafia come di una “entità” accanto ad altre, come la massoneria e il Vaticano. «Tutto ciò che gestisce potere, alla fine, finisce nel tritacarne», insiste Carpeoro: «Tutto il tritato generale della nostra vita civile è fatto di tante componenti; nel momento in cui un certo modo di fare politica ha infiltrato anche la massoneria, la stessa massoneria (almeno quella locale, non so quella nazionale) è diventata uno dei gangli di questo schema di potere. D’altro canto, la stessa massoneria internazionale si è resa “fruibile”, da parte di meccanismi di potere, quindi la cosa non mi meraviglia minimanente». Mafia Capitale a Roma? «Interpretare il termine “mafia” in senso estensivo, cioè riferibile a qualunque associazione criminale, è possibile in linea teorica ma non so quanto sia utile sul piano pratico: perché la mafia, pur essendo diventata di portata ultra-nazionale, è pur sempre un fenomeno molto radicato su territori». La mafia siciliana come prodotto dell’Italia unita? «Cerchiamo di capirci: tutti quelli che collegano la mafia all’Unità d’Italia dicono un cazzata», sostiene Carpeoro, sottolineando che, prima dell’Unità d’Italia, nel Meridione, il potere era in mano ai latifondisti, i cosiddetti baroni, con i loro temutissimi “camperi”.«Il principale alleato del barone era il capobastone del posto», ricorda Carpeoro, «perché la polizia borbonica non era così efficiente e ramificata da garantire l’ordine pubblico. E quindi in ogni paese c’era uno – più furbo, più arrogante, più violento, magari anche dotato di un certo magnetismo nei confronti di coloro che formavano la sua banda – che garantiva ai latifondisti l’esercizio di un potere incontrastato e lo sfruttamento indisturbato delle altre persone. Questa era già mafia», inutile negarlo. Nel momento in cui si crea l’Unità d’Italia, poi, la mafia diventa brigantaggio, «nella dissidenza di quelli a cui il potere è stato tolto». Ma attenzione: «C’è anche una vasta area di trasformazione e di coesione di questi vecchi sistemi nei confronti del nuovo assetto politico: per cui, poi, si creerà il nuovo asse, sul territorio, tra il potere politico e la mafia». Nell’atroce storia mafiosa, suscitano orrore delitti come l’omicidio di Giuseppe Di Matteo, il ragazzino rapito a 13 anni e poi, dopo oltre 700 giorni di prigionia, ucciso da Brusca e altri complici, che ne sciolsero il corpo nell’acido. «Come leggere un delitto di questo tipo? Come una barbarie, ricollegabile al basso livello della manovalanza mafiosa – basso livello da ogni punto di vista: non solo etico, ma anche pratico e strategico». Eppure, sottolinea Carpeoro, bisogna ricordarsi che la mafia di Brusca e Riina è stata usata e incorporata nello schema di potere dell’Uomo Nero, quello che fa in modo che ce la prendiamo sempre con qualcuno, non con il sistema stesso. E’ così che il gioco è destinato a non finire.Totò Riina? E’ stato un progetto di potere, inserito in uno schema. «Dobbiamo immaginare lo schema del potere come una specie di enorme tritacarne. Lo scopo del potere è realizzare la carne tritata. E’ indifferente di chi sia, la carne, nel senso che poi il potere utilizza di volta in volta schemi, persone, associazioni». E in Sicilia, storicamente, il potere ha utilizzato la mafia. Parola di Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” e del nuovissimo “Il compasso, il fascio e la mitra”, che illumina i retroscena dell’origine del fascismo. «Sicuramente – dice – Riina ha risposto allo schema generale del potere, che di volta in volta attiva i personaggi che gli sono funzionali». L’ex super-boss di Corleone è stato accusato di oltre 100 omicidi? «Era il capo, di basso livello, di una associazione criminale che ha commesso quegli omicidi, ma che rispondeva comunque a uno schema di ordine superiore». Ingranaggi di un meccanismo infernale: quei personaggi che stanno al di sopra di Riina hanno certamente preordinato le varie azioni, «ma anche loro sono burattini, in mano a uno schema astratto». Semplice manovalanza criminale, Riina? «Sì, e anche di basso livello, oserei dire», afferma Carpeoro, in diretta streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights”. La narrativa sul “boss dei boss”? In parte, creata solo per depistare l’opinione pubblica: la fabbricazione dell’Uomo Nero, l’incarnazione del male.
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Scarpinato: Falcone ucciso da mafia e 007, su ordine di chi?
Il 23 maggio 1992 esplose l’autostrada di Capaci e si portò via Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta. In questi 25 anni abbiamo raggiunto l’importante risultato di condannare all’ergastolo gli esecutori mafiosi delle stragi e i componenti della “commissione” di Cosa Nostra che le deliberarono. Ma restano ancora impermeabili alle indagini rilevanti zone d’ombra: un cumulo di fonti processuali, tali e tante da non potere essere neppure accennate tutte, convergono nel fare ritenere che la strategia stragista del 1992-’93 ebbe matrici e finalità miste, frutto di una convergenza di interessi tra la mafia e altre forze criminali. Di che tipo? Lo diceva già in un’informativa del 1993 la Dia (Direzione Investigativa Antimafia): dietro le stragi si muoveva una «aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergono finalità diverse»; e dietro gli esecutori mafiosi c’erano menti che avevano «dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali».Traduzione: insieme a personaggi come Salvatore Riina, Matteo Messina Denaro, i fratelli Graviano e altri boss che perseguivano interessi propri di Cosa Nostra, si mossero altre forze che utilizzarono la mafia come braccio armato, come “instrumentum regni” e come causale di copertura per i loro sofisticati disegni finalizzati a destabilizzare la politica. Questa convergenza di interessi criminali la rivelò per primo Elio Ciolini, un ambiguo personaggio implicato nelle indagini per la strage di Bologna, legato al mondo dei servizi segreti, della massoneria e dell’eversione nera. Nel 1992 era in carcere a Bologna e il 4 marzo e il 18 marzo, poco prima che si scatenasse l’inferno, anticipò ai magistrati che nel marzo-luglio del ’92 sarebbe stato ucciso un importante esponente della Dc, sarebbero state compiute stragi e poi si sarebbe distolto «l’impegno dell’opinione pubblica dalla lotta alla mafia, con un pericolo diverso e maggiore di quello della mafia». Tutti quegli eventi puntualmente si verificarono: il 12 marzo ’92 fu assassinato l’eurodeputato Salvo Lima, proconsole di Andreotti in Sicilia; il 23 maggio fu consumata la strage di Capaci; il 19 luglio quella di via D’Amelio; poi – sempre come Ciolini aveva anticipato – la strategia stragista si spostò al Centro-Nord con le mattanze di Milano e Firenze e gli attentati a Roma.Tutte azioni rivendicate da comunicati a nome della “Falange Armata”, sigla di un’organizzazione eversiva che serviva appunto a distogliere l’opinione pubblica dal pericolo mafioso. Ma Ciolini non fu l’unico ad avere la “sfera di cristallo” che gli consentì di rivelare con così largo anticipo l’unitarietà e il respiro strategico della lunga campagna stragista. Il 21 e il 22 maggio 1992 l’agenzia di stampa “Repubblica”, vicina ai servizi segreti, pronosticò che di lì a poco ci sarebbe stato un bel “botto esterno” per giustificare uno voto di emergenza che avrebbe sparigliato i giochi di potere in corso per la elezione del nuovo presidente della Repubblica. Anche questo evento puntualmente si verificò il 23 maggio: il “botto esterno” di Capaci azzerò le manovre per portare alla presidenza della Repubblica il senatore Giulio Andreotti e contribuì all’elezione dell’outsider Oscar Luigi Scalfaro.Molti collaboratori di giustizia ci hanno confermato in seguito che un selezionato numero di capi della Commissione regionale di Cosa Nostra, riuniti alla fine del 1991 in un casolare della campagna di Enna, avevano discusso per vari giorni quel complesso progetto politico che stava dietro alle stragi. Un progetto che fu tenuto segreto ad altri capi e ai ranghi inferiori dell’organizzazione, ai quali venne fatto credere che le stragi servivano solo a scopi interni alla mafia, cioè a costringere lo Stato a scendere a patti, garantendo in vari modi impunità e benefici penitenziari. E invece – come la Dia evidenziò già nel 1993 – dietro quella campagna si celavano menti raffinate e soggetti esterni, il cui ruolo attivo emerge anche nella fase esecutiva delle stragi. Purtroppo, dopo 25 anni di indagini, non è stato ancora possibile identificarli. Sono ancora ignoti i personaggi che, dopo la strage di Capaci, si affrettarono a ispezionare i file del computer di Falcone (riguardanti Gladio e i delitti politico-mafiosi) nel suo ufficio romano al ministero della giustizia, alla ricerca di documenti scottanti di cui evidentemente conoscevano l’esistenza. E restano senza nome anche gli uomini degli apparati di sicurezza che fornirono ai mafiosi le riservatissime informazioni logistiche indispensabili per uccidere Falcone già nel 1989 nel momento in cui si sarebbe concesso un bagno sulla scogliera del suo villino all’Addaura.Da Falcone si passa poi a Borsellino, appena 57 giorni dopo. Chi era il personaggio non appartenente alla mafia che, come ha rivelato il collaboratore Gaspare Spatuzza, reo confesso della strage di via D’Amelio, assistette alle operazioni di caricamento dell’esplosivo nell’autovettura utilizzata per l’assassinio di Paolo Borsellino e della sua scorta? Chi conosce le regole della mafia sa bene che tenere segreta a uomini d’onore l’identità degli altri compartecipi alla fase esecutiva di una strage è un’anomalia evidentissima: la prova dell’esistenza di un livello superiore che deve restare noto solo a pochi capi. Altri pezzi mancanti su via D’Amelio? Francesca Castellese, moglie del collaboratore di giustizia Santino Di Matteo, in un colloquio intercettato il 14 dicembre ’93, poco dopo il rapimento del loro figlio Giuseppe (avvenuto il 23 novembre), scongiurò il marito di non parlare ai magistrati degli “infiltrati” nell’esecuzione della strage di via D’Amelio. Quell’intercettazione è agli atti del processo, ma quegli “infiltrati” è stato impossibile identificarli e assicurarli alla giustizia.Chi è in possesso dell’agenda rossa di Paolo Borsellino trafugata, con una straordinaria e lucida tempistica, pochi minuti dopo l’immane esplosione di via D’Amelio? Su quell’agenda è noto che Paolo aveva annotato i terribili segreti intravisti negli ultimi mesi di vita. Segreti che l’avevano sconvolto e convinto di non avere scampo, perché – come confidò alla moglie Agnese – sarebbe stata la mafia a ucciderlo, ma solo quando altri lo avessero deciso. Chi erano questi “altri”? L’elenco delle domande che sinora non hanno avuto risposta disegna i contorni di un iceberg ancora sommerso che né le inchieste parlamentari né i processi sono mai riusciti a portare alla luce, per una pluralità di fattori che si sommano e delineano un quadro inquietante. Possibile che i magistrati che indagano da 25 anni non siano riusciti a fare luce su tutto questo? E come si fa, quando vengono sottratti ai magistrati documenti decisivi per l’accertamento di retroscena occulti? Ho già accennato alle carte di Falcone e all’agenda di Borsellino, episodi che si inscrivono in una lunga tradizione di carte rubate sui misteri d’Italia: dalla sparizione delle bobine con gli interrogatori di Aldo Moro nella prigione delle Br al trafugamento dei documenti segreti del generale Carlo Alberto dalla Chiesa dopo il suo assassinio.Ma penso anche alla miniera di tracce documentali custodita nella villa di via Bernini a Palermo, dove Salvatore Riina aveva abitato negli ultimi anni della sua latitanza. Si impedì ai magistrati di perquisire l’abitazione di Riina immediatamente dopo il suo arresto il 15 gennaio 1993: ci assicurarono che il luogo era strettamente sorvegliato giorno e notte, mentre in realtà fu abbandonato poche ore dopo quella stessa assicurazione, lasciando campo libero a squadre di “solerti pulitori” che ebbero agio per diversi giorni di far sparire ogni cosa, smurando persino la cassaforte e ridipingendo le pareti per eliminare eventuali tracce di Dna. Chi è in possesso da 24 anni di quei documenti e che uso ne ha fatto? Decine di mafiosi, anche boss di prima grandezza, hanno collaborato con la giustizia. Certamente più di molti uomini delle istituzioni. Purtroppo tacciono ancora tanti boss che sanno tutto: i fratelli Graviano, Santapaola, Madonia e altri capi detenuti. E anche alcuni collaboratori danno l’impressione di sapere molto più di quel che dicono, ma di autocensurarsi. E penso anche ai silenzi prolungati e all’amnesia generalizzata di alcuni esponenti delle istituzioni, che solo con il forcipe delle indagini penali si sono decisi, a distanza di anni, a rivelare brandelli di verità.Quali erano i segreti sul coinvolgimento di apparati deviati dello Stato in stragi e omicidi eseguiti dalla mafia che Giovanni Ilardo, capomafia legato ai servizi segreti e alla destra eversiva, aveva promesso di rivelare ai magistrati pochi giorni prima di essere assassinato il 10 maggio 1996, proprio mentre si apprestava a mettere a verbale le sue dichiarazioni iniziando a collaborare? Lo stesso Ilardo era stato il primo a indicare Pietro Rampulla, anch’egli mafioso ed estremista di destra, come l’artificiere della strage di Capaci, che infatti sarebbe stato poi condannato con sentenza definitiva. Alcuni eventi recenti, ancora in corso di verifica processuale, sembrano dimostrare che purtroppo questa non è solo una tragica storia del passato. Per esempio le recenti rivelazioni del collaboratore di giustizia Vito Galatolo, capo dell’importante mandamento di Resuttana, membro di una famiglia mafiosa implicata in stragi e delitti eccellenti del passato e vecchia amica di apparati deviati delle istituzioni. Racconta Galatolo che alla fine del 2012 il capo latitante di Cosa Nostra, Messina Denaro, protagonista della stagione stragista del 1992-’93, ha ordinato l’omicidio del pm Nino Di Matteo, impegnato nelle indagini sulla trattativa fra Stato e mafia, con un’autobomba.Galatolo ha dichiarato che sia lui sia altri capi erano rimasti colpiti dal fatto che l’identità dell’artificiere messo a disposizione da Messina Denaro, doveva restare ignota a tutti, compresi i capi di Cosa Nostra. Una circostanza che, ancora una volta, contrastava palesemente con le regole mafiose e indicava la partecipazione anche in quel progetto stragista di soggetti esterni, portatori di interessi criminali convergenti con quelli della mafia. Prima che Galatolo iniziasse a collaborare rivelando l’episodio, un esposto anonimo aveva già messo al corrente la magistratura che Messina Denaro aveva ordinato una strage su richiesta di suoi “amici romani” per interessi politici che andavano oltre quelli di Cosa Nostra. Continuare a ricercare la verità è un dovere non solo istituzionale, ma anche morale. Il modo più autentico per onorare la memoria, per dare un senso al sacrificio dei tanti servitori dello Stato e alla morte di tante vittime innocenti le cui vite sono state inghiottite nei gorghi tumultuosi di quello che Giovanni Falcone definì “il gioco grande del potere” una guerra sporca giocata con tutti i mezzi nel “fuori scena” della storia.(Roberto Scarpinato, dichiarazioni rilasciate a Marco Travaglio per l’intervista “Strage di Capaci, una verità a brandelli: interessi politici oscuri tramano ancora”, pubblivata dal “Fatto Quotidiano” il 23 maggio 2017. Scarpinato, già membro del pool antimafia siciliano, è oggi procuratore generale presso la Corte d’Appello di Palermo).Il 23 maggio 1992 esplose l’autostrada di Capaci e si portò via Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta. In questi 25 anni abbiamo raggiunto l’importante risultato di condannare all’ergastolo gli esecutori mafiosi delle stragi e i componenti della “commissione” di Cosa Nostra che le deliberarono. Ma restano ancora impermeabili alle indagini rilevanti zone d’ombra: un cumulo di fonti processuali, tali e tante da non potere essere neppure accennate tutte, convergono nel fare ritenere che la strategia stragista del 1992-’93 ebbe matrici e finalità miste, frutto di una convergenza di interessi tra la mafia e altre forze criminali. Di che tipo? Lo diceva già in un’informativa del 1993 la Dia (Direzione Investigativa Antimafia): dietro le stragi si muoveva una «aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergono finalità diverse»; e dietro gli esecutori mafiosi c’erano menti che avevano «dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali».
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Stato-mafia, intercettazioni: Napolitano frena i magistrati
Stoppare i magistrati solo perché nella rete delle intercettazioni è finito il Quirinale? Roba da monarchia, più che da repubblica: all’epoca di Vittorio Emanuele III, scrive su “Micromega” il giurista Domenico Gallo, ne sarebbe nato uno scandalo. E il pm, che allora si chiamava Procuratore del Re, sarebbe stato destituito su due piedi, in base allo Statuto Albertino che considerava “sacra e inviolabile” la persona del sovrano. Oggi è Napolitano ad opporsi ai giudici, che hanno catturato la sua voce per puro caso, intercettando il telefono dell’ex ministro Nicola Mancino, allarmato per le voci sul suo ipotetico ruolo nella presunta “trattativa Stato-mafia” che, secondo le indagini di Palermo, potrebbe aver provocato la morte di Paolo Borsellino. E Sonia Alfano, europarlamentare dell’Idv in prima linea contro la mafia, auspica l’impeachment per l’uomo del Colle.
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Bufera-Napolitano: anche lui teme la verità su Borsellino?
«Credo che in via D’Amelio ci fosse qualcuno già pronto a prelevare la sua agenda: uccidere Paolo senza farla sparire non sarebbe servito a niente». Motivo: il 25 giugno, a meno di un mese dalla sua tragica fine, nell’ultima uscita pubblica Borsellino aveva detto di «aspettare di essere chiamato per raccontare quello che aveva scoperto su Capaci», dice il fratello Salvatore, che si schiera con Sonia Alfano: sì, Giorgio Napolitano «merita l’impeachment», per aver cercato di ostacolare le indagini sulla trattativa Stato-mafia avviata nel ’92 dopo l’omicidio di Falcone. Ne parlò Massimo Ciancimino: «Mio padre fu contattato dal capitano De Donno del Ros». Claudio Martelli, allora ministro della giustizia, conferma: furono cercati contatti con Vito Ciancimino e ne fu informato Nicola Mancino, allora ministro dell’interno. Mancino però nega. E non ricorda di aver mai incontrato Borsellino, che invece riferì dell’incontro. E Napolitano?
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Stato-mafia, il caso Borsellino e tutte quelle coincidenze
Le date sono importanti. Proviamo a fare un breve riepilogo dei fatti che sono stati finora accertati su quei due anni di stragi e di trattative, poi i magistrati decideranno se ci sono pure dei reati e chi li ha commessi. Si parte dal 30 gennaio del ’92. Prima di Mani Pulite, la Cassazione conferma a sorpresa le condanne del maxi-processo per i boss di Cosa Nostra. Riina fa subito ammazzare Salvo Lima e Ignazio Salvo, fedelissimi di Andreotti in Sicilia. Avevano promesso l’assoluzione e non hanno mantenuto, oppure questa è una coincidenza?