Archivio del Tag ‘Barolo’
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Il disastro del lockdown e i valori dei poeti del vino italiano
Per capire quanto in profondità abbia colpito, l’epocale coprifuoco “cinese” istituito dall’Italia di fronte alla comparsa del coronavirus, basta fare un giro tra le colline del vino: alla vigilia dell’estate erano una meta ambitissima del turismo internazionale, e adesso sono un deserto. Export bloccato e cantine con montagne di bottiglie rimaste invendute, winery desolatamente vuote e ristoranti con ai tavoli solo qualche italiano, regolarmente distanziato e costretto a indossare la mascherina. Vale anche per le Langhe, le colline di Pavese e Fenoglio che videro esplodere un clamoroso boom economico a partire dagli anni Novanta grazie ai cosiddetti Barolo Boys, i ragazzi che rivoluzionarono l’antico vino nobile dei Savoia mettendosi a vinificarlo alla francese, affinandolo in botte piccola. Dalle Langhe all’America il passo è stato brevissimo: in un amen, a Barolo e dintorni s’è cominciato a parlare soprattutto inglese, in mezzo a tedeschi e svizzeri, belgi e giapponesi. E’ fiorita una specie di Toscana, in un angolo di Piemonte che portava ancora i segni dell’atavica povertà contadina: persino Bob Dylan ha voluto partecipare ai concerti di “Collisioni”, in quell’isola di vigneti con attorno wine-tasting, cantine di design interrate e climatizzate, bed & breakfast e cucine di charme, wine-bar di stampo newyorkese. Una specie di Rinascimento cosmopolita, con tanto di università: la scuola superiore di scienze gastronomiche aperta a Pollenzo da Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food.Tutto sta a rimboccarsi le maniche, ancora una volta? Lo assicura un genio del marketing come Oscar Farinetti, che in mezzo a quei vigneti è cresciuto. Ha ragione? Solo a metà: giusto attingere all’ottimismo della volontà, mobilitando risorse anche morali per fronteggiare una crisi paurosa, cercando di trasformarla in un’occasione per riconvertire l’economia, premiando il profilo anche ecologico del “food & wine”. Ma forse i conti sarebbe meglio farli con l’oste, cioè con il convitato di pietra della grande depressione: la macroeconomia, questa sconosciuta. Se privatizzi il pianeta, appaltando la politica a piccoli mestieranti locali, puoi scordarti che lo Stato abbia il potere – aiutando, agevolando, detassando – di far decollare l’economia privata. Il visionario patron di Eataly – che ha fatto davvero moltissimo, per far brillare il sistema-Italia nel mondo, e pure in anni difficili – viene da una tradizione socialista: il padre partigiano, poi vicesindaco di Alba. L’Italia che seppe rimboccarsele davvero, le maniche, era quella del dopoguerra: miracolata dal Piano Marshall e poi trainata dall’economia mista alimentata dal colosso Iri, il più grande complesso industriale d’Europa. Un sistema smantellato in modo brutale prima con la “privatizzazione” del debito pubblico e poi con la svendita dei maggiori asset pubblici, strategici per il Made in Italy.Per un capriccio della storia, proprio nel periodo più buio per l’Italia – la grande precarizzazione, le delocalizzazioni selvagge, la folle austerity imposta dall’Ue – ha potuto fiorire, di colpo, il paradiso del vino. Anno dopo anno, i numeri di Vinitaly hanno stracciato ogni record, facendo volare l’intero sistema vinicolo italiano, dalla Val d’Aosta alla Sicilia, con fenomeni-mostro come il Prosecco e i suoi 800 milioni di bottiglie vendute in tutto il pianeta. La festa sembrava non dovesse finire mai, nelle colline piemontesi – Langhe, Monferrato – ora elevate al rango di patrimonio paesaggistico dell’umanità sotto la tutela delle Nazioni Unite, attraverso l’Unesco. Un volano formidabile: paesini fino a ieri sconosciuti, trasformati all’improvviso in mete internazionali, con un indotto virtuoso e declinato a livello “glocal”, all’insegna della valorizzazione dell’ambiente e della genuinità delle filiere corte. In questo piccolo paradiso, c’è un’area Unesco quasi altrettanto nota – il Roero, sulla riva sinistra del Tanaro proprio di fronte ad Alba e Barbaresco – che di bottiglie ne produce solo 8 milioni, cioè la centesima parte del potenziale di fuoco di Treviso e Valdobbiadene. Un mondo di artigiani: il loro passaporto per gli Stati Uniti si chiama Arneis, un bianco che tradizionalmente era il meno prestigioso, tra i vitigni coltivati su quelle colline.Nomi che hanno fatto storia, nel Piemonte vinicolo – Ceretto, Negro – hanno ripescato l’Arneis dall’oblio contadino, facendone un signor vino, modernissimo, a suo agio sulle migliori tavole di Tokyio e di Los Angeles. E anche l’Arneis – insieme al Barolo – ha contribuito a trasformare il periferico Piemonte, a lungo rassegnato a languire come entroterra dell’universo Fiat, in un attore di primissima grandezza, nel mondo (felicemente globalizzato, in questo caso) delle degustazioni per veri indenditori. Oggi, anche il sistema-Piemonte piange le amare lacrime del maledetto coronavirus: il Monferrato, patria della Barbera, sconta una contrazione delle vendite che viaggia attorno al 40%. Una specie di ecatombe, da cui non si sa come uscire: c’è chi propone addirittura di mandare al macero il vino invenduto per distillarlo e ricavarne alcol, così da recuperare almeno i costi di produzione. Se nelle Langhe del Barolo il grande silenzio della primavera 2020 resterà negli annali come immane sciagura memorabile, forse il piccolo Roero soffre meno: con la sua economia differenziata (agricoltura mista, tanta frutta), è meno dipendente dal turismo internazionale. «Però anche qui la batosta è stata forte: paragonabile alla grandine che, quarant’anni fa, avrebbe fatto saltare la vendemmia, facendoci perdere un anno intero di lavoro, e quindi di entrate vitali per la famiglia».A parlare è Sergio Marchisio, un autentico pioniere: il primo a spumantizzare l’Arneis, il primo a vinificare il Nebbiolo in anfora. Un’azienda modello, certificata biologica, e con un debole per la biodonamica di Rudolf Steiner. Missione: scommettere innanzitutto sul recupero della fertilità naturale del suolo. «Dopo dieci anni il risultato lo senti nel bicchiere, in termini di pienezza e ampiezza di profumi». La sua cantina, a Castellinaldo d’Alba, sembra uno scrigno di silenziosa energia alchemica: nel ventre della terra riposano anfore panciute, contrassegnate dall’effigie del benefico serpente che avvolge l’uovo primordiale. Impatto zero, pannelli fotovoltaici e verdissimi filari che avvolgono l’officina delle delizie. «Certo, la processione dei turisti venuti da lontano si è interrotta anche qui. Ma non per questo ci scoraggiamo: i nostri valori sono più grandi, più forti del coronavirus». A proposito di valori: se c’è qualcosa di eroico, nel sistema-vino che negli ultimi decenni ha tenuto alta nel mondo l’eccellenza italiana, è la sua capacità di offrire bellezza raffinata, worldwide, attingendo con notevole coraggio alla passione, tipica del miglior Made in Italy, nutrito di praticità artigiana. Il paese crollava – Pil, disoccupazione – e le cantine conquistavano il pianeta, imparando l’inglese e sbalordendo pubblico e critica.Una storia che per certi aspetti sembra dar ragione all’incrollabile ottimismo di Farinetti. E che oggi – di fronte alle macerie del lockdown, tra mercati che franano – fa capire quando può essere feroce questo disastro, che è risucito a spiazzare persino gli invincibili, appassionati guerrieri del grande vino italiano. «Personalmente – confessa Sergio Marchisio – a cambiare il mio modo di vivere e di pensare è stata una frase di Steiner: quella in cui invita a riflettere sul fatto che l’uomo, in fondo, è l’unico abitante del pianeta che riesce ad avvelenare il cibo di cui si nutre». Se è per questo, siamo riusciti ad avvelenare l’acqua, i terreni, i cieli. «Esatto. Ecco perché, se le viti hanno nostalgia del sole, anziché usare prodotti chimici le accontento con semplici micro-cristalli di quarzo, minerale specchiante che conserva in sé la memoria della luce e del calore». Filosofi e poeti, tra i filari? Un amico e collega di Marchisio – Paolo Carlo Ghislandi di Cascina I Carpini, maestro del Timorasso (super-bianco dei Colli Tortonesi) – sa che ai suoi filari piace ascoltare la musica classica: Rachmaninov, di preferenza. E cita una poetessa francese, Colette: «Nel regno vetegale, la vite è l’unica che rende intellegibile, all’uomo, il valore della terra». Quando saremo usciti dall’incubo che ci è piovuto addosso, sarà naturale ripensare a loro, i pensatori-contadini che, custodendo le loro verdissime colline, sembrano rinnovare una specie di promessa, prodigiosamente alchemica. Viene che il sospetto che non si tratti solo di vino: come se in qualche modo, in punta di piedi, lavorassero anche per l’armonia dell’universo.(Giorgio Cattaneo, 21 giugno 2020).Per capire quanto in profondità abbia colpito, l’epocale coprifuoco “cinese” istituito dall’Italia di fronte alla comparsa del coronavirus, basta fare un giro tra le colline del vino: alla vigilia dell’estate erano una meta ambitissima del turismo internazionale, e adesso sono un deserto. Export bloccato e cantine con montagne di bottiglie rimaste invendute, winery desolatamente vuote e ristoranti con ai tavoli solo qualche italiano, regolarmente distanziato e costretto a indossare la mascherina. Vale anche per le Langhe, le colline di Pavese e Fenoglio che videro esplodere un clamoroso boom economico a partire dagli anni Novanta grazie ai cosiddetti Barolo Boys, i ragazzi che rivoluzionarono l’antico vino nobile dei Savoia mettendosi a vinificarlo alla francese, affinandolo in botte piccola. Dalle Langhe all’America il passo è stato brevissimo: in un amen, a Barolo e dintorni s’è cominciato a parlare soprattutto inglese, in mezzo a tedeschi e svizzeri, belgi e giapponesi. E’ fiorita una specie di Toscana, in un angolo di Piemonte che portava ancora i segni dell’atavica povertà contadina: persino Bob Dylan ha voluto partecipare ai concerti di “Collisioni”, in quell’isola di vigneti con attorno wine-tasting, cantine di design interrate e climatizzate, bed & breakfast e cucine di charme, wine-bar di stampo newyorkese. Una specie di Rinascimento cosmopolita, con tanto di università: la scuola superiore di scienze gastronomiche aperta a Pollenzo da Carlo Petrini, il fondatore di Slow Food.
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Il vino fa grande, nel mondo, l’Italia condannata dalla crisi
Il grande Giorgio Bocca racconta di quando i suoi partigiani discesero dalla montagna cuneese facendo tappa nelle Langhe, dove stapparono bottiglie di Nebbiolo d’autore. Ma il capo della leggendaria dinastia dei Conterno, signori del “re dei vini” sulle alture di Monforte d’Alba, tenne da parte il mitico Barolo come premio speciale, per il giorno in cui le brigate avessero liberato Torino. Sono passati settant’anni, e dell’Italia di Bocca – cresciuto al “Giorno” del maestro Italo Pietra, sull’onda sovranista e democratica dell’Eni di Mattei, vero motore dei decenni del boom – praticamente non c’è più traccia. La patria del made in Italy, già quarta potenza industriale del pianeta, è ridotta a periferia impoverita dell’Eurozona franco-tedesca, un paese depresso e popolato da 10 milioni di nuovi poveri. La “cura” Monti, magnificata dai cantori stipendiati del neoliberismo-catastrofe alla Cottarelli, ha generato la svendita del secolo: l’Italia ha perso il 25% del suo potenziale industriale, ha perduto di colpo qualcosa come 400 miliardi di Pil e ha visto crescere a livelli inauditi la piaga della disoccupazione di massa. E’ l’effetto della “svalutazione interna” prodotta dalla camicia di forza dell’euro, imposta da un’oligarchia neo-feudale che ha cancellato tutti i fondamenti dell’Italia democratica per la quale lottarono i combattenti come Giorgio Bocca.Cronologia di una retrocessione: dalle promesse (mantenute) Piano Marshall all’abominio del pareggio di bilancio, che toglie sovranità al governo. Tutto sembra perduto, si potrebbe dire, tranne alcuni singolari caposaldi italici – tra cui il vino, per esempio? Quello enologico è infatti un settore produttivo tra i più prosperi, insieme a tanta parte della nuova agricoltura: grazie all’impegno di milioni di giovani, ricorda l’economista Nino Galloni, oggi il comparto agroalimentare produce beni per 40 miliardi di euro, che l’Italia non deve più importare. Il vino, invece, lo si esporta largamente: il nostro paese ha scavalcato la Francia, divenendo il primo produttore mondiale (per quantità, non ancora per fatturato) di bottiglie pregiate. Il vino è diventato moda, fa tendenza, fa parlare di sé anche in modo stucchevole, tra guide specialistiche e ristoranti stellati. Ma nella sostanza rappresenta un doppio riscatto: a vincere è l’Italia contadina, che a sua volta fa vincere la green economy vinicola che protegge l’ambiente delle colline più belle del mondo, ricchissime di storia e di paesaggi, sempre più spesso coltivate in modo sostenibile, biologico e persino biodonamico.Il vino è terra vendemmiata e fermentata, che porta in giro per il mondo la sua essenza: è il vero passaporto di una geografia che non ha eguali sul pianeta, per intensità e bellezza, e oggi viaggia – raccontando la sua storia – grazie agli appassionati contadini di questa Italia amata in ogni continente, dal Giappone agli Usa, dove i wine-maker sono accolti quasi come star. Tutti sanno che l’origine della rinascita – fino all’attuale esplosione del prodotto – fu il dramma dell’86, la frode di produttori disonesti e il loro vino velenoso al metanolo. Nacque una normativa severissima, che nel giro di pochi anni lanciò i vini italiani tra i migliori al mondo. Non è solo una storia di Brunelli e di Baroli, di Amaroni. Non c’è da registrare solo il boom pazzesco del Prosecco. Il vino ha ridestato dal letargo l’agricoltura delle Marche e le campagne della Basilicata, le terre del Sagrantino umbro e la Campania, lanciando i nuovi super-rossi della Puglia, i bianchi di Sicilia e di Sardegna. Tutta l’Italia in un bicchiere: il vino è tra i migliori ambasciatori di un paese che non vuole arrendersi, che non intende rassegnarsi alla cupezza di un declino incomprensibile. La lingua italiana è la quarta più insegnata al mondo, dopo l’inglese, lo spagnolo e il cinese. E sempre più spesso, oggi, l’Italia parla – anche – attraverso il suo vino, “voce” inimitabile di terre che la maggior parte del pianeta ci invidia. L’unica cosa che non può fare, il vino, è raccontare quant’è atrocemente ingiusta la crisi inflitta al sistema sociale del Belpaese da cui proviene.Il grande Giorgio Bocca racconta di quando i suoi partigiani discesero dalla montagna cuneese facendo tappa nelle Langhe, dove stapparono bottiglie di Nebbiolo d’autore. Ma il capo della leggendaria dinastia dei Conterno, signori del “re dei vini” sulle alture di Monforte d’Alba, tenne da parte il mitico Barolo come premio speciale, per il giorno in cui le brigate avessero liberato Torino. Sono passati settant’anni, e dell’Italia di Bocca – cresciuto al “Giorno” del maestro Italo Pietra, sull’onda sovranista e democratica dell’Eni di Mattei, vero motore dei decenni del boom – praticamente non c’è più traccia. La patria del made in Italy, già quarta potenza industriale del pianeta, è ridotta a periferia impoverita dell’Eurozona franco-tedesca, un paese depresso e popolato da 10 milioni di nuovi poveri. La “cura” Monti, magnificata dai cantori stipendiati del neoliberismo-catastrofe alla Cottarelli, ha generato la svendita del secolo: l’Italia ha perso il 25% del suo potenziale industriale, ha perduto di colpo qualcosa come 400 miliardi di Pil e ha visto crescere a livelli inauditi la piaga della disoccupazione di massa. E’ l’effetto della “svalutazione interna” prodotta dalla camicia di forza dell’euro, imposta da un’oligarchia neo-feudale che ha cancellato tutti i fondamenti dell’Italia democratica per la quale lottarono i combattenti come Giorgio Bocca.
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Patrimonio dell’umanità le Langhe di Pavese e Fenoglio
Della Langa mi porto dentro un’immagine insieme triste e splendente. Era il giorno del funerale di Bartolo Mascarello, l’indimenticabile artista della produzione vinicola. Avevamo appena scollinato a La Morra per scendere verso Barolo quando ci si aprì davanti, improvviso come un’imboscata, lo spettacolo grandioso delle colline illuminate dal sole a picco, mosaico di colori e di geometrie perfette, con i filari delle vigne a disegnare con le loro linee parallele trine fitte e regolari come la costruzione di un geniale architetto. Ci fermammo incantati, per quella natura umanizzata dal lavoro dell’uomo. O per quel lavoro fattosi, nel tempo, natura, memoria accumulata da generazioni. Cultura scolpita nella terra. Lì, davvero, diventa impossibile separare la materialità del suolo dalla vita che lo ha abitato per secoli. E mi venne in mente una frase di mio padre, scritta nell’introduzione del “Mondo dei vinti”, sull’importanza di «imparare a leggere il paesaggio delle Langhe conoscendo la gente». Perché «senza la gente le Langhe diventano un palcoscenico meraviglioso, ma spento».Senza la gente vuol dire senza il loro racconto. La loro memoria, che non parla di un mondo arcadico, ma di vite agre, di una storia aspra come la terra dura della vigna, di solitudini e silenzi, da sfidare cavando di bocca le parole con le pinze, come sapeva bene Cesare Pavese, che in una delle sue prime poesie, in “Lavorare stanca”, scrisse che “qualche nostro antenato dev’essere stato ben solo – un grand’uomo tra idioti o un povero folle – per insegnare ai suoi tanto silenzio”. Pavese, che conosceva bene il calore umido che sale dal tufo sotto la vite, e quale odore abbia quel caldo («ci sono dentro tante vendemmie e fienagioni e sfogliature, tanti sapori e tante voglie»). E sapeva quanto di natura e di fatica ci sia dietro una vigna: «Non c’è niente di più bello di una vigna ben zappata, ben legata, con le foglie giuste e quell’odore della terra cotta dal sole d’agosto. Una vigna ben lavorata è come un fisico sano, un corpo che vive, che ha il respiro e il suo sudore».Come lo sapeva Beppe Fenoglio, quello della “Malora”, ma soprattutto quello del “Partigiano Johnny”, dove la natura si fonde inestricabilmente alla vita, e l’epopea partigiana si intreccia di fatica, e sudore – esattamente come il lavoro – e di paura e ferocia e, ancora, silenzio, nel paesaggio ora aspro, ora cupo, ora ridente, quasi sempre freddo, che accompagna come un involucro mimetico le vicende del protagonista. È impossibile pensare le Langhe – e il Roero, e il Monferrato: quello che oggi va sotto il nome un po’ commerciale di “distretto enogastronomico” – senza l’immaginario elaborato dalla loro letteratura, da Pavese, e Fenoglio, e Lajolo, e Arpino, che li hanno resi, appunto, patrimonio dell’umanità nel senso più proprio: di “linguaggio universale”. Paesaggio parlante e comunicante.Non stupisce che di qui sia incominciata l’avventura di Carlin Petrini e della sua banda, con la rievocazione di “Cantè j’euv”, sagra tradizionale sopravvissuta sotto la superficie della modernizzazione, giunta fino al trionfo di Slow Food e di Terra Madre. E non stupisce che qui trovi la propria sede naturale la cultura del vino come prodotto vivente. Non dimentichiamo le battaglie di Bartolo Mascarello contro la pratica del “barrique”, considerata una forma di sconsacrazione, e contro il dilagare dei capannoni ai piedi delle colline. Non dimentichiamolo nel momento in cui a quella terra viene attribuito l’ambìto riconoscimento. Certo la tentazione di considerarlo un brand utile per operazioni di marketing territoriale è forte, e lascia immaginare flussi impetuosi di turisti. Ma è bene ricordare che la dizione letterale dell’Unesco è “bene protetto”, non “esposto”. E che quel riconoscimento implica una responsabilità alla tutela, più che un incentivo al consumo dei luoghi.(Marco Revelli, “L’epopea delle vigne patrimonio dell’umanità”, da “La Repubblica” del 23 giugno 2014, all’indomani del riconoscimento Unesco conferito a Langhe e Monferrato).Della Langa mi porto dentro un’immagine insieme triste e splendente. Era il giorno del funerale di Bartolo Mascarello, l’indimenticabile artista della produzione vinicola. Avevamo appena scollinato a La Morra per scendere verso Barolo quando ci si aprì davanti, improvviso come un’imboscata, lo spettacolo grandioso delle colline illuminate dal sole a picco, mosaico di colori e di geometrie perfette, con i filari delle vigne a disegnare con le loro linee parallele trine fitte e regolari come la costruzione di un geniale architetto. Ci fermammo incantati, per quella natura umanizzata dal lavoro dell’uomo. O per quel lavoro fattosi, nel tempo, natura, memoria accumulata da generazioni. Cultura scolpita nella terra. Lì, davvero, diventa impossibile separare la materialità del suolo dalla vita che lo ha abitato per secoli. E mi venne in mente una frase di mio padre, scritta nell’introduzione del “Mondo dei vinti”, sull’importanza di «imparare a leggere il paesaggio delle Langhe conoscendo la gente». Perché «senza la gente le Langhe diventano un palcoscenico meraviglioso, ma spento».
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Champagne nucleare, scorie sigillate sotto i vigneti
Anche la Francia, così come gli Stati Uniti da tempo impegnati nel controverso progetto Yucca Mountain, sta progettando il proprio deposito definitivo per le scorie nucleari ad alta radioattività, quelle destinate a restare pericolose per un periodo nell’ordine dei 300.000 anni. Il luogo scelto dalle autorità francesi per accogliere il cimitero delle scorie non sarà in questo caso rappresentato dall’interno di una montagna, bensì da una serie di caverne artificiali, scavate a grande profondità ai confini dei dipartimenti della Meuse e della Haute Marne, proprio al di sotto delle colline dove i viticoltori francesi coltivano i vigneti che producono il nobile Champagne.
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Paesaggi della memoria: Tino Aime a Barolo
Dopo l’importante mostra antologica “Pastre de Luno” presentata ad inizio estate a Sancto Lucio de Coumboscuro (Monterosso Grana, Cuneo), curata da Sergio Arneodo del Centro culturale francoprenzale, Tino Aime espone le sue opere in una nuova mostra a Barolo