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Archivio del Tag ‘alta velocità’

  • Tav, razza padrona: le fate ignoranti della Torino defunta

    Scritto il 27/11/18 • nella Categoria: idee • (2)

    Giuro che non volevo credere ai miei orecchi quando ho sentito a “Otto e mezzo”, una delle magnifiche sette madamine torinesi “organizzatrici” della manifestazione in piazza Castello, Patrizia Ghiazza, dichiarare bellamente di ignorare tutto delle problematiche tecniche e ambientali relative alla discussa linea del Tav Torino Lione. Ha detto proprio così: «Posso assolutamente dire che non siamo, né io né le altre organizzatrici, competenti per poter entrare nel merito degli aspetti tecnici e ambientali dell’opera». Il fatto è che la manifestazione di cui figuravano come promotrici Patrizia Ghiazza e le altre chiamava in causa – forse a loro insaputa, ma indiscutibilmente  – proprio il merito delle ragioni tecniche e ambientali dell’opera, per dire che era giusta e buona, e che la si sarebbe dovuta assolutamente fare pena la rovina della città e della regione. E ora sappiamo che quell’“entrata nel merito” con quella perentoria conclusione, era avvenuta nella più completa ignoranza dei dati fondamentali, dei più elementari fattori di valutazione, per un atto di fede, diciamo così, nei confronti dei governi precedenti e nel valore metafisico dell’opera.
    Esattamente all’opposto del movimento contro cui tutte quelle  persone sono state chiamate in piazza, il movimento No-tav, che ha sempre fatto, fin dalla sua origine, per più di vent’anni, puntigliosamente, quasi ossessivamente, dei dati tecnici dell’opera (flussi di traffico, impatto ambientale, dimensione dei costi e dettagliate voci di spesa, alternative operative), e dell’informazione su di essi, il principale argomento della sua opposizione. Se un aspetto ha colpito coloro che si sono occupati, anche in chiave scientifica – politologica, sociologica, antropologica – di quel movimento, è stato la costante abbondanza di documentazione e di informazione tecnica presente nei loro siti, al contrario degli opposti siti “Si-Tav” (a cominciare da quello di Telt), generici e reticenti. E a me personalmente ha fatto sempre molta impressione, fin dal 2005, dai tempi di Venaus quando incominciai a osservare la valle, la competenza non solo degli “attivisti” e dei promotori dei comitati e delle manifestazioni, ma dei manifestanti stessi. Irsuti montanari e madri di famiglia o nonne, ragazzotti delle superiori o artigiani di valle, pensionati, operai, commercianti, sapevano di logistica e trasportistica, del “Corridoio V” e delle “rotture di carico” con il loro aggravio di costo, di flussi di traffico su gomma e su ferro e di sistemi idrogeologici, dell’impatto degli scavi sulla qualità e quantità delle acque e sulle polveri sottili.
    Nessuno di loro si è mai sottratto al confronto sui contenuti dicendo di esserne all’oscuro! Ora, che nella rappresentazione da parte dei “giornaloni”, quegli uomini e quelle donne vengano dipinti come rozzi cultori del “nimby”, sorta di nuovi barbari pre-illuministici in conflitto con la modernità, mentre la folla di piazza Castello viene promossa a esempio di buona cittadinanza, fa parte del mondo alla rovescia prodotto da una sfera mediatica intossicata da interessi predatori e per questo generatrice di sfiducia su scala allargata. Esemplare, d’altra parte, l’atteggiamento nei loro confronti esibito, senza reticenze, da un’altra delle “fatine” torinesi, Giovanna Giordano, che a proposito della resistenza dei valligiani ha detto, testualmente, ad “Agorà”: «Se ci credono veramente e amano la decrescita felice, qui intorno in Piemonte ci sono tante meravigliose valli dove possono comprarsi una mucca e una pecora e decrescere felicemente. Ma che lascino vivere noi».
    Giovanna Giordano, detta “Nana” dagli amici, nominata sul campo da “Repubblica” «madamina di ferro, informatica e nonna», nell’enfasi del suo speach, dimentica che “loro” – i valsusini refrattari – stanno nella loro valle, dove vorrebbero che li si “lascino vivere” senza avere il proprio territorio devastato dal treno degli altri, mentre “noi” – il “noi” di Giovanna, intendiamoci – abitiamo in città ignorando del tutto, come si è visto, l’impatto su “quel” mondo che evidentemente non ci riguarda. Le ha già risposto, in modo esemplare, in questo stesso sito, il sindaco di Susa Sandro Plano. Qualcun altro ha ricordato la Maria Antonietta del “mangino brioches”. Ma si potrebbe anche  evocare il Marchese del Grillo, quello del “Io sono io, e voi…”. In quel “che lascino vivere noi!” (abbandonando le case “loro”) c’è tutto un programma, o meglio un profilo: da razza padrona. Da ceto medio-alto predatorio, che non vede l’altro perché ripiegato su di sé, sulle proprie credenze infondate ma indiscutibili, la propria rete di pari elevata a mondo, i propri piccoli interessi promossi a Nomos. Il salotto di nonna Speranza con le sue “piccole cose di pessimo gusto” proposto come modello estetico assoluto.
    Certo, si potrebbe non farla troppo grossa. E considerare quell’esternazione un “refuso retorico”, una sorta di incidente comunicativo – insomma, una voce dal sen fuggita – ma sarebbe in qualche modo riduttivo. Perché in realtà c’era in quelle due righe, sintetizzato, un po’ tutto il mood di buona parte del management torinese: il sentimento sotteso alla parte più determinata di quella piazza – il suo nocciolo duro – costituito da quel mondo delle imprese e delle professioni cittadine che eleva se stesso a misura dell’universo avendo perduto però le proprie capacità propulsive. Declinante, ma determinato tuttavia a non mollare la presa sul proprio contesto, considerando ogni bene comune “disponibile”. Ogni dimensione pubblica privatizzabile. E ogni alterità – quali che ne siano le ragioni – irrilevante. Altro che cittadini con il senso del dovere di cui vaneggia Vladimiro Zagrebetsky (Vladimiro, si badi! non Gustavo) su “La Stampa”.
    Un esempio per tutti: il presidente della Camera di Commercio, tal Vincenzo Ilotte, che dichiara senza un attimo di resipiscenza che «la città si è formalmente espressa sulla Tav, non credo ci sia molto da discutere». Sì, proprio così: non crede che ci sia più “molto da discutere” perché – in piazza, evidentemente – la città si è “formalmente espressa”. Formalmente! Che, se le parole hanno ancora un qualche senso, dovrebbe voler dire: seguendo una qualche procedura di legittimazione. E dimentica che l’unica espressione “formale” è stata la deliberazione del Consiglio comunale (che la si giudichi opportuna o meno) con cui si è dichiarata “formalmente” Torino città No-Tav. E che i 20 o 25 o 30mila di piazza Castello sono pressoché un decimo dei torinesi che due anni fa hanno eletto a maggioranza quel Consiglio e quella giunta. Questo sarebbe un esempio di coscienza civica? O anche solo di cultura democratica? Personalmente mi sembra un perfetto esempio di quel “populismo” contro cui si dice al contrario di volersi opporre.
    Il problema però non sono le singole persone. Il problema, inquietante, per certi aspetti disperante, è che quello “stile” ha animato tutta la preparazione della mobilitazione di sabato 10 novembre. L’asfissiante campagna mediatica, guidata dai giornali cittadini “Stampa” e “Repubblica”, appartenenti ora al medesimo gruppo finanziario assai interessato all’opera. Nei dieci giorni di bombardamento mediatico non una voce fuori dal coro, non un dato, una documentazione, una valutazione indipendente. Niente pensiero, niente ragionamento, niente argomentazione razionale. Molti, troppi slogan. Spacciati a piene mani come verità sacrali (di quelle che non hanno bisogno di conferme fattuali perché sarebbero auto-evidenti). Nessuno ha detto ai cittadini chiamati al giudizio di dio della piazza, che quel treno è fatto per le merci e non per i passeggeri. Che tra Torino e Lyon (e Parigi) c’è già un treno veloce – un Tgv – cinque volte al giorno, sulla linea storica, che attualmente è utilizzata a meno di un quinto della sua capacità. Che i flussi di traffico tra Italia e Francia sulla direttrice alpina sono in calo da anni, sia su rotaia che su autostrada.
    Che supposto che si facesse il “tunnel di base” di 57,5 km, la linea si fermerebbe a St. Jean de Maurienne, tra i pascoli, sul versante francese (perché la Francia non ha deliberato le infrastrutture di raccordo e non ne ha per ora intenzione) e a Susa sul versante italiano. E, a proposito di tunnel di base (il cui impatto sul sistema idrogeologico della valle ma anche di Torino sarebbe pesantissimo), che nonostante viaggi per quasi l’80% in territorio francese sarebbe pagato per circa il 60% da noi!). Che del mitico “Corridoio V” (il quale secondo le allucinazioni dei nostri politici regionali dovrebbe collegare Lisbona con Kiev, anzi, secondo le ultime esternazioni, l’Alantico e il Pacifico) non c’è traccia, non esiste più perché Portogallo e Spagna si sono chiamati fuori e dalla Slovenia in là nessuno ci pensa, per cui le tanto decantate merci dovrebbero proseguire verso est sui famigerati camion o arrivare in camion per andare verso ovest (dove? mah?)…
    E’ assai probabile che una parte almeno del successo di pubblico di quella manifestazione  sia dovuta – oltre alla mobilitazione dei “media” e delle corporazioni cittadine – alla pessima prova offerta in questi due anni dalla giunta Appendino: dal suo pressapochismo, dalle troppe assenze dai luoghi dolenti del tessuto cittadino, dalla promesse non mantenute, dall’isolamento sociale in cui si è confinata. C’era, in quella piazza, anche tanto giustificato disagio. Ma il giudizio sulla promozione dell’“evento” e sulla sua gestione non cambia. Resta imbarazzante – francamente imbarazzante – che l’imprenditoria di una città che è stata, per buona parte del Novecento, un esempio di livello mondiale di “company town” – un modello di capacità industriale potentissimo – si riduca oggi ad affidare il proprio futuro a un’idea vuota – a impiccarsi a un totem fradicio, abbiamo scritto – cioè a un simbolo quale il Tav fallito in partenza, immaginato in un tempo e in un mondo finiti, destinato allo spreco massiccio di risorse che – con un uso più assennato – potrebbero rivelarsi importanti.
    Fa male vedere che gli operatori economici di una città un tempo abitata da produttori orgogliosi di sé si riducano a pietire eventi e opere quali che siano purché alimentino flussi di denaro octroyé, concesso da Roma o dall’Europa, anziché contare sulla propria capacità innovativa e sulla creatività del sistema urbano. E’, in qualche modo, il “sistema Torino” – la configurazione di interessi economici, politici e bancari che ha gestito il declino di Torino nel trentennio trascorso e che si è mossa in piazza per riperpetuarsi, con gli stessi volti, le stesse sigle (il Pd buttato fuori dalla porta alle amministrative e rientrato dalla finestra in piazza) allargate ora alla destra, Forza Italia in primis, ma anche Fratelli d’Italia e soprattutto la Lega. La Lega di Salvini, aggiuntasi all’ultimo momento perché sa che, in casi come questi, gli ultimi saranno i primi e, con molta probabilità, sarà lei l’utilizzatore finale di tutto ciò. Come dire che le fatine turchine di Torino hanno lavorato, in fondo, per il Re di Prussia.
    (Marco Revelli, “Le fate ignoranti di Torino”, dal blog NoTav.info del 19 novembre 2018).

    Giuro che non volevo credere ai miei orecchi quando ho sentito a “Otto e mezzo”, una delle magnifiche sette madamine torinesi “organizzatrici” della manifestazione in piazza Castello, Patrizia Ghiazza, dichiarare bellamente di ignorare tutto delle problematiche tecniche e ambientali relative alla discussa linea del Tav Torino Lione. Ha detto proprio così: «Posso assolutamente dire che non siamo, né io né le altre organizzatrici, competenti per poter entrare nel merito degli aspetti tecnici e ambientali dell’opera». Il fatto è che la manifestazione di cui figuravano come promotrici Patrizia Ghiazza e le altre chiamava in causa – forse a loro insaputa, ma indiscutibilmente  – proprio il merito delle ragioni tecniche e ambientali dell’opera, per dire che era giusta e buona, e che la si sarebbe dovuta assolutamente fare pena la rovina della città e della regione. E ora sappiamo che quell’“entrata nel merito” con quella perentoria conclusione, era avvenuta nella più completa ignoranza dei dati fondamentali, dei più elementari fattori di valutazione, per un atto di fede, diciamo così, nei confronti dei governi precedenti e nel valore metafisico dell’opera.

  • Le 10 bufale sulla Torino-Lione, il Tav più inutile del mondo

    Scritto il 23/11/18 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Un sindacalista, un magistrato, un docente universitario. Ci si mettono in tre, a spiegare – ancora una volta – che la maledizione chiamata Tav Torino-Lione è assolutamente evitabile, per il bene di tutti, e senza alcuna conseguenza. O meglio: l’inutile traforo su cui si litiga da decenni, senza che ancora ne sia stato scavato nemmeno un centimetro, né Italia né in Francia, è bene che venga rottamato tra i progetti che raccontano la follia di epoche lontane. Dato che la disinformazione impera a reti unificate, specie dopo la ridicola manifestazione delle “madamine” torinesi (non una parola per spiegare la necessità della grande opera), a fornire ragguagli inoppugnabili provvedono Paolo Mattone dei Cobas, il giudice Livio Pepino (già consigliere della Cassazione) e il professor Angelo Tartaglia del Politecnico di Torino. Su “Volere la Luna”, smontano tutte le dicerie su cui si basa la leggenda (miliardaria) dell’ipotetica alta velocità Italia-Francia: voci e superstizioni che la stampa non si premura mai di verificare, facendo semplicemente da grancassa al declinante establishment italo-piemontese. «La prosecuzione del progetto non ha alcuna utilità economica o necessità giuridica e si spiega solo con gli interessi di gruppi finanziari privati e con le esigenze di immagine di un ceto politico che sarebbe definitivamente travolto dal suo abbandono. Perché, dunque, continuare?».
    Il “contratto di governo” tra Movimento 5 Stelle e Lega prevede, con riguardo alla nuova linea ferroviaria Torino-Lione, «l’impegno a ridiscutere integralmente il progetto nell’applicazione dell’accordo tra Italia e Francia». Tanto è bastato, sostengono i tre, a produrre un duplice effetto: da un lato si è finalmente aperto un dibattito sulla effettiva utilità dell’opera, «fino a ieri esorcizzato dalla rappresentazione del movimento No Tav, complice la Procura della Repubblica di Torino, come un insieme di trogloditi e di terroristi». Dall’altro, l’atteggiamento razionale del governo «ha mandato in fibrillazione i promotori (pubblici e privati) dell’opera, l’establishment affaristico, finanziario e politico che la sostiene e i grandi media che ne sono espressione (“Stampa” e “Repubblica” in testa) che, non paghi di ripetere luoghi comuni ultraventennali sulla necessità dell’opera per evitare l’isolamento del Piemonte dall’Europa (sic!), hanno cominciato ad evocare fantasiose penali in caso di recesso dell’Italia». In attesa delle indicazioni della commissione preposta all’analisi costi-benefici e delle conseguenti decisioni politiche, è dunque utile fare il punto sulla situazione, partendo dall’esame delle affermazioni più diffuse circa l’utilità della Torino-Lione, il cui impatto sarebbe di per sé devastante: vent’anni di cantieri, urbanistica sconvolta, montagne piene di amianto e uranio, rischi idrogeologici catastrofici.
    Primo assunto “teologico” del Tav in valle di Susa, rilanciato da Sergio Chiamparino: «La nuova linea ha una valenza strategica e unirà l’Europa da est a ovest». Il governatore del Piemonte evoca un collegamento tra l’Atlantico e il Pacifico, «senza considerare che la stazione atlantica è scomparsa nel 2012 con la rinuncia del Portogallo, e che dalla prevista stazione finale di Kiev mancano, per arrivare a Vladivostok e al Pacifico, oltre 7.000 chilometri». Una prospettiva «priva di ogni riscontro reale, posto che una linea ferroviaria ad alta capacità-velocità non è prevista in modo compiuto neppure in Lombardia e Veneto». Peggio: il tratto sloveno non esiste nemmeno sulla carta, mentre in Ungheria e Ucraina nessuno sa che cosa sia il Corridoio 5, come inizialmente si chiamava la linea. «Al netto di bufale interessate e di anacronistici sogni di grandeur – scrivono Mattone, Pepino e Tartaglia – la verità non è quella di una nuova “via della seta” ma, assai più prosaicamente, del solo collegamento ferroviario tra Torino e Lione (235 chilometri, comprensivi di un tunnel di 57 chilometri)», già coperto dall’attuale linea valsusina Torino-Modane «ripetutamente ammodernata e utilizzata per un sesto delle sue potenzialità».
    Seconda bufala: «La nuova linea creerà nuovi orizzonti di traffico». Non è così, spiegano i tre analisti. Il trasporto merci su rotaia attraverso il Fréjus (di passeggeri non si parla più da vent’anni) è in caduta libera dal 1997, e da allora si è ridotto del 71%. Lo ammette persino l’Osservatorio istituito presso la Presidenza del Consiglio, riconoscendo che «molte previsioni fatte 10 anni fa, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali dell’Unione Europea, sono state smentite dai fatti». Nello stesso periodo, i traffici nella direzione Italia-Svizzera hanno continuato a crescere: del 43% nel periodo 1997-2007, quando pure le linee ferroviarie italo-svizzere, con pendenze analoghe, passavano attraverso tunnel ad altitudine simile a quella del Fréjus: il tunnel del Lötschberg, lungo 14,6 chilometri a 1400 metri di quota, e quello storico del San Gottardo, lungo 15 chilometri a 1151 metri di quota, in uso fino al 2016. Parallelamente, il volume del traffico complessivo attraverso la frontiera italo-francese (compreso quello su strada) è diminuito del 17,7%. Ciò dimostra che le ragioni della caduta di traffico sono strutturali e non hanno nulla a che vedere con le caratteristiche tecniche della linea ferroviaria, il cui ammodernamento non attira di per sé solo nuovo traffico. Lungo la direttrice transalpina est-ovest è in atto da tempo una tendenza al calo del flusso di merci, mentre lungo l’asse italo-svizzero e quello italo-austriaco il traffico ha continuato a crescere, anche se dopo il 2010 ha rallentato.
    Una interpretazione ragionevole? «Le direttrici nord-sud collegano il cuore dell’Europa con i porti della sponda nord del Mediterraneo e da lì con l’estremo oriente». I mercati della Cina e del Sud-Est Asiatico? «Sono lontani dalla saturazione e per di più quel sistema produttivo è in grado di fornire merci di rimpiazzo delle nostre a prezzi nettamente più bassi». Viceversa, l’asse est-ovest collega mercati intereuropei fra loro simili e in condizioni di saturazione materiale. In altre parole: non ci sono più merci da far circolare. Niente, comunque, che richieda nuovi canali di comunicazione: quelli attuali sono semi-deserti. Già questo smentisce il terzo assunto “teologico” del fronte pro-Tav, secondo cui «il collegamento ferroviario Italia-Francia deve essere ammodernato perché obsoleto e fuori mercato a causa di limiti strutturali inemendabili». Precisa, anche qui, la replica di Mattone, Pepino e Tartaglia: «Dopo la favola dell’imminente saturazione della linea storica, sostenuta contro ogni evidenza per vent’anni, i proponenti dell’opera e i loro sponsor politici si attestano ora su presunte esigenze dettate dalla modernità, che imporrebbe di «trasformare – con il tunnel transfrontaliero di 57 chilometri – l’attuale tratta di valico in una linea di pianura, così permettendo l’attraversamento di treni merci aventi masse di carico pari a quasi il triplo di quelle consentite dal Fréjus».
    La debolezza della tesi è di tutta evidenza: «Se infatti il traffico è in costante diminuzione e agevolmente assorbito dalla linea storica con le pendenze che la caratterizzano (e che per di più – come si è visto – non sono state di ostacolo all’aumento del traffico ferroviario tra Italia e Svizzera) a che serve un intervento modificativo che comporta rischi ambientali enormi e una spesa di miliardi?». A giustificarlo, secondo i tre analisti, c’è soltanto «una cultura sviluppista senza limiti, sempre più anacronistica». Quarta diceria: «I costi dell’opera sono assai più ridotti di quanto si dica, ammontando per l’Italia a soli 2, massimo 3 miliardi di euro». Per Mattone, Pepino e Tartaglia «siamo di fronte a una sorta di “gioco delle tre carte”, assai poco rispettoso della verità e dell’intelligenza degli italiani (e dei francesi)». Il costo dell’intera opera, infatti, è stato determinato dalla Corte dei Conti francese nel 2012 – senza successivi aggiornamenti o rettifiche – in 26 miliardi di euro, di cui 8,6 miliardi destinati alla tratta transnazionale, per la quale è previsto un finanziamento europeo pari, nella ipotesi più favorevole, al 40% del valore (3,32 miliardi di euro).
    I dati diffusi dai fautori dell’opera riguardano invece la sola tratta internazionale, che – data la scelta del governo italiano di proceder per fasi (il cosiddetto “progetto low cost”) – dovrebbe essere costruita per prima, anche a prescindere dalla prevedibile dilatazione dei costi: il 28 febbraio 2018, il Cipe ha portato a 6,3 miliardi di euro il «costo complessivo di competenza italiana per la sezione transfrontaliera», indicato poco più di due anni prima in 2,56 miliardi). In altre parole, siamo di fronte a un puro artificio contabile, visto che l’ulteriore spesa «non viene affatto annullata, ma semplicemente differita». Ovvero: si parla solo di quei “2-3 miliardi” (già diventati 6,3) senza più citare gli altri 20-25 miliardi quantificati dalla magistratura contabile francese. Ma non è tutto. I supporter del Tav provano anche a tingersi di verde: «Il potenziamento del trasporto su rotaia – dicono – è finalmente una scelta di tutela dell’ambiente». Giusto, se si intendesse: abbandoniamo le autostrade e trasferiamo i Tir sulla rete ferroviaria esistente (la stessa Torino-Modane in valle di Susa supporterebbe perfettamente i treni con a bordo i camion, se solo esistessero). Qui invece si prevede «la costruzione ex novo di un’opera ciclopica», con un impatto notoriamente insostenibile sul piano ambientale.
    Mattone, Pepino e Taraglia citano «gli effetti dello scavo di un tunnel di 57 chilometri in una montagna a forte presenza di amianto e uranio con un cantiere ventennale che produrrà un inquinamento certo, a fronte di un recupero successivo del tutto incerto», senza contare gli ingenti consumi energetici per il sistema di raffreddamento del tunnel, la cui temperatura interna sarà superiore ai 50 gradi. E’ dipo ecologista (ma altrettanto infondato) anche il “sesto comandamento” della Torino-Lione: «Con il Tav diminuiranno, comunque, i Tir sull’autostrada e il connesso inquinamento». Anche questa, replicano i tre analisti, è una pura petizione di principio, con la quale si dà per certo lo spontaneo abbandono dell’autostrada da parte dei Tir e il loro passaggio alla ferrovia – tutto da dimostrare, e legato a variabili future e incerte (costi, e non solo). Ma c’è di più. Se davvero si volesse trasferire il traffico dalla gomma alla rotaia, basterebbe imporre – come in Svizzera – pedaggi salatissimi agli autotreni. In Italia si procede al contrario: incentivi per il carburante e pedaggi autostradali in favore dei camionisti. «Passare dagli incentivi alle penalizzazioni sarebbe certo una sfida complessa». La follia italiana dei pro-Tav? «Millantare aspirazioni ecologiste mentre si praticano politiche contrarie».
    Settima bufala: «La realizzazione della Torino-Lione è una straordinaria occasione di crescita occupazionale che sarebbe assurdo accantonare, soprattutto in epoca di crisi economica». L’affermazione, dicono Mattone, Pepino e Tartaglia, «è un caso scolastico di mezza verità trasformata in colossale inganno». Che la costruzione di un’opera (anche dannosa) produca posti di lavoro, è incontestabile. Ma il punto è un altro: posto che serva, quest’opera, quanto lavoro genera, rispetto ad altri possibili investimenti? Servono calcoli precisi, soprattutto in una situazione come questa, in cui non ci sono risorse per tutto e un investimento ne esclude altri. «Orbene, l’esperienza dimostra in modo inoppugnabile che un piano di messa in sicurezza del territorio è molto più utile (superfluo ricordarlo nell’Italia dei crolli, delle frane e delle esondazioni) e assai più efficace in termini di creazione di posti di lavoro di qualunque infrastruttura ciclopica». Le grandi opere, infatti, sono «investimenti ad alta intensità di capitale e a bassa intensità di mano d’opera (con pochi posti di lavoro per miliardo investito e per un tempo limitato), mentre gli interventi diffusi di riqualificazione del territorio e di aumento dell’efficienza energetica producono un’alta intensità di manodopera a fronte di una relativamente bassa intensità di capitale (con creazione di più posti di lavoro per miliardo investito e per durata indeterminata)». La Torino-Lione, quindi, «è tutt’altro che l’affare evocato dai proponenti e dai loro sponsor politici».
    Ottava leggenda: «Trent’anni fa si sarebbe potuto discutere, ma oggi i lavori sono ormai in uno stato di avanzata realizzazione e non si può tornare indietro». Affermazione priva di ogni consistenza: «Del tunnel transfrontaliero, infatti, non è stato a tutt’oggi scavato neppure un centimetro». Sono state realizzate solo opere preparatorie, tra cui lo scavo in territorio francese di 5 chilometri di tunnel geognostico «impropriamente spacciato, in decine di filmati e interviste a tecnici e politici, per l’inizio del traforo ferroviario». Le piccole opere propedeutiche si sono già mangiate un miliardo e mezzo di euro, ma ciò rende solo più urgente una decisione, che deve intervenire prima dell’inizio dei lavori per la realizzazione del tunnel di base e i cui termini sono drammaticamente semplici: a fronte di un’opera dannosa per gli equilibri ambientali e per le finanze pubbliche (come dimostrato dalle analisi di costi e benefici effettuate da studiosi accreditati come il francese Prud’Homme e gli italiani Debernardi e Ponti), conviene di più contenere i danni – mettendo una croce sul miliardo e mezzo colpevolmente speso sino ad oggi – o continuare in uno spreco di miliardi?
    L’ultima nata delle motivazioni pro-Tav è la sicurezza: «Per mettere in sicurezza il tunnel storico del Fréjus serviranno a breve da 1,4 a 1,7 miliardi di euro: meglio, anche sul piano economico, costruirne uno nuovo». Ovvero: «Il tunnel esistente dovrebbe essere adeguato a caro prezzo in quanto a canna singola e doppio binario e senza vie di fuga intermedie; non ne vale la pena e tanto vale abbandonarlo per sostituirlo con il nuovo super-tunnel di base». Se le motivazioni fossero quelle addotte, un intervento ben più urgente ‒ a cui destinare le scarse risorse disponibili (e del quale, curiosamente, nessuno parla) – dovrebbe essere effettuato sulla linea ad alta velocità Bologna-Firenze, con quasi 74 chilometri di gallerie (la più lunga, quella di Vaglia, di 18,713 chilometri, cinque in più del Fréjus) tutte a canna singola e doppio binario, senza tunnel di soccorso, con un traffico molto più intenso che al Fréjus e in buona parte ad alta velocità. Né va dimenticato che nella galleria del Fréjus sono stati effettuati lavori di adeguamento tra il 2003 e il 2011 spendendo qualche centinaio di milioni di euro: per la parte francese, «l’intervento è stato effettuato al risparmio e in difformità da quanto correttamente (una volta tanto) fatto nella parte italiana». Ai francesi, «che già hanno provveduto ad addossare all’Italia (col consenso di un nostro distratto Parlamento) una parte dell’eventuale costo del nuovo tunnel di base decisamente sbilanciata a loro favore», occorrerebbe chieder conto delle carenze del tunnel “storico” dovute al loro modo di lavorare.
    In conclusione: qualcuno è in grado di spiegare perché mai bruciare 20-30 miliardi nell’inceneritore della Torino-Lione? Per non pagare le salatissime penali previste in caso di rinuncia, ripetono i pro-Tav, che parlano di sanzioni «fino a un ammontare di due miliardi e 500 milioni». Qui, protestano Mattone, Pepino e Tartaglia, «siamo di fronte a una bufala allo stato puro: non esiste, infatti, alcun documento europeo sottoscritto dall’Italia che preveda penali o risarcimenti di qualsivoglia tipo in caso di ritiro dal progetto». Gli accordi bilaterali tra Francia e Italia «non prevedono alcuna clausola che accolli a una delle parti, in caso di recesso, compensazioni per lavori fatti dall’altra parte sul proprio territorio». In caso di appalti aggiudicati, il nostro codice civile prevede che, ove il soggetto appaltante decida di annullarli, le imprese danneggiate hanno diritto a un risarcimento comprensivo della perdita subita e del mancato guadagno che ne sia conseguenza immediata (per un ammontare che, di regola, non supera il 10% del valore dell’appalto). Ma finora non è stato aggiudicato (e nemmeno bandito) nessun appalto, per il tunnel di base. Il Grant Agreement del 25 novembre 2015, sottoscritto da Italia, Francia e Unione Europea, dispone che «nessuna delle parti ha diritto di chiedere un risarcimento in seguito alla risoluzione ad opera di un’altra parte», prevedendo sanzioni amministrative e pecuniarie nel solo caso in cui il beneficiario di un contributo abbia commesso irregolarità o frodi. I finanziamenti europei sono erogati solo in base all’avanzamento dei lavori, quindi la rinuncia non comporta alcun dovere di restituzione dei contributi (mai ricevuti). Dati incontrovertibili: una panoramica decisamente vertiginosa. E’ possibile parlare di una grande opera per vent’anni, esasperando la popolazione, senza mai degnarsi di elargire uno straccio di verità?

    Un sindacalista, un magistrato, un docente universitario. Ci si mettono in tre, a spiegare – ancora una volta – che la maledizione chiamata Tav Torino-Lione è assolutamente evitabile, per il bene di tutti, e senza alcuna conseguenza. O meglio: l’inutile traforo su cui si litiga da decenni, senza che ancora ne sia stato scavato nemmeno un centimetro, né Italia né in Francia, è bene che venga rottamato tra i progetti che raccontano la follia di epoche lontane. Dato che la disinformazione impera a reti unificate, specie dopo la ridicola manifestazione delle “madamine” torinesi (non una parola per spiegare la necessità della grande opera), a fornire ragguagli inoppugnabili provvedono Paolo Mattone dei Cobas, il giudice Livio Pepino (già consigliere della Cassazione) e il professor Angelo Tartaglia del Politecnico di Torino. Su “Volere la Luna”, smontano tutte le dicerie su cui si basa la leggenda (miliardaria) dell’ipotetica alta velocità Italia-Francia: voci e superstizioni che la stampa non si premura mai di verificare, facendo semplicemente da grancassa al declinante establishment italo-piemontese. «La prosecuzione del progetto non ha alcuna utilità economica o necessità giuridica e si spiega solo con gli interessi di gruppi finanziari privati e con le esigenze di immagine di un ceto politico che sarebbe definitivamente travolto dal suo abbandono. Perché, dunque, continuare?».

  • In quella piazza triste, l’establishment che ha spento Torino

    Scritto il 18/11/18 • nella Categoria: idee • (6)

    A questo punto diciamocelo (almeno noi) con chiarezza: la piazza di Torino era – nonostante l’enfasi mediatica – una “piazza triste”. Di gente in fondo rassegnata, che non sapendo più contare sulle proprie forze aspetta la soluzione dei propri problemi da un altrove: un buco nella montagna, un “evento” olimpico, un cenno d’attenzione da Roma. Gente incerta sulle proprie ragioni (sulle ragioni del proprio esser lì), perché in fondo lì erano per le ragioni degli altri. Di quelli che dalla “Grande Opera” – loro sì – s’aspettano di guadagnarci, per un appalto concesso, uno studio di fattibilità realizzato, un atto notarile curato, un’intermediazione riuscita. Loro e i loro padrini politici, che sull’intermediazione di prebende hanno costruito negli anni il proprio sistema di fedeltà e di consenso. Le dichiarazioni dei “cittadini” presenti intervistati dallo sciame di media piombati a Torino sono, serialmente, simili, generiche e poco informate. C’è la professoressa che dice candidamente di essere in piazza perché i suoi studenti (che invece non ci sono) «vogliono andare a Barcellona in treno», mentre l’intervistatore si guarda bene dall’informarla che con Barcellona quella linea, che porterà prevalentemente merci più che studenti, non c’entra e se proprio va bene, se non si fermerà in Maurienne, tutt’al più li scaricherà a Lione, tra una decina o quindicina di anni (quando i suoi ragazzi saranno padri o magari nonni).
    C’è il pensionato che dice che senza la ferrovia “Torino muore”. E quello che pensa che con il Tav il Pil crescerà del 30% (!!??). C’è l’anziana che fa la posta per strappare un autografo a Mariastella Gelmini, quella che da ministra parlava del tunnel tra Ginevra e il Gran Sasso e che ora è anche lei in piazza per questo tunnel. E quello che rimpiange tanto “Piero” (Fassino, fatto fuori alle amministrative ultime), ma gli va anche bene “Sergio” (Chiamparino, ancora in sella in Regione). Qualcuno dovrebbe spiegarglielo a quelle brave persone – sicuramente in buona fede ma poco informate – che quell’opera è riservata prevalentemente alle merci e non ai passeggeri (è una linea ad “alta capacità” non ad “alta velocità”). E che quando era stata “inventata” i suoi fautori ne sostenevano le motivazioni prevedendo che in pochi anni i flussi di traffico sulla direttrice Torino-Lione sarebbero cresciuti in misura esponenziale, fino a saturare entro il 2010 la portata delle “linea storica” stabilita in 20 milioni di tonnellate annue” e a raggiungere entro il 2030 i 40 milioni, mentre oggi – nel 2018 – la linea storica è utilizzata per appena un sesto della sua capacità (meno di 4 milioni di tonnellate) e il traffico sulla direttrice est-ovest (di cui la Torino Lione è il canale) sono in costante decremento dato il carattere maturo e non complementare delle economie italiana e francese.
    Qualcuno dovrebbe anche dire che il traffico su gomma sull’autostrada Torino-Bardonecchia e poi attraverso il Fréjus è stagnante da anni, e che non ci sono produttori smaniosi di spostare le proprie merci dai Tir ai treni, per il semplice fatto che su quella frontiera i flussi di merci sono esangui; che le spedizioni su ferrovia sono accettabili in termini di costi solo se il raggio della tratta è di centinaia di chilometri, mentre sulla frontiera italo-francese passano traffici di breve-medio raggio; e che se si facesse davvero e se si volesse davvero spostare il traffico merci dalla gomma al ferro (dai Tir ai treni) occorrerebbe mettere tariffe così elevate sulle autostrade che metterebbero in crisi l’intero sistema di trasporto attuale (i bravi imprenditori Sì Tav questo conticino se lo sono fatto?). Qualcuno dovrà ben dire che i costi di attuazione di tutte le linee ad alta velocità in Italia sono cresciuti, in corso d’opera, di percentuali oscillanti tra il 300 e il 500% (con un picco del 700% sulla Torino-Milano, che è tutta piatta con pochi fiumi da attraversare mentre i 57 chilometri del tunnel di base viaggiano sotto montagne piene di difficoltà).
    Se per sfortuna fosse deliberata, la Torino-Lione vedrebbe la luce al fondo del tunnel solo tra una decina-quindicina di anni. E se fosse (improbabilmente) conclusa, ai due capi del tunnel di base non ci sarebbero i raccordi necessari, perché i francesi non lo prevedono per nulla e gli italiani non sanno ancora su quale percorso. Quindi per molti, molti anni si dovrà viaggiare sulla linea storica, che con atteggiamento spinto oltre il limite dell’irresponsabilità  l’attuale Commissario all’opera dice essere gravemente a rischio ma su cui nega la possibilità di fare interventi di messa in sicurezza perché pregiudicherebbero la nuova opera. Quello che resta, a conclusione di questo tranquillo week end d’impostura, è la poco consolante constatazione che una città che affida il proprio futuro a un’opera assurda che dilapiderebbe risorse, ambiente, territorio e comunità, è una città “perduta”. E che una classe imprenditoriale che si riduce ad adorare un totem fradicio, come farebbe una tribù primitiva di fronte alla carestia, anziché farsi un esame di coscienza e contare sulla propria capacità d’innovazione, è destinata inevitabilmente al declino.
    (Estratto da “La piazza della Torino perduta”, post pubblicato su “Volere la Luna” il 13 novembre 2018. Vivido, nel testo integrale dell’intervento, il ritratto dei volti che si sono prestati a sostenere la manifestazione Sì Tav, gonfiata dai media: Salvatore Tropea e Paolo Griseri di “Repubblica”, il presidente dell’Api Corrado Alberto, il lobbista berlusconiano Mino Giachino presidente dei club “Forza Silvio”, Piero Fassino e Sergio Chiamparino, l’ex direttore della “Stampa” Marcello Sorgi e lo storico ex-sessantottino Giovanni De Luna. Oltre a Pd e Forza Italia, alla manifesazione torinese hanno aderito anche la Lega, Fratelli d’Italia, CasaPound e Forza Nuova).

    A questo punto diciamocelo (almeno noi) con chiarezza: la piazza di Torino era – nonostante l’enfasi mediatica – una “piazza triste”. Di gente in fondo rassegnata, che non sapendo più contare sulle proprie forze aspetta la soluzione dei propri problemi da un altrove: un buco nella montagna, un “evento” olimpico, un cenno d’attenzione da Roma. Gente incerta sulle proprie ragioni (sulle ragioni del proprio esser lì), perché in fondo lì erano per le ragioni degli altri. Di quelli che dalla “Grande Opera” – loro sì – s’aspettano di guadagnarci, per un appalto concesso, uno studio di fattibilità realizzato, un atto notarile curato, un’intermediazione riuscita. Loro e i loro padrini politici, che sull’intermediazione di prebende hanno costruito negli anni il proprio sistema di fedeltà e di consenso. Le dichiarazioni dei “cittadini” presenti intervistati dallo sciame di media piombati a Torino sono, serialmente, simili, generiche e poco informate. C’è la professoressa che dice candidamente di essere in piazza perché i suoi studenti (che invece non ci sono) «vogliono andare a Barcellona in treno», mentre l’intervistatore si guarda bene dall’informarla che con Barcellona quella linea, che porterà prevalentemente merci più che studenti, non c’entra e se proprio va bene, se non si fermerà in Maurienne, tutt’al più li scaricherà a Lione, tra una decina o quindicina di anni (quando i suoi ragazzi saranno padri o magari nonni).

  • Travaglio: Sì Tav, le ridicole frottole della Banda del Buco

    Scritto il 16/11/18 • nella Categoria: idee • (4)

    Dopo aver sorseggiato i fiumi d’inchiostro versati dai “giornaloni” sull’oceanica manifestazione Sì Tav del 3 novembre a Torino, «che ha visto sfilare nientepopodimenoché un torinese su 35 o un piemontese su 177», una domanda sorge spontanea: cosa sapeva tutta questa brava gente del Tav Torino-Lione? «Si spera vivamente che ne sapesse un po’ di più di una delle sette “madamine” organizzatrici dell’evento, Patrizia Ghiazza, cacciatrice di teste all’evidenza sfortunata», che l’altra sera esibiva tutta la sua competenza a “Otto e mezzo”, ammettendo: «Né io né le altre organizzatrici siamo competenti per poter entrare nel merito degli aspetti tecnici e ambientali dell’opera». Sul serio? «Non male – scrive Marco Travaglio – per una manifestazione apolitica e apartitica, ma soltanto tecnica, sul merito del treno merci ad alta velocità (anzi, a bassa, perché le merci di solito viaggiano a non più di 100-120 km l’ ora)». Essendosi “informati” sui giornaloni che hanno sponsorizzato la Lunga Marcia, aggiunge Travaglio sul “Fatto Quotidiano”, «era prevedibile che organizzatori e partecipanti ne sapessero pochino, e che quel pochino fosse falso». Infatti «sventolavano cartelli “Sì alla Tav”, ignorando che è l’acronimo di Treno Alta Velocità, dunque è maschile, con buona pace di “Stampubblica” che ha spacciato l’iniziativa per una “rivolta delle donne” contro non si sa bene cosa, anche se in piazza sfilavano soprattutto maschietti di una certa età».
    L’acronimo, fra l’altro, è una patacca (femminile), perché per le merci l’espressione giusta è Treno ad Alta Capacità (Tac). «I marciatori, e Salvini a ruota, ripetevano che l’opera va assolutamente “completata”: ma un’opera – sottolinea Travaglio – si completa quando è già iniziata, e qui non è stato costruito nemmeno un millimetro di ferrovia». Il cantiere che tutti vedono da 7 anni è quello del tunnel esplorativo di Chiomonte, che «nulla a che vedere con l’opera vera e propria, il “tunnel di base”, cioè il mega-buco dovrebbe attraversare 57 chilometri di montagna e che fortunatamente non esiste: le gare d’appalto non sono state neppure bandite». Dunque, insiste Travaglio, non c’è nulla da completare. Qualcuno sogna di salire un giorno a bordo del mirabolante supertreno? Escludendo che i Sì Tav si considerino merci, resteranno mestamente a terra anche se l’opera venisse realizzata. «Chi volesse invece raggiungere ad alta velocità Parigi o Lione da Milano o da Torino, può montare sul comodo Tgv, che dalla notte dei tempi percorre rapidamente quella tratta». Ma i nostri eroi «strillano contro “l’isolamento dell’Italia” e per il “collegamento con l’Europa”, evidentemente ignari dell’esistenza del Tgv da e per la Francia, dei treni veloci da e per la Svizzera e così via».
    Forse, aggiunge Travagalio, pensano che per affacciarsi oltre la cinta daziaria sia necessario scalare le Alpi a piedi? “Monsù e madamine” saranno tutti interessati al trasporto merci? «Benissimo, allora possono stare tranquilli: le loro merci da trasportare ad altissima velocità da Torino a Lione possono depositarle in uno a caso dei container (perlopiù vuoti) che ogni giorno viaggiano sui treni della tratta Torino-Modane-Chambéry-Culoz, che dal 1871 attraversa il Frejus, ci è appena costata 400 milioni per lavori di ammodernamento ed è inutilizzata all’80-90%». Alla marcia torinese c’era pure Paolo Foietta, commissario dell’Osservatorio Tav: qualcuno avrebbe potuto domandargli con che faccia sostenga ancora l’utilità dell’opera, dopo avere scritto un anno fa al governo Gentiloni che «molte previsioni fatte 10 anni fa, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali della Ue, sono state smentite dai fatti». E chissà se quanti invocano “lavoro” sanno che «attualmente nel cantiere lavorano appena 800 persone, che salirebbero a non più di 3-4mila per il tunnel di base, con un costo stratosferico per ogni occupato». La delibera 67 emanata dal Cipe nel 2017 stima il costo complessivo del solo tunnel di base in 9,6 miliardi: il 57,9% lo paga l’Italia e solo il 42,1 la Francia (anche se il tunnel insiste per l’80% in territorio francese e solo per il 20 in territorio italiano: perché?). E chissà se chi si riempie la bocca di paroloni come “futuro”, “sviluppo”, “modernità” è stato informato che, in 17 anni di studi e carotaggi, «abbiamo già buttato 1,6 miliardi, oltre a tenere la val di Susa in stato d’assedio permanente».
    Ora, continua Travaglio, servono sulla carta un’altra quindicina di miliardi, che poi nella realtà salirebbero a 20-25, dato che «le grandi opere in Italia lievitano in media del 45%». È questa la “decrescita infelice” che ci attenderebbe, per colpa del Tav, e non «quella di chi si oppone a un’opera ad altissima voracità e a bassissima occupazione». E chi vaneggia di “penali da pagare” o di “fondi europei da restituire” o “da non perdere”, secondo Travaglio «ignora che la parola “penale” non compare in alcun contratto o accordo con la Francia, con l’Ue o con ditte private». L’Italia, sul suo tracciato, può fare ciò che vuole. Recita la legge 191 del 2009: “Il contraente o l’affidatario dei lavori deve assumere l’impegno di rinunciare a qualunque pretesa risarcitoria eventualmente sorta in relazione alle opere individuate… nonché ad alcuna pretesa, anche futura, connessa al mancato o ritardato finanziamento dell’intera opera o di lotti successivi”. Quanto all’Ue, assicura Travaglio, «finanzia solo lavori ultimati: se il Tav non si fa più, l’Italia non deve restituire un euro». Ora però le nostre disinformate “madamine” si sono montate la testa: «Chiedono udienza al Quirinale, danno ordini alla sindaca Appendino e al governo Conte», come se 25.000 persone in piazza contassero più dei quasi 11 milioni di italiani che hanno votato per i 5 Stelle (NoTav) nel 2018 e degli oltre 202.000 torinesi che nel 2016 hanno eletto la sindaca NoTav Chiara Appendino contro il Sì Tav Piero Fassino. «Invece i NoTav, che negli anni hanno portato in piazza ora 40 ora 50.000 persone, non se li è mai filati nessuno. A parte, si capisce, i manganelli della polizia».

    Dopo aver sorseggiato i fiumi d’inchiostro versati dai “giornaloni” sull’oceanica manifestazione Sì Tav del 3 novembre a Torino, «che ha visto sfilare nientepopodimenoché un torinese su 35 o un piemontese su 177», una domanda sorge spontanea: cosa sapeva tutta questa brava gente del Tav Torino-Lione? «Si spera vivamente che ne sapesse un po’ di più di una delle sette “madamine” organizzatrici dell’evento, Patrizia Ghiazza, cacciatrice di teste all’evidenza sfortunata», che l’altra sera esibiva tutta la sua competenza a “Otto e mezzo”, ammettendo: «Né io né le altre organizzatrici siamo competenti per poter entrare nel merito degli aspetti tecnici e ambientali dell’opera». Sul serio? «Non male – scrive Marco Travaglio – per una manifestazione apolitica e apartitica, ma soltanto tecnica, sul merito del treno merci ad alta velocità (anzi, a bassa, perché le merci di solito viaggiano a non più di 100-120 km l’ora)». Essendosi “informati” sui giornaloni che hanno sponsorizzato la Lunga Marcia, aggiunge Travaglio sul “Fatto Quotidiano”, «era prevedibile che organizzatori e partecipanti ne sapessero pochino, e che quel pochino fosse falso». Infatti «sventolavano cartelli “Sì alla Tav”, ignorando che è l’acronimo di Treno Alta Velocità, dunque è maschile, con buona pace di “Stampubblica” che ha spacciato l’iniziativa per una “rivolta delle donne” contro non si sa bene cosa, anche se in piazza sfilavano soprattutto maschietti di una certa età».

  • Fracchia contro Dracula: gli eroi gialloverdi e i vampiri Ue

    Scritto il 16/11/18 • nella Categoria: idee • (8)

    «Non si può votare per abolire la legge di mercato, come non si può votare per abolire la legge di gravità» (Carlo Alberto Carnevale Maffè, Università Bocconi). Dopo aver giurato e spergiurato che non avrebbero mai ceduto, i Grilloverdi naturalmente hanno ceduto, stralciando sia quel che resta del miserrimo Reddito di cittadinanza, che la fantomatica Quota 100 pensionistica dalla manovra finanziaria, per renderla più digeribile ai vampiri dell’Ue. Come Fracchia, minacciano sfracelli davanti ai colleghi, per poi cagarsi sotto all’arrivo del capoufficio. In particolare non c’è promessa solenne o valore fondante che la maggioranza dei grillini non sia disposta a rimangiarsi fino all’ultima briciola, pur di restare aggrappata alla posizione di potere che ha raggiunto, e che si restringe e diventa sempre più scivolosa, come una lastra di ghiaccio in un mare in tempesta, circondata dai pescecani, soprattutto leghisti. Tutta la fantascientifica rivoluzione del M5S s’è ridotta al bisogno disperato di riuscire a distribuire qualche buono spesa ai suoi elettori, prima che Salvini glieli porti via tutti. Mentre l’Unione Europea continua a spedire lettere minatorie a raffica come uno spam bot.
    Questo match truccato fra cazzari e sanguisughe è avvilente. La nostra unica speranza è il loro annientamento reciproco. Purtroppo però hanno più volte dimostrato d’avere la resilienza degli scarafaggi, specialmente la Lega, che si trova bene in entrambe le categorie, e quando si sarà sgonfiata la bolla populista, conta di tornare fra i “moderati”, i borghesi (post) berlusconiani i cui interessi in realtà non ha mai smesso di tutelare in via prioritaria, alla faccia del popolo. La democrazia occidentale s’è rivelata la peggiore truffa a schema piramidale del millennio. Votare è inutile, nella migliore delle ipotesi. Perché non c’è nessun vero cambiamento politico e sociale possibile senza cambiamento del modello economico. Questa pantomima è l’unica “democrazia” consentita dal capitalismo. Intanto il cadavere del Pd aspetta d’essere rianimato dal morso di Minniti. Le conduttrici “progressiste” lo adorano, Gruber, Panella, Merlino, Berlinguer, lo intervistano con occhi sognanti, lo supplicano di salvare la nazione dai fascisti impresentabili. E riconsegnarla a quelli beneducati.
    (Alessandra Daniele, “Fracchia contro Dracula”, da “Carmilla” del 4 novembre 2018. Blogger disillusa sul menù politico italiano e curatrice della rurbica “Schegge taglienti” proprio su “Carmilla”, Alessandra Daniele ha collaborato a tre antologie cartacee, due progetti collettivi Creative Commons che ha contribuito a ideare, “Sorci Verdi” (Alegre, 2011), “Scorrete lacrime, disse lo sceriffo” (Crash, 2008) e l’antologia urban horror “Sinistre Presenze” (Bietti, 2013). Ha pubblicato due diverse raccolte dei suoi testi “carmilliani”: “Schegge Taglienti” (Agenzia X, 2014) e l’ebook gratuito “L’Era del Cazzaro” (Carmilla, 2016). C’è un suo racconto anche nella raccolta fotografica “Banditi dell’alta felicità”, edita dal movimento NoTav. Il suo spazio su “Carmilla” lo chiama “bloggino”, definendolo «uno spinoff per testi (ancora) più brevi». Precisa: «Non sono né su Facebook né su Twitter. Sono su “Carmilla”. E qualche volta al mare»).

    «Non si può votare per abolire la legge di mercato, come non si può votare per abolire la legge di gravità» (Carlo Alberto Carnevale Maffè, Università Bocconi). Dopo aver giurato e spergiurato che non avrebbero mai ceduto, i Grilloverdi naturalmente hanno ceduto, stralciando sia quel che resta del miserrimo Reddito di cittadinanza, che la fantomatica Quota 100 pensionistica dalla manovra finanziaria, per renderla più digeribile ai vampiri dell’Ue. Come Fracchia, minacciano sfracelli davanti ai colleghi, per poi cagarsi sotto all’arrivo del capoufficio. In particolare non c’è promessa solenne o valore fondante che la maggioranza dei grillini non sia disposta a rimangiarsi fino all’ultima briciola, pur di restare aggrappata alla posizione di potere che ha raggiunto, e che si restringe e diventa sempre più scivolosa, come una lastra di ghiaccio in un mare in tempesta, circondata dai pescecani, soprattutto leghisti. Tutta la fantascientifica rivoluzione del M5S s’è ridotta al bisogno disperato di riuscire a distribuire qualche buono spesa ai suoi elettori, prima che Salvini glieli porti via tutti. Mentre l’Unione Europea continua a spedire lettere minatorie a raffica come uno spam bot.

  • Santo Tav, a Torino il culto arancione del Serpente d’acciaio

    Scritto il 11/11/18 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    L’animalone mitologico chiamato Tav Torino-Lione è riapparso – in purezza, per evocazione – nel cuore sabaudo di Torino, la città-Stato transitata senza colpo ferire dai Savoia alla Fiat e quindi al Pd, prima di smarrirsi (per un caso tuttora misterioso) tra i proclami palingenetici dei 5 Stelle, guidati addirittura da una donna. Riappare a comando, il mitico Serpentone superveloce, a beneficio delle telecamere: un’epifania mediatica lunga circa un’oretta, sinistramente addobbata in arancione come le tante farlocche “rivoluzioni colorate” che hanno depistato l’Occidente negli ultimi anni, in televisione, tra una fake news e l’altra. Ricompare innaturalmente, l’ipotetico l’animalone su rotaia, in forma di archetipo: qualcosa che esiste solo nell’iperurario, nel mondo delle idee, e dopo più di vent’anni ancora attende qualcuno che lo traduca finalmente in un evento materiale spiegabile, sensato, ragionevole, oltre che desiderabile. Per i comizianti convocati dal vecchio establishment torinese, infatti, l’entità miracolosa che nei loro sogni miliardari salverebbe la città è sempre intangibile come la fede, impalpabile come la felicità. Il rettilone sputa-amianto è semplicemente la gioia, il bene, la storia, il progresso, la civiltà. Impossibile chiedere agli arancioni la decenza di una spiegazione: ai fedeli non serve.
    Non serve nemmeno ai giornali, una spiegazione. Quali meraviglie potrebbe mai portare in dono, il drago metallico che i bene informati non vogliono? Forse non è il caso di chiarirlo neppure stavolta, di fronte agli “oltre 30.000” manifestanti in piazza Castello, che sono “25.000” per la questura ma restano “oltre 30.000, forse 40.000” per tutti i grandi media, ennesima dimostrazione del carattere prodigioso dell’evocazione. Perfettamente inutile sfogliare la “Stampa”, i titoli parlano da soli: “Torino, in piazza i 30.000 del popolo del Sì”. Trentamila eroi (sempre gli stessi 25.000 per la questura): “Piazza piena, ma civile”. Le voci: “Perché SìTav: non siamo madamin che stanno a casa a cucire, vogliamo un futuro”. Già: perché SìTav? Mistero della fede: guai a svelarlo, pena il crollo carismatico del clero officiante. Per l’occasione, molto solenne, se ne occupa – citando De Gasperi, nientemeno, come suscitatore di folle torinesi – l’ex sottosegretario berlusconiano Mino Giachino, esponente del Rito Unificato (Pd e Forza Italia) che il Serpentone ha saputo creare, riunendo sotto un’unica bandiera l’affarismo italico. «In questi vent’anni è stato bloccato lo sviluppo del paese», proclama monsignor Giachino, uno che quindi in questi ultimi vent’anni non stava al governo, ma in vacanza permanente alle Hawaii.
    Diciamo sì al Tav, insiste il reverendo, «perché negli ultimi vent’anni l’Italia ha perso 20 punti di Pil rispetto alla media europea, e Torino di più». L’Italia è arretrata, è vero: ma perché? Colpa della globalizzazione, del neoliberismo, della deindustrializzazione? Delle delocalizzazioni e del regime di austerity a base di tagli e tasse, e quindi di licenziamenti? Colpa della guerra anti-italiana scatenata dall’oligarchia franco-tedesca grazie all’Unione Europea con il fondamentale contributo dei collaborazionisti nostrani? Colpa della crisi finanziaria? Colpa dell’élite speculativa che ha precarizzato il lavoro e demolito i consumi? Ma no, suvvia: Prodi e Draghi non contano niente, l’Eurozona è una leggenda, Mario Monti resta un personaggio letterario come Giorgio Napolitano. La disgrazia piovuta sull’Italia, inclusa Torino (con l’eccezione dell’Impero Juventus, prontamente trasferito a Detroit) ha un’unica causa evidente, mitologicamente impeccabile: la pervicace resistenza dell’Impero del Male, popolato dai farabutti NoTav, nel consentire alla Luce di rischiarare finalmente le tenebre, il funereo abisso nel quale le “madamin” in arancione raggruppate in piazza Castello sono certe di rischiare di sprofondare. «Siamo tutti qui per dire sì al futuro e sì al lavoro», chiosa il cardinal Giachino, tra le ovazioni.
    Il magico Serpentone scaccia-malocchio ha anche il potere taumaturgico di ridisegnare la geografia: «Sì alla Tav, che collega il Piemonte all’Europa e all’Asia», si sente cantare dal palco, come se il povero Piemonte fosse una terra di pastorelli costretti ad arrancare a dorso di mulo. «Sì a Torino come centro di scambi, porta aperta verso gli altri paesi, snodo sulla rete ferroviaria internazionale». Percepito da piazza Castello, il Serpentone perde il suo colore arancione e si tinge di giallo, come la coda del Dragone cinese. Eccolo, il futuro: Torino come “centro si scambi” sulla Nuova Via della Seta, destinata a trasformare l’Eurasia in un mercato viaggiante di vagoni e container. Ah, se solo ci fosse una ferrovia capace di collegare Torino a Lione… C’è già, nel mondo reale: si chiama Torino-Modane e utilizza il traforo del Fréjus appena riammodernato con quasi mezzo miliardo di euro per farvi transitare anche i container più grandi. Ma è noto che la realtà non giova al pensiero magico che si nutre del soprannaturale. Che fine farebbe, il fenomenale Serpentone, se per sbaglio deragliasse dalle usuali rotaie metafisiche? Meglio le fiabe soavemente narrate, ancora una volta, dal celebrante televisivo, magnificamente riproposte a reti unificate dagli stessi media che, l’8 dicembre, quando la città sarà invasa dai barbari NoTav, spegneranno come al solito i microfoni. Il Serpentone, del resto, è pura trascendenza: tentare di spiegarne l’utilità, oltre che impossibile, sarebbe un atto sacrilego.

    L’animalone mitologico chiamato Tav Torino-Lione è riapparso – in purezza, per evocazione – nel cuore sabaudo di Torino, la città-Stato transitata senza colpo ferire dai Savoia alla Fiat e quindi al Pd, prima di smarrirsi (per un caso tuttora misterioso) tra i proclami palingenetici dei 5 Stelle, guidati addirittura da una donna. Riappare a comando, il mitico Serpentone superveloce, a beneficio delle telecamere: un’epifania mediatica lunga circa un’oretta, sinistramente addobbata in arancione come le tante farlocche “rivoluzioni colorate” che hanno depistato l’Occidente negli ultimi anni, in televisione, tra una fake news e l’altra. Ricompare innaturalmente, l’ipotetico l’animalone su rotaia, in forma di archetipo: qualcosa che esiste solo nell’iperurario, nel mondo delle idee, e dopo più di vent’anni ancora attende qualcuno che lo traduca finalmente in un evento materiale spiegabile, sensato, ragionevole, oltre che desiderabile. Per i comizianti convocati dal vecchio establishment torinese, infatti, l’entità miracolosa che nei loro sogni miliardari salverebbe la città è sempre intangibile come la fede, impalpabile come la felicità. Il rettilone sputa-amianto è semplicemente la gioia, il bene, la storia, il progresso, la civiltà. Impossibile chiedere agli arancioni la decenza di una spiegazione: ai fedeli non serve.

  • Torino rottama il Tav Torino-Lione, super-bufala ferroviaria

    Scritto il 08/11/18 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Torino dice no al progetto per il treno ad alta velocità, Tav, tanto discusso che vorrebbe collegare il capoluogo piemontese con la città francese di Lione. È stata, infatti, approvata in Consiglio comunale con 23 voti favorevoli e 2 contrari la proposta di mozione del Movimento Cinquestelle che ha chiesto di fermare i lavori della linea oltre che le dimissioni dei vertici di Telt (l’ente responsabile della realizzazione dell’opera) e del commissario straordinario di governo Paolo Foietta, e la conversione dei fondi a iniziative di mobilità sostenibile. Le critiche non sono mancate né dentro né fuori il palazzo comunale: mentre gli industriali inscenavano una manifestazione a sostegno del “sì” al Tav, in aula venivano espulsi tutti i consiglieri del centrosinistra compreso l’ex sindaco Piero Fassino a seguito delle forti proteste. La città di Torino, che aveva formalizzato la sua contrarietà all’opera già nel 2016, chiede ora al governo di bloccare qualsiasi operazione indirizzata al suo avanzamento, almeno fino al termine delle valutazioni dell’analisi costi-benefici in corso e di cui si attendono i risultati a fine anno.
    L’analisi costi-benefici è una tecnica di valutazione utilizzata per prevedere gli effetti di un progetto, verificando se dall’impatto della sua realizzazione la società ottenga un beneficio o un costo netto. Viene considerato dagli economisti un supporto alla decisione pubblica poiché, attraverso la monetizzazione dei benefici e dei costi associati alla sua realizzazione, esso evidenzia la proposta migliore fra più alternative progettuali. Quella che si attende sul Tav Torino-Lione a fine anno è la seconda analisi fatta sul progetto. La prima è stata realizzata nel 2012 direttamente dall’osservatorio del collegamento ferroviario Torino-Lione, organo istituito nel 2006 con decreto ministeriale proprio per seguire i lavori di progettazione dell’opera. Non proprio un “ente terzo”, come si direbbe, ma anzi un soggetto che tra le proprie finalità ha quella di «esaminare, valutare e rispondere alle preoccupazioni espresse dalle popolazioni della valle di Susa», come riportato in un documento di sintesi. Diversi comuni della val di Susa però hanno scelto di sfilarsi dall’osservatorio, non condividendo il fatto che la realizzazione dell’opera non fosse messa in discussione. Tra questi anche il Comune di Torino guidato dai Cinque Stelle.
    L’analisi del 2012, oltre a essere arrivata in fase di progettazione già avviata (sei anni dopo l’istituzione dell’osservatorio), non è riuscita a tenere il passo dell’evoluzione negli anni successivi: alla decisione di ridimensionare il progetto iniziale, cioè a un Tav low cost, non è seguita una revisione dell’analisi costi-benefici le cui previsioni di traffico sono state peraltro largamente smentite dal governo nel 2017: «Non c’è dubbio che molte previsioni fatte quasi dieci anni fa, in assoluta buona fede, anche appoggiandosi a previsioni ufficiali dell’Unione Europea, siano state smentite dai fatti. Lo scenario attuale è, quindi, molto diverso da quello in cui sono state prese a suo tempo le decisioni», ha scritto nero su bianco il Consiglio dei ministri. Intanto però, sulla base del “vecchio” progetto, sono stati spesi almeno 1,2 miliardi di euro per la fase di progettazione dell’opera e l’avvio dei lavori di scavo. Dopo la fase di progettazione dell’opera, il Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica), con delibera pubblicata il 24 gennaio 2018, ha ordinato la realizzazione di due lotti costruttivi del tunnel transfrontaliero di base. Si tratta di un incarico con una spesa di 5,57 miliardi, dalla parte italiana, disposto in assenza di effettiva disponibilità di finanziamento.
    Infatti, né la Francia né l’Europa hanno ancora stanziato tutti i fondi, nonostante l’accordo tra Italia e Francia del 2012 preveda espressamente che i cantieri per la costruzione del tunnel di base non possano essere avviati senza la disponibilità di tutti i fondi per la realizzazione del progetto. La Francia non solo non ha iscritto nel suo bilancio la previsione di spesa del tunnel di base transfrontaliero ma, come si legge nella mozione presentata in Comune a Torino, «ha rinviato a dopo il 2038 ogni decisione in merito alle opere della tratta di sua competenza da realizzare sul suo territorio (ad esempio i tre tunnel di Belledonne, Glandon, Chartreuse)». Inoltre i lotti costruttivi, come spiegato in un esposto alla Corte dei Conti presentato dal Controsservatorio sulla Torino-Lione, non sono opere funzionali, quindi risultano inutilizzabili fino a opera finita. «Non c’è una definizione giuridica di cosa sia un lotto costruttivo», spiega il Controsservatorio nel suo esposto, «ma in sostanza si tratta, dato un progetto complessivo di un’opera pubblica, di una parte dell’opera che corrisponde allo stanziamento disponibile in quel momento e di per sé non sufficiente a realizzare l’intera opera. Il lotto così costruito non serve di per sé né può essere utilizzato». Quindi l’opera procede ma senza la sicurezza di poter finire i lavori. E il tutto, come già visto, sulla base di un’analisi costi-benefici non aggiornata.
    I sostenitori del “no” al Tav, considerano “sproporzionata” la ripartizione dei costi: come stabilito dall’accordo tra Italia e Francia del 2012, la tratta transfrontaliera è infatti per il 57,9% a carico dell’Italia – sul cui territorio si trovano 12 chilometri su 57,5 totali, cioè solo il 21% del tracciato – e per il 42,1% a carico della Francia, sul cui territorio insistono gli altri 45,5 chilometri. E qui si arriva alla voce sui cui i sostenitori dell’opera insistono: il rischio di pagare delle penali. Che, secondo il Controsservatorio, si tratta di una bufala. «Non esiste alcun accordo internazionale sottoscritto dall’Italia nei confronti della Francia o dell’Europa che preveda l’esborso di penali in caso di ritiro unilaterale italiano», si legge sul sito dell’associazione. «Gli accordi bilaterali tra Francia e Italia non prevedono alcuna clausola che accolli a una delle parti, in caso di recesso, forme di compensazione per lavori fatti dall’altra parte sul proprio territorio. Pronti a fare ammenda se qualcuno fosse in grado di dimostrare il contrario».
    Dal lato dei Sì Tav, Sergio Chiamparino, presidente della Regione Piemonte, invoca il referendum, mentre Paolo Foietta, commissario di governo per l’alta velocità, più che di penali parla di costi da sostenere in caso di abbandono: secondo Foietta la stima ammonterebbe a oltre 2 miliardi, oltre al rischio di un contenzioso legale. I costi riguardano, sempre secondo il commissario, la smobilitazione dei cantieri e delle attrezzature, i costi per la messa in sicurezza delle opere fin qui realizzate e la restituzione dei finanziamenti comunitari erogati per mancata realizzazione delle opere a venire. Ma il Controsservatorio ha ribadito che, «al fine di evitare ogni contenzioso con l’Unione Europea e le imprese», è sufficiente che «Telt non lanci gare di appalto e non contragga qualsivoglia impegno con chicchessia fino al momento in cui, nel rispetto dell’articolo 16 dell’Accordo di Roma, i tre soci finanziatori del progetto Torino-Lione (Ue, Francia e Italia) non abbiano garantito con atti formali (leggi dello Stato) tutti i fondi necessari all’intera realizzazione dell’opera». Atti che al momento non sono ancora pervenuti.
    (Maurizio Bongioanni, “Torino dice no al Tav, cosa vuol dire per il progetto e i fondi stanziati finora”, da “Lifegate” del 31 ottobre 2018).

    Torino dice no al progetto per il treno ad alta velocità, Tav, tanto discusso che vorrebbe collegare il capoluogo piemontese con la città francese di Lione. È stata, infatti, approvata in Consiglio comunale con 23 voti favorevoli e 2 contrari la proposta di mozione del Movimento Cinquestelle che ha chiesto di fermare i lavori della linea oltre che le dimissioni dei vertici di Telt (l’ente responsabile della realizzazione dell’opera) e del commissario straordinario di governo Paolo Foietta, e la conversione dei fondi a iniziative di mobilità sostenibile. Le critiche non sono mancate né dentro né fuori il palazzo comunale: mentre gli industriali inscenavano una manifestazione a sostegno del “sì” al Tav, in aula venivano espulsi tutti i consiglieri del centrosinistra compreso l’ex sindaco Piero Fassino a seguito delle forti proteste. La città di Torino, che aveva formalizzato la sua contrarietà all’opera già nel 2016, chiede ora al governo di bloccare qualsiasi operazione indirizzata al suo avanzamento, almeno fino al termine delle valutazioni dell’analisi costi-benefici in corso e di cui si attendono i risultati a fine anno.

  • Avviso a Di Maio: entriamo nel futuro insieme alla Cina

    Scritto il 19/9/18 • nella Categoria: segnalazioni • (10)

    Il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio mi perdonerà se gli racconto già alcuni pezzi della trama del grande film cinese che vedrà nella sua visita ufficiale a Chengdu, nel cuore del Sichuan, il prossimo 20 settembre. Di Maio resterà fortemente colpito, come chiunque visiti per la prima volta questa smisurata megalopoli. E proverà stupore per la dimensione titanica dell’immenso spazio urbano ridisegnato con un’impressionante accelerazione della storia, così come per la fitta rete di grandi autostrade su più livelli, percorse da grosse auto di marche tedesche, giapponesi e cinesi, in corsa fra migliaia di altissimi edifici, grattacieli e insediamenti, che si slanciano verso il cielo grigio e umido in un’area piatta e urbanizzata grande quanto l’intera Campania. Se il boom italiano degli anni Sessanta conserva ancora oggi l’inerzia di quello slancio che lasciava stupefatto un paese agricolo che in poco tempo diventava industriale, qui siamo di fronte a un salto cento volte più travolgente ed energico, in grado di colmare i secoli in un decennio, in una città passata in poco tempo da 5 a 17 milioni di abitanti. La prima linea della metropolitana di Chengdu è stata inaugurata nel 2010, oggi siamo già all’inaugurazione della quinta linea, e nel 2030 la rete della metro servirà con decine di linee una città di oltre 25 milioni di abitanti.
    Chengdu sarà lo snodo centrale della Belt and Road Initiative (Bri), la nuova Via della Seta che integrerà lo spazio eurasiatico e coinvolgerà la maggior parte della popolazione mondiale. Su invito delle autorità cinesi ho partecipato con una delegazione di politici, imprenditori, diplomatici e ricercatori di tutta Europa a un intensissimo programma di dieci giorni tra Pechino e Chengdu. Un vortice di incontri e visite presso istituzioni, imprese innovative, scuole di partito, agenzie internazionali, mirante a stabilire relazioni solide fra la Cina e le personalità che in Europa vogliono comprendere e partecipare al grande impulso della Bri. Gli interlocutori che ho trovato in Cina stanno passando al setaccio ogni novità di ciascun paese europeo e perciò manifestano molta attenzione nei confronti del Movimento Cinque Stelle e del governo da esso guidato. Questo interesse mi ha aperto molte porte presso gente concreta e desiderosa di capire. A Pechino ho visitato la fabbrica della Beijing Electric Vehicle (Bjev), i concorrenti della più famosa e americana Tesla nella produzione di veicoli elettrici. Ne hanno già prodotto 250mila e puntano a essere leader mondiali del nuovo mercato. Un dirigente Bjev si lascia scappare una battuta: «La Tesla è un costoso giocattolino per ricchi, noi siamo i fornitori di auto elettriche per le masse a prezzi popolari».
    Con il corrispettivo di 16mila euro, un cittadino della classe media cinese può portarsi a casa una berlina con un’autonomia di quasi 500 km a ogni carica, mentre crescono le infrastrutture che diffondono in mezza Cina i punti di rifornimento dedicati ai veicoli elettrici. Ed è ormai pronto a entrare in produzione un nuovo sistema che è l’uovo di Colombo rispetto ai tempi lunghi delle ricariche, ossia il cambio di batteria presso i punti di rifornimento: anziché aspettare ore per ricaricare, togli la batteria (ormai più piccola, compatta ed estraibile) quando è scarica e la sostituisci ogni volta con una già ricaricata. Solo il tempo ci dirà se davvero milioni di persone passeranno all’auto elettrica, e se questo sia il modello giusto di mobilità. Intanto gli investimenti accelerano e il settore automobilistico cinese nel suo insieme è trainante. In Italia in molti santificano i dirigenti Fiat, ma la storia ci ha già detto che non si sono mai accorti del risveglio dello sterminato mercato cinese. Dovremo tutti essere migliori dei dirigenti Fiat, per i tanti campi dell’economia che non sono irrimediabilmente perduti. L’attimo è ora.
    Racconterò a parte delle altre imprese ad alta tecnologia che ho visitato a Pechino e nel Sichuan, dei parchi scientifici, delle migliaia di ingegneri che hanno regalato alla optoelettronica cinese la leadership per gli schermi ad altissima definizione, e così via. Mi concentro ora su un dato più politico di questa missione. Ho fatto da portavoce dell’intera delegazione nella serata finale del programma, dove ho pronunciato un discorso durante l’incontro ufficiale con il vicepresidente e responsabile delle Finanze del Sichuan, Ouyang Zehua, e altri dirigenti di questa regione di 91 milioni di abitanti, vasta quanto la Francia. Ouyang è un signore molto dinamico dallo sguardo ironico e curioso che sprizza ottimismo e pragmatismo da tutti i pori, mentre snocciola i risultati economici, e ne ha ben donde: il tasso di crescita del Pil del Sichuan nel 2018 è dell’8,2% in un anno, in aggiunta a una lunga serie storica di dati formidabili. L’orgoglio del dirigente cinese si combina con una cosa molto italiana: la passione per il cibo, la sua varietà, il suo legame con la cultura e il territorio. Il Sichuan è probabilmente l’area del pianeta che condivide di più con l’Italia una precisa caratteristica, ossia la ricchezza dell’assortimento di tradizioni culinarie, con infinite varianti subregionali spesso raffinatissime. Ora che il Sichuan ha ben motivate ambizioni da “ombelico del mondo”, combina questa sua millenaria tradizione gastronomica con un’apertura schietta e curiosa verso altre tradizioni.
    Il vino è ormai sempre più presente a tavola, e anche i formaggi e altri prodotti agroalimentari europei. Perciò prendete nota e siateci! Non siate come gli Agnelli e i loro manager sempre sopravvalutati! Un ottimo punto di partenza è la Western China International Fair di Chengdu che apre il 20 settembre 2018. Di Maio rappresenterà un’Italia in veste di paese ospite d’onore. I pianificatori della nuova megalopoli, che abbiamo incontrato presso un parco scientifico dove tutto viene programmato come se il videogame Simcity prendesse davvero corpo, ci mostrano con grande orgoglio il gigantesco plastico della Chengdu del 2034. Non ragionano come i palazzinari a corto raggio nostrani, anche se non credo siano meno spregiudicati. Mentre oggi lo sviluppo asimmetrico di Chengdu sembra concentrarsi in mille mostruose lingue di cemento che turbano minacciosamente qualsiasi senso della misura urbanistica da noi conosciuta, per il futuro – un futuro immediato – la cura per la dismisura è un’ulteriore dismisura. Cioè un colossale rimodellamento e ri-bilanciamento dei poli di sviluppo, un investimento-monstre su “scala cinese” in tecnologie verdi, energie rinnovabili, opere idrauliche di rinaturalizzazione del paesaggio.
    Nel gioco Simcity puoi cambiare il paesaggio con la tempistica degli umani, ma puoi divertirti a usare il “God Mode”, la “modalità di Dio”, e mettere fiumi e laghi dove non c’erano e farlo in tempi rapidissimi. Ed ecco che nella Chengdu reale le aree dedicate a parchi avranno ciascuna dimensioni paragonabili a una grande città italiana, con specchi d’acqua estesi e insenature suggestive. Il nuovo cuore di Chengdu sarà una città nella città, tutta da sviluppare, il nuovo distretto di Tianfu. Si tratta di una città-parco dove si concentreranno le attività commerciali e scientifiche legate alle nuove rotte eurasiatiche. Sarà tutto costruito entro sette anni, avrà una superficie di circa 600 kmq (superiore a quella di Roma entro il Grande Raccordo Anulare), i grattacieli più alti della Cina occidentale e dieci linee di metropolitana distinte dalle altre decine di linee del resto della città di Chengdu, un’enorme stazione ferroviaria che collegherà Chengdu a mezzo mondo, incluse le nuove linee superveloci. Ricordiamo che molte città cinesi si collegheranno entro pochi anni con treni a levitazione che viaggeranno a velocità vicine ai mille km/h.
    Chengdu ha già un aeroporto da 45 milioni di passeggeri l’anno. Nel 2020 inaugureranno un secondo aeroporto internazionale da sei piste con altri 90 milioni di passeggeri l’anno. Il Sichuan diventerà la meta di un turismo d’affari che non si limiterà a vedere il parco dei panda (a proposito, sono bellissimi!). Sarà anche la base di partenza di una ormai vasta classe media pronta a girare quell’Europa che saprà accoglierla. Non dimentichiamo che a un’ora e mezzo da Chengdu c’è un’altra megalopoli ultramoderna, Chongqing, con i suoi 30 milioni di abitanti, anche loro parte di una “affluent society” pronta a viaggiare e già in pieno respiro internazionale. Quanti giornalisti e politici italiani si curano di raccontare queste città, dal peso demografico e industriale così cospicuo? Davvero pochi. È davvero così difficile raccontare un mondo così importante per il futuro nostro e dei nostri figli e smarrirlo invece come una traccia muta e indecifrabile? Non è un tantino squilibrata un’informazione che della Cina sa restituire ai cittadini solo il luogo comune dell’involtino primavera (mai visto in tutto il viaggio) o dei negozi di chincaglierie a poco prezzo?
    È come se di un grande palazzo sontuoso, fresco di lavori e ricco di tesori, si volesse vedere solo lo sgabuzzino delle scope. Troppi giornali italiani sanno vedere solo i bugigattoli della storia, e infatti puzzano di muffa. Sino a poco tempo fa, persino agli occhi di chi in Europa prendeva le decisioni che contano, Chengdu e altre grandi realtà cinesi erano solo dei luoghi remoti, un puntino ignoto sulla cartina dell’Asia. Ma oggi Chengdu e il Sichuan influenzeranno in modo diretto il lavoro di chi in Europa fa le leggi, programma le decisioni economiche e fa impresa, qualsiasi settore voglia considerare. Solo una parte è pronta a questa nuova realtà, mentre dobbiamo esserlo tutti. Ad esempio, vogliamo regalare alla Polonia il ruolo di principale terminale europeo della Bri, accontentandoci delle diramazioni secondarie? Oppure dobbiamo guardare all’Africa, dove la Cina ha innescato un altro gigantesco processo economico? Cioè guardare alla nostra geografia, alla nostra profondità strategica, a dove si collocano la penisola iberica, la Sardegna, la penisola italiana, la Sicilia.
    Ho chiesto dunque ai dirigenti cinesi se i terminali delle Vie della Seta fossero una pianificazione ormai conclusa, o se fossero aperti ad altre iniziative. «Naturalmente siamo aperti – mi risponde Ouyang – e penso anche che tra gli investimenti in Africa e quelli in Europa ci debba essere una cerniera». Il che corrisponderebbe a chiudere il cerchio. Colgo l’occasione per parlargli – come avevo già fatto con altri dirigenti cinesi – del grande valore pratico e simbolico che avrebbe una rapida ricostruzione congiunta del ponte di Genova con i campioni cinesi delle infrastrutture, una goccia rispetto al mare di cose che si possono fare, ma una goccia importante. Ouyang coglie la portata della proposta, e mi rivela che la prossima settimana ci sarà proprio a Chengdu un concerto dell’orchestra di Genova in memoria delle vittime, nel bellissimo auditorium da poco inaugurato. La cosa mi sorprende e mi fa piacere, forse avevo visto giusto.  Facciamo in modo che le buone idee si diffondano, come le emozioni della musica.
    (Pino Cabras, “Spoiler cinese per Di Maio”, da “Megachip” del 19 settembre 2018. Condirettore di “Megachip”, alle ultime elezioni politiche Cabras è stato eletto deputato 5 Stelle al collegio uninominale Sardegna 3 – Carbonia).

    Il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio mi perdonerà se gli racconto già alcuni pezzi della trama del grande film cinese che vedrà nella sua visita ufficiale a Chengdu, nel cuore del Sichuan, il prossimo 20 settembre. Di Maio resterà fortemente colpito, come chiunque visiti per la prima volta questa smisurata megalopoli. E proverà stupore per la dimensione titanica dell’immenso spazio urbano ridisegnato con un’impressionante accelerazione della storia, così come per la fitta rete di grandi autostrade su più livelli, percorse da grosse auto di marche tedesche, giapponesi e cinesi, in corsa fra migliaia di altissimi edifici, grattacieli e insediamenti, che si slanciano verso il cielo grigio e umido in un’area piatta e urbanizzata grande quanto l’intera Campania. Se il boom italiano degli anni Sessanta conserva ancora oggi l’inerzia di quello slancio che lasciava stupefatto un paese agricolo che in poco tempo diventava industriale, qui siamo di fronte a un salto cento volte più travolgente ed energico, in grado di colmare i secoli in un decennio, in una città passata in poco tempo da 5 a 17 milioni di abitanti. La prima linea della metropolitana di Chengdu è stata inaugurata nel 2010, oggi siamo già all’inaugurazione della quinta linea, e nel 2030 la rete della metro servirà con decine di linee una città di oltre 25 milioni di abitanti.

  • Ceronetti, quel genio italiano troppo scomodo per gli italiani

    Scritto il 14/9/18 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    I cosiddetti “grandi italiani”, ebbe a dire l’autore televisivo Diego Cugia, sono personaggi che normalmente gli italiani neppure conoscono: la maggior parte della popolazione non sa neppure chi siano, che faccia abbiano, per quale ragione debbano essere ricordati. Per molti, i “grandi italiani” diventano tali, all’improvviso, solo quando muoiono: come nel caso dell’immenso letterato Guido Ceronetti, spentosi il 13 settembre all’età di 91 anni. Sul “Corriere della Sera”, Paolo Di Stefano lo rievoca con le parole di Ernesto Ferrero, tratte da “I migliori anni della nostra vita”, dove si vede l’allora quarantenne Ceronetti aggirarsi nei corridoi dell’Einaudi: «Avvolto in impermeabili sdruciti, in baschi da cui spuntavano capelli spiritati che ricordavano quelli di Artaud. Magro, anzi secco, con un naso alla Voltaire che spioveva su una bocca piegata all’ingiù, da cui uscivano riflessioni sapienziali, aforismi, profezie apocalittiche». Per ottenere il ritratto di Ceronetti, scrive Di Stefano, basta aggiungere «la erre arrotata, l’autoironia, lo strascicato accento piemontese, la voce sottile, quasi femminea. E le ossessioni vegetariane: invitato al ristorante, anche nel migliore, immancabilmente tirava fuori dalla cartella il suo olio e le sue tisane, mangiava semi di chissà che, grani di miglio».

  • Torino-Lione inutile ma irrinunciabile: anche dopo Genova?

    Scritto il 28/8/18 • nella Categoria: segnalazioni • (6)

    Il “Giornale”, mai tenero con gli oppositori della Torino-Lione (che considera alla stregua di quasi-terroristi), lo presenta come “l’ingegnere che smonta tutte le bugie dei NoTav”. Si chiama Basaglia, come il padre della psichiatria moderna, ed è un uomo in evidente buona fede. Si deve a lui, che oltretutto dichiara di esser stato ripetutamente intimidito da attivisti fanatici, l’unico straccio di spiegazione finora pervenuta, a sostegno della grande opera più contestata d’Europa, ritenuta perfettamente inutile da 360 tecnici dell’università italiana, scomodatisi invano per scrivere a Palazzo Chigi e persino al Quirinale. Perché il tunnel s’ha da fare? «Per un’infinità di motivi», sostiene l’ingegner Paolo Basaglia, torinese, di fede Pd ma in nessun modo coinvolto, a titolo professionale, nel maxi-affare del secolo. «La linea storica è contorta», spiega. «I raggi di curvatura sono strettissimi, con attrito volvente elevatissimo e pendenze del 35 per mille che si traducono in scarsa efficienza energetica, tant’è che i treni merci richiedono due motrici in trazione e una in spinta. Con il nuovo tunnel i convogli consumeranno il 90% in meno». Costo del disturbo? In totale 22 miliardi di euro, secondo le stime del 2014 (quando fu fatta l’intervista) per una linea che – se fosse realizzata – non sarebbe pronta prima del 2040, dopo 15 anni di cantieri. Pezzo forte: un traforo di 54 chilometri da Susa a St. Jean de Maurienne, da scavare tra monti pieni di uranio e amianto.
    Proprio a causa della conformazione della linea ferroviaria attuale, che collega Italia e Francia in valle di Susa attraverso il traforo del Fréjus (appena riammodernato con 400 milioni di euro per consentire il transito di Tir e container “navali” caricati sui treni), sempre l’ingegner Basaglia spiega che, da Bussoleno alla frontiera francese, i convogli non possono superare i 70 chilometri orari. Un problema, se si trattasse di alta velocità ferroviaria per passeggeri, come appunto era nei piani del progetto iniziale, risalente all’inizio degli anni ‘90, cioè prima dell’avvento dei voli low cost. Per questo, da Tav, il progetto fu tramutato in Tac (treno ad alta capacità), puntando sulle merci nella speranza di tenerlo in vita, visto l’imponente lavoro di lobbying, a livello europeo, per mettere insieme almeno una parte dei faraonici finanziamenti necessari. Oggi però le merci sono scomparse, così come i passeggeri: i trasporti tra Piemonte e Rhône-Alpes sono al lumicino, la ferrovia è impiegata solo al 10% delle sue potenzialità. La rotta intercontinentale delle merci (asiatiche, ormai) non è più est-ovest, ma nord-sud: Genova-Rotterdam. La Torino-Lione? Non serve. Lo certifica l’autorità elvetica incaricata dall’Ue di monitorare i trasporti alpini: l’attuale linea valsusina Torino-Modane, affermano gli svizzeri, potrebbe tranquillamente reggere un incremento di traffico del 900%. Perché allora imbarcarsi in una spesa da decine di miliardi, devastando il territorio, per una maxi-opera completamente inutile?
    Quanto alla bassa velocità per le merci, nessun mistero: i convogli pesanti che trasportano materiali, e non persone, non possono comunque “volare” come i Frecciarossa, pena il crollo degli standard di sicurezza. Un guaio? Niente affatto: nel saggio “Binario morto”, edito da Chiarelettere, il giornalista di “Repubblica” Luca Rastello ricorda nel miglior sistema logistico del mondo, quello degli Usa, i treni merci non possono superare le 60 miglia di velocità, per legge. Sono treni lentissimi, che per superare le Montagne Rocciose continuano a utilizzare persino trafori risalenti all’800. «Il problema non sussiste proprio», spiegava Rastello, «perché la chiave del successo della logistica – come tutti sanno – non è la velocità, ma la puntualità: lo smistamento nei depositi avviene in modo perfetto se i treni arrivano in orario. Non importa se ci mettono un giorno o due, o tre: basta saperlo in anticipo con precisione». Cosa che infatti, negli Stati Uniti, succede regolarmente – e senza nessuna “alta velocità per le merci”, tecnicamente impossibile. L’ingegner Paolo Basaglia da Torino? Liberissimo, ovviamente, di esporre le sue legittime opinioni. Peccato solo che non abbia alcun profilo istituzionale: parla, infatti, da privato cittadino (preoccupato per quelle che, a suo avviso, sono mistificazioni pretestuose, da parte dei NoTav).
    Benissimo: ma le istituzioni, invece? Cosa dicono? Niente. E’ vero, sembra incredibile. Eppure, in vent’anni, nessuno dei governi che si sono succeduti – Berlusconi, Prodi, Monti, Letta, Renzi e Gentiloni – ha mai speso una parola per motivare la decisione di progettare comunque l’infrastruttura, nonostante la forte opposizione popolare e le clamorose evidenze che i tecnici indipendenti hanno sempre esibito, smentendo nel mondo più netto la necessità di realizzare la Torino-Lione. Silenzio assoluto, da tutti i governi. Non una precisione strategica, in cifre, ad esempio sul presunto impatto positivo dell’opera sul sistema economico italiano, o almeno piemontese. Solo slogan: sviluppo, progresso, Europa. Propaganda polverosa, e pure mezze ammissioni: secondo i geologi, la nuova linea andrebbe protetta da una “diga” sotterranea profonda addirittura decine di metri, per tentare di arginare l’enorme fiume che scorre nel sottosuolo. Perforare le Alpi in quel punto, riconoscono gli stessi progettisti, potrebbe comportare incognite molto serie, incluso l’allagamento dei centri abitati in caso di eventi alluvionali. Anche fosse, il problema comunque resta a monte: perché insistere a tutti i costi su un’opera da più parti classificata come obsoleta e inutile? E soprattutto: come si permette, lo Stato, di non dare mai spiegazioni?
    Gli occhi di tutti, oggi, sono puntati sul governo gialloverde e in particolare sul ministro Toninelli. Come noto, i 5 Stelle vorrebbero tagliare la Torino-Lione sul nascere: il miliardo di euro già speso rappresenta un sacrificio irrisorio, rispetto alle decine di miliardi che si rispariemerebbero, un immenso capitale che andrebbe destinato a opere finalmente utili. Per contro, è la Lega a frenare: tradizionalmente, il Carroccio ha sempre appoggiato il cartello politico, industriale e bancario che si prodiga per veder finanziata la Torino-Lione. Cambierà qualcosa, dopo la tragedia di Genova? Il catastrofico crollo del viadotto Morandi ha costretto il paese a riflettere: perché regalare miliardi ogni anno ai signori Benetton? Di più: l’opinione pubblica ha appreso che, dietro gli industriali dell’abbigliamento, nella società Atlantia sono presenti grandi operatori finanziari di Londra e di Wall Street, beneficiari anch’essi del maxi-regalo ottenuto dal governo D’Alema quando privatizzò la rete autostradale, costruita con i soldi degli italiani. Se non altro, le autostrade servono. Perché allora tanto accanimento – e da parte di chi, al di là delle solite sigle politiche di facciata – dietro a una maxi-opera come la Torino-Lione, quasi universalmente ritenuta inutile?

    Il “Giornale”, mai tenero con gli oppositori della Torino-Lione (che considera alla stregua di quasi-terroristi), lo presenta come “l’ingegnere che smonta tutte le bugie dei NoTav”. Si chiama Basaglia, come il padre della psichiatria moderna, ed è un uomo in evidente buona fede. Si deve a lui, che oltretutto dichiara di esser stato ripetutamente intimidito da attivisti fanatici, l’unico straccio di spiegazione finora pervenuta, a sostegno della grande opera più contestata d’Europa, ritenuta perfettamente inutile da 360 tecnici dell’università italiana, scomodatisi invano per scrivere a Palazzo Chigi e persino al Quirinale. Perché il tunnel s’ha da fare? «Per un’infinità di motivi», sostiene l’ingegner Paolo Basaglia, torinese, di fede Pd ma in nessun modo coinvolto, a titolo professionale, nel maxi-affare del secolo. «La linea storica è contorta», spiega. «I raggi di curvatura sono strettissimi, con attrito volvente elevatissimo e pendenze del 35 per mille che si traducono in scarsa efficienza energetica, tant’è che i treni merci richiedono due motrici in trazione e una in spinta. Con il nuovo tunnel i convogli consumeranno il 90% in meno». Costo del disturbo? In totale 22 miliardi di euro, secondo le stime del 2014 (quando fu fatta l’intervista) per una linea che – se fosse realizzata – non sarebbe pronta prima del 2040, dopo 15 anni di cantieri. Pezzo forte: un traforo di 54 chilometri da Susa a St. Jean de Maurienne, da scavare tra monti pieni di uranio e amianto.

  • Altro che Torino-Lione, c’è da salvare un’Italia a pezzi

    Scritto il 18/8/18 • nella Categoria: idee • (25)

    Quando un viadotto autostradale si sbriciola in un secondo seppellendo morti e feriti, tutte le parole sono inutili. Ma quelle di chi incolpa la pioggia, il fulmine, il cedimento strutturale, la tragica fatalità imprevedibile, il destino più cinico e più baro della “costante manutenzione”, sono offensive. Se l’ennesima catastrofe da cemento disarmato si potesse prevedere, lo accerteranno i tecnici e i giudici. Ma che si potesse prevenire già lo sappiamo, visto che il ponte Morandi aveva due gemelli italiani, di cui uno già a pezzi e l’altro in manutenzione: per tenere sotto osservazione il terzo non occorreva uno scienziato, bastava il proverbio “non c’è il 2 senza il 3”. Se “il monitoraggio era costante”, allora faceva schifo. Se non c’erano “avvisaglie”, è perché non erano state rilevate. Ora, come dopo ogni terremoto o alluvione di media entità e di enorme tragicità, rieccoci a far la conta dei morti e dei danni, mentre le “autorità” giocano allo scaricabarile. E i palazzinari e i macroeconomisti si fregano le mani per gli affari e gli effetti sul Pil della ricostruzione.
    Se il “governo del cambiamento” vuole cambiare qualcosa, deve partire proprio di qui. Cioè da zero. Con scelte di drastica discontinuità col passato: rivedere le concessioni ai privati che lucrano sui continui aumenti delle tariffe in cambio di manutenzioni finte o deficitarie; e annullare le grandi opere inutili, dal Tav Torino-Lione in giù, per dirottare le enormi risorse (anche ridiscutendone la destinazione con l’Ue) su piccole e medie opere di manutenzione, prevenzione e ammodernamento delle infrastrutture esistenti (finora ignorate perché la grandezza dei lavori e delle spese è direttamente proporzionale a quella delle mazzette). Da quando i partiti che hanno sgovernato finora hanno perso le elezioni e il potere, non fanno che esortare i successori a non disperdere il grande patrimonio ereditato. Invece proprio questo un “governo del cambiamento” deve fare: buttare a mare la pseudocultura dello “sviluppo” gigantista e della “crescita” faraonica; e invertire la scala dei valori e delle priorità.
    Il crollo di ieri ci dice che un ponte pericolante, figlio di un sistema marcio e corrotto, fa più danni di tutti i terroristi islamici, i migranti clandestini, le epidemie di morbillo e le altre “emergenze” farlocche o gonfiate che occupano l’agenda industrial-politico-mediatica. Se vuole cambiare seriamente, il governo si occupi di cose serie con politiche serie. Confindustria, Confcommercio, Confquesta, Confquellaltra e i loro giornaloni si metteranno a strillare? Buon segno: è a furia di dar retta a lorsignori che siamo finiti tutti sotto quel ponte.
    (Marco Travaglio, estratto dall’editoriale “Sotto i ponti” pubblicato dal “Fatto Quotidiano” il 15 agosto 2018 e ripreso da “Il Bene Comune Newsletter”).

    Quando un viadotto autostradale si sbriciola in un secondo seppellendo morti e feriti, tutte le parole sono inutili. Ma quelle di chi incolpa la pioggia, il fulmine, il cedimento strutturale, la tragica fatalità imprevedibile, il destino più cinico e più baro della “costante manutenzione”, sono offensive. Se l’ennesima catastrofe da cemento disarmato si potesse prevedere, lo accerteranno i tecnici e i giudici. Ma che si potesse prevenire già lo sappiamo, visto che il ponte Morandi aveva due gemelli italiani, di cui uno già a pezzi e l’altro in manutenzione: per tenere sotto osservazione il terzo non occorreva uno scienziato, bastava il proverbio “non c’è il 2 senza il 3”. Se “il monitoraggio era costante”, allora faceva schifo. Se non c’erano “avvisaglie”, è perché non erano state rilevate. Ora, come dopo ogni terremoto o alluvione di media entità e di enorme tragicità, rieccoci a far la conta dei morti e dei danni, mentre le “autorità” giocano allo scaricabarile. E i palazzinari e i macroeconomisti si fregano le mani per gli affari e gli effetti sul Pil della ricostruzione.

  • Se anche Salvini si piega ai padroni del Tav Torino-Lione

    Scritto il 28/7/18 • nella Categoria: segnalazioni • (11)

    Eresia. Fermare l’ecomostro Torino-Lione è come sostenere, nel 1600, che è la Terra a orbitare attorno al Sole. Se lo tolgano dalla testa, i 5 Stelle: rinunciare alla linea Tav progettata in valle di Susa (perfettamente inutile, secondo 680 tecnici dell’università italiana nonché per l’autorità elvetica che monitora il traffico alpino per conto dell’Ue) è semplicemente impensabile. Lo sostiene anche la Lega di Salvini, sottoposta a prevedibili, smisurate pressioni. A titolo personale, il leader del Carroccio frena i pentastellati e parla, a ruota libera ai microfoni di “Radio 24”, di fanta-penali da 10 miliardi. La tesi salviniana: fermare l’opera sarebbe più costoso che non farla. Peccato che la spesa – fonte, Parigi – si aggirerebbe sui 26 miliardi (stima prudente). E la stessa Commissione Europea fa sapere che l’Italia non rischierebbe una penale né l’esclusione dai finanziamenti per ulteriori progetti infrastrutturali: dovrebbe solo limitarsi a rimborsare le somme già stanziate, attorno al miliardo di euro. Possibile ragionarci sopra, impegnando la politica? No, assolutamente: il Tav Torino-Lione resta materia ideologica, dogma di fede. Religione, e del tipo meno tollerante. Al punto da evocare l’inferno ogni volta che spunta l’ombra di un eretico, salvo rifiutare sempre – in vent’anni – di spiegare, cifre alla mano, a cosa mai servirebbe il tronco ferroviario più inutile della storia, italiana ed europea.
    Il maledetto Tav valsusino è ormai materia di umorismo anche televisivo: per Enrico Mentana, direttore del Tg de La7, si tratterebbe di una linea “ad alta velocità per le merci”. E’ noto a tutti – forse non a Mentana, né al suo pubblico – che si tratta di un ossimoro piuttosto comico: le merci, per definizione, non possono viaggiare ad alta velcità. Negli Usa, cioè il miglior sistema logistico del pianeta, transitato a 60 miglia orarie: oltre quella soglia si mette a rischio la sicurezza dei convogli. Le merci hanno bisogno di puntualità, non di velocità, ma non c’è caso che i media mainstream – stranamente ignorantissimi, su questo aspetto – ne facciamo menzione. La favola della Torino-Lione come segmento strategico per “merci veloci” è nata quando il progetto iniziale, costruito per trasportare passeggeri, è stato reso obsoleto dall’avvento dei voli low cost. Quanto alle merci, sulla tratta Torino-Lione sono praticamente estinte: l’attuale linea internazionale Torino-Modane che già collega l’Italia alla Francia attraverso la valle di Susa via Traforo del Fréjus (appena riammodernato con 400 milioni di euro) ospita appena il 10% dei convogli che potrebbe veicolare: la sua capacità potrebbe aumentare del 900%.
    Non ci sono più merci, nel trasporto regionale fra Piemonte e Rhône-Alpes, né ve ne saranno secondo tutte le stime. Ma, anziché sfruttare la linea esistente, si pensa a costruire un inutile doppione, per giunta devastante sul piano finanziario e ambientale. Un boccone ricchissimo, però, per i consorzi che lo costruirebbero. Semplicemente sconcertante, anche se non sorprendente, il tenore della dichiarazioni a reti unificate trasmesse dai media all’indomani del ventilato stop ai cantieri da parte dei 5 Stelle. «Imprenditori sulle barricate», secondo la “Stampa”: gli industriali di Torino, con il presidente Dario Gallina, si dicono «allibiti» perché «bloccare la Tav sarebbe un gesto autolesionistico, una disgrazia». E per quale motivo? Mistero: il giornale, all’allibito Gallina, non lo domanda. Per il presidente di Confindustria Piemonte, Fabio Ravanelli, «le contraddittorie e irrituali dichiarazioni sul futuro della nuova linea Torino-Lione sorprendono e creano estrema inquietudine». Di nuovo: se la sente, l’esimio Ravanelli, di spiegare – ai lettori della “Stampa” – quale sarebbe il motivo di tanta inquietudine?
    Al quasi-lutto per la quasi-rinuncia all’alta velocità transalpina si associa il presidente di Api Torino, Corrado Alberto, che definisce «assurda, inaccettabile e demenziale» l’ipotesi dello stop ai cantieri. Spiegazioni? Nemmeno l’ombra. E i sindacati? Eccoli: contrari alla rinuncia alla Torino-Lione anche Cisl e Uil, che si schierano con i segretari Annamaria Furlan («Sarebbe una sciagura») e Carmelo Barbagallo («Non possiamo rinunciare»). Tace Susanna Camusso, ma si schierano contro il blocco dei cantieri anche gli edili della Fillea-Cgil. Qualcuno lo trova, il coraggio di spiegare a chi mai servirebbe, davvero, la linea Tav Torino-Lione? Macché. Il presidente della Regione Piemonte, Sergio Chiamparino (già a capo della Compagnia di San Paolo, potentissima fondazione bancaria) chiede ai leghisti «di insorgere e bloccare questa deriva anti-piemontese, contraria agli interessi del Nord-Ovest e dell’intero paese». Il semi-segretario Pd, Maurizio Martina, parla di «follia che pagherà il paese intero». E Forza Italia? Con Mara Carfagna accusa il Movimento 5 Stelle di «buttare i soldi degli italiani». E per Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, la rinuncia alla Torino-Lione sarebbe «un passo indietro».
    Questa è l’Italia: un establishment che non ha esitato a criminalizzare la protesta contro la grande opera progettata in valle di Susa, senza mai degnarsi di fornire uno straccio di spiegazione credibile, capace di giustificare tanta tenacia nell’insistere su un maxi-progetto così controverso, ingombrante, costoso e doloroso, per il bilancio nazionale prima ancora che per il territorio. Passi l’insigne statista berlusconiana Mara Carfagna, passino la Meloni e l’ectoplama Maartina; passino i sindacalisti del 2018 di cui nessuno ricorda neppure i nomi; passino i ferrivecchi della Prima Repubblica come Chiamparino, miracolato dalla Seconda Repubblica come sindaco-fenomeno di Torino in mezzo allo sfacelo della partitocrazia di allora; ma il sovranista Salvini non doveva essere un politico di tutt’altra pasta, cioè schierato dalla parte del popolo? Nel suo piccolo, la valle di Susa è diventata un simbolo possibile per un’altra Italia, quella che – ad esempio – ha licenziato il fantasma di Monti e il suo ultimo erede, Matteo Renzi. Proconsoli deboli, agli ordini di poteri fortissimi (come quelli che hanno finora imposto, senza mai spiegazioni, l’afflizione antidemocratica dell’ecomostro Tav). L’Italia che ha tifato per il governo gialloverde ora assiste a uno spettacolo allarmante: davvero anche il nuovo esecutivo si piegherà, come i precedenti, al diktat dei padrini della grande opera, ancora una volta imposta senza motivazioni documentate?

    Eresia. Fermare l’ecomostro Torino-Lione è come sostenere, nel 1600, che è la Terra a orbitare attorno al Sole. Se lo tolgano dalla testa, i 5 Stelle: rinunciare alla linea Tav progettata in valle di Susa (perfettamente inutile, secondo 680 tecnici dell’università italiana nonché per l’autorità elvetica che monitora il traffico alpino per conto dell’Ue) è semplicemente impensabile. Lo sostiene anche la Lega di Salvini, sottoposta a prevedibili, smisurate pressioni. A titolo personale, il leader del Carroccio frena i pentastellati e parla, a ruota libera ai microfoni di “Radio 24”, di fanta-penali da 10 miliardi. La tesi salviniana: fermare l’opera sarebbe più costoso che farla. Peccato che la spesa – fonte, Parigi – si aggirerebbe sui 26 miliardi (stima prudente). E la stessa Commissione Europea fa sapere che l’Italia non rischierebbe una penale né l’esclusione dai finanziamenti per ulteriori progetti infrastrutturali: dovrebbe solo limitarsi a rimborsare le somme già stanziate, attorno al miliardo di euro. Possibile ragionarci sopra, impegnando la politica? No, assolutamente: il Tav Torino-Lione resta materia ideologica, dogma di fede. Religione, e del tipo meno tollerante. Al punto da evocare l’inferno ogni volta che spunta l’ombra di un eretico, salvo rifiutare sempre – in vent’anni – di spiegare, cifre alla mano, a cosa mai servirebbe il tronco ferroviario più inutile della storia, italiana ed europea.

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