Archivio del Tag ‘Al-Quds’
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Carotenuto: nel potere mondiale, buoni e cattivi sono soci
Libia e Medio Oriente bruciano, ma il racconto dei media non ci parla dei veri obiettivi: non ci dice dove nascono le crisi, dove vogliono arrivare e perché si fanno. Di questi scenari ho un’esperienza personale e profonda, vissuta spesso dietro le quinte. Le motivazioni delle guerre e dei conflitti non sono quelle apparenti. Nel mondo è in corso una lotta tra forze del bene, che stanno facendo crescere le coscienze, e forze che ostacolano questa crescita per cercare di assopire il risveglio coscienziale che è in corso da anni. Per tentare di frenare questo risveglio si creano problemi nell’anima, scoraggiando la voglia fare cose buone per sé e per gli altri. Per fare il bene non bisogna essere pieni di paure, di rabbia e di ansia. Niente di meglio della guerra, per rovinare i nostri sentimenti: le guerre sono grandi vortici di odio, di paura e di rabbia. Subito internazionalizzate e mostrate a tutti attraverso i media, le guerre intervengono direttamente nelle nostre anime: alterano il nostro modo di sentire, ci distolgono dalla nostra voglia di bene, ci abbattono e ci impauriscono, ci fanno arrabbiare e ci inquietano. Guerre e crisi vengono combattute soprattutto nelle nostre anime.
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Magaldi: Iran, Cia e Mossad. Ma in palio c’è la democrazia
Forse la verità la si vede meglio da lontano: era il 1978 quando l’ayatollah Khomeini diede inizio alla rivoluzione islamica in Iran, che si sarebbe conclusa solo un anno dopo, in un paese intimidito dalla feroce polizia politica dello Scià e, anni prima, colpito al cuore con la deposizione “coloniale” del suo leader, Mohamed Mossadeq, concepita per rimettere sotto il controllo dell’Occidente le risorse petrolifere della Persia. Stiamo parlando di un paese ricchissimo di storia e di cultura, nel cuore del Medio Oriente, sulla direttrice tra Gerusalemme e l’Afghanistan devastato dagli Usa, immediata retrovia dell’India e della Cina. E’ la patria del leggendario Impero Persiano, culla della religione più antica della Terra – il Mazdeismo di Zoroastro – e poi dell’ala più mistica e inziatica dell’Islam, il Sufismo dei dervisci. Si fa presto a dire Iran: oltre ai persiani, tra gli 80 milioni di abitanti si annoverano etnie di lingua turca, curda, pashtu. Ci sono tatari, baluci, arabi, tagiki. L’Iran ha dato al mondo uno tra i maggiori registi cinematografici contemporanei, Abbas Kiarostami. «Meglio il caos iraniano che questo Occidente», disse, dopo esser stato respinto – per via del suo passaporto – all’aeroporto Jfk di New York, dov’era atteso per un festival (espulsione che costò l’immediata partenza, per rappresaglia, di un altro grande del cinema d’autore, il finlandese Aki Kaurismaki). Ma attenzione: erano gli anni, orribili, del Patriot Act dell’era Bush, appena dopo l’11 Settembre.«Un’élite occulta e reazionaria si era impossessata delle istituzioni statunitensi, progettando direttamente l’attentato delle Torri Gemelle». Il piano: «Fingere di “esportare la democrazia” in Medio Oriente, usando il terrorismo “false flag” (fabbricato in casa) per promuovere guerre devastanti come quelle che hanno prostrato l’Iraq, col risultato di distruggere il prestigio degli Usa nella regione». Parola di Gioele Magaldi, che nel bestseller “Massoni” (Chiarelettere, 2014) ha svelato nomi e cognomi del club del terrore chiamato “Hathor Pentalpha”, inventore delle inesistenti “armi di distruzione di massa” di Saddam Hussein. Stragismo atlantico clandestino, cinicamente progettato con l’affiliazione nella “Hathor” di supermassoni occulti come Osama Bin Laden (Al-Qaeda) e poi Abu Bakr Al-Bahdadi, sedicente “califfo” dell’Isis. La “Hathor” fu creata da Bush senior poco dopo l’insediamento a Teheran del regime degli ayatollah: era comodissimo, il turbante di Khomeini, per prepararsi a inoculare nei media occidentali il veleno del famoso “scontro di civiltà”. La tesi: l’Islam è un nemico, non può coesistere col sistema socio-economico occidentale. Bufale, e tanta ipocrisia: «Gli Usa – sottolinea Magaldi – convivono tuttora benissimo con le monarchie petrolifere del Golfo come l’Arabia Saudita, il cui autoritarismo teocratico è forse persino peggiore di quello dell’Iran khomeinista».Il grande alibi, per tutti, è sempre stato Israele: ovvero l’ostilità islamica verso lo Stato ebraico, accusato di aver schiacciato i palestinesi. L’uomo che stava per metter fine a mezzo secolo di massacri – Yitzhak Rabin, Premio Nobel per la Pace – venne assassinato nel 1995 da un fanatico israeliano ultra-sionista. Tolto di mezzo il massone progressista Rabin (e il miraggio dello Stato palestinese) si sono scatenati i “neocon” statunitensi, con il loro piano di egemonia e business fondato sulla “guerra infinita”, alimentata dagli “inside job” del terrorismo condotto sotto falsa bandiera, da manovalanza jihadista pilotata da servizi segreti occidentali. Attorno alle macerie dell’Iraq e della tormentatissima Striscia di Gaza sono quindi gradualmente riaffiorate le potenze regionali, accanto a Israele: l’Arabia Saudita, la Turchia e, naturalmente, l’Iran. Quest’ultimo, di recente, ha ampliato enormemente la sua sfera d’influenza: dallo Yemen al Libano, da Gaza alla Siria fino al vicino Iraq. Uomo-chiave della Mezzaluna Sciita, il grande stratega Qasem Soleimani, considerato una sorta di eroe nazionale per aver fermato i tagliagole dell’Isis tenendoli lontani dalle frontiere iraniane, indirettamente minacciate dagli impresari occulti dello Stato Islamico.Proprio la riconosciuta funzione patriottica di Soleimani – oltre alle sconcertanti modalità della sua morte, un atto terroristico apertamente rivendicato dagli Usa – spiega la folla oceanica ai funerali, milioni di persone (e addirittura una quarantina di morti, nella calca, in una manifestazione di dolore collettivo, intensamente popolare, esibito per giorni di fronte al mondo). Un militare integerrimo, Soleimani, che aveva rifiutato la politica per restare tra i suoi soldati, la temutissima brigata Al-Quds, specializzata in operazioni coperte, oltre i confini. L’eroe di Teheran era da tempo nel mirino del Mossad, che ne temeva le mosse d’intesa con Hamas a Gaza e con Hezbollah in Libano. In Iraq, era stato determinante (accanto alle forze coordinate da Trump) nello sconfiggere il Califfato. Idem in Siria: con i russi, l’esercito di Assad e i miliziani sciiti libanesi, Soleimani aveva contribuito in modo decisivo a ripulire il paese dai terroristi inizialmente armati, addestrati e protetti dall’Occidente. Perché sia stato ucciso il 3 gennaio 2020 (e in quel modo, in un paese terzo, con un missile sparato da un drone) resta un mistero.Le fonti mainstream occidentali lo accusano di aver orchestrato, nei giorni precedenti, l’assalto all’ambasciata statunitense di Baghdad. Il governo iracheno smentisce: al contrario, afferma, Soleimani era stato chiamato dall’Iraq per una delicata missione diplomatica. Doveva innanzitutto calmare le acque tra le milizie sciite (alcune ostili al predominio iraniano) e, soprattutto, consegnare un messaggio strategico destinato all’Arabia Saudita, cui Teheran proponeva una de-escalation nella regione. Chi ha ucciso Soleimani, dunque, intendeva tagliare le gambe a una possibile intesa di pace tra la nazione leader degli sciiti e quella dei sunniti? Altre vere spiegazioni, del resto, non giungono da nessun’altra parte: la propaganda mediatica statunitense s’è limitata, in modo imbarazzante, a definire “un terrorista” l’uomo-chiave dell’intelligence militare dell’Iran. Giulietto Chiesa ricorda i propositi omicidi di Yossi Cohen, il capo del Mossad, e cita il senatore repubblicano Lindsay Graham, che ha minacciato Trump: se ritira le truppe Usa dal Medio Oriente, può scordarsi l’appoggio di metà del partito al Senato, quando si dovrà decidere sull’impeachment. Il solito network filo-sionista, che il cospirazionismo chiama impropriamente lobby ebraica?Gianfranco Carpeoro, dirigente del Movimento Roosevelt fondato da Magaldi, fa un’altra ipotesi: sempre sotto la minaccia dell’impeachment (e quindi dell’appoggio condizionato per le imminenti elezioni presidenziali) sarebbe stata proprio la famigerata “Hathor Pentalpha”, annidata nel Deep State americano, a indurre Trump a colpire Soleimani per “rimediare” alla recente, sbandierata uccisione di Al-Baghdadi, esponente della “Hathor”. Una ricostruzione che però non convince Magaldi: «Il network massonico-progressista internazionale, a cui io stesso appartengo – dice – contribuì a far eleggere Trump proprio per tenere lontana la “Hathor” dalle stanze del potere». E inoltre – aggiunge Magaldi, in web-streaming su YouTube con Fabio Frabetti di “Border Nights” – i supermassoni della “Hathor” «continuano a vedere Trump come il fumo negli occhi: impensabile un accordo tra loro e la Casa Bianca». Ma allora, perché Soleimani è stato ucciso proprio ora? Secondo Magaldi, l’episodio fa parte della spietata logica simmetrica della guerra permanente, che è aberrante ma tragicamente coerente: se hai a lungo sfidato la superpotenza egemone (e i suoi terroristi) anche utilizzando milizie pronte a usare il medesimo terrorismo, non puoi non sapere che un giorno potresti cadere sul campo a tua volta, come qualsiasi altro combattente.Soleimani però non era un combattente qualsiasi, era il massimo responsabile della politica dell’Iran sul terreno mediorientale. Di più: era il grande protagonista della riconquista sciita dei territori disastrati dall’imperialismo Usa, tra le macerie della regione petrolifera perennemente funestata dalla piaga dell’irrisolto conflitto israelo-palestinese, spesso usato come alibi da entrambe le parti per perseguire politiche di potenza. «Non è un mistero – dice Magaldi – che i “falchi” israeliani si siano accordati, in passato, anche con i “falchi” iraniani: si finge di combattersi all’infinito, e lo spettro del nemico esterno – vero o presunto – è comodissimo per rafforzare il potere interno». Magaldi invita a esaminare quale fosse il principale referente di Soleimani: l’ayatollah Khamenei, guida suprema dell’Iran e capo dell’ala più reazionaria del regime. Gli stessi Pasdaran, di cui la Quds Force di Soleimani è la punta di lancia, rappresentano una bella fetta del potere, anche economico, della teocrazia sciita. Un bersaglio perfetto, il valoroso generale, per chi avesse voluto colpire la radice più intransigente dei “padroni” di Teheran: un capitolo di quella che Federico Rampini chiama “la seconda guerra fredda”, che oggi vede Trump fronteggiare bruscamente la Cina e i suoi alleati. Nel mirino c’è quindi l’Iran, snodo nevralgico del Golfo Persico lungo la nuova Via della Seta. Un paese da quarant’anni ostile agli Usa, e ora alleato con Pechino e Mosca.«Non mi sorprende l’estrema prudenza con cui Cina e Russia hanno reagito all’uccisione di Soleimani», ribadisce Magaldi, il primo a scommettere – a caldo – sul fatto che l’omicidio (benché così eccellente) non avrebbe provocato l’Armageddon bellico paventato da più parti. Violazione del diritto internazionale? Certo: «Sono episodi brutali, ai quali non vorremmo mai assistere, ma – ripeto – in qualche modo simmetrici, e dettati da una spietata logica squisitamente geopolitica». Al punto che oggi Magaldi arriva a sostenere che Trump, vista l’assenza di ritorsioni clamorose da parte dell’Iran (eccetto il bombardamento missilistico solo dimostrativo, su alcune basi statunitensi in Iraq) sia da considerarsi un obiettivo tecnicamente raggiunto, senza troppi danni: «Se volevano liberarsi di Soleimani, ci sono riusciti: e questo è un fatto». Meglio quindi non lasciarsi condizionare dall’emotività, insiste Magaldi: l’indignazione non aiuta a capire cosa si muove veramente, là fuori, oltre il teatro anche sanguinoso delle apparenze. Sempre secondo Magaldi, poi, l’espansionismo sciita – orchestrato dal regime teocratico di Teheran – oltre Atlantico è considerato come speculare, in qualche modo (almeno, nel richiamo esplicito alla legge coranica, interpretata nel modo più drastico) al terrorismo dell’Isis: stessa visione politica violenta, figlia di un’analoga interpretazione fanatica del medesimo credo religioso?Le differenze sono vistose: in Iran non sono all’opera tagliagole. I macellai dell’Isis, messi in campo dall’Occidente, hanno invece terrorizzato per anni interi Stati mediorientali. Per contro, a Teheran resiste un regime che ignora i diritti civili e pratica una brutale censura, mortifica le donne, nega ogni libertà di espressione, reprime il dissenso, tortura e fa sparire i detenuti scomodi. In altre parole una sorta di dittatura, che trae la sua forza proprio dal durissimo assedio al quale è stata ininterrottamente sottoposta a partire dalla comparsa del turbante di Khomeini. Embargo, sanzioni, minacce militari dirette e indirette. Timidi i tentativi di tregua, come lo storico accordo promosso da Obama sul nucleare, ora stracciato da Trump anche col sangue di Soleimani. Se lo spettacolo non è esattamente edificante, Magaldi si sforza di guardare oltre: la vera sfida, ripete, oppone democrazia e oligarchia, progressisti e reazionari. «Un errore imperdonabile, da parte dell’élite globalista, è stato quello di aver concesso alla Cina di entrare, senza nemmeno uno straccio di democrazia formale, nel grande gioco del commercio planetario, permettendole così di diventare una grande potenza». Sbaglia, sostiene Magaldi, chi si limita a puntare il dito contro l’imperialismo americano: la lobby (massonica) che ha costruito questa globalizzazione senza diritti, mettendo in ginocchio anche il lavoro in Occidente con la tragedia delle delocalizzazioni, era composta da oligarchi di svariati paesi, incluso il gigante cinese. E questa cupola è ancora largamente al comando, mettendo in campo soggetti solo formalmente democratici (come l’Ue) e protagonisti geopolitici che non tentano neppure di fingersi ispirati dalla democrazia.La dialettica tra esponenti progressisti e reazionari, aggiunge Magaldi, «attraversa tutti i gangli del vero potere, persino le più importanti strutture di intelligence come la Cia e il Mossad, dove storicamente coesistono anime antitetiche tra loro». Tutto questo avverrebbe molto in alto, a nostra insaputa, e spesso al di sopra dei governi stessi, ridotti a pedine. Anche per questo, forse, è morto il conservatore Qasem Soleimani, leale soldato dell’Iran degli ayatollah? Secondo il grande antropologo francese Claude Lévi-Strauss, teorico dello strutturalismo, tutto è relativo: nessuno può arrogarsi il diritto di decretare quale sia il sistema politico migliore. Quando scriveva le sue opere, però, la globalizzazione non si era ancora manifestata in tutta la sua potenza: il cosiddetto terzo mondo lottava per liberarsi dai suoi parassitari colonizzatori. All’epoca, da Teheran, non partivano Boeing ucraini carichi di studenti iraniani diretti in Canada. Tragedia nella tragedia, l’abbattimento del volo civile nei cieli della capitale iraniana. «Intendiamoci: non è certo una specialità dell’Iran», precisa Magaldi: «Ne sappiamo qualcosa in Italia, con il caso di Ustica». Amato da Godard e Scorsese, il cinema di Kiarostami ha mostrato al mondo un Iran meraviglioso, fatto di umanità e silenzi. Ricordarsi che esiste anche quello, forse, può aiutare a uscire dal buio sanguinoso di un’attualità nutrita di propaganda, ignoranza e rombanti menzogne quotidiane.Forse la verità la si vede meglio da lontano: era il 1978 quando l’ayatollah Khomeini diede inizio alla rivoluzione islamica in Iran, che si sarebbe conclusa solo un anno dopo, in un paese intimidito dalla feroce polizia politica dello Scià e, anni prima, colpito al cuore con la deposizione “coloniale” del suo leader, Mohamed Mossadeq, concepita per rimettere sotto il controllo dell’Occidente le risorse petrolifere della Persia. Stiamo parlando di un paese ricchissimo di storia e di cultura, nel cuore del Medio Oriente, sulla direttrice tra Gerusalemme e l’Afghanistan devastato dagli Usa, immediata retrovia dell’India e della Cina. E’ la patria del leggendario Impero Persiano, culla della religione più antica della Terra – il Mazdeismo di Zoroastro – e poi dell’ala più mistica e inziatica dell’Islam, il Sufismo dei dervisci. Si fa presto a dire Iran: oltre ai persiani, tra gli 80 milioni di abitanti si annoverano etnie di lingua turca, curda, pashtu. Ci sono tatari, baluci, arabi, tagiki. L’Iran ha dato al mondo uno tra i maggiori registi cinematografici contemporanei, Abbas Kiarostami. «Meglio il caos iraniano che questo Occidente», disse, dopo esser stato respinto – per via del suo passaporto – all’aeroporto Jfk di New York, dov’era atteso per un festival (espulsione che costò l’immediata partenza, per rappresaglia, di un altro grande del cinema d’autore, il finlandese Aki Kaurismaki). Ma attenzione: erano gli anni, orribili, del Patriot Act dell’era Bush, appena dopo l’11 Settembre.
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Chi era Soleimani e perché l’Iran lo amava: ditelo, a Salvini
All’italica repubblica delle banane, popolata di politici ridicoli, ne mancava giusto uno – Matteo Salvini – che si mettesse a insultare un’intera nazione, festeggiando il vile assassinio del suo leader più amato, Qasem Soleimani. Parlano da sole le immagini delle esequie del carismatico comandante dei Pasdaran: «Il lutto per la morte del generale si può considerare il primo atto di ritorsione dell’Iran, uno straordinario funerale di Stato durato quattro giorni, non uno, e in due paesi diversi», dice la scrittrice iraniana Azadeh Moaveni. Secondo Rasmus Elling, studioso dell’Iran all’università di Copenhagen, le «storiche» immagini trasmesse da Teheran mostrano una forte unità nazionale, più vasta del mero supporto ideologico alla teocrazia degli ayatollah. Per Engel Rasmussen del “Wall Street Journal”, una partecipazione così oceanica non può che essere spontanea: «Una folla così è molto più grande di qualsiasi cosa che lo Stato possa “organizzare”». Come si spiega l’enorme partecipazione al funerale di Soleimani nella capitale dell’Iran, paese che alle ultime elezioni aveva premiato il fronte più moderato guidato dal presidente Hassan Rohani a scapito di quello più conservatore e aggressivo, al quale Soleimani era legatissimo?La risposta la trova “Il Post”, in una ricognizione sulla popolarità del generale Soleimani in Iran. Come ricorda sul “New Yorker” Dexter Filkins, il primo importante giornalista non iraniano a raccontare Soleimani (con un ritratto lungo e completo, nel 2013), l’importanza del generale in patria e in tutto il Medio Oriente era ormai nota da tempo. «La prima cosa da tenere a mente è che Soleimani era molto popolare in Iran», scrive il “Post”. «Aveva servito il paese fin dalla guerra tra Iran e Iraq durata dal 1980 al 1988, cioè il conflitto grazie al quale si era consolidata la rivoluzione khomeinista del 1979», evento che è ricordato ancora oggi come uno dei momenti più importanti della storia recente iraniana: «Basta andare nelle strade di Teheran per rendersene conto, con gli slogan e i murales che ricordano i soldati uccisi nel conflitto, i “martiri”». Negli ultimi anni, aggiunge il “Post”, il regime iraniano aveva reso Soleimani una sorta di figura “leggendaria”: era il comandante che era riuscito a mantenere al sicuro il paese, soprattutto dalla minaccia dell’Isis, che la brigata Al-Quds del generale aveva combattuto in Iraq insieme all’esercito iracheno, e poi in Siria accanto ai russi e ai miliziani libanesi di Hezbollah, in appoggio all’esercito regolare siriano.Da allora, la popolarità di Soleimani era cresciuta esponenzialmente. Nonostante fosse un ultra-conservatore, noto per la spietata durezza dei suoi metodi militari e per la sua vicinanza personale all’ayatollah Alì Khamenei, “guida suprema” dell’Iran dopo Khomeini, nel corso degli anni Soleimani non si era mai schierato apertamente da una parte o dall’altra della politica iraniana. Richiesto di mettersi in gioco, aveva risposto con una lettera a Khamenei: grazie, ma resto al mio posto tra i miei soldati. Ariane Tabatabai, esperta di Iran per la Rand Corporation, dichiara al “New York Times”: «Soleimani aveva una profonda e ampia rete di relazioni nel sistema iraniano, che gli permetteva di lavorare con tutti gli attori chiave». Aveva per esempio rapporti molto stretti con il ministro degli esteri Javad Zarif, considerato un moderato, e allo stesso tempo con Khamenei, a cui riferiva direttamente sul suo operato. La stessa Azadeh Moaveni, che oltre a essere scrittrice è anche analista per l’International Crisis Group, spiega che Soleimani «era diventato un patriarca, per un paese alla deriva», cui i milioni di iraniani presenti ai funerali hanno sicuramente “perdonato” i duri eccessi della temibile forza militare che comandava.Il generale Soleimani «aveva reso sicuro il territorio in un tempo di massacri dello Stato Islamico», aggiunge la Moaveni: per questo, «era visto come un uomo d’onore e di merito, in mezzo a politici che non erano nessuna delle due cose». Negli ultimi anni – aggiunge il “Post” – oltre alla popolarità di Soleimani era cresciuto anche il nazionalismo iraniano, «dovuto soprattutto all’atteggiamento sempre più ostile verso l’Iran mostrato dal presidente Donald Trump e culminato con il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare, faticosamente raggiunto nel 2015 grazie all’impegno dell’allora presidente americano Barack Obama e del governo iraniano guidato dal moderato Rohani». La decisione di Trump «aveva dato nuovi argomenti alla fazione ultraconservatrice, che all’accordo si era sempre opposta, e aveva rafforzato quel sentimento anti-americano che era già presente in ampi settori della società iraniana, e che arrivava da lontano». La morte di Suleimani – aggiunge il “Post” – è stata descritta come un fatto riprovevole, praticamente da tutte le fazioni politiche iraniane, inclusi i giornali meno legati all’élite conservatrice, che hanno parlato di «dolore inconcepibile». «È questo il destino di tutti gli illustri discendenti di questa terra, al di là del loro pensiero e della loro appartenenza?», si domanda lo scrittore Mahmoud Dowlatabadi, spesso censurato dal regime. Dowlatabadi descrive Suleimani come l’uomo che «ha costruito una diga potente contro i massacri dell’Isis e ha reso sicuri i nostri confini dalle brutalità di quel gruppo».All’italica repubblica delle banane, popolata di politici ridicoli, ne mancava giusto uno – Matteo Salvini – che si mettesse a insultare un’intera nazione, festeggiando il vile assassinio del suo leader più amato, Qasem Soleimani. Parlano da sole le immagini delle esequie del carismatico comandante dei Pasdaran: «Il lutto per la morte del generale si può considerare il primo atto di ritorsione dell’Iran, uno straordinario funerale di Stato durato quattro giorni, non uno, e in due paesi diversi», dice la scrittrice iraniana Azadeh Moaveni. Secondo Rasmus Elling, studioso dell’Iran all’università di Copenhagen, le «storiche» immagini trasmesse da Teheran mostrano una forte unità nazionale, più vasta del mero supporto ideologico alla teocrazia degli ayatollah. Per Engel Rasmussen del “Wall Street Journal”, una partecipazione così oceanica non può che essere spontanea: «Una folla così è molto più grande di qualsiasi cosa che lo Stato possa “organizzare”». Come si spiega l’enorme partecipazione al funerale di Soleimani nella capitale dell’Iran, paese che alle ultime elezioni aveva premiato il fronte più moderato guidato dal presidente Hassan Rohani a scapito di quello più conservatore e aggressivo, al quale Soleimani era legatissimo?