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Archivio del Tag ‘Atlanta’

  • Science: contagiarsi tutti, così il Covid diventa innocuo

    Scritto il 08/3/21 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Bisogna lasciar circolare il Covid, altrimenti ci vorranno dieci anni per liberarcene. Non è la battuta di un No vax, ma l’opinione di tre scienziati che hanno pubblicato i risultati di un loro studio sulla rivista “Science”, una delle più prestigiose a livello internazionale. Jennie Lavine e Rustom Antia, del dipartimento di biologia della Emory University di Atlanta, assieme a Ottar Bjornstad, del centro dinamica delle malattie infettive della Pennsylvania State University, hanno elaborato un modello teorico che conferma l’ipotesi che il Covid-19 assumerà carattere endemico e la sua letalità finirà per attestarsi intorno allo 0,1%, scendendo al di sotto del livello dell’influenza stagionale. Il Sars-Cov-2 non è stato contenuto subito, la sua diffusione ha provocato una pandemia e non può più essere eliminato direttamente. Ma se vogliamo che si raggiunga in fretta la fase endemica, quando il coronavirus potrà non essere «più virulento del comune raffreddore», scrivono gli autori, occorre che il tasso di contagiosità R0 (R con zero) sia uguale a 6.
    Cioè che una persona ne contagi sei, altro che l’auspicato valore inferiore a 1 che da mesi ci sta ripetendo il Cts (con quella cabina di regia che è diventato l’incubo settimanale per tutte le Regioni) o che viene sbandierato da più di un anno dagli esperti televisivi alla Massimo Galli. E senza il distanziamento che ci viene imposto, regolamentato a seconda della fascia colorata cui veniamo assegnati in base a incomprensibili algoritmi. Gli scienziati americani arrivano a questa conclusione considerando che «esistono quattro coronavirus di interesse umano (Hcov) che causano il raffreddore comune, o sindromi delle vie respiratorie superiori, e che circolano endemicamente in tutto il mondo. Causano solo sintomi lievi e non rappresentano un notevole onere per la salute pubblica». Gli autori dello studio ritengono che tutti gli Hcov suscitino un’immunità con caratteristiche simili e che «l’attuale, grave problema di salute pubblica sia una conseguenza dell’emergenza epidemica in una popolazione immunologicamente mai trattata, in cui gruppi d’età avanzata senza precedente esposizione sono più vulnerabili».
    Bisogna agire con vaccini, senza ridurre i test diagnostici e «se è necessario un frequente potenziamento dell’immunità mediante la circolazione virale in corso, per mantenere la protezione dalla patologia, allora potrebbe essere meglio che il vaccino imiti l’immunità naturale nella misura in cui previene la patologia, senza bloccare la circolazione del virus», afferma Jennie Lavine, prima autrice dell’articolo su “Science”. Gli scienziati aggiungono che «infezione o vaccinazione possono proteggere, ma non fornire il tipo d’immunità di blocco della trasmissione che consente la schermatura o la generazione di immunità di gregge a lungo termine». In un successivo articolo apparso su “Nature”, Jennie Lavine, che è ricercatrice di malattie infettive, spiega: «Il virus si attacca, ma una volta che le persone sviluppano una certa immunità, attraverso l’infezione naturale o la vaccinazione, non presenteranno sintomi gravi. Il virus diventerebbe un nemico incontrato per la prima volta nella prima infanzia, quando in genere causa un’infezione lieve o del tutto assente».
    Si potrà convivere con il Covid, come accade con altri coronavirus endemici che possono provocare più reinfezioni, grazie a un’immunità diffusa acquisita fin da piccoli, quando, a seguito dell’esposizione a raffreddori comuni, sembra si generi una protezione. La cosiddetta «cross reattività», grazie alla quale gli anticorpi riuscirebbero a riconoscere un nuovo virus con corredo genetico simile ad altri patogeni con i quali si è venuti a contatto. Non a caso, per la maggior parte dei bambini il Covid-19 non rappresenta un rischio. Ma se vogliamo arrivare rapidamente a una fase endemica, altrimenti ipotizzata tra dieci anni dagli autori se proseguiamo di questo passo, il forte distanziamento sociale non è la soluzione. «Un R0 maggiore si traduce in un’epidemia iniziale più ampia e più rapida e in una transizione più rapida alle dinamiche endemiche», concludono gli autori dello studio. D’altra parte, ricordiamoci quello che lo scorso ottobre dichiarò il professor Giorgio Palù, oggi presidente dell’Agenzia italiana del farmaco, a proposito del Covid che è «più mortale dell’influenza», ma come tutti i virus che hanno una letalità relativamente bassa «tende a coesistere. I virus sono parassiti obbligati e non hanno interesse a estinguersi, quindi a uccidere l’ospite e a essere letali».
    (Patrizia Floder Reitter, “Aprite tutto: per renderlo innocuo, il Covid fa fatto circolare”, articolo pubblicato da “La Verità” e ripreso da “Dagospia” il 7 marzo 2021).

    Bisogna lasciar circolare il Covid, altrimenti ci vorranno dieci anni per liberarcene. Non è la battuta di un No vax, ma l’opinione di tre scienziati che hanno pubblicato i risultati di un loro studio sulla rivista “Science”, una delle più prestigiose a livello internazionale. Jennie Lavine e Rustom Antia, del dipartimento di biologia della Emory University di Atlanta, assieme a Ottar Bjornstad, del centro dinamica delle malattie infettive della Pennsylvania State University, hanno elaborato un modello teorico che conferma l’ipotesi che il Covid-19 assumerà carattere endemico e la sua letalità finirà per attestarsi intorno allo 0,1%, scendendo al di sotto del livello dell’influenza stagionale. Il Sars-Cov-2 non è stato contenuto subito, la sua diffusione ha provocato una pandemia e non può più essere eliminato direttamente. Ma se vogliamo che si raggiunga in fretta la fase endemica, quando il coronavirus potrà non essere «più virulento del comune raffreddore», scrivono gli autori, occorre che il tasso di contagiosità R0 (R con zero) sia uguale a 6.

  • Anticorpi: il farmaco italiano guarisce il mondo, non l’Italia

    Scritto il 19/12/20 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Diecimila italiani potevano guarire subito, come tanti Donald Trump. Invece, aspettando un vaccino, l’Italia va incontro alla terza ondata Covid senza terapie a base di anticorpi monoclonali, quelli che in tre giorni neutralizzano il virus evitando il ricovero. Da uno stabilimento di Latina in realtà escono furgoni carichi di questi farmaci, ma sono destinati a salvare pazienti americani, non gli italiani. Ai quali, per altro, erano stati offerti a titolo gratuito già due mesi fa. È il paradosso di una storia che ha pesanti risvolti sanitari, politici ed etici. «Abbiamo ‘pallottole’ specifiche contro il virus. Possono salvare migliaia di pazienti, evitare ricoveri e contagi, ma decidiamo di non spararle. Non si spiega», ripete da giorni Massimo Clementi, virologo del San Raffaele di Milano. Racconta che i colleghi negli Stati Uniti da alcune settimane somministrano gli anticorpi neutralizzanti come terapia e profilassi per malati Covid. La stessa cura che ha salvato la vita a Donald Trump in pochi giorni, nonostante l’età e il sovrappeso: «Dopo 2-3 giorni guariscono senza effetti collaterali apparenti». Il tutto a 1.000 euro circa per un trattamento completo, contro gli 850 euro di un ricovero giornaliero. Gli Stati Uniti ne hanno acquistato 950.000 dosi, seguiti da Canada e – notizia di ieri – Germania. Non l’Italia, dove si producono.
    Il nostro paese ha investito su un monoclonale made in Italy promettente ma disponibile solo fra 4-6 mesi. Scienziati molto pragmatici si chiedono perché, nel frattempo, non si usino i farmaci che già si dimostrano efficaci altrove: fin da ottobre – si scopre ora – era stata data all’Italia la possibilità di usare questi anticorpi attraverso un cosiddetto “trial clinico”, nel quale 10.000 dosi del farmaco sarebbero state proposte a titolo a gratuito. Una mano dal cielo misteriosamente respinta mentre il paese precipitava nella seconda ondata. Il farmaco – bamlanivimab o Cov555 – è stato sviluppato dalla multinazionale americana Eli Lilly. La sua efficacia nel ridurre carica virale, sintomi e rischio di ricovero è dimostrata da uno studio di Fase 2 randomizzato (la fase 3 è in corso) condotto negli Usa. I risultati sono stati illustrati sul prestigioso “New England Journal of Medicine”. Dall’headquarter di Sesto Fiorentino spiegano che l’anticorpo è stato messo in produzione prima ancora che finisse la sperimentazione perché fosse disponibile su scala globale il prima possibile. Dal 9 novembre, quando l’Fda ne ha autorizzato l’uso di emergenza, gli Stati Uniti hanno acquistato quasi un milione di dosi. In Europa si aspetta il via libera dell’Ema che non autorizza medicinali in fase di sviluppo.
    Una direttiva europea del 2001 consente, però, ai singoli paesi Ue di procedere all’acquisto e la Germania ieri ha completato la procedura per autorizzarlo. A breve toccherà all’Ungheria. E l’Italia? Aspetta. Avendo il suo cuore europeo alle porte di Firenze, finito lo studio la società di Indianapolis ha preso contatto con le autorità sanitarie e politiche nazionali, anche italiane. Il 29 ottobre riunione con l’Aifa: collegati, tra gli altri, Gianni Rezza per il ministero della salute; Giuseppe Ippolito del Cts e direttore dello Spallanzani di Roma; il professor Guido Silvestri, virologo alla Emory University di Atlanta che aveva favorito il contatto con Eli Lilly. Sul tavolo, la possibilità di avviare in Italia la sperimentazione con almeno 10.000 dosi gratis del farmaco che negli Usa ha dimostrato di ridurre i rischi di ospedalizzazione dal 72 al 90%. In quel contesto viene anche chiarito che non sarebbe stato un favore alla multinazionale, al contrario: una volta che l’Fda l’avesse autorizzato, sarebbero partite richieste da altri paesi. L’occasione, da cogliere al volo, cade nel vuoto, forse per una rigida adesione alle regole di Aifa ed Ema che non hanno però fermato la rigorosa Germania. Altra ipotesi: l’offerta è stata lasciata cadere per una scelta già fatta a monte.
    Sui monoclonali, da marzo, il governo ha investito 380 milioni per un progetto tutto italiano che fa capo alla fondazione Toscana Life Sciences (Tls), ente non profit di Siena, in collaborazione con lo Spallanzani e diretto dal luminare Rino Rappuoli. La sperimentazione clinica deve ancora partire e la produzione, salvo intoppi, inizierà solo a primavera 2021. A quanto risulta al “Fatto”, l’operazione con Eli Lilly, che già due mesi fa avrebbe permesso di salvare migliaia di persone, non sarebbe andata in porto per l’atteggiamento critico verso questi anticorpi del direttore dello Spallanzani che lavorerà al progetto senese. «Non so perché sia andata così, dovete chiedere ad Aifa», taglia corto il direttore Giuseppe Ippolito, negando un conflitto di interessi: «Non prescrivo farmaci, mi occupo solo di scienza». Quando l’Fda autorizza il farmaco, la multinazionale non può più proporre il trial gratuito ma deve attenersi al prezzo della casa madre. Per assurdo, sfumata l’opzione a costo zero, l’Italia esprime una manifestazione ufficiale di interesse all’acquisto. Il negoziato va in scena il 16 novembre alla presenza di Arcuri, del Dg dell’Aifa Magrini e del ministro della salute Speranza. Si parla di prezzo e di dosi, ma il negoziato si ferma lì e non va avanti. Neppure quando il sindaco di Firenze torna alla carica.
    Dario Nardella annuncia ai giornali di aver parlato coi vertici di Eli Lilly e che «se c’è l’ok della Commissione Ue, la distribuzione del farmaco a base di anticorpi monoclonali potrebbe cominciare dopo Natale non solo in Francia, Spagna e Regno Unito ma anche in Italia». Natale è alle porte e in Italia non c’è traccia di farmaci anticorpali né si ha notizia di una pressione dell’Aifa per sollecitare l’omologa agenzia europea. Come se l’opzione terapeutica per pazienti in lotta col virus, già disponibile altrove, non interessasse. L’Aifa e la struttura di Arcuri – sentite dal Fatto – ribadiscono: finché non c’è l’autorizzazione Ema non si va avanti. Di troppa prudenza si può anche morire, rispondono gli scienziati. «Io avrei accelerato», dice chiaro e tondo il consulente del ministro Walter Ricciardi, presente alla riunione un mese fa: «Con tanti morti e ospedalizzati, valutare presto tutte le terapie disponibili è un imperativo etico e morale». Il virologo Silvestri, che tanto aveva spinto: «Non capisco cosa stia bloccando l’introduzione degli anticorpi di Lilly e/o Regeneron, che qui negli States usiamo con risultati molto incoraggianti». Ieri sera si è aggiunta anche la voce critica dell’immunologa dell’università di Padova, Antonella Viola: «E’ sorprendente questo ritardo, cosa aspettiamo?».
    Per il professor Clementi, siamo al paradosso. «È importante trovare il miglior farmaco possibile, ma non possiamo scartare a priori una possibilità terapeutica che altrove salva le persone. Una fiala costa poco più di un giorno di ricovero e ogni risorsa che risparmi la puoi usare per altro. Tenere nel fodero un’arma che si dimostra decisiva è incomprensibile. Da qui, la mia sollecitazione all’Aifa». Certo, una soluzione al 100% italiana garantirebbe autosufficienza e prelazione nell’approvvigionamento. Da Sesto Fiorentino, però, rispondono che il loro farmaco, oltre ai benefici in termini di salute e risparmio, avrebbe avuto anche ricadute economiche per l’Italia: nella produzione è coinvolto un fornitore italiano, la Latina Bsp Pharmaceutical. «Se andrà bene potremmo distribuirlo non solo negli Usa ma anche in Italia», esultava a marzo il titolare dell’impresa pontina, Aldo Braca. Nove mesi dopo, dallo stabilimento di Latina esce il farmaco più promettente contro il Covid. Ma va soltanto all’estero.
    (Thomas Mackinson, “L’anticorpo monoclonale fatto in Italia che noi non usiamo. Prodotto a Latina, poteva curare (gratis) 10mila malati. I burocrati lo lasciano agli Usa”, dal “Fatto Quotidiano” del 17 dicembre 2020).

    Diecimila italiani potevano guarire subito, come tanti Donald Trump. Invece, aspettando un vaccino, l’Italia va incontro alla terza ondata Covid senza terapie a base di anticorpi monoclonali, quelli che in tre giorni neutralizzano il virus evitando il ricovero. Da uno stabilimento di Latina in realtà escono furgoni carichi di questi farmaci, ma sono destinati a salvare pazienti americani, non gli italiani. Ai quali, per altro, erano stati offerti a titolo gratuito già due mesi fa. È il paradosso di una storia che ha pesanti risvolti sanitari, politici ed etici. «Abbiamo ‘pallottole’ specifiche contro il virus. Possono salvare migliaia di pazienti, evitare ricoveri e contagi, ma decidiamo di non spararle. Non si spiega», ripete da giorni Massimo Clementi, virologo del San Raffaele di Milano. Racconta che i colleghi negli Stati Uniti da alcune settimane somministrano gli anticorpi neutralizzanti come terapia e profilassi per malati Covid. La stessa cura che ha salvato la vita a Donald Trump in pochi giorni, nonostante l’età e il sovrappeso: «Dopo 2-3 giorni guariscono senza effetti collaterali apparenti». Il tutto a 1.000 euro circa per un trattamento completo, contro gli 850 euro di un ricovero giornaliero. Gli Stati Uniti ne hanno acquistato 950.000 dosi, seguiti da Canada e – notizia di ieri – Germania. Non l’Italia, dove si producono.

  • ‘Giochi aperti: Trump è in corsa, Biden non sarà presidente’

    Scritto il 15/12/20 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Fermi tutti: negli Usa non è ancora stato deciso niente. Lo afferma Roberto Mazzoni, giornalista italiano stanziato in Florida: da qui al 20 gennaio – unica data prevista dalla Costituzione per certificare l’elezione del nuovo presidente – potrebbe ancora accadere di tutto. Mazzoni ricorda il caso del 1960, quando i grandi elettori che avevano incoronato Nixon furono battuti a gennaio dai grandi elettori che avevano votato separatamente per Kennedy. Alla fine prevalsero questi ultimi, grazie a una contestazione elettorale in Michigan: proprio lo Stato che ora ha finalmente autorizzato una perizia legale sul sistema informatico Dominion, da cui risulta un tasso di errore mostruoso, del 65%. Si ripete il copione di cinquant’anni fa? Parrebbe di sì: i grandi elettori di Trump, intanto, il 14 dicembre hanno votato per “The Donald”, tenendolo quindi in corsa. Nel frattempo, il suo staff legale ha presentato una nuova raffica di cause alla Corte Suprema, da esaminare nei prossimi giorni. L’unica certezza, sostiene Mazzoni, riguarda Joe Biden: non sarà mai il presidente degli Stati Uniti. Nel caso il 20 gennaio venisse formalmente eletto, subito dopo – travolto dagli scandali che stanno montando – verrebbe fatto dimettere dagli stessi democratici, che fin dall’inizio hanno progettato di insediare alla Casa Bianca la new entry Kamala Harris, “creatura” di Wall Street sostenuta da Obama, con Nancy Pelosi come vice.
    Donald Trump nel frattempo tiene duro: «Rischiamo di avere un presidente illegittimo, come nei paesi del Terzo Mondo», ha detto, criticando la scelta della Corte Suprema di rigettare il ricorso del Texas (e di altri 17 Stati) contro la regolarità dell’esito elettorale negli “Swing States”. «I voti non possono essere certificati, questa elezione è contestata», ribadisce Trump. «Gli Stati-chiave che hanno trovato enormi quantità di voti illegali, praticamente tutti gli Stati decisivi, non possono certificare questi voti come completi e corretti senza commettere un grave reato», afferma il presidente. «Tutti sanno che persone morte, persone sotto il limite di età, immigrati irregolari, persone con firme false, detenuti e tanti altri hanno votato illegalmente», aggiunge. Inoltre, hanno pesato «i “guasti” delle macchine (un altro termine per “frodi”), gli elettori non residenti, il voti di scambio, gli osservatori repubblicani esclusi e i voti – più numerosi degli elettori – a Detroit, Philadelphia, Milwaukee, Atlanta, Pittsburgh e altrove». Insiste Trump: «In tutti gli Stati-chiave ci sono più voti di quanti siano necessari per conquistare lo Stato e vincere le elezioni: questi voti non possono essere certificati, quest’elezione è contestata». Cosa sta per succedere? «Non possiamo saperlo», ammette Mazzoni sul suo canale “MazzoniNews” collocato sulla piattaforma “Rumble”. «Certo è che i giochi sono ancora aperti».
    Un fronte è quello istituzionale: i grandi elettori trumpiani hanno comunque votato per Trump, come se fosse ancora pienamente in corsa per la rielezione, forti anche delle nuove denunce presentate alla Corte Suprema: Sideny Powell ha investito direttamente l’Alta Corte del caso dei presunti brogli in 4 Stati-chiave, mentre Rudolph Giuliani ha riciclato la denuncia del Texas, presentandola però a nome degli elettori e non più dello Stato. «Cosa deciderà, la Corte? Non lo sappiamo». Per Mazzoni, il significato dell’ultima offensiva legale è evidente: «E’ come inviare una diffida preventiva, rispetto al voto espresso il 14 dicembre dai grandi elettori di Biden: schede che saranno aperte solo il 6 gennaio». Mazzoni ricorda il precedente Nixon-Kennedy: il vincitore iniziale, Nixon, si dovette arrendere a gennaio, quando risultarono “contati male” i voti del Michigan. Sempre dal Michigan arriva ora una sorpresa clamorosa: su richiesta dell’avvocato trumpiano Matthew DePeron, il giudice Kevin Elsenheimer ha consdentito il rilascio di una perizia forense sui sistemi Dominion in una delle contee dello Stato, quella di Antrim, dove insieme alle presidenziali si votava anche per una consultazione sulla marijuana (e il conteggio del voto sulla marijuana appariva sbagliato). Risultato: Dominion è “progettato per sbagliare di proposito”.
    «Dominion Voting Systems – scrivono gli esperti, nelle 23 pagine della perizia – è progettato intenzionalmente per creare errori intrinseci, allo scopo di creare frode elettorale in maniera sistematica e influenzare i risultati». Spiegano i tecnici informatici: «Il sistema genera di proposito una quantità enorme di errori nella lettura delle schede, quando vengono trasferite nel formato elettronico, affinché si decida cosa farne. Questi errori intenzionali portano all’assegnazione di blocchi di voti senza supervisione, senza trasparenza e senza lasciare tracce». La stessa contea di Antrim aveva appena ammesso di aver attribuito a Biden, “per sbaglio”, 6.000 voti di Trump. La commissione elettorale federale americana, ricorda Mazzoni, ammette “l’errore umano” entro certi limiti: tollera 1 errore su 250.000 schede (lo 0,0008%). «Qui invece il tasso di errore riscontrato su Dominion è addirittura del 65%. Letteralmente: una bomba, se si pensa che proprio Dominion ha registrato i risultati elettorali in tutti gli Stati-chiave, quelli in cui Trump sostiene di essere rimasto vittima di brogli così estesi da ribaltare il voto espresso dagli elettori. Basterà, lo scandalo-Dominion (insieme alle cause di Giuliani e Powell) per “aiutare” la Corte Suprema a riconsiderare la situazione?
    E’ quello che si aspettano i grandi elettori di Trump, che hanno appena votato in Georgia, Nevada, Arizona, Pennsylvania e Michigan. Il “Washington Post” conferma la legittimità dell’iter: quei grandi elettori – se nel frattempo emergessero irregolarità comprovate e decisive – potrebbero essere determinanti, a gennaio, per la riconferma di Trump. Non solo: «Il 6 gennaio, i parlamentari repubblicani faranno obiezione, non riconoscendo come legittimo il voto dei grandi elettori di Biden, obbligando in tal modo le Camere ad aprire una discussione prima della votazione». Se non si avesse la maggioranza nelle due Camere, si dovrebbe ricominciare da capo: «Si finirebbe in un territorio nuovo», sottolinea Mazzoni, per il quale «la partita è ancora molto aperta». Secondo Roberto Mazzoni, questi “incidenti” rischiano sulla carta di complicare «il piano di sostotuzione di Biden», che sarebbe «partito troppo presto, dato che i democratici erano ormai sicuri di aver stravinto». E spiega: fin dall’inizio, era previsto che Biden facesse solo una capatina, alla Casa Bianca, per poi essere rimosso dal suo stesso partito. Per capire quello che sta avvenendo, sostiene Mazzoni, basta osservare i grandi media: «Avevano “coperto” i casi giudiziari di Hunter Biden per tutta la durata della campagna elettorale, ora invece ne parlano in modo sempre più insistente».
    Per Mazzoni, si tratta di una tecnica collaudata: «Quando lo scandalo sta ormai per scoppiare, allora cerchi di impadronirtene». Vari testimoni oggi accusano direttamente Joe Biden, come se il figlio Hunter (accusato di corruzione per giri di denaro che coinvolgono l’Ucraina e la Cina) fosse solo uno schermo, dietro al quale si sarebbe nascosto l’anziano Joe. «Per i media, il discorso elettorale è ormai chiuso; quindi, Joe Biden non è più “necessario”». Mazzoni ricorda che, nel 2017, Kamala Harris (da 6 mesi diventata senatrice della California) fu invitata a The Hamptons, quartiere newyorkese di lusso vicino a Long Island, che ospita la crema di Wall Street. «Volevano conoscerla e presentarle i grandi donatori di Hillary Clinton». Nell’agosto 2019, «Kamala è tornata e ha detto: “Sono io il più grande difensore di Wall Street”. Nei comizi, invece, giurava di battersi per i poveri e la classe media. Così Kamala ha avuto l’endorsement per la Casa Bianca, supportata da Obama». Sempre secondo Mazzoni, Obama mai apprezzato Biden, e aveva chiesto ai “dem” di non puntare su di lui. Kamala però ha scontato primarie non brillanti: «La base non si fidava di questa banderuola. Che oltretutto nelle primarie ha attaccato Biden violentemente, mettendolo in imbarazzo».
    Al che, Wall Street aveva ripiegato su Michael Bloomberg, pronto a spendere 800 milioni di dollari nelle primarie. Ma nemmeno Bloomberg ce l’ha fatta: «E’ come se la base dei democratici avesse detto: non vogliamo Wall Street, l’abbiamo già “assaggiata” con Obama». Ed ecco allora il vecchio Joe Biden: «Più presentabile, meno indigesto alla base». A quel punto, la Harris è tornata in gioco: «Wall Street ha deciso che Kamala sarebbe stata il nuovo presidente, la Hillary “colorata”». L’idea dei democratici? «Confermare Biden e farlo insediare, ma per poco: lo scandalo sta montando». Sta infatti circolando anche il testo di un’indagine senatoriale del 18 settembre: un dossier di 87 pagine sulla famiglia Biden, che denuncia trent’anni di corruzione. Mazzoni sintetizza il piano dei manovratori “dem”: «Joe Biden si dimette, dichiarandosi innocente ma pronto a farsi da parte per rispetto nei confronti degli elettori. A quel punto Kamala diventa presidente e offre a Joe il “perdono” presidenziale, quindi l’immunità. Vicepresidente diventa Nancy Pelosi, in quanto leader della Camera». A quel punto alla casa Bianca ci sarebbero due donne: «Chiunque le attaccasse di beccherebbe del razzista misogeno». E Biden? «Ovvio: lo metterebbero a gestire la Cina». Chiosa Mazzoni: «Il progetto sta emergendo sempre più chiaro: qualunque cosa accada a Biden, non è un problema: ormai è sacrificabile». Ma appunto: il piano funzionerà o è partito troppo presto, sottovalutando Trump?

    Fermi tutti: negli Usa non è ancora stato deciso niente. Lo afferma Roberto Mazzoni, giornalista italiano stanziato in Florida: da qui al 20 gennaio – unica data prevista dalla Costituzione per certificare l’elezione del nuovo presidente – potrebbe ancora accadere di tutto. Mazzoni ricorda il caso del 1960, quando i grandi elettori che avevano incoronato Nixon furono battuti a gennaio dai grandi elettori che avevano votato separatamente per Kennedy. Alla fine prevalsero questi ultimi, grazie a una contestazione elettorale in Michigan: proprio lo Stato che ora ha finalmente autorizzato una perizia legale sul sistema informatico Dominion, da cui risulta un tasso di errore mostruoso, del 65%. Si ripete il copione di cinquant’anni fa? Parrebbe di sì: i grandi elettori di Trump, intanto, il 14 dicembre hanno votato per “The Donald”, tenendolo quindi in corsa. Nel frattempo, il suo staff legale ha presentato una nuova raffica di cause alla Corte Suprema, da esaminare nei prossimi giorni. L’unica certezza, sostiene Mazzoni, riguarda Joe Biden: non sarà mai il presidente degli Stati Uniti. Nel caso il 20 gennaio venisse formalmente eletto, subito dopo – travolto dagli scandali che stanno montando – verrebbe fatto dimettere dagli stessi democratici, che fin dall’inizio hanno progettato di insediare alla Casa Bianca la new entry Kamala Harris, “creatura” di Wall Street sostenuta da Obama, con Nancy Pelosi come vice.

  • “Se il golpe contro Trump riesce, il popolo perde l’America”

    Scritto il 02/12/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Ho letto abbastanza dei rapporti sui brogli, delle dichiarazioni giurate e delle dichiarazioni degli esperti di sicurezza elettorale e degli esperti forensi da poter concludere che le elezioni sono state rubate. Ma non sono sicuro che si farà qualcosa, per queste elezioni fraudolente. L’élite americana non crede più nella democrazia. Consideriamo, per esempio, il Grande Reset del World Economic Forum. È antidemocratico, così come il globalismo. La democrazia è d’intralcio alle agende dell’élite. Infatti, la ragione per cui l’élite disprezza Trump è che lui si basa sul popolo. I giudici non conservano nemmeno il registro delle votazioni per poterlo indagare. In Georgia un giudice federale si è rifiutato di impedire che le macchine per il voto di Dominion fossero cancellate e resettate. Per chi trova troppo tecnico e voluminoso leggere le prove massicce dei brogli elettorali, ecco un breve riassunto. I brogli elettorali sono stati organizzati in tutti gli Stati. Lo scopo non era quello di cercare di rubare gli Stati in rosso, ma di far sembrare il voto più vicino allo schema previsto per fornire una copertura per le frodi estese negli Stati critici.
    Le macchine per il voto sono state programmate per assegnare i voti con un’inclinazione verso Biden. Il risultato è stato quello di ridurre il margine di vittoria di Trump negli Stati rossi. Negli Stati “swing” sono state utilizzate misure più estese. Il bias di Biden programmato nelle macchine di voto è stato aumentato. Come riserva, un gran numero di voti per corrispondenza fraudolenti sono stati accumulati nelle città controllate dai democratici negli swing States, a Milwaukee, Detroit e Philadelphia. Sebbene la Georgia sia uno Stato rosso, lo stesso è accaduto ad Atlanta, controllata dai democratici. La ragione per cui le votazioni sono state interrotte nel cuore della notte in queste città è stata quella di preparare le schede elettorali necessarie per superare il considerevole vantaggio di Trump e inserirle nel conteggio. Quello è il lasso di tempo in cui agli osservatori degli scrutinii è stato detto di tornare a casa, ed è il periodo in cui sia gli osservatori democratici che quelli repubblicani hanno osservato numerosi atti di frode di ogni tipo. Ci sono voti comprovati dalla tomba, da persone non registrate, da persone fuori dallo Stato. Ci sono schede elettorali retrodatate. Ci sono schede per corrispondenza senza pieghe, cioè schede mai piegate e messe in una busta, e così via.
    Ci sono luoghi in cui il voto supera il numero di elettori registrati. Alcuni esperti indipendenti e imparziali hanno riferito che i picchi di voto di Biden nelle prime ore del mattino sono impossibili, o così improbabili da avere una probabilità molto bassa di verificarsi. Il fatto che si verifichino contemporaneamente in diversi Stati non rientra nel campo di credibilità. È chiaro che le procedure di voto imposte dai democratici in Pennsylvania sono in violazione della Costituzione dello Stato della Pennsylvania. Un giudice statale della Pennsylvania ha permesso che questa causa andasse avanti e ha dato la sua opinione che avrebbe avuto successo. Sono fiducioso che la corrotta Corte Suprema della Pennsylvania ribalterà la sua sentenza. Se seguire tutto questo è troppo impegnativo per il vostro tempo e la vostra energia, ricadete sul buon senso. Considerate che l’account Twitter di Joe Biden ha 20 milioni di follower. L’account Twitter di Trump ha 88,8 milioni di follower. Considerate che l’account Facebook di Joe Biden ha 7,78 milioni di follower. L’account Facebook di Trump ha 34,72 milioni di follower. Quanto è probabile che una persona con quattro o cinque volte il seguito del suo rivale abbia perso le elezioni?
    Si consideri che Joe Biden, dichiarato dai giornalisti faziosi presidente “a valanga”, ha dato un messaggio per il giorno del Ringraziamento e solo 1.000 persone hanno guardato il suo comunicato in diretta. Dov’è l’entusiasmo? Considerate che le apparizioni in campagna elettorale di Trump sono state molto seguite, e che quelle di Biden sono state evitate. In qualche modo, un candidato che non ha potuto attirare i sostenitori alle sue apparizioni in campagna elettorale ha vinto la presidenza. Considerate che, nonostante il totale fallimento di Biden nell’animare gli elettori durante la campagna presidenziale, ha ricevuto 15 milioni di voti in più rispetto a Barack Obama nella sua rielezione del 2012. Considerate che Biden ha vinto nonostante il voto di Hillary Clinton nel 2016 sia stato inferiore a quello di Hillary Clinton in tutte le contee urbane degli Stati Uniti, ma ha superato Clinton a Detroit, Milwaukee, Atlanta e Philadelphia, le città dove sono stati commessi i brogli elettorali più evidenti e palesi. Si consideri che Biden ha vinto nonostante abbia ricevuto una quota record di voti primari dei democratici rispetto alla quota di Trump delle primarie repubblicane. Si consideri che Biden ha vinto nonostante Trump abbia migliorato il suo punteggio del 2016 di dieci milioni di voti, e il sostegno record di Trump da parte delle minoranze.
    Considerate che Biden ha vinto nonostante abbia perso le contea di Bellwether (che hanno sempre previsto l’esito delle elezioni) e abbia perso l’Ohio e la Florida. Si consideri che Biden ha vinto in Georgia, uno stato completamente rosso con un governatore e una legislatura rossi sia alla Camera che al Senato. In qualche modo uno Stato rosso ha votato per un presidente blu. Si consideri che Biden ha vinto nonostante i democratici abbiano perso la rappresentanza alla Camera. Considerate che in Pennsylvania mancano 47 schede di memoria contenenti più di 50.000 voti. Considerate che in Pennsylvania 1,8 milioni di schede sono state spedite agli elettori, ma sono state contate 2,5 milioni di schede per corrispondenza. Si consideri che i giornalisti non hanno alcun interesse, per questa massiccia lista di “improbabili”. Si consideri che i funzionari, i democratici, i social media e i dirigenti tecnologici e le università hanno dimostrato molto più impegno nel far uscire Trump dal suo incarico, indipendentemente dai mezzi di cui dispongono, di quanto ne abbiano profuso per ottenere risultati democratici ed elezioni eque.
    La massiccia frode delle elezioni del 2020 è stata possibile solo perché la parte “liberal” dell’America ha divorziato dai valori americani e non ha alcun rispetto per essi. Il “liberal” americano non è più liberale. Si è trasformato in un fascista che sopprime i discorsi e nega la legittimità ad altre opinioni. In effetti, i “liberal” sono così ostili all’integrità elettorale che vogliono che coloro che portano le prove di brogli elettorali siano incarcerati. Sono gli americani istruiti, a cui è stato fatto il lavaggio del cervello dalla Teoria della Razza Critica e dalla Politica dell’Identità, che sono liberali, e non la classe operaia, che sono i veri americani. I rossi dello Stato sono americani. Gli Stati blu non lo sono. Gli Stati blu demonizzano i veri americani e li hanno bollati come razzisti e misogini. I veri americani – la maggioranza della popolazione – sono “la briscola deplorevole”. I veri americani si sono appena fatti rubare la democrazia da persone che non hanno né integrità né onore. Se le elezioni rubate rimangono valide, l’America cade. Ma più di un’elezione è stata rubata. Il Deep State, il Comitato Nazionale Democratico e le puttane dei media non hanno rubato le elezioni perché non amano i capelli di Trump, o perché è un razzista, un misogino, un agente russo, o perché ha causato Covid, o per una qualsiasi delle altre false accuse sollevate contro di lui per quattro anni.
    Trump è odiato perché è contro il sistema. Trump si oppone al sacrificio dei posti di lavoro degli americani da parte dell’élite, che confida nel globalismo e nei portafogli. Trump si oppone alla cancellazione dei monumenti e della storia americana da parte dell’élite, come il New York Times 1619 Project che dipinge tutti i bianchi come americani razzisti. Trump si oppone alla demonizzazione dell’élite degli americani bianchi e alla discriminazione che le élite applicano contro i maschi bianchi eterosessuali nelle scuole e nell’occupazione. Trump si oppone alla Identity Politics, l’ideologia piena di odio dell’America “liberal”. Quando i “liberal” chiamano Trump razzista, intendono dire che non condivide la loro demonizzazione dei bianchi. Se non demonizza i bianchi americani, allora è razzista. Trump è un populista, un presidente della gente comune. Trump è odiato, perché era intento a salvare gli americani comuni dalla sudditanza alle agende dell’élite. Purtroppo, essere populisti non basta per rovesciare un’élite radicata. Solo un rivoluzionario può farlo, e Trump non è un leader rivoluzionario.
    L’élite si sta liberando di Trump in un modo che rende chiaro a tutti i candidati presidenziali del futuro che la loro unica scelta è quella di rappresentare l’élite. Se in qualche modo una persona anti-establishment si intromette, subirà lo stesso destino dei quattro anni di Trump. Le macchine di Dominion e i corrotti regimi democratici delle grandi città gli ruberanno la sua rielezione, anche se un numero sufficiente di elettori è sfuggito al lavaggio del cervello previsto per difendere il loro campione nelle cabine elettorali. Il Dipartimento di Giustizia di Trump lo ha deluso. Così come l’Fbi, la Cia, la Nsa e la Sicurezza Nazionale. Questo è facile da capire. Quelle sono istituzioni dell’establishment. Proteggono l’establishment, non la legge e la giustizia. Sarà la magistratura, la prossima a far fallire il presidente e la democrazia americana? Se l’elezione rubata (che è un colpo di Stato) rimane, dopo Trump nessun candidato presidenziale oserà tentare di rappresentare il popolo americano. Se questa elezione rubata rimane in piedi, non c’è speranza che il governo possa essere restituito al popolo.
    (Paul Craig Roberts, “La prova c’è: l’elezione è stata rubata”, dal blog di Craig Roberts del 30 novembre 2020).

    Ho letto abbastanza dei rapporti sui brogli, delle dichiarazioni giurate e delle dichiarazioni degli esperti di sicurezza elettorale e degli esperti forensi da poter concludere che le elezioni sono state rubate. Ma non sono sicuro che si farà qualcosa, per queste elezioni fraudolente. L’élite americana non crede più nella democrazia. Consideriamo, per esempio, il Grande Reset del World Economic Forum. È antidemocratico, così come il globalismo. La democrazia è d’intralcio alle agende dell’élite. Infatti, la ragione per cui l’élite disprezza Trump è che lui si basa sul popolo. I giudici non conservano nemmeno il registro delle votazioni per poterlo indagare. In Georgia un giudice federale si è rifiutato di impedire che le macchine per il voto di Dominion fossero cancellate e resettate. Per chi trova troppo tecnico e voluminoso leggere le prove massicce dei brogli elettorali, ecco un breve riassunto. I brogli elettorali sono stati organizzati in tutti gli Stati. Lo scopo non era quello di cercare di rubare gli Stati in rosso, ma di far sembrare il voto più vicino allo schema previsto per fornire una copertura per le frodi estese negli Stati critici.

  • Paltrinieri: l’Italia risorga, sarà lei a battere il Deep State

    Scritto il 10/8/20 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    «Altro che paese a rischio, l’Italia è una corazzata. Come ben detto da Banca d’Italia, fra denaro, titoli e asset fisici, il popolo italiano (non le banche) detiene 10.000 miliardi di euro di risparmi, 4 volte tanto il famigerato debito pubblico. Gli altri paesi sono messi al contrario: debito pubblico più basso ma cittadini super-indebitati. Quindi, per distruggerla bisogna portarla a uno stato di impoverimento pari a quello in cui, durante il regime fascista, la gente andava a donare le fedi per la patria. E l’unica maniera per contrastare questo disegno è rifondare tutto sulla base dell’unico collante esistente, lo spirito cattolico». Non usa mezze misure, Flavio Robert Paltrinieri, italoamericano, una vita da imprenditore e a capo di diverse società nel mondo e anche parte della task-force internazionale che vuole far rinascere la Democrazia Cristiana come una nuova Dc. E ci rivela la malattia e la cura, ovvero il disegno in atto da parte del cosiddetto Deep State e la maniera per smontarlo. Soprattutto, ci rivela che non sono gli Usa il simbolo del mondo libero che va distrutto, ma l’Italia. Ma cos’è, esattamente, il Deep State? E quando è iniziato lo strapotere della finanza internazionale?

  • Fanta-epidemie e sciacalli: la salute rende meno dei vaccini

    Scritto il 04/7/17 • nella Categoria: idee • (41)

    «Radio e giornali continueranno a parlare di democrazia e di libertà, ma quelle due parole non avranno più senso. Intanto l’oligarchia al potere, con la sua addestratissima élite di soldati, poliziotti, fabbricanti del pensiero e manipolatori del cervello, manderà avanti lo spettacolo a suo piacere». Così Aldous Huxley in “Brave New World Rivisited”, 1958. «La vedete la cornice?», scrive Emanuela Lorenzi su “Come Don Chisciotte”, scandalizzata dall’assordante silenzio del mainstream sul decreto-mostro dei 12 vaccini obbligatori. Disinformazione: già nel 2015 si apprese a Washington che gli “untori” contagiosi potrebbero essere proprio «gli individui vaccinati di recente». Lo ricorda il Comilva, comitato per la libertà vaccinale. A tal proposito, la “guida per i pazienti” dell’ospedale John Hopkins in caso di immunodepressione raccomanda di «evitare il contatto» con i bambini appena vaccinati. Si raccomanda ad amici e familiari di «non fargli visita», se i vaccini in questione sono contro varicella, morbillo, rosolia, influenza, poliomielite e vaiolo.
    «La sanità pubblica incolpa i bambini non vaccinati per l’epidemia di morbillo di Disneyland, ma la malattia potrebbe altrettanto facilmente esser stata provocata dal contatto con un individuo vaccinato di recente», ammette Sally Fallon Morell, presidente della Fondazione Western A. Price. «Le prove indicano che individui vaccinati recentemente dovrebbero esser messi in quarantena al fine di proteggere la popolazione». Entrambi, vaccinati e non vaccinati, sarebbero a rischio esposizione da parte di chi è stato appena sottoposto a vaccino, ribadisce Emanuela Lorenzi sempre su “Come Don Chisciotte”. «I fallimenti vaccinali sono diffusi; l’immunità indotta dal vaccino non è permanente. E recenti epidemie di pertosse, parotite e morbillo hanno avuto luogo in popolazioni completamente vaccinate. Chi riceve il vaccino antinfluenzale diventa più suscettibile ad infezioni future dopo vaccinazioni ripetute».
    «Basta volerli conoscere, gli studi», aggiunge la Lorenzi: «Provano che gli “untori” possono essere i vaccinati». In più, «avendo sostituito il morbillo selvaggio con quello vaccinale e avendo modificato in modi ancora non del tutto prevedibili l’epidemiologia di una malattia ciclica quale il morbillo», si sono create «nicchie ecologiche, presto riempite da genotipi a più elevata morbilità». Sicché, «il danno della vaccinazioni di massa, che comunque non garantiscono immunizzazione a fronte di rischi invece ben documentati», sembra superare di gran lunga i presunti benefici. «La vedete la cornice?». Nulla che traspaia, ovviamente, nel dibattito italiano, dove – secondo la Lorenzi – siamo di fronte a «un regime» che non esita a «imporre un decreto folle», quello dei 12 vaccini, «scritto da Big Pharma», grazie a «multinazionali invitate a Palazzo Chigi con promessa di investimenti» e presentato «quasi direttamente dalla Glaxo nella persona di Ranieri Guerra».
    Emanuela Lorenzi accusa chi cerca di «scatenare epidemie per favorire la cupola dei vaccini che lucra sul traffico di virus». E afferma: «Dopo la falsa epidemia di meningite e la falsa epidemia di morbillo che esiste solo nelle teste di chi deve farle fruttare, la prossima sarabanda sarà magari la polio: quanti di voi sanno che ci hanno già provato in Belgio nel 2014 sversando “accidentalmente” nel fiume Lasne 45 litri di virus concentrato di polio vivo?». La Lorenzi accusa Big Pharma di «fare terrorismo e disinformazione per imporre un piano vaccinale che ricalca esattamente quello delle industrie farmaceutiche, senza neppure darsi pena di nascondere i conflitti di interesse». Insiste: vogliono sacrificare i bambini italiani «sull’altare del falso dogma vaccinale, come prime cavie di un piano mondiale», nascondendo i dati dei bambini uccisi dalle reazioni avverse, già sottostimati «grazie alla inefficace farmacovigilanza». E si può persino «arrivare a strumentalizzare», con un atto di vero sciacallaggio, «la morte di un bambino immunodepresso che, non trovando posto in oncologia, è stato messo in un reparto infettivo di pediatria dove in aprile c’era stata una “epidemia di morbillo” (ma dove qualunque infezione sarebbe stata compresa nelle 12 vaccinazioni imposte dal decreto-canaglia) incolpando persino i fratellini sani non vaccinati».
    Aggiunge Lorenzi: «Che i pianificatori vaccinali mondiali “filantropi” (Gates Foundation e Oms in primis) non abbiano scrupoli è evidente dalla lunga scia di sperimentazioni sulle bambine indiane, sia con l’anti-Hpv che con l’antipolio, che hanno portato a migliaia di bambini con paralisi flaccida postvaccinica in India (47.000 solo nel 2011), sui bambini pachistani, per non parlare dell’antimeningite A ai bambini africani (500 bambini chiusi dentro la loro scuola e costretti a ricevere un vaccino sperimentale all’insaputa dei genitori, tutti danneggiati in modo più o meno grave)». E nessuno ha pagato, nessuno ha parlato di eugenetica. Poi ci sono «le sterilizzazioni attuate negli anni 70 dalla task force sui vaccini per la regolazione della fertilità ad opera di Oms, Banca Mondiale e Fondo per la popolazione delle Nazioni Unite «La vedete la cornice?», insiste Lorenzi, che propone una sinistra cronologia di lutti. Usa, 2014: il dottor William Thompson sta per denunciare la più grossa frode scientifica ad opera dei vaccinisti di Atlanta, ma il film “Vaxxed”, che ne parla, è oggetto di censura anche in Italia. Poi scoppia la «falsa ma funzionale» epidemia di morbillo a Disneyland. Al che, la Disney-story causa l’accelerazione dell’approvazione del Senate Bill 277 proposto dai senatori Pan e Alley, «che tramite un atto di lobbismo senza precedenti (e via mazzetta di 95.000 dollari a Pan secondo il “Sacramento Bee”) impone vaccinazioni obbligatorie per tutti i bambini per accedere alle scuole pubbliche o private escludendo ogni possibilità di esenzione».
    A Bari, nel 2014 Renzi promette alle Pharma: «Noi vi garantiamo un progetto di lungo-medio periodo, invitiamo le università, le imprese a investire i territori a credere nel settore farmaceutico, perché il made in Italy non deve significare solo food e fashion ma anche settore farmaceutico». Poco dopo, Renzi va da Obama e l’Italia viene incensata come capofila della Ghsa, Global Health Security Agenda: «L’Italia – riportarono le cronache – guiderà nei prossimi cinque anni le strategie e le campagne vaccinali nel mondo». Il nostro paese, rappresentato dal ministro della salute Beatrice Lorenzin «accompagnata dal presidente dell’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) professor Sergio Pecorelli, ha ricevuto l’incarico dal Summit di 40 paesi». E’ un importante riconoscimento all’Italia, disse Pecorelli, «soprattutto in questo momento, in cui stanno crescendo atteggiamenti ostili contro i vaccini». L’Italia come battistrada pro-vax in Europa. Quindi, a ottobre 2014, Renzi raduna a Palazzo Chigi i Ceo del settore farmaceutico. Ad aprile 2016, la Gsk investe un ulteriore miliardo in Italia: leader mondiale nei vaccini con 3,7 miliardi di sterline di fatturato su 23,9 totali, è da questo settore (profittevole in due casi su 10 nel mondo) che la multinazionale britannica si aspetta una autentica escalation nei prossimi anni. Fino ad arrivare a 6 miliardi di sterline entro il 2020. «Per questo Gsk crede nell’eccellenza italiana», sottolineano le fonti ufficiali. «E in questa eccellenza continueremo a investire, chissà, forse anche di più», promette l’azienda, a patto che l’Italia saprà essere un paese «ospitale» per gli investitori.
    A giugno 2017, abbiamo finalmente la nostra Disneyland: Beatrice Lorenzin dice che «l’Austria invita a non andare a Gardaland per colpa dei mancati vaccini», come riporta “Il Gazzettino”, ma la ministra «dovrebbe ripassare la geografia», visto che a parlare non è l’Austria ma la Slovenia, precisa Emanuela Lorenzi. Solo che la notizia è falsa: né Vienna né Lubiana hanno mai fatto un’affermazione simile. «La fake news viene smentita, ma la prima boutade – come si sa – è quella che rimane impressa a supportare il “frame”». Infine, arriva il decreto legge «nazi-fascista» che impone 12 vaccini per l’accesso scolastico e pene pecuniarie, inclusa la minaccia di sospensione della responsabilità genitoriale, «con i dirigenti scolastici a fare da delatori di regime: una misura ingiustificata e coercitiva (nessuna necessità e urgenza), nonché odiosamente classista (con poteri parascientifici di eliminare l’ipotetico virus tramite pizzo di Stato) palesemente anticostituzionale (ma anche contraria a una serie di carte internazionali fra le quali la Convenzione di Oviedo, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, il mai troppo citato Codice di Norimberga che vieta sperimentazioni su esseri umani e, recentemente, la sentenza della Corte Europea per i Diritti Umani che stabilisce che le vaccinazioni obbligatorie sono lesive della vita privata dei cittadini».
    Così, il decreto «viene incredibilmente firmato da un costituzionalista come Mattarella» e la sua presunta costituzionalità «viene orwellianamente sancita dal Ministero della Verità grazie al voto favorevole di questi senatori della Repubblica di Oceania». Emanuela Lorenzi denuncia la a-scientificità del decreto, «che impone all’Italia, caso unico al mondo, uno scellerato piano vaccinale interamente firmato Glaxo», tra «frodi e sperimentazioni eugenetiche».  Di fatto, «non esistono studi di sicurezza su 12 vaccini combinati fatti a un bimbo di pochi mesi», e neppure su quelli singoli, «in quanto i vaccini sono considerati presidi di prevenzione, e non farmaci, e sono di fatto i farmaci meno sicuri al mondo testati direttamente sui bambini». Dietro alla creazione dei vaccini combinati come l’esavalente «ci sono le grasse risate di Jean Stèphane, direttore della Glaxo Smith Kline, che spiega il trucco dell’antiepatite B davanti ad una platea di dirigenti». Vaccini che «non sono fatti per fare “meno punture” al bambino, come vorrebbe la propaganda per acquietare le mamme ansiose». Si tratterebbe di sperimentazioni imprudenti, sulla pelle dei bambini, con vaccini come l’antinfluenzale il cui «fallimento» sarebbe ormai «dimostrato da studi inequivocabili».
    E mentre in Svizzera il Consiglio federale si pronuncia per il rimborso delle cure omeopatiche (ma anche della medicina cinese, antroposofica, fitoterapica) a tempo indeterminato, l’Italia «conduce una battaglia cieca nei confronti di queste medicine», visto che «la salute fa troppa concorrenza alla malattia», sottolinea Lorenzi. «Alzando lo sguardo, è slittata al Senato l’approvazione del Ceta, accordo che quasi in segreto attribuisce alle multinazionali gli stessi privilegi del più noto Ttip, consentendo loro di inibire i legislatori degli Stati citando i governi nazionali presso i tribunali sovranazionali con l’obiettivo di chiedere risarcimenti in caso di regolamentazioni avverse al loro interesse. La vedete adesso la cornice?». Tutto si tiene, a quanto pare: «Siamo noi l’investimento della Glaxo». Siamo nel “frame” di cui parla spesso Marcello Foa: è «il recinto dell’immaginario che fa da contorno a tutti i pensieri già pensati da altri e dentro il quale il gregge può muoversi belando le stesse menzogne all’infinito». Dentro al “frame” delle vaccinazioni, «la narrazione già vista assicura sudditanza financo nella sceneggiatura con i dettagli nostrani, incluso il vergognoso sciacallaggio della morte di un bambino».

    «Radio e giornali continueranno a parlare di democrazia e di libertà, ma quelle due parole non avranno più senso. Intanto l’oligarchia al potere, con la sua addestratissima élite di soldati, poliziotti, fabbricanti del pensiero e manipolatori del cervello, manderà avanti lo spettacolo a suo piacere». Così Aldous Huxley in “Brave New World Rivisited”, 1958. «La vedete la cornice?», scrive Emanuela Lorenzi su “Come Don Chisciotte”, scandalizzata dall’assordante silenzio del mainstream sul decreto-mostro dei 12 vaccini obbligatori. Disinformazione: già nel 2015 si apprese a Washington che gli “untori” contagiosi potrebbero essere proprio «gli individui vaccinati di recente». Lo ricorda il Comilva, comitato per la libertà vaccinale. A tal proposito, la “guida per i pazienti” dell’ospedale John Hopkins in caso di immunodepressione raccomanda di «evitare il contatto» con i bambini appena vaccinati. Si raccomanda ad amici e familiari di «non fargli visita», se i vaccini in questione sono contro varicella, morbillo, rosolia, influenza, poliomielite e vaiolo.

  • Sulla Luna con Alì, ogni giorno un miracolo di giustizia epica

    Scritto il 06/6/16 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Forse bisogna essere stati molto giovani negli anni Settanta, o meglio ancora ragazzini, per capire cosa significasse davvero Muhammad Alì. Perché oggi è abbastanza normale che un campione non parli solo di sport, non è consueto però è normale, ma allora no. Alì che diceva all’America: prendetevi tutto, il titolo mondiale dei pesi massimi, i soldi, la libertà, ma non vi prenderete me. E come lo diceva, poi. Faceva solo finta di essere cattivo, cattivissimo, invece era un simpatico sbruffone, era un comico. I bambini gli morivano dietro perché Alì era un eroe dei cartoni, velocissimo e imbattibile, gommoso e immortale. E non aveva la faccia piena di pugni. Era l’amico più grande che ti salva dagli agguati della banda rivale, quella delle case Gescal. Era molto più tamarro di loro ed era un dio. Un dio tamarro. Aveva le nappine che ballavano nelle scarpette, una volta almeno le indossò. E la sua danza era ritmata da quel movimento, le frange andavano su e giù e dovevi deciderti: o guardavi i pugni o guardavi i piedi. Tutto troppo rapido per qualunque occhio.
    Lo zio lo chiamava ancora Cassius Clay perché non gli riconosceva il valore simbolico, ma lui mica votava comunista come papà. Invece, papà aveva capito bene il senso di quel ciclope furioso e gentile: il signor campione Muhammad Alì aveva mandato a quel paese la guerra del Vietnam e il presidente degli Stati Uniti, e per questo bisognava tifare solo per i suoi guantoni. Erano un segno di libertà per tutti, anche per gli operai di Settimo Torinese e Crotone, Scampia e Taranto, non soltanto per i neri americani e africani. Alì combatteva per tutti gli oppressi: dunque, per una volta si poteva restare alzati la notte e vederlo fare a pugni in tivù contro il nero venduto al potere, cioè Foreman. La prima veglia era stata per lo sbarco sulla Luna. La seconda per Italia-Germania. La terza, per quella battaglia nella giungla. Ecco, per capire davvero chi è morto l’altra notte (morto? ma figuriamoci) bisogna proprio tener conto dello spessore assoluto della storia che si andava vivendo, e raccontando allora.
    C’erano, in quel tempo memorabile, solo personaggi epici: il comandante Neil Armstrong, Gigi Riva, Pelè e Muhammad Alì. Per forza, poi, da grande ti avrebbero mandato al liceo classico. Altro che Odisseo e Socrate, i grandi della storia noi li vivevamo tutti i giorni, Omero metteva solo le didascalie. Prese un sacco di pugni per cinque round. Il venduto Foreman lo stava gonfiando come una zampogna. Ma lui niente, lui sempre in piedi a pigliare in giro quell’altro. Mi deludi, George. Non sai fare di meglio? Sei diventato debole, amico. Sei stanco? E Foreman picchiava come un pazzo, sprecando così ogni energia. Lo zio però pensava che al prossimo cazzotto ben dato, Alì sarebbe finito al tappeto. Invece papà era sicuro del contrario, i suoi occhi dicevano “stai tranquillo, figlio mio, alla fine i giusti vincono sempre”. All’ottava ripresa, infatti, Mohammad tirò un cartone dell’altro mondo al venduto che vacillò e andò a terra come morto. E Alì lo guardava cadere, stava per colpire ancora Foreman ma non lo fece, trattenne il guantone, sapeva che non ci sarebbe stato bisogno di niente di più, forse non voleva sfigurare il volto del nemico. Con quel pugno fantastico lo aveva già umiliato abbastanza, e si stava riprendendo tutto: il titolo mondiale, la gloria, l’orgoglio, un pezzo del suo passato e l’amore del mondo intero e dell’umanità: tutta, senza eccezioni. A parte lo zio.
    E poi ci fu quell’altra sera. Aspettavamo l’ultimo tedoforo nello stadio di Atlanta e quando comparve Alì, quando realizzammo che non era una visione mistica ma era invece tutto vero, ci sentimmo esattamente dentro la storia, quella da raccontare più ai nipoti che ai lettori. La torcia tremante nel pugno stretto di Muhammad Alì: eppure nulla era stato più fermo e più nitido, più esatto e definitivo, mai. La mano era la stessa dell’autografo, cinque anni prima. Alì a Torino per una manifestazione dell’Uisp, l’enorme silenzio quando lui entrò nella Reggia di Venaria. Barcollava e taceva. Poi gli misero sotto il naso dei cartoncini da firmare e Alì sedette assorto come un bimbo delle elementari: la mano guidava lentissimamente la penna che solcava la carta come un aratro. Veniva voglia di dirgli “scusi Alì, veramente, ci perdoni, siamo dei coglioni a farle fare questo sforzo immane, è lo stesso, lasci stare, non importa” e invece niente, il trofeo d’inchiostro si andava componendo sul foglio e sta ancora lì, appeso al muro, solo un po’ sbiadito.
    E poi i libri, certamente. Gli articoli, alcuni bellissimi. Gianni Minà, Emanuela Audisio. E poi “The fight” di Norman Mailer, tradotto chissà perché “La sfida” da Einaudi, un romanzo e non solo un reportage: la penna era la stessa che aveva raccontato il Vietnam e l’epopea dei primi astronauti. Ai ragazzi delle scuole di giornalismo forse basterebbe dare da leggere Mailer. Ecco perché Muhammad Alì è stato, semplicemente, il più grande atleta di tutti i tempi. Non solo per le vittorie, quelle le hanno ottenute anche Coppi e Carl Lewis, Federer e Michael Jordan, Maradona e Nuvolari. Alì è stato il più grande nel rapporto tra immenso ingombro sportivo e gigantesca valenza sociale, umana, culturale e politica. Nessuno come lui, in questo. Ovunque sia lo zio, ora sarà d’accordo pure lui.
    (Maurizio Crosetti, “Muhammad Ali, quel ciclope furioso e gentile che faceva finta di essere cattivo”, da “La Repubblica” del 4 giugno 2016).

    Forse bisogna essere stati molto giovani negli anni Settanta, o meglio ancora ragazzini, per capire cosa significasse davvero Muhammad Alì. Perché oggi è abbastanza normale che un campione non parli solo di sport, non è consueto però è normale, ma allora no. Alì che diceva all’America: prendetevi tutto, il titolo mondiale dei pesi massimi, i soldi, la libertà, ma non vi prenderete me. E come lo diceva, poi. Faceva solo finta di essere cattivo, cattivissimo, invece era un simpatico sbruffone, era un comico. I bambini gli morivano dietro perché Alì era un eroe dei cartoni, velocissimo e imbattibile, gommoso e immortale. E non aveva la faccia piena di pugni. Era l’amico più grande che ti salva dagli agguati della banda rivale, quella delle case Gescal. Era molto più tamarro di loro ed era un dio. Un dio tamarro. Aveva le nappine che ballavano nelle scarpette, una volta almeno le indossò. E la sua danza era ritmata da quel movimento, le frange andavano su e giù e dovevi deciderti: o guardavi i pugni o guardavi i piedi. Tutto troppo rapido per qualunque occhio.

  • Quando nel mondo c’era ancora posto per Muhammad Alì

    Scritto il 05/6/16 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Il primo a usare lo sport come arma politica e umanitaria, il primo a togliere violenza alla boxe, inserendo velocità, intelligenza e leggerezza al posto della potenza. Così l’amico Gianni Minà ricorda “il più grande”, Muhammad Alì, l’unico showman della seconda metà del ‘900 capace di far arrivare il suo pensiero ovunque, attraverso interviste improvvisate e conferenze stampa a ritmo di rap. Metamorfosi: da Cassius Marcellus Clay, ragazzo di Louisville allevato dalla buona borghesia bianca, a campione della Nation of Islam, quella di Malcom X e delle Black Panthers. La medaglia d’oro vinta a Roma e gettata nel fiume dopo l’affronto subito in un ristorante di New York che si era rifiutato di servirlo in quanto afroamericano, poi l’arresto – e il lungo esilio dalle competizioni – per l’obiezione di coscienza contro il servizio militare («nessun Vietcong mi ha mai chiamato “negro”»). E ancora: la sfolgorante affermazione del suo stile sul ring (“danzerò come una farfalla, pungerò come un’ape”), la sfida contro il devastante Sonny Liston, l’epica resurrezione del ‘74 contro Foreman, lo spaventoso incontro-capolavoro dell’anno seguente a Manila contro il rivale di sempre, l’immenso Joe Frazier.
    «Un uomo che a 50 anni la pensa come a 20 ha sprecato 30 anni della sua vita» amava ripetere Muhammad Ali, il campione di pugilato nato in Kentucky in una famiglia afroamericana con antenati bianchi, scrive Gianni Riotta su “La Stampa”, in morte del campione. «Nella sua vita Ali cambiò nome, religione per tre volte, prima cristiano, poi aderente alla setta estremista Nazione dell’Islam che considerava i bianchi “diavoli”». Poi «si unì all’Islam sunnita ortodosso, ma con alcune pratiche della filosofia Sufi». Alì, continua Riotta, «aveva cambiato il codice del boxeur, mai schivare i colpi ma testa indietro a eluderli, irridendo gli uppercut, guardia bassa contro ogni regola, ad invitare i pugni senza paura». Dopo di lui, l’espressione “messo alle corde” ha cambiato significato: «Alì si sdraiava al limite del ring e assorbiva i colpi dell’avversario, trasformando il proprio corpo in punching ball da allenamento. La sua capacità di assorbire la sofferenza commosse i tifosi, nella sconfitta al vecchio Madison Square Garden di New York contro Frazier, 15 round di massacro con lo scrittore Norman Mailer a fare il cronista e Frank Sinatra a scattare foto».
    Stessa tattica nel 1974 a Kinshasa, in Zaire, contro Foreman, «la folla a gridare “Ali Bòmaye”», Alì uccidilo! «Per 8 round Ali si sacrifica incassando colpi che avrebbero ucciso tanti altri pugili, poi atterra Foreman». L’anno dopo, a Manila, Alì soffre contro Frazier, vince e confessa: è stato come morire. «Ora sappiamo che era davvero “morire”», scrie Riotta. «L’Ali tremante che accende il braciere olimpico ad Atlanta 1996 soffriva di un morbo di Parkinson che molti medici credono accelerato dai colpi subiti. Aveva fatto in tempo a liberare alcuni ostaggi americani, sequestrati da Saddam alla vigilia della I Guerra del Golfo, 1990, e la Casa Bianca di Bush padre lo criticò, “showman”. Durante la missione a Baghdad gli finirono le medicine contro il Parkinson, faticava a parlare, alzarsi dal letto, e si diffuse la voce che fosse incapace, invalido, poco lucido. E l’11 settembre 2001, il cronista di “Selezione” dal “Reader’s Digest” andò a trovarlo nella sua tenuta di Berrien Springs, in Michigan, 88 acri di campagna, e gli chiese cosa pensasse davanti al blitz dei fondamentalisti islamici. Ali ripeté, con la parlata strascicata che botte e malattia gli aveva inflitto, la sua fede, Islam è religione di pace, uccidere donne, uomini e bambini innocenti non è da musulmani credenti nel Corano».
    «La boxe è l’imitazione di una lotta per la vita o per la morte, perché a volte i pugili muoiono sul ring o per le conseguenze di un combattimento – le loro vite, accorciate dallo stress e dai colpi ricevuti. La vita sul ring è ingrata, brutale e corta», scrive Joyce Carol Oates nella perfezione del suo saggio “Sulla Boxe”. «Di questa mattanza – conclude Riotta – Alì fu The Greatest davvero, eroe imperfetto della virtù più rara nei nostri giorni del rancore: crescere, maturare, sbagliare, correggersi, cambiar idea, restando se stessi nel cuore». L’ultima uscita pubblica è stata contro il proclama di Donald Trump sul divieto di ingresso dei musulmani in America: una discriminazione anche contro i cittadini Usa, misura che l’avrebbe riguardato di persona. Alì era stato in rapporti amichevoli con l’impresario Trump, ma ora era «impaurito per l’odio che vedeva montare nel suo paese e nel mondo». Al congedo da Kinshasa, nel memorabile docu-film “Quando eravamo re”, di Lion Gast, all’aeroporto il trionfatore Alì accarezza i bambini congolesi che lo festeggiano: «Voi siete buoni, non avete idea di come sia il posto da cui vengo io». Ed era solo il 1974: un mondo in cui c’era ancora posto per un eroe come Muhammad Alì.

    Il primo a usare lo sport come arma politica e umanitaria, il primo a togliere violenza alla boxe, inserendo velocità, intelligenza e leggerezza al posto della potenza. Così l’amico Gianni Minà ricorda “il più grande”, Muhammad Alì, l’unico showman della seconda metà del ‘900 capace di far arrivare il suo pensiero ovunque, attraverso interviste improvvisate e conferenze stampa a ritmo di rap. Metamorfosi: da Cassius Marcellus Clay, ragazzo di Louisville allevato dalla buona borghesia bianca, a campione della Nation of Islam, quella di Malcom X e delle Black Panthers. La medaglia d’oro vinta a Roma e gettata nel fiume dopo l’affronto subito in un ristorante di New York che si era rifiutato di servirlo in quanto afroamericano, poi l’arresto – e il lungo esilio dalle competizioni – per l’obiezione di coscienza contro il servizio militare («nessun Vietcong mi ha mai chiamato “negro”»). E ancora: la sfolgorante affermazione del suo stile sul ring (“danzerò come una farfalla, pungerò come un’ape”), la sfida contro il devastante Sonny Liston, l’epica resurrezione del ‘74 contro Foreman, lo spaventoso incontro-capolavoro dell’anno seguente a Manila contro il rivale di sempre, l’immenso Joe Frazier.

  • Trotsky e Cia, rivoluzione e golpe: da Kiev alla rivolta Usa

    Scritto il 29/11/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Auto rovesciate da una massa brulicante di manifestanti inferociti, edifici che vomitano denso fumo nero dai vani vuoti delle finestre, manipoli di rivoltosi che al crepuscolo si riscaldano attorno ai copertoni in fiamme, saccheggi dei negozi al calare della notte, pungente odore di lacrimogeni, anonimi poliziotti equipaggiati come truppe d’assalto, decine di arresti e minaccia di incarcerazione di massa per chi occupa i luoghi pubblici. Kiev, Ucraina, novembre 2013? No, Missouri, Stati Uniti, novembre 2014. C’è un parallelismo tra le due rivolte? C’è la possibilità che negli Stati Uniti, come in Ucraina, la piazza arrivi a rovesciare un governo eletto? Oppure gli Usa, il cui establishment è protetto da una pletora di polizie e agenzie segrete, sono ancora troppo opulenti, troppo policés, per cadere sotto i colpi della sollevazione popolare?
    Altro autunno caldo, quello russo del 1917. Si scontrano due visioni di come portare a compimento la rivoluzione: quella di Vladimir Lenin e quella di Leon Trotsky. Il primo si affida alle circostanze russe in quel preciso momento storico per rovesciare il governo Kerenskij e instaurare la dittatura del proletariato. Il secondo, vera mente grigia della rivoluzione d’ottobre, sostiene che sarebbe in grado di abbattere un governo indifferentemente a Londra, Berna o Amsterdam: le condizioni sociali del paese passano in subordine rispetto alla corretta tecnica di colpo di Stato. Serve una élite di rivoluzionari, vere truppe d’assalto, che colpiscano i gangli dello Stato: la miglior polizia del mondo non potrebbe nulla contro un colpo di mano che esuli dal mantenimento dell’ordine pubblico ed attacchi il sistema nervoso della cosa pubblica. Vince Trotsky, che, espugnato il Palazzo d’Inverno, è premiato con il comando della neonata Armata Rossa: il suo potere crescerà a tal punto da costringere la troika (quella originale, con l’omonimo direttorio neo-sovietico di Bruxelles) a esiliarlo.
    Morirà nel 1940, ucciso in Messico da un agente sovietico. I suoi insegnamenti continuano però ad essere studiati e siamo certi che alla Cia, dove sono stati coltivate in vitro le rivoluzioni di Libia, Siria, Egitto, Tunisia ed Ucraina, le tecniche del vecchio Trotsky siano ancora accuratamente sviscerate. Torniamo alla domanda di prima: le rivolte che infuocano il Missouri e la periferie della grandi città americane sono i prodromi di una potenziale rivoluzione americana, seguita a ruota da un regime change in stile ucraino? La risposta è sì. La differenze sostanziale è che nel caso di Euromaidan, qualcuno (Washington e Berlino) ha applicato correttamente i vecchi principi di Trotsky, investendo denaro, mezzi e uomini. Nel caso del Missouri, manca una potenza straniera o un partito politico autoctono che abbia la volontà e la capacità di giocare fino in fondo la partita, espugnando la Casa Bianca. Con il denaro e gli uomini giusti, tutto è però possibile, anche l’impensabile. Ci cimenteremo quindi in una partita di fantacalcio sui generis e proveremo a rovesciare il presidente Barack Obama e ad instaurare un governo rivoluzionario, amico delle minoranze colorate e rispettoso della nostra sfera di influenza sullo scacchiere internazionale. Emuleremo quanto fatto dalla Cia in Ucraina, ricordando però che il maestro in materia, diamo a Cesare quel che è di Cesare, rimane sempre Leon Trotsky.
    Euromaidan e le rivolta di Ferguson: l’antefatto. Ogni rivoluzionario, ieri come oggi, ha come obbiettivo il rovesciamento dell’ordine vigente e dei suoi rappresentanti che, giustamente, si difendendo con le unghie e con i denti prima di soccombere. Di norma i rivoluzionari, se escono vivi e vittoriosi dall’avventura, abbelliscono con un manto di costituzionalità il neonato sistema, ma la loro azione è sempre illegale, finché non assurgono loro stessi a legislatori. Ciascun rivoluzionario, invece, opera in un contesto storico, politico e geografico ben preciso. Vediamo i casi dell’Ucraina e del Missouri. In Ucraina il terreno di coltura per l’insurrezione è rappresentato dalle tensioni tra ucrainofoni dell’ovest e russofoni dell’est, mentre lo scopo della rivoluzione è il posizionamento di Kiev nell’orbita Ue-Nato, sottraendola all’influenza di Mosca e alla nascente Unione Euroasiatica. Il 28 novembre 2013 il presidente ucraino Viktor Yanukovich rifiuta di siglare l’accordo di associazione con l’Unione Europea, firmando così la sua condanna: a Washinton si decide di rovesciarlo contando sulla complicità del governo tedesco guidato da Angela Merkel. Nella piazza centrale di Kiev, ribattezzata Euromaidan dall’emittente radiofonica americana “Radio Free Europe”, compaiono i primi assembramenti. La tensione, giorno per giorno, sale.
    In Missouri il fattore scatenante della rivolta è l’omicidio dell’afroamericano Michael Brown, ucciso a Ferguson il 9 agosto del 2014 da un agente di polizia bianco dopo un presunto furto di sigari. La morte di Brown riaccende tensioni da sempre latenti negli Usa: la segregazione razziale, il Southern Manifesto, l’assassinio di Martin Luther King, il disagio sociale, etc. Le proteste richiedono un primo intervento delle forze speciali per sedare la rivolta: l’ordine pubblico è “militarizzato”. Poi riesplodono dopo la controversa decisione del gran giurì della contea di St. Louis di non processare il poliziotto per l’omicidio di Michael Brown: i disordini si diffondono a macchia d’olio nelle periferie delle principali città americane ed agli afroamericani si uniscono gli indigenti bianchi. Lo scopo della nostra rivoluzione sarà rovesciare l’establishment americano e istaurare un governo che smantelli la rete di basi americane in giro per il mondo e dirotti sulla spesa sociale le risorse assorbite dal complesso militare-industriale. Sarà una rivoluzione al grido di “più burro e meno cannoni!”
    Euromaidan e Missouri-maidan: lo svolgimento. Se il congresso dei Soviet avesse fatto affidamento su Lenin e sull’ineluttabilità della dittatura del proletariato, oggi la coppia più glamour sarebbero senza dubbio il rampollo di casa Romanov e un’hostess di San Pietroburgo. Le rivoluzioni non cascano dall’albero come pere mature e, perché siano coronate da successo, insegna Leon Trotsky, servono veri esperti della sovversione. Vediamo come la Cia si è mossa in Ucraina e come agiremo noi negli Usa. Prima regola: niente soldi, niente rivoluzione. Creare un nucleo di professionisti della rivoluzione, pagare loro uno stipendio, studiare e diffondere la propaganda, spostare e istruire gli attivisti, distribuire telefoni, radio, armi ed esplosivo, costa. E tanto. Il Dipartimento di Stato americano, per ammissione di Victoria Nuland, e la “Open Society Foundation”, un’organizzazione Cia di cui probabilmente George Soros è solo un prestanome, hanno investito diversi miliardi di dollari nelle due rivoluzione ucraine: quella arancione del 2004, poi abortita, e quella contro Yakunovich del 2013.
    Se l’obiettivo della rivoluzione ucraina è disarcionare gli oligarchi filorussi per sostituirli con oligarchi filoamericani, ai media compiacenti e all’opinione pubblica si vende merce più appetibile: lotta contro la corruzione, la cleptocrazia e la brutalità del regime oppressore, poco importa se legittimamente eletto. Quindi, impostata l’insurrezione sulla dialettica “libertà vs. oppressione”, bisogna esacerbare lo scontro di piazza, provocando le forze dell’ordine o addossando loro efferati crimini. Per quest’operazione la Cia si serve dei nazionalisti di “Settore Destro” e degli hooligans con un lungo curriculum di guerriglia alle spalle: i cecchini che aprono il fuoco sulla folla nel febbraio del 2014 e preparano il terreno per la precipitosa fuga di Yakunovich provengono dalle file dei movimenti di estrema destra. Ne parlano in una telefonata intercettata Catherine Ashton ed il ministro degli esteri estone Urmas Peat.
    Ora, prendiamo in mano la caotica rivolta dei sobborghi afro-americani e trasformiamola in una coesa ed efficiente macchina rivoluzionaria. Dobbiamo per prima cosa dare loro qualche spicciolo per fare la guerriglia. Come il mecenate della Leopolda renziana, David Serra, apriamo una società finanziaria alla Cayman, oppure a Singapore o Abu Dhabi, dove dirottiamo le risorse che il nostro governo destina ai paesi del terzo mondo e alla cooperazione economica. Quindi apriamo tre Ong in altrettanti Stati africani (Etiopia, Sudan, Angola) su cui convogliano i fondi. Le Ong sono scatole vuote e a rappresentarle ci sarà un solo impiegato, seduto in un modesto ufficio, che risponda al telefono e gestisca il sito Internet. Le organizzazioni, infatti, denominate “Amici africani del Missouri”, “Fratelli Etiopi per l’America” e “Marxisti-leninisti d’Africa”, sono solo il paravento dietro cui occulteremo il trasferimento di soldi alla protesta afro-americana negli Usa.
    I nostri attivisti iniziano quindi una capillare opera di sensibilizzazione e proselitismo tra le minoranze di colore americane: fondazioni, convegni, manifestazioni, giornate della memoria, spettacolari azioni di protesta, campagne virali su Internet, inserzioni pubblicitarie, etc. Due sono i punti su cui ci focalizziamo: la discriminazione delle minoranze e la rapacità del governo federale che, con le insostenibili spese militari, sottrae soldi al welfare. La fascia più ampia possibile della popolazione deve famigliarizzare con il nostro messaggio, in modo che non ci sia ostile quando entreremo in azione, mentre nel frattempo selezioneremo una minoranza che sia politicamente attiva. Quindi, ricordando la massima che la rivoluzione non è un pranzo di gala, ci occorre l’equivalente del “Settore Destro” in Ucraina: la truppa d’assalto che faccia il lavoro sporco. Nel nostro caso, mentre la Cia ha pescato nell’estremismo di destra, noi faremo affidamento sugli eredi dei “Black Panthers”, un movimento di ispirazione socialista che abbracciò anche la lotta armata per difendere i diritti dei negri negli anni ’60 e ‘70. La punta di diamante sarà il redivivo “Black Liberation Army”, il superclan dentro i “Black Panthers”: i nostri istruttori militari ne addestreranno i membri nei campi allestiti in Venezuela e Bolivia. Tutte le pedine sono al loro posto: Viktor Yakunovich e Barack Obama, tremate!
    Euromaidan e Missouri-maidan: l’epilogo. I colpi di Stato bonapartisti (Napoleone che circondato dai granatieri scioglie il Direttorio, oppure Benito Mussolini che riceve dal Re la guida dell’esecutivo sull’onda della Marcia su Roma) si addicono ormai solo ai dei paesi in via di sviluppo, dove per il presidente di turno controllare l’aeroporto internazionale è ancora di gran lunga più importante che controllare l’account Twitter. In Occidente, oggi, i colpi di Stato si giocano sul concetto di legittimità: il governo in carica può disporre delle forze armate al loro completo, controllare centrali elettriche, acquedotti, snodi ferroviari e stradali, telecomunicazioni e dorsali Internet, ma non può approntare nessuna difesa se la rivoluzione lo ha delegittimato. Privato dell’autorevolezza, il governo è svuotato di ogni potere e, come un novello Cesare, cade senza reagire sotto le pugnalate dei congiurati. Come la Cia ha rovesciato Viktor Yakunovich creando una situazione dove la difesa di un governo democraticamente eletto è resa impossibile da un’opinione pubblica indignata dalle presunte brutalità della polizia, così noi rovesceremo Barack Obama. Serve a poco disporre della Swat, della Sesta Flotta o degli F-35, se l’opinione considera criminale qualsiasi azione compiuta dal governo: la delegittimazione è l’arma del nuovo rivoluzionario occidentale.
    Nel dicembre del 2013 Viktor Yakunovich, spaventato dai moti di piazza di Kiev, torna sui propri passi e si dice pronto a firmare l’accordo di associazione con la Ue: Washington giudica la mossa un semplice diversivo e procede con il rovesciamento del presidente. A gennaio volano le molotov, si contano i primi morti tra i manifestanti e l’opposizione “politicamente presentabile” chiede le immediate dimissioni di Yakunovich. Il presidente dispiega le teste di cuoio, i Berkut, in Piazza dell’Indipendenza, dove fronteggiano assalti sempre più aggressivi. Il crescendo rossiniano culmina con l’azione dei cecchini che aprono il fuoco sui manifestanti e sulle forze di polizia: è il 20 febbraio. Il 21 febbraio Yakunovich lascia Kiev e il 22 il Parlamento nomina un presidente ad interim, filoamericano, ça va sans rien dire. La tecnica dei cecchini che aprono il fuoco sulla folla è stata largamente impiegata anche in Tunisia, Libia, Egitto e Siria durante la “primavera araba” targata Cia.
    Vediamo ora come concludere il nostro regime change americano. Per tutto il mese di dicembre la tensione è mantenuta alta attraverso la protesta: i manifestanti reclamano la fine della discriminazione razziale, pari opportunità di lavoro, investimenti per le periferie e più controlli sulla condotta della polizia. Negli Stati dove la presenza di afro-americani è più forte la tensione sale: dal Missouri alla Florida, dal Texas a New York gli scontri con le forze dell’ordine avvengono a cadenza giornaliera. La nostra rete è due volte attiva: da una parte organizza le proteste e alza il tono dello scontro, dall’altro documenta con dovizia di particolari la reazione della polizia, esasperandone l’aspetto brutale e repressivo. Si diffonde il malcontento tra le forze dell’ordine e si ricorre con meno remore alla violenza. Verso la fine di dicembre c’è il salto di qualità: un nostro agente della “Black Liberation Army” piazza una bomba in una stazione di polizia di Atlanta. Si contano decine di morti e gli ambienti politici più oltranzisti evocano misure straordinarie per riportare l’ordine. Il presidente Obama, già politicamente debole, precipita nei sondaggi: pusillanime per i repubblicani e incapace di leggere la realtà per i “liberal”.
    Quindici gennaio 2015: una grande folla marcia per le vie di Atlanta commemorando la nascita di Martin Luther King. Il corteo è seguito passo a passo dalle forze dell’ordine. La tensione è palpabile. Scoppia un tafferuglio e si sentono spari: i cecchini della “Black Liberation Army” hanno abbattuto due agenti di polizia che si accasciano esanimi al suolo. Le forze dell’ordine, prese dal panico, rispondono al fuoco. È strage. La situazione negli Stati Uniti è fuori controllo. La Casa Bianca è circondata da una folla inferocita che esige giustizia e degne condizioni di vita: la rivolta da razziale è diventata sociale, e alle minoranze di colore si sono aggiunti i giovani disoccupati e il popolo dei padri di famiglia costretti a un lavoro part-time. A Barack Obama, rifugiatosi a Camp David, sottopongono l’ordine esecutivo per la proclamazione della legge marziale. Qualche giorno dopo, un solitario visitatore, camminando negli ambienti spogli e vandalizzati della ex-villa presidenziale, trova sul pavimento l’ordine esecutivo con la firma in calce del presidente. Missouri-maidan si è conclusa con successo. Euromaidan è realtà, Missourimaidan è finzione. Ma come la Cia ha pilotato la “primavera araba” e la cacciata di Yakunovich, non abbiamo nessuno dubbio che un efficiente servizio segreto saprebbe guidare una rivoluzione anche negli Usa. Leon Trotsky insegna che non sono le circostanze a rendere il terreno fertile alla rivoluzione, ma i bravi rivoluzionari che sanno coltivare anche il terreno meno fertile.
    (Federico Dezzani, “Missouri-Maidan”, da “Come Don Chisciotte” del 27 novembre 2014).

    Auto rovesciate da una massa brulicante di manifestanti inferociti, edifici che vomitano denso fumo nero dai vani vuoti delle finestre, manipoli di rivoltosi che al crepuscolo si riscaldano attorno ai copertoni in fiamme, saccheggi dei negozi al calare della notte, pungente odore di lacrimogeni, anonimi poliziotti equipaggiati come truppe d’assalto, decine di arresti e minaccia di incarcerazione di massa per chi occupa i luoghi pubblici. Kiev, Ucraina, novembre 2013? No, Missouri, Stati Uniti, novembre 2014. C’è un parallelismo tra le due rivolte? C’è la possibilità che negli Stati Uniti, come in Ucraina, la piazza arrivi a rovesciare un governo eletto? Oppure gli Usa, il cui establishment è protetto da una pletora di polizie e agenzie segrete, sono ancora troppo opulenti, troppo policés, per cadere sotto i colpi della sollevazione popolare?

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