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Archivio del Tag ‘baroni’

  • Yahvè SpA: chi domina il mondo, oltre la geopolitica visibile

    Scritto il 14/7/19 • nella Categoria: segnalazioni • (7)

    Data fatidica, il 14 luglio: nel 1789 a Parigi veniva assaltata la Bastiglia, evento culminante della Rivoluzione Francese che segnò la fine dell’Ancien Régime, il sistema plurisecolare dell’assolutismo monarchico. Solo tre anni fa, invece – ma sempre in Francia, e sempre il 14 luglio – il killer franco-tunisino Mohamed Lahouaiej-Bouhle faceva strage a Nizza col suo camion, travolgendo i passanti sulla Promenade des Anglais: 86 morti e 302 feriti. Ovviamente l’attenatatore era già stato segnalato alla polizia, come poco di buono. E ovviamente nessuno aveva pensato di controllare e sgomberare quel camion bianco, fermo da giorni sul lungomare divenuto “off limits” in vista della festa nazionale francese. E ancora: l’assassino – prima di essere freddato dalle forze dell’ordine, come d’abitudine, prima che potesse parlare – aveva anche avuto cura di lasciare a disposizione dei poliziotti i suoi documenti, ben in vista nell’abitacolo del veicolo. Un caso da manuale, secondo Gioele Magaldi, autore del saggio “Massoni”: un messaggio intimidatorio rivolto alla massoneria progressista, che considera proprio il 14 luglio la prima pietra miliare verso la conquista della democrazia, almeno in Occidente.
    Fu l’Isis a rivendicare la strage di Nizza, ma le menti dello Stato Islamico sono altrove: Abu Bakr Al-Bahdadi, il sedicente Califfo, secondo Magaldi è affiliato alla superloggia “Hathor Pentalpha”, dominata dai Bush e responsabile del super-attentato del terzo millennio, quello dell’11 Settembre, comodamente attribuito al “barbaro jihadista” Bin Laden, in realtà massone, affiliato anch’esso alla medesima Ur-Lodge. La “Hathor Pentalpha”, sorta all’inizio degli anni ‘80 per volere di Bush padre, appena battuto da Reagan alle primarie repubblicane, raccolse il gotha dei golpisti del Pnac, il Piano per il Nuovo Secolo Americano: George W. Bush e suo fratello Jeb Bush, Dick Cheney e Donald Rumsfeld, Paul Wolfowitz e la stessa Condoleezza Rice. Oltre a Bin Laden (Al-Qaeda) e Al-Baghdadi (Isis), la “Hathor” avrebbe reclutato un ideologo come Samuel Huntington (“La crisi della democrazia”), insieme a Donald e Robert Kagan, Douglas Freith, Irving e William Kristol, Dan Quayle. Con loro Richard Perle, Karl Rove, Bill Bennett e il politologo Michael Leeden. Una rete trasversale, con affiliati in Medio Oriente: Oman, Bahrein, Qatar, Arabia Saudita e persino Iran (tra gli iraniani coinvolti, l’ex presidente Hashemi Rafsanjani).
    Obiettivo: destabilizzare ferocemente il pianeta, creando a tavolino il presunto “scontro di civiltà” tra Occidente e mondo arabo. Punta di lancia dell’operazione: Israele (era il premier Ariel Sharon l’uomo della “Hathor” a Tel Aviv). Ma arabi e israeliani non dovevano essere acerrimi nemici, anziché compagni di merende e di avventure anche terroristiche? Certo, ma solo in teoria, spiega Magaldi: in realtà sono tutti massoni, nella cabina di regia. E la vera geopolitica – al di là della narrazione dei media – passa per i circoli come la “Hathor”, incarnazione infernale dell’ala più reazionaria della supermassoneria occulta, apolide e sovranazionale. Convergenze insospettabili: dirigenti sauditi in riunione con Sharon e col presidente turco, il “fratello” Recep Tayyip Erdogan, insieme a un bel po’ di potenti europei: l’ex cancelliere tedesco Gehard Schröder, l’allora primo ministro spagnolo José Maria Aznar, l’intramontabile Tony Blair, il polacco Aleksander Kwasniewski e il francese Nicolas Sarkozy – più un paio di italiani: l’allora presidente del Senato, Marcello Pera, nonché Antonio Martino, all’epoca ministro berlusconiano e già segretario della Mont Pelerin Society, vero e proprio tempio ideologico dell’ultra-destra economica europea, culla dell’oligarchia neoaristocratica che ha incubato, progettatto e imposto l’austerity per infliggere la camicia di forza a paesi come l’Italia, alle prese con la nascente globalizzazione.
    Il primo a parlarne in termini espliciti è stato Paolo Barnard, nel saggio “Il più grande crimine”, uscito prima ancora della crisi italiana del 2011. La tesi: si trattava, semplicemente, di cancellare la memoria della Presa del Bastiglia. Il mitico 14 luglio? Un incidente della storia: aprì l’Europa a qualcosa di mai prima sperimentato – la democrazia – spalancando le porte alla modernità del futuro: Stato di diritto, suffragio universale. Traduzione euro-atlantica successiva: economia sociale, conquiste civili e diritti del lavoro. Bene, tutto questo doveva finire. E in modo drammatico: col terrorismo stragista della strategia della tensione (Al-Qaeda, Isis) o col terrorismo finanziario (rigore europeo). Per volere di chi? Dei soliti noti, gli antichi baroni. O meglio: di quella che un tempo costuitiva il nerbo dell’Ancient Régime, cioè l’aristocrazia feudale più parassitaria. Le era toccato finire sfrattata dal potere (politico) dal 14 luglio in poi? Niente paura: si è ripresa tutto, e con gli interessi, mantenendo le grandi leve della finanza. Ha finanziarizzato l’economia e ridotto gli Stati in bolletta, senza più sovranità monetaria. Il gioco perfetto dei leggendari Rothschild, padroni d’Europa (e di un pezzo d’America) da tre secoli questa parte.
    Nei suoi libri, un ricercatore come Pietro Ratto ricostruisce il ruolo di casati ebraici come quello dei Warburg, in realtà di origine veneta, poi soci in affari con i Rothschild – di cui sempre Ratto prova anche l’apparentamento coi Rockefeller, mediante matrimoni strategici. Dettaglio inquietante: furono i grandi finanzieri ebrei a sovvenzionare Hitler all’alba della sua tragica epopea. Non solo: è stato accertato che proprio il Terzo Reich – al suo esordio – fu un poderoso sponsor occulto del sionismo, favorendo l’espatrio degli ebrei tedeschi verso la Palestina e finanziando il primo colonialismo ebraico in Terrasanta. Scioccante? Quasi quanto il libro “L’altra Europa”, pubblicato dal vicentino Paolo Rumor, nipote del più volte primo ministro democristiano Mariano Rumor. Durante la Seconda Guerra Mondiale, il padre dell’autore – Giacomo Rumor – agiva come 007 per conto di monsignor Montini, futuro Paolo VI, allora responsabile dell’intelligence vaticana. Gli Alleati già sapevano che avrebbero vinto, e volevano progettare in anticipo l’Europa del dopoguerra. Fin qui, tutto bene: logico che gli Usa si rivolgessero al Papa, visto che l’Italia era ancora in mano a Mussolini, e che l’antifascismo era largamente comunista. Ma un giorno l’esoterista francese Maurice Schumann, gollista e interlocutore di Rumor, svelò al cattolico italiano chi c’era veramente, dietro al piano: la Struttura. Una cupola esclusiva, ininterrottamente al potere, nel mondo, da quasi 12.000 anni.
    Follia? Non secondo l’archeologo Loris Bagnara, che ha verificato sul campo: le indicazioni di Rumor (cioè di Schumann) corrispondono in modo impressionante con la geografia e la toponomastica dei luoghi dove si sarebbe costituito quell’antico potere, nato in Mesopotamia e poi trasferitosi nell’Egitto dei faraoni prima di approdare in Palestina e quindi nel Mediterraneo fenicio e poi greco-romano. L’eminente politoligo Giorgio Galli, autore della prefazione del libro di Rumor, conferma: i nomi citati dal dossier-Schumann sono perfettamente coerenti con la mappa del vero potere, anche di quello euro-atlantico del Novecento. Politici, industriali e finanzieri: tutti esoteristi, vincolati al reciproco segreto sull’origine della Struttura, sostanzialmente iniziatica, risalente – a loro dire – attorno al 9.500 avanti Cristo, tra le rive del Tigri e quelle dell’Eufrate, cioè dove Zecharia Sitchin attribuisce agli Anunnaki, i misteriosi Figli delle Stelle, la “fabbricazione” dell’homo sapiens nella versione poi narrata dai Sumeri. Di quella storia – avverte Mauro Biglino, già traduttore ufficiale delle Edizioni San Paolo – la Bibbia non è che la fotocopia: la Genesi descrive la nascita di Eva mediante clonazione genetica, proprio come la pecora Dolly, ad opera degli Elohim come Yahvè, cioè i Figli delle Stelle palestinesi.
    Autore di culto in Italia, pubblicato anche da Mondadori (trecentomila copie vendute), a Biglino nessuno contesta la riscoperta letterale della Bibbia: l’interpretazione teologico-spiritualista del testo si rivela completamente infondata (Yahvè non era “Dio”, ma solo uno dei tanti Elohim citati). Semmai, la Bibbia – ammesso sia attendibile, visto che è stata riscritta ininterrottamente fino al medioevo – propone un’altra storia: la nascita dell’umanità attuale, così improvvisamente evoluta, sarebbe opera dell’ibridazione genetica dei Figli delle Stelle, che avrebbero immesso il loro Dna in quello dei primitivi ominidi. Biglino è rispettato anche ad Harvard, dove alla facoltà di medicina si raccomandano i suoi libri. E sulla sua ipotesi stanno convergendo decine di scienziati, che lo hanno messo a capo di un progetto di ricerca senza precedenti: studi interdisciplinari, anche archeologici, per verificare quel che la Bibbia racconta, alla lettera. E le religioni monoteiste? La prima, l’ebraismo, secondo Biglino sarebbe nata attorno al VI secolo avanti Cristo, quando Yahvè sparì di colpo, in seguito all’avvento dei babilonesi che sottomisero gli ebrei. Da allora, dice lo studioso, ad assumere la leadership del popolo ebraico furono i sacerdoti, cioè la casta degli ex “maggiordomi” di Yahvè: furono loro, manipolandola, a trasformare la Bibbia nel “libro sacro” che non era mai stato.
    Quando poi l’Impero Romano – oltre mezzo millennio dopo, nel 70 dopo Cristo – represse duramente gli ebrei distruggendo il Tempio di Salomone a Gerusalemme, gli stessi sacerdoti contrattarono il loro futuro con i nuovi padroni: cedettero ai romani il Tesoro del Tempio, in cambio di una vita agiatissima nella capitale imperiale, da cui poi – attraverso svariati passaggi – diedero vita alla nuova religione, il Cristianesimo cattolico, ufficialmente coniato da Costantino nel 325 al Concilio di Nicea. Lo stesso Paolo Rumor, attingendo al memoriale Schumann, sostiene che la mitica Struttura si sarebbe spezzata in due tronconi, a Gerusalemme, proprio attorno all’Anno Zero. Di recente, Biglino ha accennato a libri di prossima uscita, dal contenuto sconcertante: attraverso accurate analisi di fonti d’archivio, emerge una sbalorditiva continuità nel potere europeo attraverso i secoli, con in primo piano – da Gerusalemme a Roma, fino al Nord Europa – sempre le stesse famiglie. La sua tesi è nota: attraverso la Bibbia, siamo stati finora governati da un unico schema di potere, concepito sotto forma di dominio. Lo stesso sistema finanziario attuale, che regge il pianeta, è quello enunciato da Yahvè: potrai prestare denaro ma non richiederlo, perché chi riceve denaro in prestito ne diventa schiavo. E a proposito: dov’è finito, Yahvè? Sicuri che sia sparito per sempre dalla circolazione?
    Se un giorno si scoprisse che gli Elohim come quello che gestiva la famiglia di Giacobbe sono qui tra noi e controllano tutto – dice Biglino – certo non me ne stupirei: secondo la Bibbia potevano vivere anche 30.000 anni. Assurdo? Mica tanto: la distanza fra i loro 30 millenni e i nostri 90 anni è infinitamente più piccola di quella che separa una tartaruga gigante (200 anni) da una farfalla che viva solo 24 ore. Di giorno in giorno, si moltiplicano scoperte che sconquassano le vecchie certezze archeologiche: la Piramide di Cheope (vera datazione, 20.000 anni) è una potente “fabbrica di energia”: è presidiata dai fisici che vi osservano gli stranissimi fenomeni che ospita, come l’abbattimento di particelle subatomiche. A Visoko, in Bosnia, sono state scoperte le più grandi piramidi della Terra, risalenti a 30.000 anni fa. E al largo dell’India spuntano città sommerse – probabilmente dal maremoto di 11.500 anni fa (il Diluvo Universale?), scatenatosi proprio nel periodo in cui a Göbekli Tepe, in Turchia, fu costruito il tempio più antico della Terra, in un’area in cui gli scavi rivelano che la nascita dell’agricoltura risale addirittura al Mesolitico. Scoperte che costringono a retrodatare la nostra storia, cancellando quello che fino a ieri credevamo di sapere.
    Sotto certi aspetti, è come se le incredibili scoperte dell’archeologia odierna costringessero a ripensare la stessa geopolitica attuale. Si perde tempo, ripete Magaldi, se ci si ferma ancora a valutarla come scontro tra nazioni: c’è ben altro, dietro le quinte. Se lo domandava anche Barnard: vi siete mai chiesti come mai la politica non riesce mai a mantenere le sue promesse? E perché le cose vanno di male in peggio, nonostante il pianeta non sia mai stato così ricco, vista la nostra capacità esponenziale di produrre beni, grazie alla vertiginosa rivoluzione tecnologica degli ultimi decenni? Colpa dell’élite neo-feudale, si risponde Barnard. Ed è un’élite non certo illuminata, aggiunge Magaldi: si tratta di un’oligarchia del denaro, reazionaria, neo-conservatrice, il cui massimo livello di potere – al di sopra delle entità paramassoniche come il Bilderberg – è rappresentato dalle 36 Ur-Lodges che dominano il globo. E se ci fosse dell’altro ancora, sopra le midiciali superlogge? Magari la “Yahvè SpA”, affidata a emissari collaudatissimi? E’ l’interrogativo che rilancia Biglino, convinto che gli Elohim (come gli Anunna sumeri, i Theoi greci, i Deva indiani) non siano affatto scomparsi, dimenticandosi delle loro “creature”. Anzi, aggiunge lo studioso: sarebbe perfettamente plausibile scoprire, un giorno, che dietro ai maggiori potentati terrestri vi siano proprio “quelli là”, i Figli delle Stelle, l’un contro l’altro armati: è uno schema ripetuto in tutti i libri antichi, compresa la Bibbia.

    Data fatidica, il 14 luglio: nel 1789 a Parigi veniva assaltata la Bastiglia, evento culminante della Rivoluzione Francese che segnò la fine dell’Ancien Régime, il sistema plurisecolare dell’assolutismo monarchico. Solo tre anni fa, invece – ma sempre in Francia, e sempre il 14 luglio – il killer franco-tunisino Mohamed Lahouaiej-Bouhle faceva strage a Nizza col suo camion, travolgendo i passanti sulla Promenade des Anglais: 86 morti e 302 feriti. Ovviamente l’attentatore era già stato segnalato alla polizia, come poco di buono. E ovviamente nessuno aveva pensato di controllare e sgomberare il suo camion bianco, fermo da giorni su quel lungomare divenuto “off limits” in vista della festa nazionale francese. E ancora: l’assassino – prima di essere freddato dalle forze dell’ordine, come d’abitudine, prima che potesse parlare – aveva anche avuto cura di lasciare a disposizione dei poliziotti i suoi documenti, ben in vista nell’abitacolo del veicolo. Un caso da manuale, secondo Gioele Magaldi, autore del saggio “Massoni”: un messaggio intimidatorio rivolto alla massoneria progressista, che considera proprio il 14 luglio la prima pietra miliare verso la conquista della democrazia, almeno in Occidente.

  • Guerra a Di Bella, l’angelo dei malati: tentarono di ucciderlo

    Scritto il 21/4/19 • nella Categoria: Recensioni • (5)

    “Il poeta della scienza”, vita di Luigi Di Bella: il volume, minuziosamente documentato e ricco di indicazioni delle fonti, dipana la complessa figura del professor Di Bella esaminandola sotto il profilo scientifico, morale, intellettuale e umano. Difficile non giungere alla conclusione che sono state proprio queste qualità e virtù a procurargli, per buona parte della vita, un’ostilità incessante che non di rado si è fatta autentica persecuzione. Il lettore rimane, oltre che indignato e amareggiato, anche stupefatto per la capacità dell’uomo di non farsi annichilire da un’opposizione tanto indiscriminata e violenta e di riuscire a compiere egualmente la sua opera. Luigi Di Bella, siciliano, classe 1912, era nato in una famiglia numerosa e di assai disagiate condizioni economiche, non in grado quindi di sostenere le spese per fare studiare quel ragazzo, nonostante avesse precocemente dimostrato rare doti d’ingegno e di forza di volontà. Luigi sopportò sacrifici di ogni genere per soddisfare la sua sete di sapere e superare le ristrettezze della povertà, arrivando anche a studiare la sera in piedi, sotto la luce del lampione della strada, per sopperire alla penuria di petrolio per la lampada.
    Fornisce ben presto le prove di un ingegno straordinario: avendo frequentato le scuole complementari che, non contemplando l’insegnamento del latino, non consentivano l’accesso al liceo scientifico, in due mesi apprende il latino, lasciando increduli i commissari durante la prova di idoneità prescritta. Per rendersi economicamente indipendente ed aiutare i fratelli, parteciperà anche ai concorsi nazionali riservati agli studenti poveri e meritevoli, vincendo tutti quelli che affronta. Divenuto studente della facoltà di medicina a Messina, la sua abitudine di studiare oltre che sui libri di testo anche su ponderose ed ostiche monografie (oltre ovviamente alle sue rare capacità di assimilazione), gli procura un “pubblico” di docenti universitari che corrono ad assistere ai suoi esami. Viene notato dal professor Pietro Tullio, considerato il più autorevole fisiologo del tempo – due volte candidato al Nobel per la medicina nel 1930 e nel 1932 (1) – che gli propone di diventare allievo interno presso l’Istituto di Fisiologia. Attraverso il suo maestro, Luigi Di Bella si forma nell’ambito di quella scuola medica che il mondo ci invidiava, annoverando luminari come Augusto Murri e Pietro Albertoni, considerati i più grandi medici dei tempi moderni.
    Non potendo soffermarci troppo su queste due figure di medici e professori universitari, ci limitiamo a riferire che raggiungevano percentuali elevatissime di diagnosi esatte, 92% Murri e 98% Albertoni (2), in un’epoca nella quale gli esami ematochimici erano ben più rudimentali di quelli odierni, e non esistevano Tac e risonanze magnetiche. A quel tempo l’insegnamento e la ricerca nell’ambito della medicina non erano disgiunti dalla pratica clinica, l’eccessiva specializzazione non aveva ancora contaminato ogni settore, e la fisiologia era ancora considerata la materia cardine di tutto il sapere medico, non essendo altrimenti possibile comprendere ed applicare razionalmente tutte le altre. Questo consentiva il raggiungimento di livelli di eccellenza diagnostica attualmente inarrivabili. Se pensiamo ai pazienti che oggi sono costretti a peregrinare tra specialisti e ospedali, spesso orfani di diagnosi – e quindi di efficace terapia – nonostante l’elefantiasi di esami di ogni genere, non si può rimanere che sconcertati.
    Luigi Di Bella è stato senza dubbio l’epigono di quella mentalità e cultura medico-scientifica che ha annoverato eccellenze quali Antonio Cardarelli, Pietro Lussana, Giuseppe Moscati, oltre che i luminari prima citati. E’ a quest’ultimo, il medico santo di Napoli, che Luigi Di Bella più si avvicina, oltre che per mentalità clinica, per umanità e condotta di vita cristiana. Il primo lavoro scientifico che riporta il nome di Luigi Di Bella (oltre ovviamente a quello del maestro) risale all’inizio del 1932, quando è ancora diciannovenne e studente del secondo anno di università. Lo stesso Tullio, qualche anno dopo, dichiarerà in un attestato di essersi limitato a curarne la bibliografia. Nel luglio 1936 si laurea in medicina con 110 e lode, dopo aver sostenuto 12 esami in più rispetto a quelli regolamentari. Subito dopo la laurea riceve una proposta di assunzione da parte di Guglielmo Marconi – allora presidente del Cnr – perché continui le ricerche in campo chimico che gli erano valse l’ultimo premio nazionale (è ancora disponibile il carteggio intercorso). Luigi Di Bella declina l’invito, dichiarando che desidera continuare le sue ricerche nell’ambito della medicina. Riceverà dal grande fisico una borsa di studio.
    Quando nel 1938 consegue le lauree in farmacia e in chimica, già da due anni, dopo avere superato brillantemente il previsto concorso, è incaricato dell’insegnamento della fisiologia e della chimica organica presso l’università di Parma. Durante questo periodo pubblica un libro di chimica organica. Il 3 settembre 1939 sposa Francesca Costa, e prende servizio nel ruolo di aiuto incaricato presso l’università di Modena, città nella quale si trasferisce con la famiglia. Dall’unione nasceranno Giuseppe (maggio 1941) che intraprenderà anche lui la professione di medico, e Adolfo (dicembre 1947). Il 3 settembre 1941, con il grado di capitano medico, viene inviato in Grecia, dove dirigerà due ospedali militari. Qui si sottopone ad ogni sacrificio pur di aiutare i malati, arrivando a donare loro il suo pasto da ufficiale e a dormire in piedi, appoggiato a una colonna, per poter accorrere più velocemente alle richieste d’aiuto. Raccontando anni dopo questi particolari, si limiterà a commentare: «Dopo un po’ ci si abitua». Alla fine, le immani fatiche sostenute presenteranno il conto: la salute degrada sempre più e all’inizio del 1943 rientra in Italia per una breve licenza. Le condizioni però peggiorano ulteriormente e viene ricoverato all’ospedale militare di Bologna per epatite, anemia e malaria.
    Posto in “licenza speciale in attesa di trattamento di quiescenza”, si riprende gradualmente e riesce a iniziare l’insegnamento per l’anno accademico 1943-44. A seguito dei bombardamenti alleati su Modena della prima metà del 1944, la famiglia Di Bella trova ospitalità in una casa colonica a Bastiglia, paese ad una dozzina di chilometri dalla città. Anche qui non sta con le mani in mano: visita gli abitanti dei dintorni che hanno bisogno e, nonostante i pericoli, si reca quotidianamente all’università in bicicletta. Nell’immediato dopoguerra iniziano a delinearsi le prime ricerche che lo porteranno anni dopo all’ideazione del suo metodo di cura per i tumori. In questo periodo si scatena una persecuzione durissima da parte dell’ambiente accademico, quantomeno nella facoltà di medicina, che non gli perdona limpidezza morale, superiorità d’intelletto e di cultura che lo caratterizzano. Gli studenti al contrario lo idolatrano, affollando le sue lezioni, a tal punto che durante l’occupazione studentesca del 1968 Luigi Di Bella sarà l’unico professore che gli studenti autorizzeranno ad entrare nell’università per svolgere le lezioni.
    Inizia a diffondersi anche la sua fama di medico capace di fare diagnosi di un’esattezza inarrivabile, e di risolvere situazioni ritenute senza speranza dai medici più blasonati. Anche questo contribuirà ad alimentare quelle invidie e quella persecuzione che non gli daranno tregua fino all’ultimo dei suoi giorni. Dirà un giorno: «A questo mondo, è rigorosamente proibito fare del bene». I malati, che per tutta la vita visiterà gratis arrivando a regalare loro le medicine, giungono sempre più numerosi, grazie al “meccanismo di passaparola”. Spesso sarà costretto a visitarli la sera – già sfinito da una intera giornata di lavoro – o la domenica presso la propria abitazione. Intervistato nel 1998 per la Rai da don Giovanni D’Ercole, alla domanda «ma lei non si fa pagare?» risponderà: «No, mi ripugna: uno viene qui perché ha bisogno, e io dovrei guadagnare sul bisogno di un altro?» (3).
    Inflessibile con se stesso, fa dell’umiltà e dell’autocritica una regola di vita, chiedendosi sempre se ha davvero fatto tutto ciò che era nelle sue possibilità e il proprio dovere di medico e di uomo (3). Così come il denaro, anche il lusso gli ripugna: «La povertà e l’essenzialità sono più vicine alla realtà di tutto. Il lusso per me è una sovrapposizione all’essenziale, e quindi il mezzo migliore per deviare dalla retta via… la rinuncia è la dote essenziale di un uomo per progredire e per realizzare. Bisogna saper rinunciare a tutto quello che non è essenziale» (3). Quando, decenni dopo, durante una intervista gli verrà chiesto come ha fatto a trovare la cura per il cancro senza avere dietro un’università o un centro di ricerca iperfinanziato, risponderà: «In una maniera semplice: rinunciando a tutto quello che non è necessario per vivere. In questa maniera le spese le ho ridotte al minimo, e tutto quello che potevo risparmiare l’ho dedicato alla ricerca» (4).
    I “baroni” dell’università di Modena lo relegano in un’angusta stanzetta dell’istituto di fisiologia e gli impediscono, di fatto, di compiere ricerche, negandogli i fondi accademici a cui avrebbe diritto ad accedere. Lo scienziato sarà per questo costretto a indebitarsi per costruirsi un suo laboratorio privato che, una volta portato a termine nel 1952, gli consentirà di proseguire la sua attività di ricercatore. Intensifica anche la partecipazione a congressi medici e scientifici in Italia e all’estero, mentre continua a pubblicare i risultati delle sue ricerche. Al termine della sua vita, si conteranno 215 pubblicazioni e un centinaio di comunicazioni in congressi. Al rigore scientifico unisce sempre la sensibilità per il bello. Per lui queste due dimensioni sono inscindibili. Non c’è solo la bellezza delle arti figurative e della musica, che ama profondamente, ma anche l’infinita bellezza del Creato e degli intimi meccanismi che rendono possibile la vita. Ogni volta che, da ricercatore qual è, riesce a far luce su qualcuno di questi meccanismi, prova un profondo rapimento spirituale per la bellezza e la perfezione che vi intravede. In altre parole, è la meraviglia e lo stupore di chi giunge a scorgere quella particella di eternità che l’uomo incorpora in sé.
    Soltanto un poeta della scienza può arrivare a dire: «Un medico può considerarsi tale solo se ama l’ammalato ed è affascinato dall’ignoto, se cerca di far luce sui misteri del Creato e di confrontarsi con questi». E agli ammalati dona tutto se stesso, prendendo parte alle loro sofferenze: «Lei non immagina la sofferenza che mi viene ad ascoltare le sofferenze del prossimo, ad essere incapace di togliere queste sofferenze, almeno subito» (3). Quando visita, veste i panni di sacerdote in camice bianco. Molti pazienti avvertono istintivamente il bisogno di confidargli le loro pene interiori o i loro problemi familiari, e non pochi escono dalla visita letteralmente sconvolti nell’anima. Riportiamo per brevità solo un paio di esempi. Una signora, afflitta nel corpo e nello spirito, afferma: «E’ come se mi avessero messo una telecamera dentro al cuore e all’anima. Ha letto in me cose che non sa e non capisce nessun altro, e addirittura mi ha spiegato cose di me stessa che non riuscivo a comprendere. Un’esperienza sconvolgente, che non dimenticherò finché avrò vita». Un’altra, arrivata in uno stato di prostrazione profonda, esce trasformata: «Mi ha ridato la voglia di vivere. Non me ne frega niente se mi salvo o se muoio tra un mese o una settimana… Avere conosciuto un uomo così vale la vita. Sono serena».
    Nel 1963 Maria Teresa Rossi, una sua studentessa, gli si avvicina al termine di una lezione per chiedergli un consiglio sulla grave malattia che la affligge, il “lupus eritematosus”, a causa del quale i medici le hanno prospettato al massimo due anni di vita. Lo scienziato la visita e le prescrive una terapia. La ragazza, da tutti chiamata Deda, ne ricava presto netti benefici e in pochi anni diventerà una valida collaboratrice nelle ricerche del professore, il quale arriverà ad amarla come una figlia. E i due anni di vita residua, grazie a Luigi Di Bella, diventeranno ventiquattro. Dopo un complesso e faticoso iter sperimentale, il 6 dicembre 1973, invitato a tenere una conferenza presso la sede della Società Medico Chirurgica di Bologna dal professor Domenico Campanacci, il più illustre clinico italiano del dopoguerra, presenta il razionale e i primi risultati clinici della metodologia messa a punto per patologie ematologiche (successivamente perfezionata ed estesa ai tumori solidi).
    Riceve l’appoggio e la considerazione, oltre che del professor Domenico Campanacci, dell’illustre ematologo Edoardo Storti, del fisiologo Giuseppe Moruzzi e di Emilio Trabucchi, famoso farmacologo. Ma neanche costoro, dall’alto della loro autorevolezza, possono vincere il montante potere delle aziende farmaceutiche e l’ostilità di un’onco-ematologia che, invece di offrire collaborazione, si sente scavalcata e surclassata da quello scienziato che aveva osato dare concrete possibilità di salvezza a malati altrimenti condannati. Vale ricordare che nel 1973 si conoscevano solo 500 casi di leucemia in tutto il mondo sopravvissuti per più di 5 anni. Gli unici interessamenti genuini gli arrivano dall’estero: medici e istituzioni ospedaliere di ogni parte del mondo lo contattano e si informano sui princìpi della sua cura. Il numero dei pazienti che accorrono da lui, grazie anche alle testimonianze dei malati curati e ad alcuni articoli pubblicati su diversi periodici, aumenta fino a livelli insostenibili. Anche perché non cura solo i tumori: la sua impostazione squisitamente fisiologica della medicina, unita a un raro ingegno e alla conoscenza profonda di tutte le branche della scienza medica, gli consentono di curare con successo diverse patologie, specialmente neurologiche e neuromotorie.
    Vale la pena soffermarsi brevemente sul valore delle ricerche che lo hanno condotto a formulare il suo metodo di cura dei tumori. Già nel 1969 aveva relazionato (Alghero, congresso della Società Italiana di Biologia Sperimentale) sugli esperimenti con cui aveva dimostrato l’influenza del sistema nervoso centrale sulla crasi ematica (si trattava della stimolazione, nei ratti, di una determinata zona del cervello vicina alla ghiandola pineale, che portava a forti aumenti delle piastrine in circolo). Fino a quel momento nessuno aveva intuito che il sangue, e quindi le concentrazioni delle sue componenti, potessero essere influenzate e determinate a livello cerebrale. Già solo tale scoperta, che porterà lo scienziato a introdurre la melatonina (prodotta principalmente dalla ghiandola pineale) come uno dei cardini della sua cura, avrebbe meritato, come osservarono alcuni studiosi, il Premio Nobel per la Medicina. L’estensione della cura ai tumori solidi risale alla metà degli anni ’70, quando nel suo metodo introduce la somatostatina. E’ il primo al mondo a proporre l’uso di questa sostanza per le patologie tumorali. Ancora oggi il suo impiego terapeutico in oncologia è limitato ai soli tumori neuroendocrini, nonostante migliaia di pubblicazioni, tra le quali quelle di premi Nobel come Viktor Schally (5), che ne dimostrano l’efficacia in un’amplissima varietà di patologie neoplastiche.
    Nel frattempo, già un anno dopo la presentazione della sua cura, era stato vittima, mentre era nell’istituto di fisiologia, di un tentativo di avvelenamento – da cui riuscì a salvarsi intuendo la causa dei gravi sintomi che avvertiva e prendendo le opportune contromisure. Poco tempo dopo subirà diversi inspiegabili incidenti per le strade di Modena, mentre era in sella alla sua inseparabile bicicletta. L’ultimo attentato avverrà nel 1996 mentre, ormai ottantaquattrenne, si reca in bici al suo laboratorio per visitare i malati: colpito alle spalle con un sacco di sabbia, finirà a terra e si risveglierà in ospedale con un trauma cranico, una commozione cerebrale e la compromissione dell’udito ad un orecchio. Nonostante ciò, appena riavutosi ha un’unica preoccupazione: chiede di essere dimesso, si fa accompagnare in laboratorio e, con ancora le bende macchiate di sangue, inizia a visitare i malati che lo attendevano all’ingresso. Intervistato negli anni ’90 da un canale televisivo, lascia a bocca aperta la giornalista che gli chiedeva, viste le mille difficoltà attuali e quelle incontrate nella sua vita, quali fossero le sue gratificazioni: «Non ho bisogno di gratificazioni. Sono arrivato ad una semplice morale che a volte meraviglia anche i miei figli: ringrazio il Padreterno per la sofferenza che m’ha dato, perché attraverso la sofferenza ho imparato cos’è la vita» (6).
    La famigerata sperimentazione del 1998 richiederebbe una trattazione troppo lunga. Quello che è importante sottolineare è che non fu Luigi Di Bella a chiederla, ritenendo egli che l’ampia letteratura scientifica disponibile e la casistica raccolta avrebbero da tempo dovuto consentirne l’adozione. Il ministero dalla sanità preferì ignorare tali pubblicazioni, decidendo di organizzare una sperimentazione che, per i presupposti di partenza e poi per la sua conduzione, aveva l’esito già scritto. Basandosi esclusivamente su documenti ufficiali (Rapporti Istisan 98/17 e 98/24), si rileva infatti che condizione fondamentale per l’arruolamento fosse «essere non suscettibili, o non più suscettibili di trattamento»: in parole semplici, dovevano essere malati tanto gravi da far considerare inattuabile qualsiasi tentativo terapeutico (chirurgia, radioterapia, ormonoterapia, chemioterapia). La sopravvivenza stimata dagli sperimentatori andava da un minimo di 11 giorni (!) ad un massimo di 90. E’ un ben curioso criterio quello di ritenere efficace una terapia solo se riesce a replicare il miracolo di Lazzaro, salvando malati terminali e candidati all’assistenza domiciliare!
    Sempre sulla base della documentazione ufficiale si rileva un altro inquietante “mistero”: ad onta della reiterata affermazione che il professor Di Bella avesse accettato queste condizioni ostative, non esiste un documento ufficiale che attesti dove e quando lo scienziato avrebbe firmato i protocolli della sperimentazione; e anzi risulta agli atti uno schema autografo e da lui firmato il 31 gennaio 1998, totalmente incompatibile con gli schemi terapeutici praticati. L’esito così precostituito venne ulteriormente presidiato con numerose altre anomalie, costituenti obiettivamente e autonomamente cause di invalidazione (7): 3-4 farmaci previsti sui 10 del sopra richiamato schema autografo; interruzione del trattamento nell’86% dei casi; galenici somministrati dopo la data di scadenza o resi tossici dalla presenza di acetone (soluzione di retinoidi); somatostatina somministrata senza indispensabile impiego di siringa temporizzata, ecc. Ma, a parte quanto sopra, la demolizione della validità di questo studio fu fatta da uno scioccante editoriale comparso su quella che dai più è ritenuta la più autorevole rivista scientifica del mondo, il “British Medical Journal” (Marcus Mullner: “Di Bella’s therapy: the last word?” – Bmj, 1999, 318, 208).
    L’editoriale, dopo alcune severe critiche (mancanza di randomizzazione e di gruppo di controllo), conclude: «E’ proprio il progetto scadente di questo studio a non essere etico… Il progetto di questa sperimentazione è fallace». Il vero miracolo (mai comunicato all’opinione pubblica) fu che, nonostante quanto osservato, il 48% dei pazienti risultava in vita al termine della sperimentazione (Rapporti Istisan: 167 pazienti in vita al 31 ottobre 1998 su 347 pazienti ‘valutabili’), nonostante che la prognosi di massimo 90 giorni (la prova iniziò nel marzo 1998 e si concluse il 31 ottobre dello stesso anno) facesse prevedere il decesso di tutti i 347 pazienti arruolati. Nel follow-up del giugno 1999 risultavano ancora in vita 88 arruolati (25%).
    Malgrado le amarezze, le perfidie subìte e le delusioni, Luigi Di Bella continuerà la sua attività di medico fino al termine della sua vita, vincendo la stanchezza ed i crescenti problemi di salute. A chi tenta di farlo desistere almeno dalle visite ai malati che si presentano senza appuntamento, lui risponde con semplicità disarmante: «Se vengono qui, è perché hanno bisogno». Per tutta l’esistenza ha combattuto la “buona battaglia”. E ai figli, che in uno dei momenti di maggiore ostilità e attacchi crescenti, gli avevano chiesto se non fosse il caso di ritirarsi cercando di badare alla sua salute, aveva risposto: «Non capite che io sono sempre stato un lottatore?». Lascerà questo mondo il 1° luglio 2003, a pochi giorni dal suo 91° compleanno. Qualche mese prima aveva scritto: «Sono degno? Lo diranno gli altri. L’animo mi dice tuttavia che non sono vissuto inutilmente, perché ho fatto del bene ed ho gioito per il bene fatto».
    Infine, qualche osservazione sul Metodo Di Bella: si tratta di una cura squisitamente fisiologica, impostata cioè sui princìpi della fisiologia, la disciplina che studia il funzionamento degli organismi viventi, dai fenomeni macroscopici fino ai più piccoli legami molecolari. Per dirla in breve, è la scienza che studia la vita e i meccanismi con cui essa si esprime. E’ una materia fondamentale e alla base di tutte le altre discipline mediche, e non a caso, nel degrado voluto e pianificato della medicina attuale che va di pari passo col degrado di tutta la civiltà, essa è stata ridotta e svilita nei programmi universitari a tal punto che lo studente arriva a laurearsi in medicina capendone poco o nulla. Il tumore, inoltre, è una malattia sistemica e multifattoriale, per cui non potrà mai essere guarita da un unico rimedio. Non a caso, il metodo Di Bella comprende un numero ben nutrito di diverse sostanze fisiologiche, farmaci e princìpi vitaminici, la cui composizione è stata studiata per avere azione sinergica e fattoriale, per cui l’effetto di ognuno è impressionato e potenziato dall’assunzione di tutti gli altri. Per ciascuna di queste componenti sono comparsi negli anni un’infinità di studi sulle riviste scientifiche (attualmente ammontano a qualche decina di migliaia) che ne dimostrano l’efficacia antitumorale.
    Un altro fatto significativo sono i circa 1.000 casi documentati di efficacia del metodo Di Bella pubblicati su riviste scientifiche accreditate e “peer review”, rintracciabili agevolmente sul portale www.pubmed.gov. Tra le pubblicazioni più recenti, quelle sui pazienti con tumore alla prostata e alla mammella, molti dei quali hanno avuto remissione della malattia senza chirurgia, senza radioterapia e senza chemioterapia, ma unicamente con il Metodo Di Bella. Si tratta peraltro di casi documentati nella maniera più scrupolosa, con diagnosi e successivi accertamenti strumentali effettuati in strutture pubbliche o private. Per comprendere l’eccezionalità della pubblicazione, occorre evidenziare che in tutta la letteratura scientifica mondiale non esiste un solo caso pubblicato di tumore solido guarito con qualsivoglia strumento farmacologico o radiante. Considerando che circa 180.000 persone in Italia muoiono ogni anno a causa di patologie tumorali, quante vite si sarebbero potute salvare se la sperimentazione del 1998 fosse stata condotta in maniera corretta? Tanti altri aspetti del metodo, della pseudo-sperimentazione e della vita dello scienziato, oltre ad una ricca documentazione fotografica, sono riportati nel volume “Il poeta della scienza” scritto da Adolfo Di Bella, che ha voluto affidare a questa biografia una testimonianza unica: quella di una vita trascorsa accanto ad un genio e benefattore dell’umanità.
    (Luca Iezzi, “Il poeta della scienza: vita del professor Luigi Di Bella”, da “Coscienze in Rete” del 9 aprile 2019. Il libro: Adolfo Di Bella, “Il poeta della scienza. Vita del professore Luigi Di Bella”, Mattioli editore, 444 pagine, 28 euro).
    Note:
    (1) I dettagli delle candidature al Nobel del professor Pietro Tullio sono disponibili sul sito ufficiale del prestigioso premio: https://www.nobelprize.org/nomination/archive/show_people.php?id=9395
    Dal libro Si può guarire? La mia vita. Il mio metodo. La mia verità (Luigi Di Bella e Bruno Vespa, ediz. Mondadori, 1998, pag.34)
    (2) Intervista di Mons. Don Giovanni D’Ercole a Luigi Di Bella, trasmessa il 14 marzo
    1998 su Raidue nel programma “Prossimo tuo”: https://www.youtube.com/watch?v=IjexHtSSvlc.
    (3) Programma “Moby Dick” trasmesso il 6 novembre 1997 su Italia Uno e condotto da Michele Santoro: https://www.youtube.com/watch?v=T65W48zYxPo.
    (4) Si veda ad esempio, tra i tanti lavori di Schally: Barabutis N, Siejka A, Schally AV. Effects of growth hormone releasing hormone and its agonistic and antagonistic analogs in cancer and non-cancerous cell lines. International Journal of Oncology 2010 May;36(5):1285-9 (https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/20372804).
    (5) Intervista fatta a Luigi Di Bella nella primavera 1996: https://www.youtube.com/watch?v=uQJDUmwkugg.
    (6) La sperimentazione del 1998 – motivi e prove della sua invalidità: http://www.metododibella.org/la-sperimentazione-truffa-sul-metodo-di-bella.html .
    Un’enorme mole di dati e documenti che demolisce completamente la sperimentazione ministeriale è raccolta nel volume “Un po’ di verità sulla terapia Di Bella” (Vincenzo Brancatisano, ediz. Travel Factory, 1999).

    “Il poeta della scienza”, vita di Luigi Di Bella: il volume, minuziosamente documentato e ricco di indicazioni delle fonti, dipana la complessa figura del professor Di Bella esaminandola sotto il profilo scientifico, morale, intellettuale e umano. Difficile non giungere alla conclusione che sono state proprio queste qualità e virtù a procurargli, per buona parte della vita, un’ostilità incessante che non di rado si è fatta autentica persecuzione. Il lettore rimane, oltre che indignato e amareggiato, anche stupefatto per la capacità dell’uomo di non farsi annichilire da un’opposizione tanto indiscriminata e violenta e di riuscire a compiere egualmente la sua opera. Luigi Di Bella, siciliano, classe 1912, era nato in una famiglia numerosa e di assai disagiate condizioni economiche, non in grado quindi di sostenere le spese per fare studiare quel ragazzo, nonostante avesse precocemente dimostrato rare doti d’ingegno e di forza di volontà. Luigi sopportò sacrifici di ogni genere per soddisfare la sua sete di sapere e superare le ristrettezze della povertà, arrivando anche a studiare la sera in piedi, sotto la luce del lampione della strada, per sopperire alla penuria di petrolio per la lampada.

  • Claretta Petacci fu anche violentata, prima di essere uccisa

    Scritto il 21/1/18 • nella Categoria: segnalazioni • (11)

    Sommerso dalle polemiche per aver dato della “scrofa” a Claretta Petacci? Gene Gnocchi è un comico finito, da almeno dieci anni, e non ha più niente da dire. Fa battute sceme sul calcio, sulla “Gazzetta dello Sport”, ma davvero non ha più niente da dire, da almeno 10-15 anni. Avendo fatto bingo, cioè essendo stato inserito nella trasmissione de “La7” di Floris, ha cercato in ogni modo di attirare su di sé l’attenzione con delle cose trash, di cattivo gusto: delle autentiche idiozie, visto che una verve comico-satirica non ce l’ha più da anni. E ha utilizzato una foto del degrado di Roma – del presunto degrado di Roma, perché io a tutto questo degrado di Roma “per colpa dei pentastellati” non ci credo: penso che siano degli inetti, politicamente, ma non credo che la responsabilità della situazione di Roma sia esclusivamente loro. Gene Gnocchi ha preso la foto di un maiale che fruga tra i rifiuti e ha detto che quel maiale si chiamava Claretta Petacci. Ora, la Petacci rappresenta una pagina dolorosa della nostra storia. Claretta Petacci è stata violentata, ripetutamente. E successivamente trucidata, assieme a Mussolini – non voglio dire da chi, perché non lo so precisamente (alcuni se ne sono assunti la responsabilità, altri no, altri parzialmente) – senza che avesse nessuna responsabilità: né di guerra, né di pace.

  • Denaro, potere, guerra: seguite i soldi, quelli dei Rothschild

    Scritto il 20/1/18 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Hanno condizionato la storia mondiale degli ultimi due secoli e mezzo, influendo con i loro capitali ed i loro prestiti bancari su tutte le importanti vicende. Dalla battaglia di Waterloo in poi non c’è un evento storico che non li coinvolga e che dalle loro finanze non sia stato in qualche modo determinato. Ma a scuola non si studiano, sui libri di testo non compaiono e le notizie sui componenti di questa importantissima famiglia di banchieri ebrei scarseggiano in modo per lo meno sospetto. C’è chi giura che incombano massicciamente anche sull’economia mondiale attuale e sulla crisi che ha messo in ginocchio l’Occidente. Prestiti stellari, debito pubblico, speculazione finanziaria, “signoraggio”, banche centrali nelle mani di pochi potentissimi banchieri privati. Questi gli ingredienti che, inquietantemente, sembrano comporre la storia, recente o meno, di quella che è considerata la famiglia più potente del mondo. Meyer Amschel Rothschild nacque nel ghetto di Francoforte il 23 febbraio 1744. Discendente da un’antica famiglia di rabbini e predicatori ashkenazi di Worms (nata dall’unione dell’antichissima dinastia dei rabbini Hahn-Elkan con quella altrettanto antica degli Worms) era figlio del ferramenta Amschel Moses Rothschild (detto “Bauer”, così come il nonno Moses Callman) – che esercitava anche l’attività di cambiavalute.
    Il ragazzo crebbe al numero 148 di quella Judengasse (la “via degli Ebrei”), in cui si trovava la bottega del padre, che lo lasciò orfano a dodici anni. Meyer Amschel cominciò così a prendersi cura dei suoi fratelli mettendo a frutto la sua abilità di conoscitore di monete antiche, abilità che lo portò a diventare presto consulente e fornitore di importanti collezionisti. In virtù di questo successo decise di abbandonare il pesante soprannome (“Bauer” significa contadino ed era quindi troppo svilente), mantenendo solo il cognome Rothschild, derivante dall’espressione “Rot Schild”, ossia Scudo Rosso, dalla forma dell’insegna che campeggiava sull’antica bottega di famiglia. A venticinque anni il suo principale cliente era già il Langravio di Assia-Kassel, Guglielmo IX. A presentargli il futuro principe elettore fu probabilmente il generale Emmerich Otto August Von Estorff (1722-1796), conosciuto negli anni precedenti, quando Meyer faceva il cassiere nella banca dei ricchissimi Oppenheimer, ad Hannover. Von Estorff  (che nel 1764 aveva fatto affari fondando una società agricola a Celle, in Bassa Sassonia), era un estimatore di quel giovane che aveva saputo curare con profitto i suoi interessi, mettendosi contemporaneamente in luce nella stessa banca in cui lavorava, al punto di riceverne in premio un certo numero di azioni.
    Guglielmo IX era molto ricco, anche grazie alla consuetudine – tipica dei principi tedeschi dell’epoca – di “noleggiare” come mercenari ai sovrani stranieri i suoi soldati migliori, ricavandone notevoli profitti economici. Gli affari migliori li aveva fatti con il Re d’Inghilterra, a cui aveva affittato le sue truppe per supportarlo contro le colonie americane ed il loro generale George Washington. Quella ricchezza andava investita ed accresciuta. E Meyer era l’uomo giusto. Il rapporto col principe fruttò molto. Guglielmo IX vide aumentare il proprio capitale grazie agli investimenti che il suo consulente finanziario effettuava per suo conto, soprattutto in ambito militare. In compenso Meyer Amschel, potendo contare sulle conoscenze giuste, riuscì ad aprire una sua banca a Francoforte. Da Gutele Schnapper – figlia di un mercante ebreo, che lo aveva sposato, a diciassette anni, nell’agosto del 1770 – ebbe dieci figli: cinque femmine e cinque maschi (anche gli Schnapper erano una famiglia antichissima, imparentata anch’essa con quella dei Worms). Nelle mani dei suoi cinque figli (nell’ordine: Amschel, Salomon, Nathan, Karl e Jakob Meyer), Meyer Amschel avrebbe consegnato la sua fortuna.
    Un importante biografo della famiglia, H. R. Lottman, sostiene che delle femmine non ci siano giunti nemmeno i nomi. In realtà sappiamo che le cinque fanciulle si chiamavano Schönche Jeanette, Isabella, Babette, Julie e Henriette, ma la consuetudine di non divulgare molto l’identità delle femmine della famiglia fu spesso osservata scrupolosamente, poiché proprio attraverso di loro i Rothschild si imparentarono con le altre importanti dinastie ebree d’Europa, facendole sposare a volte con i figli delle figlie di altri uomini di potere il cui cognome, in quel modo, non potesse venir direttamente collegato al loro. Oppure, come vedremo, maritandole con altri Rothschild, quando ciò si rendeva necessario per mantenere in famiglia titoli e capitali. Il matrimonio più rilevante, tra quelli delle figlie di Amschel, fu probabilmente quello che toccò ad Henriette, andata in sposa ad Abraham Montefiore, membro della potente famiglia ebrea londinese emigrata a Livorno e zio di quel ricchissimo Moses Montefiore, imprenditore di successo e futuro filantropo ed attivista per la causa sionista.
    A rafforzare l’unione tra le due importanti famiglie ebraiche, il matrimonio tra Nathan e la cognata di Moses, Hannah Cohen, futura cugina di terzo grado di Karl Marx (che sarebbe nato dodici anni dopo il matrimonio). Un’unione che diede il via ad un imponente sodalizio finanziario tra i Rothschild ed i Montefiore, a cominciare dalla compagnia di assicurazione Alliance (l’attuale Rsa – Royal & Sun Alliance, une delle più grandi multinazionali assicurative del mondo), che i due fondarono nel 1824. Appena furono indipendenti, i figli maschi vennero mandati ad aprire nuove filiali della banca del padre nelle più importanti città europee. Anche se la tradizione sostiene che l’ideatore di questa dispersione sia stato papà Meyer Amschel, stando alle date, a qualche studioso sembra più credibile che tale provvedimento sia stato preso da Nathan, il primo figlio ad accumulare forti ricchezze, stabilitosi a Londra già dal 1805. Ad ogni modo solo il primogenito, Amschel, fu trattenuto a Francoforte come principale collaboratore e poi successore del genitore. Salomon fu inviato a Vienna, Karl (il cui vero nome era Calmann Meyer), a Napoli e Jakob, resosi poi celebre con il nome “James”, a Parigi.
    Dal gennaio del 1800, grazie al rapporto privilegiato con il Casato di Assia, i nostri banchieri erano diventati agenti dell’imperatore d’Austria. Il loro prestigio, negli anni, crebbe a dismisura, soprattutto a causa della loro straordinaria abilità nel trasferire merci e fondi di principi e Re – usufruendo il più possibile di lettere di cambio – soprattutto tra l’Europa continentale e l’Inghilterra. E ciò, incredibilmente, anche in situazioni di emergenza, come nei casi in cui le nazioni interessate si trovavano nel bel mezzo di una guerra. Situazione, questa, che spesso vedeva schierate l’una contro l’altra le nazioni in cui si trovavano le cinque agenzie dei Rothschild. Gli affari dei cinque fratelli cominciarono a diventare determinanti, all’interno dello scenario politico internazionale. Un esempio fra tutti. Lo storico Jean Bouvier nel suo “Les Rothschild” (Edition Complexe, 1983), ha giustamente sostenuto che Napoleone sia stato sconfitto su un campo di battaglia prettamente finanziario. Ebbene, già dietro la sconfitta di Waterloo del grande imperatore francese c’è lo zampino dei Rothschild. Furono loro, infatti, a finanziare le operazioni militari del duca di Wellington che portarono alla vittoria dell’esercito inglese. Esattamente come, dopo l’uscita di scena di Napoleone, erogarono i prestiti per la restaurazione, in Francia, del potere di Luigi XVIII.
    Ma non basta. Il Langravio di Assia, negli ultimi anni del potere di Napoleone, aveva tergiversato chiedendosi se convenisse di più schierarsi con Bonaparte o con le molteplici coalizioni realizzatesi contro di lui. Napoleone non glielo aveva perdonato, ed era piombato sull’elettorato, occupandolo e spedendo il Langravio in esilio. In quella circostanza Amschel Meyer aveva esibito tutto il suo opportunismo, continuando in segreto ad aiutare finanziariamente l’esule Guglielmo (con l’aiuto di Nathan, che aveva custodito i risparmi del principe sottraendoli alla razzia napoleonica e, nel frattempo, utilizzandoli per comprare oro per un valore di 800 mila sterline) e, contemporaneamente, intraprendendo nuovi proficui affari con i francesi, ingraziandoseli al punto di ottenere che venisse sancita la parità di diritti tra gli abitanti del ghetto ed il resto della popolazione dell’Assia, e ciò in cambio del versamento di una somma pari a ben vent’anni di imposte! E ciò, si noti bene, nonostante l’imperatore fosse determinato ad arrestare in tutti i modi il processo di emancipazione degli ebrei innescato dalla Rivoluzione Francese. Dal marzo 1810, poi, Jakob si era trasferito a Parigi in modo definitivo, e gli affari con l’imperatore erano diventati una prassi quotidiana.
    D’altra parte, negli anni precedenti, aveva improvvisamente moltiplicato le sue ricchezze ed il suo potere grazie ad un affare di cui gli storici tradizionali non hanno mai parlato, ma che lo studioso “non allineato” Vittorio Giunciuglio (nel suo “Un ebreo chiamato Cristoforo Colombo”, 1994), ha spiegato molto bene in seguito alle sue lunghe ricerche su Cristoforo Colombo. James, infatti, aveva ricevuto da Napoleone l’incarico di smerciare le migliaia di lingotti d’oro sottratti al rivale Banco di San Giorgio, istituto finanziario genovese importantissimo, nonché prima banca della storia europea. Il Banco conteneva, oltre ai depositi della corona francese, su cui la Repubblica voleva mettere le mani, niente meno che l’immensa ricchezza di Colombo, accumulata in tutti i suoi viaggi. Genova era stata occupata dai francesi proprio per metter fuori combattimento e depredare quello che costituiva il principale rivale della Banca Rothschild. Una fortuna smisurata, che aveva successivamente trasformato James in uno degli uomini più importanti del mondo.
    Ma al di là dei lingotti genovesi, Napoleone sapeva pochissimo del resto degli affari di James. Il quale, in quella nuova sede, aveva potenziato enormemente il traffico di oro ed effetti bancari tra Inghilterra, Francia e resto d’Europa, facendo trasportare il metallo prezioso in vagoni  con scomparti segreti e, quando risultava impossibile occultare tali traffici, riuscendo a convincere il ministro napoleonico delle finanze Mollien che il flusso d’oro verso Londra giocasse un ruolo favorevole alla Francia, comportando di fatto un forte indebolimento economico per l’Inghilterra. In pratica i Rothschild stavano facendo affari con dominati e dominatori, vincitori e sconfitti. E nessuno l’aveva davvero capito. Una prassi che, come vedremo, la famiglia saprà consolidare nel tempo. Si racconta che Amschel Meyer, deceduto il 12 settembre 1812, sul letto di morte abbia diviso il mondo tra i suoi cinque figli. Sta di fatto che questi sono gli anni dell’irrefrenabile ascesa di Jakob, ribattezzatosi James. Con la prima sconfitta di Napoleone a Waterloo egli riuscì a registrare la sua banca presso il tribunale di Parigi e ad accogliere, grazie a Nathan, la valuta inglese necessaria per finanziare la salita al trono di Luigi XVIII.
    Fu il suo primo contratto con un Re. All’età di ventun anni il nostro James vantava un giro d’affari superiore al milione di franchi, l’equivalente di circa cinque milioni di euro attuali. Nel frattempo Bonaparte il 26 febbraio 1815 fuggiva dall’isola d’Elba con cinquecento uomini. Nemmeno un mese dopo, la sera del 20 marzo, sedeva già al posto di comando, presso la residenza delle Tuileries, ma ancora una volta James non si perse d’animo. Non sappiamo che rapporto intercorse tra l’imperatore ed il banchiere in quei leggendari successivi Cento giorni, ma è un dato di fatto che l’esito della battaglia campale di Waterloo sia arrivata alle orecchie dei Rothschild prima che a quelle di chiunque altro. La leggenda vuole che James abbia seguito le operazioni militari da un’altura ed abbia subito informato il fratello Nathan a Londra – che per finanziare le truppe inglesi aveva trasferito nel continente lingotti d’oro per un valore di 15 milioni di sterline tra il 1813 ed il 1815, di cui 6 milioni soltanto tra il gennaio ed il giugno dell’ultimo anno – ottenendo in quel modo guadagni eccezionali in ambito finanziario. Secondo un’altra versione Nathan sarebbe stato informato dal suo agente di Ostenda, Rowerth.
    Il Lottman – in generale sempre molto “fiducioso” nelle qualità morali e civili della famiglia – così scrive: «In realtà il servizio di informazioni dei Rothschild, che con la consueta efficienza collegava i punti chiave del continente servendosi di battelli e diligenze, portò a Nathan la notizia prima che arrivasse a chiunque altro; ma egli, da buon suddito del Re qual era, ne informò immediatamente il governo inglese. I Rothschild diventarono ancora più ricchi, ma non furono gli unici beneficiari della vittoria». Nel 1816, grazie alle pressioni esercitate da Metternich, i Rothschild ottennero dall’Imperatore d’Austria il titolo di baroni; un riconoscimento estremamente inusuale, mai concesso a commercianti, per giunta ebrei. Il titolo andò a tutti i fratelli tranne Nathan, che in qualità di suddito britannico non poteva ottenere un’onorificenza austriaca. James, barone a soli ventiquattro anni, largheggiò permettendosi di invitare a cena lo stesso Metternich o il duca di Wellington. Divenne amico e consulente finanziario del duca d’Orleans, futuro Luigi Filippo, Re dei francesi, che una volta sul trono non si sarebbe certo dimenticato dei favori del barone. Il tutto visto non proprio di buon occhio dalle varie comunità ebraiche europee, cui non sfuggiva l’alleanza tra i ricchissimi banchieri semiti ed i loro potentissimi, aristocratici persecutori.
    (Pietro Ratto, “Rothschild, il nome impronunciabile”, dal newsmagazine “InControStoria”. Ratto è autore del saggio “I Rothschild e gli altri”, Arianna editrice, 160 pagine, euro 9,80).

    Hanno condizionato la storia mondiale degli ultimi due secoli e mezzo, influendo con i loro capitali ed i loro prestiti bancari su tutte le importanti vicende. Dalla battaglia di Waterloo in poi non c’è un evento storico che non li coinvolga e che dalle loro finanze non sia stato in qualche modo determinato. Ma a scuola non si studiano, sui libri di testo non compaiono e le notizie sui componenti di questa importantissima famiglia di banchieri ebrei scarseggiano in modo per lo meno sospetto. C’è chi giura che incombano massicciamente anche sull’economia mondiale attuale e sulla crisi che ha messo in ginocchio l’Occidente. Prestiti stellari, debito pubblico, speculazione finanziaria, “signoraggio”, banche centrali nelle mani di pochi potentissimi banchieri privati. Questi gli ingredienti che, inquietantemente, sembrano comporre la storia, recente o meno, di quella che è considerata la famiglia più potente del mondo. Meyer Amschel Rothschild nacque nel ghetto di Francoforte il 23 febbraio 1744. Discendente da un’antica famiglia di rabbini e predicatori ashkenazi di Worms (nata dall’unione dell’antichissima dinastia dei rabbini Hahn-Elkan con quella altrettanto antica degli Worms) era figlio del ferramenta Amschel Moses Rothschild (detto “Bauer”, così come il nonno Moses Callman) – che esercitava anche l’attività di cambiavalute.

  • Potere, dogma, dominio: noi e i Catari, i “Bogre” del 1200

    Scritto il 13/1/18 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    I càtari? «Erano seguaci di una cupa, feroce, sanguinosa setta di origine asiatica», scrive sul “Corriere” Vittorio Messori, giornalista vicinissimo al Vaticano e autore di libri-intervista su Wojtyla e Ratzinger, fino a “La Chiesa di Francesco”. Sostiene, Messori, che gli eretici cristiano-dualisti annientati dalla Crociata Albigese all’inizio del 1200 fossero appoggiati dai nobili del Midi francese «non per motivi religiosi, ma perché volevano mettere le mani sulle terre della Chiesa», dando così per scontato che il Vaticano fosse una specie di multinazionale del latifondo sorretta dalle rendite economiche, più che un’istituzione dedita alla vita spirituale dei fedeli. L’espressione “le terre della Chiesa” viene infatti pronunciata da Messori con assoluta disinvoltura, peraltro sorvolando sulla storia: centinaia di pagine, nella storiografia per lo più transalpina, documentano l’adesione alla religione càtara da parte della “meglio gioventù” nobiliare occitanica, non certo attratta dagli epigoni di una “cupa, feroce, sanguinosa setta di origine asiatica”, ma da cristiani gnostici che vivevano in religiosa povertà, senza neppure un tempio, e accusavano Roma di aver barato fin dall’inizio sull’identità di Cristo e sul significato delle Scritture.
    E se la tenebrosa “setta asiatica” (stranamente non citata da Messori, solo evocata) fosse il Manicheismo, è bene sapere che ormai gli storici escludono categoricamente qualsiasi filiazione dottrinaria tra la predicazione del profeta persiano Mani e l’affermazione balcanica dei bogomili, i progenitori dei càtari. Il Padre Celeste adorato dai Buoni Cristiani – ribattezzati “càtari” dai loro sterminatori – era in tutto simile ad Ahura Mazda, la divinità della luce di Zoroastro, ispiratore della religione più diffusa in Medio Oriente fino all’anno zero: sarebbero sacerdoti mazdei i Magi venuti dall’Oriente di cui parla il Vangelo di Matteo, accorsi ai piedi della culla di Betlemme. Se il Cattolicesimo contempla la vita ulteriore, “eterna”, al di là di quella presente, sia il Mazdeismo che il successivo Catarismo danno estrema importanza alla terza fase dell’esistenza, che in realtà è la prima, chiaramente narrata nelle loro teologie. La dimensione materiale? E’ vissuta come passaggio transitorio, una dolorosa “caduta” rispetto allo stadio precedente, quello in cui le anime vivevano in beatitudine “al cospetto di Dio”. Missione del credente càtaro: aiutare l’umanità a “tornare a casa”, adottando il modello evangelico (rifiutare beni e ricchezze) per riconquistare l’accesso alla terra d’origine, l’ancestrale ascendenza “divina” di cui sarebbe rimasta una traccia, una scintilla, in ogni essere vivente.
    Proprio il mito del ritorno pervade un suggestivo racconto dei Sufi, quello dei costruttori di navi: compito del credente è custodire l’arte del carpentiere, anche se il potere del mondo detesta i “costruttori di navi”, imponendo questo mondo come l’unico possibile. Un ponte diretto collega i mistici “dervisci” a Francesco d’Assisi, che entrò in contatto con loro durante il suo viaggio in Egitto – per poi replicare il modello dei Sufi, asceti “vestiti di lana grezza”, nel futuro ordine francescano, a sua volta poi tacciato di eresia e avvicinato pericolosamente proprio al Catarismo. Sembra un fantasma scomodo, ancora oggi, quello dell’eresia cristiana dualistica del medioevo: se un intellettuale militante come Messori la attacca frontalmente, puntando a screditarla e demonizzarla, un laico come Eugenio Scalfari in un articolo su “Repubblica” arriva a equipararla, sbadatamente, a un altro Cristianesimo alternativo, quello di Pietro Valdo, per il quale invece la divinità era una sola – non esiste Dio Straniero, per i valdesi: il mondo è opera di una sola mano, quella dell’Altissimo.
    Anche se non lo si vuole ammettere, osserva il regista Fredo Valla, autore dell’atteso documentario “Bogre” (un viaggio tra bogomili e càtari, dalla Bulgaria alla Francia), l’eresia cristiano-dualistica scosse il medioevo europeo come un terremoto. Condannando la materia come frutto di una “creazione dannata”, opera del Demiurgo sfuggito al controllo della divinità celeste (buona, ma non onnipotente), contestava il ruolo sociale e politico dell’istituzione religiosa come garante dello status quo, dell’ordine feudale. In Linguadoca, Acquitania e Guascogna il Catarismo fu tollerato fino a quando, a prendere i voti, non furono i figli dei nobili: disposti a rinunciare ai feudi di famiglia, pur di abbracciare la predicazione dei Buoni Uomini. E’ esplicito l’inutile grido d’allarme lanciato, a Roma, da Bernardo di Chiaravalle, reduce da una missione esplorativa nelle terre occitane: il grande monaco spiegò al pontefice che nel Midi francese la fede càtara accomunava aristocrazia e popolo, di fronte allo spettacolo indecente offerto dal clero cattolico, ricchissimo e corrotto. Il futuro San Bernardo raccomandò la via della persuasione, dopo aver bonificato le diocesi per riconquistare i fedeli. Ma il Papa, Innocenzo III, preferì la via delle armi: alla carneficina della Crociata, che in vent’anni di guerra precipitò l’Occitania nella rovina economica, seguì la catastrofe dell’Inquisizione anti-càtara, durata 70 anni, che inaugurò il terrore come arma politica sistematica.
    Guardare tra quelle pagine con spirito laico e distaccato non è mai semplice, avverte una studiosa come Lidia Flöss, autrice di importanti ricerche sul Catarismo anche italiano: si rischia di cadere in posizioni preconcette, che non tengono conto dello spirito dei tempi, rinnovando polemiche anacronistiche. Sbagliato fare del Catarismo una sorta di mitologia new age: nel saggio “I Catari, gli eretici del male”, la Flöss si addentra fra le diatribe – prosaiche, umanissime – delle svariate comunità càtare del Lago di Garda, in competizione tra loro per la leadership teologica. Da una parte i “bulgari”, moderati e fiduciosi – come i bogomili (e i mazdei) – nella riconciliazione universale “alla fine dei tempi”, e dall’altra i càtari radicali, come il pope Niketas che evangelizzò Tolosa, convinti dell’irriducibile opposizione tra bene e male. Sul fronte opposto, nella Crociata Albigese, ai baroni francesi del Nord furono promessi i feudi del Sud come preda di guerra, ma i soldati ai loro ordini – quelli che fecero strage della popolazione civile – era stata promessa la remissione dei peccati, cioè il viatico per la vita eterna, in cambio della pulizia etnico-religiosa che avrebbe liberato l’Occitania dalla peste eretica.
    La stessa Simone Weil, autrice del meraviglioso saggio “I Catari e la civiltà mediterranea”, sottolinea la presenza della “pietas” tra i versi della Canzone della Crociata, opera di autori cattolici: nel poema non viene mai meno la profonda pietà per gli sconfitti. E’ un sentimento che la Weil attribuisce alla temperie socio-culturale della terra dei Trovatori, straordinariamente tollerante, al punto da far riverberare lo spirito democratico dell’Atene di Pericle, con il culto della bellezza opposto a quello della forza. E il “paratge”, il particolare senso dell’onore che anima l’ideale cavalleresco occitanico, ricomparirà sicuramente nel viaggio cinematografico di Fredo Valla, alla ricerca – sulla scorta della lezione di Simone Weil – di una perduta dimensione del vivere, che stranamente fiorì in quella regione, a partire dal 1100, prima che calasse il sipario del sangue e della paura. Molto semplicemente: in modo forse anche ingenuo, il Cristianesimo eretico dei càtari – in pieno medioevo – contesta il fatto che una religione possa indossare i panni del potere. Oggi, nel 2018, il mondo è in mano a un potere laico, fondato solo sul denaro, che però esercita il suo dominio mediante dogmi di tipo religioso, come quello neoliberista. Perché perdere tempo a fare assurdi processi alla storia, quando è possibile guardarci dentro, in quella storia, anche grazie a un documentario, per poi magari scoprire che qualcosa, del nostro presente, può avere un fondamento tra le pagine dell’epopea dei “Bogre”?

    I càtari? «Erano seguaci di una cupa, feroce, sanguinosa setta di origine asiatica», scrive sul “Corriere” Vittorio Messori, giornalista vicinissimo al Vaticano e autore di libri-intervista su Wojtyla e Ratzinger, fino a “La Chiesa di Francesco”. Sostiene, Messori, che gli eretici cristiano-dualisti annientati dalla Crociata Albigese all’inizio del 1200 fossero appoggiati dai nobili del Midi francese «non per motivi religiosi, ma perché volevano mettere le mani sulle terre della Chiesa», dando così per scontato che il Vaticano fosse una specie di multinazionale del latifondo sorretta dalle rendite economiche, più che un’istituzione dedita alla vita spirituale dei fedeli. L’espressione “le terre della Chiesa” viene infatti pronunciata da Messori con assoluta disinvoltura, peraltro sorvolando sulla storia: centinaia di pagine, nella storiografia per lo più transalpina, documentano l’adesione alla religione càtara da parte della “meglio gioventù” nobiliare occitanica, non certo attratta dagli epigoni di una “cupa, feroce, sanguinosa setta di origine asiatica”, ma da cristiani gnostici che vivevano in religiosa povertà, senza neppure un tempio, e accusavano Roma di aver barato fin dall’inizio sull’identità di Cristo e sul significato delle Scritture.

  • Totò Riina, un progetto organico al tritacarne del potere

    Scritto il 29/11/17 • nella Categoria: idee • (3)

    Totò Riina? E’ stato un progetto di potere, inserito in uno schema. «Dobbiamo immaginare lo schema del potere come una specie di enorme tritacarne. Lo scopo del potere è realizzare la carne tritata. E’ indifferente di chi sia, la carne, nel senso che poi il potere utilizza di volta in volta schemi, persone, associazioni». E in Sicilia, storicamente, il potere ha utilizzato la mafia. Parola di Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” e del nuovissimo “Il compasso, il fascio e la mitra”, che illumina i retroscena dell’origine del fascismo. «Sicuramente – dice – Riina ha risposto allo schema generale del potere, che di volta in volta attiva i personaggi che gli sono funzionali». L’ex super-boss di Corleone è stato accusato di oltre 100 omicidi? «Era il capo, di basso livello, di una associazione criminale che ha commesso quegli omicidi, ma che rispondeva comunque a uno schema di ordine superiore». Ingranaggi di un meccanismo infernale: quei personaggi che stanno al di sopra di Riina hanno certamente preordinato le varie azioni, «ma anche loro sono burattini, in mano a uno schema astratto». Semplice manovalanza criminale, Riina? «Sì, e anche di basso livello, oserei dire», afferma Carpeoro, in diretta streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights”. La narrativa sul “boss dei boss”? In parte, creata solo per depistare l’opinione pubblica: la fabbricazione dell’Uomo Nero, l’incarnazione del male.
    «Il potere – spiega Carpeoro – cerca sempre di additare un responsabile con cui te la devi prendere, altrimenti fininisci per mettere in discussione il vero potere: l’autoconservazione del potere impone che tu te la prenda con qualcuno, non con qualcosa». Per contro, aggiunge, per uno Stato che si ponga obiettivi di progresso «è necessario sgominare un’organizzazione criminale come quella di Totò Riina». E’ esistita una trattativa Stato-mafia? «Sì, più volte», risponde Carpeoro. «Nel momento in cui la mafia ha un riferimento nel potere politico che governa, di questi accordi ce ne saranno stati migliaia». Molte volte, addirittura, «è stata la mafia stessa a consegnare alla pubblica gogna (e alle forze dell’ordine) alcuni suoi esponenti divenuti ingombranti, indifendibili e ingestibili, troppo nell’occhio del ciclone». E l’ha fatto «con l’obiettivo (concordato) di tacitare tutte le altre iniziative di contrasto della criminalità mafiosa». Aggiunge Carpeoro: «Se uno vuole fare davvero la lotta alla mafia, deve combattere lo schema di potere che ha deciso di utilizzare la mafia, così come si è configurata nell’arco di decenni», a partire dallo sbarco alleato in Sicilia nella Seconda Guerra Mondiale.
    «Per gestire anche la mafia – aggiunge Carpeoro – gli americani hanno creato appositamente una loggia massonica: hanno dato vita al cosiddetto Progetto Colosseum, da cui sono nate numerose logge». Gli statunitensi «hanno utilizzato la mafia anche a scopi bellici, per assicurarsi un’invasione indisturbata della Sicilia (a fin di bene, in quel caso, perlomeno rispetto al contrasto del nazifascismo)». I rapporti tra gli Usa e Cosa Nostra sono sempre stati organici, dice Carpeoro: «Non a caso Andreotti, nel suo processo d’appello, per ottenere l’assoluzione ha citato come testimoni consoli, diplomatici e alti dirigenti degli Stati Uniti d’America». I politici uccisi dalla mafia, da Salvo Lima a Piersanti Mattarella? «Alcuni erano obiettivi tattici, cioè davano fastidio in quel momento; altri erano obiettivi strategici, cioè rappresentavano battaglie da dissuadere fin dall’inizio». Dipende dalle circostanze, dal periodo: «Ci sono stati dei momenti in cui alla mafia è convenuto essere meno visibile, e altri momenti in cui la mafia ha valutato invece che riaffermare le proprie prerogative sul territorio comportasse una certa visibilità».
    Cosa conteneva la famosa Agenda Rossa di Borsellino? «Elementi delle sue indagini, credo», ipotizza Carpeoro. «Non penso fosse arrivato a indicazioni generali; credo abbia indagato sui rapporti tra la mafia e una certa politica siciliana, e che fosse andato molto avanti, in questa direzione. Non scordiamoci che quel tipo di politica, in realtà, è indispensabile per vincere le elezioni, in Sicilia: quel tipo di politica utilizza anche la mafia, il voto di scambio, tant’è vero che troviamo continuamente casi di politici siciliani coinvolti». Storicamente, continua Carpeoro, la mafia in Sicilia è stata sempre collegata alla Democrazia Cristiana: «Quindi, basta andare appresso agli ex democristiani e si trovano le radici del problema. Borsellino poi indagò anche su Forza Italia, ma perché Forza Italia, in Sicilia, per vincere le elezioni si fece infiltrare da quel tipo di politica democristiana». Le indagini di Borsellino potevano illuminare anche i retroscena della grande svendita finanziaria dell’Italia? «Quelle sono logiche che poi si sono sovrapposte, nel potere. Esistono logiche generali e logiche locali; a volte queste logiche coincidono, e allora si creano questi coaguli di pressione».
    Il pentito Vincenzo Calcara parla della mafia come di una “entità” accanto ad altre, come la massoneria e il Vaticano. «Tutto ciò che gestisce potere, alla fine, finisce nel tritacarne», insiste Carpeoro: «Tutto il tritato generale della nostra vita civile è fatto di tante componenti; nel momento in cui un certo modo di fare politica ha infiltrato anche la massoneria, la stessa massoneria (almeno quella locale, non so quella nazionale) è diventata uno dei gangli di questo schema di potere. D’altro canto, la stessa massoneria internazionale si è resa “fruibile”, da parte di meccanismi di potere, quindi la cosa non mi meraviglia minimanente». Mafia Capitale a Roma? «Interpretare il termine “mafia” in senso estensivo, cioè riferibile a qualunque associazione criminale, è possibile in linea teorica ma non so quanto sia utile sul piano pratico: perché la mafia, pur essendo diventata di portata ultra-nazionale, è pur sempre un fenomeno molto radicato su territori». La mafia siciliana come prodotto dell’Italia unita? «Cerchiamo di capirci: tutti quelli che collegano la mafia all’Unità d’Italia dicono un cazzata», sostiene Carpeoro, sottolineando che, prima dell’Unità d’Italia, nel Meridione, il potere era in mano ai latifondisti, i cosiddetti baroni, con i loro temutissimi “camperi”.
    «Il principale alleato del barone era il capobastone del posto», ricorda Carpeoro, «perché la polizia borbonica non era così efficiente e ramificata da garantire l’ordine pubblico. E quindi in ogni paese c’era uno – più furbo, più arrogante, più violento, magari anche dotato di un certo magnetismo nei confronti di coloro che formavano la sua banda – che garantiva ai latifondisti l’esercizio di un potere incontrastato e lo sfruttamento indisturbato delle altre persone. Questa era già mafia», inutile negarlo. Nel momento in cui si crea l’Unità d’Italia, poi, la mafia diventa brigantaggio, «nella dissidenza di quelli a cui il potere è stato tolto». Ma attenzione: «C’è anche una vasta area di trasformazione e di coesione di questi vecchi sistemi nei confronti del nuovo assetto politico: per cui, poi, si creerà il nuovo asse, sul territorio, tra il potere politico e la mafia». Nell’atroce storia mafiosa, suscitano orrore delitti come l’omicidio di Giuseppe Di Matteo, il ragazzino rapito a 13 anni e poi, dopo oltre 700 giorni di prigionia, ucciso da Brusca e altri complici, che ne sciolsero il corpo nell’acido. «Come leggere un delitto di questo tipo? Come una barbarie, ricollegabile al basso livello della manovalanza mafiosa – basso livello da ogni punto di vista: non solo etico, ma anche pratico e strategico». Eppure, sottolinea Carpeoro, bisogna ricordarsi che la mafia di Brusca e Riina è stata usata e incorporata nello schema di potere dell’Uomo Nero, quello che fa in modo che ce la prendiamo sempre con qualcuno, non con il sistema stesso. E’ così che il gioco è destinato a non finire.

    Totò Riina? E’ stato un progetto di potere, inserito in uno schema. «Dobbiamo immaginare lo schema del potere come una specie di enorme tritacarne. Lo scopo del potere è realizzare la carne tritata. E’ indifferente di chi sia, la carne, nel senso che poi il potere utilizza di volta in volta schemi, persone, associazioni». E in Sicilia, storicamente, il potere ha utilizzato la mafia. Parola di Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo” e del nuovissimo “Il compasso, il fascio e la mitra”, che illumina i retroscena dell’origine del fascismo. «Sicuramente – dice – Riina ha risposto allo schema generale del potere, che di volta in volta attiva i personaggi che gli sono funzionali». L’ex super-boss di Corleone è stato accusato di oltre 100 omicidi? «Era il capo, di basso livello, di una associazione criminale che ha commesso quegli omicidi, ma che rispondeva comunque a uno schema di ordine superiore». Ingranaggi di un meccanismo infernale: quei personaggi che stanno al di sopra di Riina hanno certamente preordinato le varie azioni, «ma anche loro sono burattini, in mano a uno schema astratto». Semplice manovalanza criminale, Riina? «Sì, e anche di basso livello, oserei dire», afferma Carpeoro, in diretta streaming con Fabio Frabetti di “Border Nights”. La narrativa sul “boss dei boss”? In parte, creata solo per depistare l’opinione pubblica: la fabbricazione dell’Uomo Nero, l’incarnazione del male.

  • Big Pharma democratica? Forse non tutto è in sfacelo

    Scritto il 24/6/17 • nella Categoria: idee • (6)

    Voglio essere breve ma istruttivo. Tempo fa scrissi un articolo dove dimostravo che oggi il pensiero più avanzato sulla tutela del lavoro non sta nelle putrefatte puttane grandi sigle sindacali, ma sta nei cervelli delle aziende di Silicon Valley o addirittura nei cervelli di Goldman Sachs. Il segnale inequivocabile è che il Vero Potere ha due facce. Quella nota, di poco differente da Satana, o da un barracuda sifilitico, o da un pitbull con la rabbia; e un’altra faccia che incredibilmente coesiste con quanto detto prima, cioè intelligenze veramente progressiste, avanzatissime anche nei regni dei… diritti. Yes, è così. Quindi per uno come me, che iniziò il precipizio della sua carriera di affermato reporter nazionale proprio producendo un’inchiesta Rai sul conflitto d’interessi fra medici e giganti del farmaco (Big Pharma), è oggi di sollievo leggere ciò che i dottori Michael Rosenblatt e Sachin Jain hanno pubblicato pochi giorni fa per la Harvard Univesity. Chi sono? Sono due baroni della medicina sia pubblica che privata americana, entrambi ex dirigenti di punta del colosso del farmaco Merck ma anche universitari, quindi profondi conoscitori del… conflitto d’interessi tra profitto di Big Pharma e medici, sia pubblici che privati.
    Non ripeto qui la loro analisi, ma io conosco molto bene la materia e vi garantisco che questi due baroni hanno non solo ammesso sulle pagine di Harvard ogni singolo angolo dello scandaloso conflitto d’interessi fra Big Pharma, professori universitari ricercatori, primari e medici di famiglia (inclusa l’insidiosa pratica della pubblicazione scientifica per far carriera negli atenei, che non coinvolge soldi ma ‘spintoni’ dai raccomandatori privati), ma hanno anche proposto le basi per una legislazione in materia che abbia senso pratico e morale. Il senso morale è scontato, inutile qui ri-raccontarlo. In molti Stati Usa oggi se un medico (letteralmente) prende un caffè con un informatore farmaceutico, è tenuto a denunciare il fatto a un comitato apposito, se no rischia l’espulsione dall’albo alla denuncia di un passante. Le vie per raggirare ci sono, ovvio, ma questo controllo esiste in Italia? No.
    Il senso pratico, qui, è essenziale. Oggi il mercato è ovunque, è come l’ossigeno sul pianeta Terra, s’infiltra ovunque. L’utopia di una sanità di puro investimento pubblico è fuffa. Il problema è allora, Michael Rosenblatt e Sachin Jain sostengono, sfruttare l’immenso potenziale di ricerca finanziata dalla Stato (di fatto per 50 anni il vero partoriente di tutta la tecnologia che conosciamo) assieme all’immenso potenziale di ricerca di Big Pharma. Ciò va fatto con regolamentazioni che, dicono i due esperti, «non vadano a strangolare alla cieca i contatti fra Big Pharma e medici, ma che incoraggino più la dichiarazione pubblica di un potenziale conflitto d’interessi nascente, che il conflitto stesso». Tradotto: quando un brillante ricercatore medico pubblico fa una scoperta essenziale per la salute di tutti, più che chiuderlo in una gabbia pubblica dalla quale non potrà mai comunicare con Big Pharma, si deve per prima cosa annunciare che un conflitto d’interessi ne può nascere, e poi sedersi al tavolo di ministero della sanità e Big Pharma e discutere come i privati possono aiutare lo Stato a maturare quella grande scoperta senza sfruttare o corrompere nessuno. Meno che meno sfruttare gli ammalati. E viceversa, la stessa cosa quando Big Pharma scopre una cura salvavita. Al tavolo col ministero… prima di tutto.
    Che questi concetti escano dagli americani, da due ex pezzi grossissimi della Merck, è un risultato immenso, insperato, dà un senso di micro-speranza, come quando appunto Paolo Barnard è l’unico in Italia ad accorgersi che il welfare del futuro dei salariati è in mano ai cervelli della Artificial Intelligence, non ai fossili della Cgil e soci. Loro, i cervelli A.I. hanno le vere idee e le condividono pubblicamente. Ministro del lavoro, fatti avanti (non tu cazzaro, in It). Bè, come posso concludere questa nota, se non con due cose. Voi che vivete nel web gettate al cesso i webeti della serie “Il mondo è diviso fra la cupola satanica dei Rothschild privati, e i buoni”, guardate dentro il Vero Potere, e ci troverete delle sorprese eccezionali. Secondo… bè, think.
    (Paolo Barnard, “Forse non tutto è in sfacelo – lasciamo perdere l’It”, dal blog di Barnard dell’11 giugno 2017).

    Voglio essere breve ma istruttivo. Tempo fa scrissi un articolo dove dimostravo che oggi il pensiero più avanzato sulla tutela del lavoro non sta nelle putrefatte puttane grandi sigle sindacali, ma sta nei cervelli delle aziende di Silicon Valley o addirittura nei cervelli di Goldman Sachs. Il segnale inequivocabile è che il Vero Potere ha due facce. Quella nota, di poco differente da Satana, o da un barracuda sifilitico, o da un pitbull con la rabbia; e un’altra faccia che incredibilmente coesiste con quanto detto prima, cioè intelligenze veramente progressiste, avanzatissime anche nei regni dei… diritti. Yes, è così. Quindi per uno come me, che iniziò il precipizio della sua carriera di affermato reporter nazionale proprio producendo un’inchiesta Rai sul conflitto d’interessi fra medici e giganti del farmaco (Big Pharma), è oggi di sollievo leggere ciò che i dottori Michael Rosenblatt e Sachin Jain hanno pubblicato pochi giorni fa per la Harvard Univesity. Chi sono? Sono due baroni della medicina sia pubblica che privata americana, entrambi ex dirigenti di punta del colosso del farmaco Merck ma anche universitari, quindi profondi conoscitori del… conflitto d’interessi tra profitto di Big Pharma e medici, sia pubblici che privati.

  • Jobs Act, fine del lavoro e di cent’anni di progresso in Italia

    Scritto il 13/1/15 • nella Categoria: idee • (4)

    Era lecito domandarsi a che servisse togliere la tutela dell’articolo 18 a tutti i nuovi assunti, quando non si creano nuovi posti di lavoro e la disoccupazione aumenta. Il decreto natalizio del governo Renzi supera questa contraddizione. Senza che se ne fosse minimamente accennato nella discussione parlamentare sulla legge delega, il testo sfrutta al massimo l’incostituzionale mandato in bianco imposto col voto di fiducia e estende la franchigia anche al mancato rispetto delle regole sui licenziamenti collettivi. La legge 223 infatti, recependo principi e regole in vigore in tutti i paesi industriali più avanzati e sostenute con forza da tutte le organizzazioni internazionali, Onu in testa, da oltre venti anni disciplina i licenziamenti collettivi per crisi, stabilendo criteri e regole nel loro esercizio. Ad esempio essa applica un concetto principe del diritto del lavoro degli Usa, la “seniority list”. Se proprio si deve licenziare si parte dagli ultimi arrivati, dai più giovani, da coloro che non hanno carichi familiari e si risale verso le madri e gli anziani capi di famiglia. In vetta a quella lista, nelle aziende Usa sindacalizzate, stanno addirittura i rappresentanti dei lavoratori.
    In Italia non siamo così rigidi, ma il senso della regola è lo stesso. La 223 stabilisce che solo con un accordo sindacale controfirmato da una pubblica autorità si possa derogare ai criteri dell’anzianità e dei carichi familiari. Così son state definite con le aziende, da ultimo con Meridiana, le uscite dei più anziani, in grado di raggiungere la pensione con la indennità di mobilità. Se un’azienda prima del decreto Renzi avesse voluto fare licenziamenti indiscriminati di massa, avrebbe subìto un doppio danno. Avrebbe dovuto pagare consistenti penali e avrebbe rischiato la reintegra da parte di un giudice di tutti i dipendenti licenziati senza il rispetto di regole e procedure. Questo vincolo ha frenato i licenziamenti di massa, anche in una crisi senza precedenti come quella attuale. Ora viene tolto e le aziende potranno liberamente sbarazzarsi, per crisi e ragioni economiche, di lavoratrici e lavoratori che hanno l’articolo 18 e sostituirli con dipendenti precari a vita, pagati molto meno e per la cui assunzione riceveranno anche un consistente finanziamento pubblico.
    La portata reazionaria di questo decreto mostra tutta la malafede di un governo che sa perfettamente che la liberalizzazione dei licenziamenti non ha mai prodotto né mai produrrà un solo posto di lavoro aggiuntivo a quelli esistenti. Nessuno assume in più se non ha lavoro in più da far fare. Ma se viene offerta la possibilità di realizzare, a condizioni più che favorevoli, quello che le imprese chiamano il ricambio organico del personale, perché rifiutarla? Questo è lo scopo vero del Jobact: un gigantesco scambio di manodopera tra chi ha più e chi ha meno diritti e salario. Come più di cento anni fa, quando i braccianti venivano cacciati dalla terra che avevano coltivato, perché agrari e baroni reclutavano gente più povera disposta a subire condizioni peggiori. Non solo il Jobact non fa nulla contro la disoccupazione, ma anzi proprio per funzionare ha bisogno di una massa ricattabile di senza lavoro, senza i quali le sue norme resterebbero lettera morta.
    Alla fine l’occupazione complessiva sarà ancora minore, come già sapientemente prevede la Confindustria, ma quella rimasta somiglierà molto di più a quella che lavora oggi in Cina rispetto a quella che aveva conquistato diritti e dignità in Italia. Le imprese rimaste festeggeranno per i maggiori profitti, mentre il lavoro sarà sottoposto alla schiavitù di un Medio Evo tecnologico. A questo punto non serve aggiungere altre parole. Ogni atto del governo Renzi rappresenta una coerente azione di restaurazione sociale. Non si colpisce solo il lavoro, ma la scuola, la sanità, i servizi pubblici, mentre si rafforzano le spese militari. Quando si interviene, come all’Ilva, lo si fa per permettere alle multinazionali cui verrà ceduta di risparmiare i costi del risanamento e degli investimenti. Tutte le riforme politiche proposte stravolgono principi e libertà costituzionali.
    Ma a questo punto continuare a rimproverare a Renzi e a Giorgio Napolitano, che ne è il primo sostegno, di fare quello che dichiarano di voler fare non serve a niente. Il governo Renzi è la personalizzazione della distruzione della Costituzione Repubblicana, è nato e opera per questo. Rappresenta una classe dirigente italiana che ha deciso che il sistema sociale e democratico del dopoguerra non possa più essere mantenuto, di fronte ai vincoli della Troika e della finanza globale. O si contestano quei vincoli, euro compreso, o si insegue il modello del capitalismo selvaggio senza vincoli. Renzi e Napolitano hanno scelto di essere fino in fondo fedeli esecutori di quei vincoli, per questo oggi son avversari di tutto ciò che nella storia italiana ha significato progresso sociale e democratico. Renzi e Napolitano hanno scelto e chi si oppone a questa loro scelta deve essere altrettanto intransigente e rigoroso. Altrimenti la coerenza reazionaria del governo sarà la sola devastante forza in campo.
    (Giorgio Cremaschi, “Il Jobs Act e la coerenza reazionaria del governo Renzi”, da “Micromega” del 30 dicembre 2014).

    Era lecito domandarsi a che servisse togliere la tutela dell’articolo 18 a tutti i nuovi assunti, quando non si creano nuovi posti di lavoro e la disoccupazione aumenta. Il decreto natalizio del governo Renzi supera questa contraddizione. Senza che se ne fosse minimamente accennato nella discussione parlamentare sulla legge delega, il testo sfrutta al massimo l’incostituzionale mandato in bianco imposto col voto di fiducia e estende la franchigia anche al mancato rispetto delle regole sui licenziamenti collettivi. La legge 223 infatti, recependo principi e regole in vigore in tutti i paesi industriali più avanzati e sostenute con forza da tutte le organizzazioni internazionali, Onu in testa, da oltre venti anni disciplina i licenziamenti collettivi per crisi, stabilendo criteri e regole nel loro esercizio. Ad esempio essa applica un concetto principe del diritto del lavoro degli Usa, la “seniority list”. Se proprio si deve licenziare si parte dagli ultimi arrivati, dai più giovani, da coloro che non hanno carichi familiari e si risale verso le madri e gli anziani capi di famiglia. In vetta a quella lista, nelle aziende Usa sindacalizzate, stanno addirittura i rappresentanti dei lavoratori.

  • Nuovo Senato: Camera dei Lord, Rotary o massoneria?

    Scritto il 27/8/14 • nella Categoria: idee • (1)

    Modesta proposta per uscire dall’impasse sulla riforma del Senato. Dice Renzi: «Il punto qualificante è la non elezione dei suoi componenti». Il motivo di tale assunto puntiglioso non è chiaro, se non per la gag dell’ipotizzato abbattimento di costi a scopi propagandistici. Comunque prendiamo per buono il principio, sebbene riveli la profonda allergia alla democrazia che da tempo contagia il ceto politico (incentivata/legittimata dal mood tracotante dell’ascesa renziana). Resta da dirimere l’aspetto controverso del bacino in cui andare a pescare i designati all’ormai declassato secondo ramo del Parlamento. In effetti non è stata propriamente un’idea brillante quella di ipotizzare tale cernita negli stagni delle amministrazioni locali, dove sguazzano i pesci più indagati e ricercati da finanzieri e magistrati. I piraña attualmente in cima alla graduatoria dei divoratori nazionali di pubblico denaro e benefit vari.
    Forse si potrebbe salvare la capra e i cavoli del travagliato progetto (traendo fuori – così – la povera Maria Elena Boschi dalle ambasce che le ha creato la sovra-dimensionata mansione di madrina costituente) cambiando il target in cui attingere i nuovi patres conscripti del Senato light. Potrebbe fornire un’utile consulenza al riguardo David Cameron, il primo ministro britannico che – con la sua maschera inespressiva – rappresenta al meglio la felice contaminazione tra snobismo schifiltoso e appartenenza plutocratica. Perché non clonare la millenaria tradizione albionica della Camera dei Lord, ricercando quanto serve nell’Annuario dell’aristocrazia italiana e prendendo in esame un po’ di soci dei vari Casini dei Nobili? Certo, questo ceto circoscritto e residuale non gode di buona fama nazionale; visto che – storicamente – ha prodotto in larghissima misura più smidollati e fannulloni che non statisti e patrioti. Diciamolo: in prevalenza damerini e macchiette. Che – tuttavia – potrebbero assicurare una ventata di buonumore molto in linea con lo spirito positivo propugnato da Matteo Renzi. Non per niente apparteneva a tale mondo anche il principe Antonio de’ Curtis, in arte Totò.
    Se questa prima soluzione non andasse bene, varrebbe la pena di ricorrere all’aiuto di Luca Cordero di Montezemolo, quale utile entratura nel circuito esclusivo dei Rotary; popolato da principi del foro, baroni della medicina, capitani d’impresa e visconti universitari. “Bella Gente” addestrata a pontificare sul nulla nelle settimanali cene di club e propugnatrice di quel principio sociale del “servire” (inteso come “servirsi reciprocamente”, in termini di favori e garanzie di status) che inoculerebbe un po’ di sano cinismo compassionevole – obolo e arroganza, da ascesi alle vette della piramide sociale – molto in linea con la filosofia del premier innovatore apparente. Ma se anche questa via risulterà impraticabile, rimane sempre aperta la soluzione casereccia: la Massoneria. Ossia l’istituzione coperta che ha in Firenze la propria capitale nazionale. Sicché – a tale proposito – il caro Denis Verdini sarà indubbiamente disponibile a dare una mano.
    Magari coinvolgendo svariati personaggini di conclamata tempra morale e forte amore patrio, il cui decano rimane il Maestro Venerabile Licio Gelli (ispiratore inesausto di tutti i progetti riformistici che in questi anni si sono succeduti; sempre ispirati a quel “Piano di Rinascita Democratica” scoperto dagli investigatori nel doppiofondo della valigia di Maria Grazia Gelli, figlia del gran capo di P2). Un Senato così concepito assicurerebbe al massimo la segretezza; garantendo – quindi – rigorosa continuità alle pratiche occulte già intrecciate al Nazareno tra Silvio Berlusconi e Renzi. Il quale premier fa bene a insistere sull’urgenza del restyling senatoriale, visto che da questo dipendono in maniera evidente le sorti economiche e sociali del paese. La ragione per cui sarà bene attingere alle sue forze vive e rappresentative, quali quelle che qui si sono indicate.
    (Pierfranco Pellizzetti, “Senato alla Renzi: Camera dei Lord, Rotary o Massoneria?”, da “Micromega” del 29 luglio 2014).

    Modesta proposta per uscire dall’impasse sulla riforma del Senato. Dice Renzi: «Il punto qualificante è la non elezione dei suoi componenti». Il motivo di tale assunto puntiglioso non è chiaro, se non per la gag dell’ipotizzato abbattimento di costi a scopi propagandistici. Comunque prendiamo per buono il principio, sebbene riveli la profonda allergia alla democrazia che da tempo contagia il ceto politico (incentivata/legittimata dal mood tracotante dell’ascesa renziana). Resta da dirimere l’aspetto controverso del bacino in cui andare a pescare i designati all’ormai declassato secondo ramo del Parlamento. In effetti non è stata propriamente un’idea brillante quella di ipotizzare tale cernita negli stagni delle amministrazioni locali, dove sguazzano i pesci più indagati e ricercati da finanzieri e magistrati. I piraña attualmente in cima alla graduatoria dei divoratori nazionali di pubblico denaro e benefit vari.

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