Archivio del Tag ‘Amartya Sen’
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L’euro è una follia: lo diceva anche Draghi, lo dicono tutti
La notizia è di quelle clamorose: anche Mario Draghi giudicava l’euro una sciocchezza economica. Erano gli anni Settanta ed il futuro presidente della Bce, allora studente di economia alla Sapienza di Roma, seguiva appassionatamente la dottrina di Federico Caffé. «Chi frequentava le sue lezioni – ricorda Draghi in un’entusiastica biografia di Stefania Tamburello – lo vedeva come un modello a cui ispirarsi». Come detto, però, la rivelazione non sta tanto nella curiosa infatuazione giovanile per le teorie keynesiane, quanto piuttosto nella tesi di laurea che guadagnò al promettente economista la lode accademica e l’incarico, ambitissimo, di assistente personale del professor Caffè. S’intitolava “Integrazione economica e variazione dei tassi di cambio” e, come ammette lo stesso Draghi nel libro della Tamburello (“Il Governatore”, Rizzoli, 2011, pag. 23), sosteneva che «la moneta unica era una follia, una cosa assolutamente da non fare». Ora io non so che cosa direbbe il Draghi del “whatever it takes” del Draghi euroscettico. Immagino però che l’intellighenzia di Bruxelles lo taccerebbe di populismo, abusando di una categorizzazione liquidatoria che non riesce più a contenere, né per il numero né per il profilo, la ragguardevole polifonia di quegli economisti che hanno rilevato l’anomalia strutturale dell’euro.Siccome ho l’impressione che questa sensibile inversione di tendenza ancora sfugga, ve li citerò uno ad uno, esponendo sommariamente il nucleo essenziale di ciascuna critica. Prima però sento il dovere di ringraziare tutti quegli “eretici” che decisero di aiutare una piccola trasmissione di RaiDue a sfidare il silenzio dei media sul problema dell’euro. Ringrazio Alberto Bagnai per averci prestato la puntigliosa sostanza dei suoi studi; ringrazio Paolo Barnard per le sue memorabili requisitorie; ringrazio Claudio Borghi, Antonio Rinaldi e Nino Galloni per essersi misurati in mille duelli con i campioni del pensiero egemone. Un ringraziamento speciale, tuttavia, va a Giulio Sapelli e a Bruno Amoroso, i nostri due “prof”, che su quei dibattiti furibondi aprirono l’ombrello protettivo della loro indiscutibile, e generosa, autorevolezza. Ora però devo cominciare la lista degli economisti “populisti” e, se permettete, inizierei dai Nobel. «La spinta per l’euro – sostiene, già nel 1997, Milton Friedman, padre del neoliberismo – è motivata dalla politica, non dall’economia. Lo scopo è quello di unire la Germania e la Francia così strettamente da rendere impossibile una possibile guerra europea e di allestire il palco per i federali Stati Uniti d’Europa».«Ma io credo che l’adozione dell’euro avrà l’effetto opposto», aggiunge Friedman. «Esacerberà le tensioni politiche convertendo shock divergenti, che si sarebbero potuti prontamente contenere con aggiustamenti del tasso di cambio, in problemi politici di divisioni». «Adottando l’euro – prevede, nel 1999, anche il keynesiano Paul Krugman – l’Italia si è ridotta allo stato di una nazione del Terzo Mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera, con tutti i danni che ciò implica». Oggi, però, il Nobel del 2008 appare ancor più convinto e agguerrito di allora: «L’Europa – insiste – non era adatta alla moneta unica, come invece gli Stati Uniti. E questo è uno dei principali motivi della fragilità del sistema Europa, almeno fino alla creazione di una garanzia bancaria continentale. L’Europa (…) ha sbagliato a scegliere la propria governance e le istituzioni per il controllo della politica economica. E’ però ancora in tempo per rimediare». Altro famigerato “avversario” dell’euro è Joseph Stiglitz. La critica del Nobel del 2001 sta tutta in una celebre, lapidaria, battuta: «Questo disastro è artificiale e in sostanza questo disastro artificiale ha quattro lettere: euro».Anche Amartya Sen, nel maggio 2013, esprime un drastico giudizio sulla moneta unica: «L’euro – confida al “Corriere” il Nobel del ‘98 – è stato un’idea orribile. Lo penso da tempo. Un errore che ha messo l’economia europea sulla strada sbagliata. Una moneta unica non è un buon modo per iniziare a unire l’Europa». Altrettanto clamore desta il discorso fatto da James Mirrlees, Nobel per l’Economia nel 1996, alla Cà Foscari di Venezia nel dicembre 2013: «Guardando dal di fuori, dico che non dovreste stare nell’euro, ma uscirne adesso. L’uscita dall’euro non risolverebbe in automatico i problemi dell’Italia, visto che rimarrebbero le questioni derivanti dalle politiche adottate dalla Germania. Ma finché l’Italia resterà nell’euro non potrà espandere la massa di moneta in circolazione o svalutare: ecco perché s’impone la necessità di decidere se rimanere o meno nella moneta unica (…). Probabilmente dovreste sostenere il costo di un’eventuale uscita, come avvenuto in Gran Bretagna, ma dovete essere pronti a pagare questo prezzo». Chiude il panorama Christopher Pissarides. Nel dicembre 2013, nel corso di una lectio magistralis subito amplificata da “Daily Mail” e “Telegraph”, il Nobel del 2010 va dritto alla soluzione: «Per creare quella fiducia che i paesi membri una volta avevano l’uno nell’altro è necessario abolire l’euro».La sequenza dei Nobel fa impressione. Ma numerosi altri economisti di indubbia fama, in questi anni, hanno infranto il tabù dei problemi dell’euro; e io credo che, alla vigilia di una campagna elettorale che tenterà di costringere gli avversari dell’euro alla pubblica abiura, sia giusto e doveroso darvene conto. Sul “Corriere” del 14 marzo scorso l’ex governatore della Bank of England, Mervin King, pronostica che «l’Eurozona, in mancanza di un reale cambiamento, precipiterà di nuovo nella crisi». «Senza l’unione fiscale – è il ragionamento di King – l’unione monetaria è stata prematura, un terribile errore. (…) La disoccupazione, in particolare quella dei giovani, è così alta che non sorprende vedere l’ascesa di nuovi partiti politici che incolpano l’unione monetaria. Vengono liquidati come populisti, ma le loro critiche sono basate su fatti economici che le élite non capiscono». Un altro ex governatore centrale, Antonio Fazio, aveva espresso valutazioni analoghe nel 2016: «Dentro la stessa moneta non ci può essere un’area che è obbligata a restare in equilibrio ed un’altra che ha un forte surplus. Stiglitz ha detto che l’euro è un’istituzione fallita. Questa persona è antipatica. L’unica cosa è che gli hanno dato un premio Nobel».In difesa di Fazio, subito bersagliato dai gendarmi dell’europeismo, scende in campo Paolo Savona. «Fazio la pensa come me», spiega l’ex ministro dell’industria, ex Bankitalia, ex Confindustria ed ex Ocse in un’intervista ad “Avvenire”: «L’euro non è mai stato irreversibile, se non a chiacchiere. Un sistema mal costruito può durare a lungo ma, prima o dopo, deflagra. E se il governo e la Banca d’Italia non hanno un piano B, verranno condannati dalla storia». Merita una citazione anche la svolta di Luigi Zingales. Da convinto sostenitore dell’euro, il rispettatissimo docente della University of Chicago – che in Italia collaborò al progetto euro-liberista di “Fare per fermare il declino” – ammette, con encomiabile onestà, il cambio di prospettiva. «Senza una politica fiscale comune – spiega a “la Repubblica” nel settembre 2016 – l’euro non è sostenibile. O si accetta questo principio o tanto vale sedersi intorno a un tavolo e dire: bene, cominciamo le pratiche di divorzio. Consensuale, per carità, perché unilaterale costerebbe troppo, soprattutto a noi».Una doverosa menzione spetta, infine, anche a Lucrezia Reichlin che per il “Corriere della Sera” ha recentemente passato in rassegna le “fragilità” dell’euro. «Dal punto di vista economico – scrive l’economista chiamata da Trichet nella struttura dirigenziale della Bce – l’euro avrebbe dovuto risolvere il problema dell’instabilità del sistema dei cambi fissi o semi-fissi adottati dall’Europa dopo la fine di Bretton Woods (…). Il problema che è apparso evidente nell’ultima crisi, però, è che la mera introduzione della moneta unica, senza istituzioni adeguate di sostegno, non garantisce la stabilità ma semplicemente tramuta le tensioni sul mercato del cambio del regime precedente in tensioni sul mercato del debito sovrano». Sei Nobel, due governatori centrali, un ex ministro del governo Ciampi e due stimatissimi accademici. In tanti anni di dibattiti televisivi ho capito che titoli e credenziali possono riuscire a prevalere sulle buone argomentazioni. Per questo ho voluto ricordare che anche molti dei più accreditati economisti hanno affermato pubblicamente che l’euro è una moneta mal costruita, che ora si può solo correggere o lasciar morire. E somiglia ad una parabola del destino che questo dilemma metta ora, l’uno di fronte all’altro, i due volti della stessa persona: il Draghi di ieri contro il Draghi di oggi.(Alessandro Montanari, “L’euro è una follia: lo diceva anche Draghi, lo dicono tutti”, dal blog “Interesse Nazionale”, novembre 2017).La notizia è di quelle clamorose: anche Mario Draghi giudicava l’euro una sciocchezza economica. Erano gli anni Settanta ed il futuro presidente della Bce, allora studente di economia alla Sapienza di Roma, seguiva appassionatamente la dottrina di Federico Caffé. «Chi frequentava le sue lezioni – ricorda Draghi in un’entusiastica biografia di Stefania Tamburello – lo vedeva come un modello a cui ispirarsi». Come detto, però, la rivelazione non sta tanto nella curiosa infatuazione giovanile per le teorie keynesiane, quanto piuttosto nella tesi di laurea che guadagnò al promettente economista la lode accademica e l’incarico, ambitissimo, di assistente personale del professor Caffè. S’intitolava “Integrazione economica e variazione dei tassi di cambio” e, come ammette lo stesso Draghi nel libro della Tamburello (“Il Governatore”, Rizzoli, 2011, pag. 23), sosteneva che «la moneta unica era una follia, una cosa assolutamente da non fare». Ora io non so che cosa direbbe il Draghi del “whatever it takes” del Draghi euroscettico. Immagino però che l’intellighenzia di Bruxelles lo taccerebbe di populismo, abusando di una categorizzazione liquidatoria che non riesce più a contenere, né per il numero né per il profilo, la ragguardevole polifonia di quegli economisti che hanno rilevato l’anomalia strutturale dell’euro.
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Vandana Shiva: perché la crescita è nemica della vita
La crescita illimitata è la fantasia di economisti, imprese e politici. La vedono come una misura del progresso. Come risultato, il prodotto interno lordo (Pil), che dovrebbe misurare la ricchezza delle nazioni, è diventato sia il numero più potente che il concetto dominante del nostro tempo. Tuttavia, la crescita economica nasconde la povertà creata attraverso la distruzione della natura, la quale a sua volta porta a comunità incapaci di provvedere a se stesse. Durante la seconda guerra mondiale il concetto di crescita fu presentato come una misura per la movimentazione delle risorse. Il Pil si basa sulla creazione di un confine artificiale e fittizio, il quale parte dal presupposto che se produci ciò che consumi, non produci. In effetti, la “crescita” misura la trasformazione della natura in denaro e dei beni comuni in merci. Così i magnifici cicli naturali di rinnovamento dell’acqua e delle sostanze nutritive sono qualificati non produttivi.I contadini di tutto il mondo, che forniscono il 72% del cibo, non producono; le donne che coltivano o fanno la maggior parte dei lavori domestici non rispettano questo paradigma di crescita. Una foresta vivente non contribuisce alla crescita, ma quando gli alberi vengono tagliati e venduti come legname, abbiamo la crescita. Le società e le comunità sane non contribuiscono alla crescita, ma la malattia crea crescita attraverso, ad esempio, la vendita di medicine brevettate. L’acqua disponibile come bene comune condiviso liberamente e protetto da tutti viene fornita a tutti. Tuttavia, essa non crea crescita. Ma quando la Coca-Cola impone una pianta, estrae l’acqua e con essa riempie le bottiglie di plastica, l’economia cresce. Ma questa crescita è basata sulla creazione di povertà – sia per la natura sia per le comunità locali. L’acqua estratta al di là della capacità della natura di rigenerarsi crea una penuria d’acqua. Le donne sono costrette a percorrere lunghe distanze in cerca di acqua potabile. Nel villaggio di Plachimada nel Kerala, quando la passeggiata per l’acqua è diventata 10 chilometri, la tribale donna locale Mayilamma ha detto che il troppo è troppo. Non possiamo camminare ulteriormente, l’impianto della Coca-Cola deve chiudere. Il movimento che le donne incominciarono ha portato infine alla chiusura dello stabilimento.Nella stessa ottica, l’evoluzione ci ha regalato il seme. Gli agricoltori lo hanno selezionato, allevato e lo hanno diversificato – esso è la base della produzione alimentare. Un seme che si rinnova e si moltiplica produce semi per la prossima stagione, così come il cibo. Tuttavia, il contadino di razza e il contadino che salva i semi non sono visti come un contributo alla crescita. Ciò crea e rinnova la vita, ma non porta a profitti. La crescita inizia quando i semi vengono modificati, brevettati e geneticamente resi sterili, portando gli agricoltori ad essere costretti a comprarne di più ad ogni stagione. La natura si impoverisce, la biodiversità è erosa e una risorsa aperta libera si trasforma in una merce brevettata. L’acquisto di semi ogni anno è una ricetta per l’indebitamento dei poveri contadini dell’India. E da quando è stato istituito il monopolio dei semi, l’indebitamento degli agricoltori è aumentato. Dal 1995, oltre 270.000 agricoltori in India sono stati presi nella trappola del debito e si sono suicidati.La povertà è anche ulteriore spreco quando i sistemi pubblici vengono privatizzati. La privatizzazione di acqua, elettricità, sanità e istruzione genera crescita attraverso i profitti. Ma genera anche povertà, costringendo la gente a spendere grandi quantità di denaro per ciò che era disponibile a costi accessibili come bene comune. Quando ogni aspetto della vita è commercializzato e mercificato, vivere diventa più costoso e la gente diventa più povera. Sia l’ecologia che l’economia sono nate dalla stessa radice – “oikos”, la parola greca per “casa”. Fino a quando l’economia è stata incentrata sulla famiglia, riconosceva e rispettava le sue basi nelle risorse naturali e i limiti del rinnovamento ecologico. Era focalizzata a provvedere ai bisogni umani di base all’interno di questi limiti. L’economia basata sulla famiglia era anche incentrata sulle donne. Oggi l’economia è separata sia dai processi ecologici che dai bisogni fondamentali e si oppone ad ambedue. Mentre la distruzione della natura veniva motivata da ragioni di creazione della crescita, la povertà e l’espropriazione aumentavano. Oltre ad essere insostenibile, è anche economicamente ingiusta.Il modello dominante di sviluppo economico è infatti diventato contrario alla vita. Quando le economie sono misurate solo in termini di flusso di denaro, i ricchi diventano più ricchi e i poveri sempre più poveri. E i ricchi possono essere ricchi in termini monetari – ma anche loro sono poveri nel contesto più ampio di ciò che significa essere umani. Nel frattempo, le richieste del modello attuale dell’economia stanno portando a guerre per le risorse come quelle per il petrolio, guerre per l’acqua, guerre alimentari. Ci sono tre livelli di violenza implicati nello sviluppo non sostenibile. Il primo è la violenza contro la terra, che si esprime come crisi ecologica. Il secondo è la violenza contro l’uomo, che si esprime come povertà, miseria e migrazioni. Il terzo è la violenza della guerra e del conflitto, come potente caccia alle risorse che si trovano in altre comunità e paesi per i propri appetiti illimitati.L’aumento del flusso di denaro attraverso il Pil si è dissociato dal valore reale, ma coloro che accumulano risorse finanziarie possono poi reclamare pretese sulle risorse reali delle persone – la loro terra e l’acqua, le foreste e i semi. Questa sete li conduce all’ultima goccia d’acqua e all’ultimo centimetro di terra del pianeta. Questa non è la fine della povertà. É la fine dei diritti umani e della giustizia. Gli economisti e premi Nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen hanno riconosciuto che il Pil non coglie la condizione umana e hanno sollecitato la creazione di altri strumenti per misurare il benessere delle nazioni. Questo è il motivo per cui paesi come Bhutan hanno adottato la “felicità nazionale lorda” al posto del prodotto interno lordo per calcolare il progresso. Abbiamo bisogno di creare misure che vadano oltre il Pil, ed economie che vadano al di là del supermercato globale, per ringiovanire la ricchezza reale. Dobbiamo tener presente che la vera valuta della vita è la vita stessa.(Vandana Shiva, “Come la crescita economica è diventata nemica della vita”, intervento pubblicato dal “Guardian” e ripreso il 4 novembre 2013 da “Come Don Chisciotte”).La crescita illimitata è la fantasia di economisti, imprese e politici. La vedono come una misura del progresso. Come risultato, il prodotto interno lordo (Pil), che dovrebbe misurare la ricchezza delle nazioni, è diventato sia il numero più potente che il concetto dominante del nostro tempo. Tuttavia, la crescita economica nasconde la povertà creata attraverso la distruzione della natura, la quale a sua volta porta a comunità incapaci di provvedere a se stesse. Durante la seconda guerra mondiale il concetto di crescita fu presentato come una misura per la movimentazione delle risorse. Il Pil si basa sulla creazione di un confine artificiale e fittizio, il quale parte dal presupposto che se produci ciò che consumi, non produci. In effetti, la “crescita” misura la trasformazione della natura in denaro e dei beni comuni in merci. Così i magnifici cicli naturali di rinnovamento dell’acqua e delle sostanze nutritive sono qualificati non produttivi.
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Colombo: crescita o decrescita? Pagano solo i poveri
Abbiamo aspettato la crescita come un Messia salvatore sotto forma di prodotti, di vendite, di profitti, di lavoro che torna, una terra promessa per la quale bastano alcune leggi, alcune sagge mosse di governo, alcuni sacrifici, magari duri ma necessari, che ti traghettano sulla parte salva del mondo. Su una sponda la corsa della civiltà lascerà indietro i neghittosi di un mondo antico e obsoleto che vogliono garanzie prima di dare. Sull’altra il mondo orgoglioso del nuovo profitto e del nuovo reddito, dove ognuno è protettore di se stesso, dunque affidabile. Chiaro? C’è qualche dubbio. «In tutti i casi la ricetta economica che ne discende è brutale: per avere crescita occorre più disuguaglianza, perché solo più disuguaglianza è in grado di imprimere il necessario dinamismo alla società. Tutto ciò spiega perché la parola eguaglianza – che pure figura, insieme a libertà e a fraternità tra le categorie chiave della modernità – sia caduta così in disuso nel lessico contemporaneo, compreso quello della sinistra».
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Benessere, non Pil: avanzano le idee della Decrescita
Da alcuni anni Maurizio Pallante ed il Movimento per la Decrescita Felice mettono al centro dei loro discorsi e delle loro proposte la contestazione al Pil come metro di misura del benessere dei popoli e delle nazioni. Dopo essere stati definiti molte volte dei catastrofisti, dei retrogradi se non addirittura degli ingenui, il profondo senso della messa in discussione di un certo tipo di sviluppo e di una impossibile crescita economica illimitata è stato recepito anche dai massimi livelli del mondo politico europeo. Non più un discorso per “pochi intimi”, la Decrescita si è fatta spazio in ogni ambito.
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Fini: serve finanza etica, capitalismo democratico
Finanza etica, economia sociale di mercato. E’ la ricetta del presidente della Camera, Gianfranco Fini, formulata attraverso il webmagazine della fondazione “Farefuturo”. Una lunga riflessione, nella quale il fondatore di An mette a fuoco il rapporto tra capitalismo e società, alla luce della crisi globale. L’anello mancante? L’etica. Da ripristinare ad ogni costo, facendo tesoro della grande esperienza del welfare europeo, modello di mediazione tra profitto e garanzie sociali. Per Fini, si tratta di utilizzare la crisi per riscrivere le regole, abbandonare l’idologia della crescita illimitata e costruire un capitalismo più equo e democratico.