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Archivio del Tag ‘Berlino’

  • La guerra dell’Ue contro la nostra civiltà democratica

    Scritto il 07/11/14 • nella Categoria: idee • (4)

    L’attuale guerra condotta con mezzi commerciali e finanziari sta trasformando l’Ue nel più grande esperimento di riduzione dei diritti umani. Il tema più dibattuto e complesso è quello sullo status dei diritti sociali nell’odierna Europa: si è passati lentamente dalla concezione che le esigenze di protezione sociale potessero costituire sviluppo e potenziamento delle libertà individuali, all’ideologia ultraliberista del “s’aiuti dunque chi può”, tipico pensiero spietato delle classi privilegiate nei riguardi delle classi povere. La polarizzazione della ricchezza e lo svuotamento della classe media ha portato con sé una guerra accanita nella quale i più forti schiacciano inesorabilmente i deboli e gl’inesperti. Gli uomini, senza unità di scopo, guidati dal solo dogma della legge di mercato, vengono manipolati verso il progetto europeo e parallelamente verso una progressiva degradazione strutturale del rango e dell’orgoglio delle nazioni aderenti ad esso.
    Il dissidio tra democrazia costituzionale italiana e trattati Ue è del tutto evidente, se si analizza il modello sociale ed economico che la Costituzione italiana ha indubbiamente abbracciato nel modello del 1948. Il dovere alla solidarietà, considerato come “base della convivenza democratica”, viene completamente disatteso dall’impianto europeo, in particolar modo in quella che è stata la gestione della crisi economica dal 2008 in poi: comunità nazionali deprivate delle conquiste economico-sociali di oltre un secolo di lotte, con una subdola gradualità che non deve consentirgli di accorgersene in tempo utile (attraverso meccanismi infernali di controllo totalizzante ed anti-democratico come la Troika). La competizione inevitabile e programmatica tra Stati aderenti all’Unione esclude la solidarietà tra i membri: economie di interi Stati si stanno completamente dissolvendo in nome dell’irrazionale equazione Ue = euro, rendendo schiave generazioni di popoli a cui si predicano “i diritti civili”, non consentendo loro di esercitare diritti politici e sociali.
    Allo sfaldamento della base economica dello Stato democratico italiano corrisponde dunque un’accelerazione della perdita di diritti in toto, che è pericolosamente derivante dall’originaria incompatibilità del disegno di Maastricht coi principi fondamentali della nostra democrazia costituzionale. Le “riforme” pretese dal “cammino di convergenza”, che si è ormai trasformato in un campo di macerie da Berlino ad Atene, non sono altro che il mezzo per accelerare irreversibilmente la caduta del modello socio-economico costituzionale per l’instaurazione dell’impianto ordoliberista, che esclude totalmente la solidarietà e la centralità della persona umana.
    (Martina Carletti, “L’Unione Europea e la distruzione della solidarietà sociale”, da “Appello al Popolo” del 22 settembre 2014).

    L’attuale guerra condotta con mezzi commerciali e finanziari sta trasformando l’Ue nel più grande esperimento di riduzione dei diritti umani. Il tema più dibattuto e complesso è quello sullo status dei diritti sociali nell’odierna Europa: si è passati lentamente dalla concezione che le esigenze di protezione sociale potessero costituire sviluppo e potenziamento delle libertà individuali, all’ideologia ultraliberista del “s’aiuti dunque chi può”, tipico pensiero spietato delle classi privilegiate nei riguardi delle classi povere. La polarizzazione della ricchezza e lo svuotamento della classe media ha portato con sé una guerra accanita nella quale i più forti schiacciano inesorabilmente i deboli e gl’inesperti. Gli uomini, senza unità di scopo, guidati dal solo dogma della legge di mercato, vengono manipolati verso il progetto europeo e parallelamente verso una progressiva degradazione strutturale del rango e dell’orgoglio delle nazioni aderenti ad esso.

  • Barnard: niente più soldi dalle banche, grazie all’euro

    Scritto il 31/10/14 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    E’ il 29esimo mese consecutivo (“Bloomberg”) che le banche europee non prestano alle piccole medie aziende in quantità sufficiente per sopravvivere. Imprenditori, per PIETA’ pietà capite le basi! Una banca presta a X solo se il tasso d’interesse che può ricavarne è migliore del prestito a Y. Se la Borsa o i titoli di Stato gli danno interessi migliori delle aziende, ovviamente scelgono i primi. Lo diceva un mostro universale dell’economia nel capitolo 17 della “General Theory”, cioè John Maynard Keynes. Ora, le banche sono delle merde. Lo sono per nascita e definizione. Se non potessero rubare non esisterebbero. Ma… Ma è anche vero che purtroppo nell’economia aziendale le banche hanno anche dei limiti severi. Si chiamano “limitazione di capitale”. Cioè: non hanno grossi problemi a fottere i 12 euro al mese al cliente comune, ma quando vanno a prestare alle aziende i limiti li hanno (troppo complessi da spiegare qui). Allora, se è vero che le banche sono oggi affogate di liquidità (per volontà della Bce), perché non prestano a chi lavora?
    Ripeto: perché oggi l’ECONOMIA DELLE AUSTERITA’ VOLUTA DALLA GENERAZIONE NEOCLASSICA DI ECONOMISTI DOMINANTI l’economia delle austerità voluta dalla generazione neoclassica di economisti dominanti (Serra, Taddei renziani inclusi) ha talmente devastato l’ECONOMIA REALE economia reale che le banche non sanno dove girarsi. I titoli di Stato? Danno interessi da far ridere i polli. La Borsa? Le banche Usa non possono possedere titoli di Borsa, le altre li guardano e li vedono crollare un giorno sì e l’altro sì. I Corporate bonds, cioè i titoli emessi da aziende che chiedono soldi in prestito? Valgono oggi, nella catastrofe europea, come un cecio nella spazzatura del circo. Prestare alle aziende? Nell’inferno dell’Eurozona non si fidano. Lo hanno fatto e si sono trovate in Europa con 1.500 miliardi di euro di prestiti che non riavranno mai più, A CAUSA DELLE AUSTERITA’ VOLUTE DALLA MERKEL a causa delle austerità volute dalla Merkel. La banche non sanno dove girarsi. E vanno a drogarsi al limite della Galassia finanziaria giocando coi mostri del pianeta Vega: i Derivati.
    Ed ecco che le banche, ladre, bastarde finché volete, hanno però anche dei conti da fare, e nell’olocausto economico dell’euro/Merkel non ci si mettono. Anche perché, come da me detto e spiegato, sono di fatto tutte tecnicamente fallite. Imprenditori, per pietà, (mi fotto di voi che comunque la Bmw da 60.000 euro l’avete – ciao Tanari – ma dei vostri operai), capite cosa sta succedendo? Non esisterà mai più crescita se non si disintegra dalla faccia della terra il più catastrofico progetto monetario dai tempi di Ramses II d’Egitto: l’Eurozona, che impoverisce interi paesi per favorire Berlino e solo Berlino, mettendo le banche nel circolo vizioso descritto sopra. E non esisterà mai più crescita se le banche non vengono messe sotto strettissimo controllo dei Parlamenti nazionali, con un ampio aiuto pubblico all’economia REALE reale, così che le banche tornino a prestare a voi, piccoli, medi, imprenditori, guadagnandoci. E se non si torna a John Maynard Keynes, interpretato nei tempi moderni da Warren Mosler, della Mosler Economics.
    (Paolo Barnard, “29esimo mese di stretta di credito a chi lavora: imprenditori, sveglia!”, dal blog di Barnard del 30 ottobre 2014).

    E’ il 29esimo mese consecutivo (“Bloomberg”) che le banche europee non prestano alle piccole medie aziende in quantità sufficiente per sopravvivere. Imprenditori, per pietà capite le basi! Una banca presta a X solo se il tasso d’interesse che può ricavarne è migliore del prestito a Y. Se la Borsa o i titoli di Stato gli danno interessi migliori delle aziende, ovviamente scelgono i primi. Lo diceva un mostro universale dell’economia nel capitolo 17 della “General Theory”, cioè John Maynard Keynes. Ora, le banche sono delle merde. Lo sono per nascita e definizione. Se non potessero rubare non esisterebbero. Ma… Ma è anche vero che purtroppo nell’economia aziendale le banche hanno anche dei limiti severi. Si chiamano “limitazione di capitale”. Cioè: non hanno grossi problemi a fottere i 12 euro al mese al cliente comune, ma quando vanno a prestare alle aziende i limiti li hanno (troppo complessi da spiegare qui). Allora, se è vero che le banche sono oggi affogate di liquidità (per volontà della Bce), perché non prestano a chi lavora?

  • Feltri: nazisti Ue, buttateci fuori così poi ridiamo noi

    Scritto il 24/10/14 • nella Categoria: idee • (8)

    La lettera minatoria che il presidente della Commissione Europea, Barroso, ha inviato a Palazzo Chigi è la dimostrazione plastica che Bruxelles considera l’Italia una scolaretta negligente e, pertanto, ritiene lecito tirarle le orecchie e prenderla a bacchettate con disinvoltura. Può darsi che in assoluto noi meritiamo simile trattamento, perché da anni giuriamo di stare in riga e invece, passando da Berlusconi a Monti e da Enrico Letta a Renzi, non abbiamo fatto altro che sbandare, come certificano i dati economici degli ultimi tre anni, andati via via peggiorando rispetto a quelli registrati in epoca di centrodestra. Ammesso e non concesso che siamo asini, non si capisce comunque perché l’Ue si arroghi il diritto di darci la pagella secondo pregiudizi, e non giudizi, che prescindono dalla conoscenza dei fatti. In altri termini, più crudi, se la Germania e i suoi camerieri scodinzolanti non apprezzano la politica romana sono liberi sì di criticarci e, al limite, di buttarci fuori dal club burocratico in cui guazzano, ma non di recapitarci una missiva dai toni ultimativi, sgradevoli, maleducati e arroganti, degni del Quarto Reich, anzi del Terzo.
    Essi ci hanno invitato perentoriamente a rispondere entro 24 ore al loro diktat in cui si dice che la nostra manovra (legge di stabilità) fa praticamente ribrezzo ed è quindi necessario correggerla, altrimenti… Altrimenti che? Cosa fate, ci cacciate? Provateci, fessacchiotti. Senza Italia nel mucchio selvaggio di 28 paesi, in cerca di una unione fittizia, salterebbe per aria non solo la Ue, ma anche la moneta unica difesa con spocchia dagli affamatori del popolo, cioè banchieri, finanzieri e loro utili idioti, tra cui economisti da talk show. Ecco perché ci auguriamo che Matteo Renzi (costretti ad affidarci a lui, già siamo nelle sue mani, oddio in che mani siamo), attingendo una tantum all’aulico linguaggio di Beppe Grillo, e rivolgendosi a Barroso e complici, pronunci il classico vaffanculo. Quando ci vuole, ci vuole.
    Non ci vengano a dire lorsignori di Berlino e Bruxelles che se disubbidiamo agli ordini saremo commissariati, come se il nostro paese fosse una colonia dei tognini. Manderanno in trasferta a Roma i commissari? Li accoglieremo nel migliore albergo. Va bene l’Excelsior di via Veneto? Ok. Qui rimpinzeremo gli ospiti di spaghetti all’amatriciana e di pizza e, l’indomani, li caricheremo sulle auto blu invendute rispedendoli a casa, oltre frontiera. Ce la siamo sempre cavata da soli nei momenti più tragici, compresi due dopoguerra mondiali e una tentata rivoluzione dei brigatisti rossi (indimenticabili quanto portentosi coglioni), vi pare che ci possano far tremare le ginocchia quattro contabili avvezzi a misurare la lunghezza degli zucchini e a disporre la distruzione delle arance siciliane? Andate all’inferno.
    Noi con la politica dei piccoli passi (da gambero) ci eravamo guadagnati una buona posizione, poi siete arrivati voi menagramo con l’euro fasullo e coniato non per aiutare il popolo europeo, che non esiste (esistono tanti popoli europei privi di un denominatore comune), e ci siamo lasciati infinocchiare, affascinati dall’idea di appartenere a una élite che avesse in tasca le stesse banconote. Prodi e Ciampi, nel predisporci a essere presi in giro, ci misero del loro, ma sorvoliamo per rispetto della terza età (cui mi avvicino). Constato che Renzi non usa le buone maniere ma preferisce la pressa delle rottamazioni rapide. Lo preghiamo vivamente di non intimidirsi davanti a un portoghese (vocabolo che da noi ha un significato giustamente sinistro) e di apprestarsi piuttosto a mandarlo a quel paese, il suo, dove troverà altri portoghesi più malleabili di noi. Chiaro il concetto? Caro presidente Renzi, lei che ha fatto fuori le cariatidi del Pd in pochi mesi, non faticherà a far secco anche questo intruso, Barroso, un nome che evoca quello di un calciatore, anzi di vari calciatori, tutti modesti.
    Ci aspettiamo da lei un atteggiamento dignitoso, un atto di coraggio che riaffermi la nostra sovranità nazionale a costo di sfidare il Quarto Reich che, senza di noi, farebbe la fine del Terzo, sul serio. Un’ultima osservazione prima di chiudere. L’Ue si è risentita perché Padoan, ministro dell’economia, ha pubblicato la lettera minatoria sul sito del proprio ministero. Ma da quando in qua gli atti ufficiali in democrazia rimangono segreti? Ha fatto benissimo Padoan a divulgarla. Chi lancia il sasso e nasconde la mano è un vile; chi ambisce perfino a nascondere il sasso è un pistola. P.S.: Presidente Renzi, le rammento che nel 2011 Berlusconi ricevette una lettera dalla Ue e, non avendola rispedita al mittente con un circostanziato vaffa, fu sfanculato. Politico avvisato, mezzo salvato.
    (Vittorio Feltri, “Buttateci fuori che poi ridiamo noi”, da “Il Giornale” del 24 ottobre 2014).

    La lettera minatoria che il presidente della Commissione Europea, Barroso, ha inviato a Palazzo Chigi è la dimostrazione plastica che Bruxelles considera l’Italia una scolaretta negligente e, pertanto, ritiene lecito tirarle le orecchie e prenderla a bacchettate con disinvoltura. Può darsi che in assoluto noi meritiamo simile trattamento, perché da anni giuriamo di stare in riga e invece, passando da Berlusconi a Monti e da Enrico Letta a Renzi, non abbiamo fatto altro che sbandare, come certificano i dati economici degli ultimi tre anni, andati via via peggiorando rispetto a quelli registrati in epoca di centrodestra. Ammesso e non concesso che siamo asini, non si capisce comunque perché l’Ue si arroghi il diritto di darci la pagella secondo pregiudizi, e non giudizi, che prescindono dalla conoscenza dei fatti. In altri termini, più crudi, se la Germania e i suoi camerieri scodinzolanti non apprezzano la politica romana sono liberi sì di criticarci e, al limite, di buttarci fuori dal club burocratico in cui guazzano, ma non di recapitarci una missiva dai toni ultimativi, sgradevoli, maleducati e arroganti, degni del Quarto Reich, anzi del Terzo.

  • Renzi trucca le carte, meno rigore solo per Confindustria

    Scritto il 21/10/14 • nella Categoria: idee • (4)

    Renzi archivia Monti e Letta, proni all’euro-rigore, ma lo fa “da destra”: all’autismo suicida dell’euro oppone l’antica ricetta del neoliberismo, senza il coraggio di rompere con la prigione della moneta unica. E intanto trucca le carte, per tentare di imbrogliare Angela Merkel. «E’ noto come Mussolini usasse spostare di continuo i pochi e inefficienti carri armati di cui disponeva per far credere a tutti, e a Hitler in particolare, di avere un esercito ben più potente della misera realtà che la guerra dimostrerà ben presto». Passano gli anni, ma certi vizi restano: «Al posto dei carri armati ci sono ora i miliardi di una manovra economica che ha la stessa credibilità dell’esercito mussoliniano», sostiene Leonardo Mazzei. «Allora Hitler non si fece certo impressionare dal suo alleato italiano, tanto ambizioso quanto subordinato nei fatti». La Merkel? Vedremo. «Ma il “cambiare verso” all’Europa è ormai soltanto un ricordo a cui nessuno più crede». Il prestigiatore Renzi ha da tempo superato il “maestro” Berlusconi, con una finanziaria che doveva essere di 20 miliardi, poi 30, anzi 36.
    Numeri inventati, replica Mazzei: basta sfogliare le tabelle ufficiali del governo, che parlano di 16,1 miliardi in entrata e 13,2 in uscita. Semplici trucchi contabili, sostiene Mazzei su “Sollevazione”, che consentono a Renzi di arrivare «alla fantasiosa cifra di 36 miliardi, sparati a tutto volume per far credere che la sua sia una manovra largamente espansiva, quando invece non c’è una sola voce di incremento degli investimenti pubblici, quando le misure per il rilancio dei consumi sono più che misere, mentre le riduzioni fiscali sono rivolte soprattutto a lorsignori». Ma la finanziaria di Renzi non è fatta solo di annunci e trovate propagandistiche: ha anche una precisa matrice ideologica, è una finanziaria liberista e confindustriale. «Uno dei dogmi del neoliberismo è quello che si fonda sull’equazione: meno spese + meno tasse = crescita. Naturalmente, per i neoliberisti le spese da tagliare sono innanzitutto quelle sociali, mentre le tasse da decurtare sono principalmente quelle dei ricchi. Tradotto in termini “filosofici”, l’idea è che non debbano esserci (Monti docet) “pasti gratis” per nessuno. Viceversa, la tassazione dovrà essere ridotta soprattutto alle aziende e alle fasce più ricche, quelle che possono investire e consumare maggiormente».
    Renzi esegue: la parte del leone nel capitolo entrate è rappresentato dai tagli alla spesa pubblica, mentre la più importante novità in materia fiscale è costituita dal taglio dell’Irap, una misura di cui beneficeranno soprattutto le aziende più grandi, quelle con molti dipendenti, come ammette esultante il “Sole 24 Ore”. E chi beneficerà della fiscalizzazione degli oneri sociali? «Sempre i soliti noti, dato che le grandi aziende hanno quasi tutte una quota di lavoratori a tempo determinato, una parte dei quali passano via via, per le stesse esigenze aziendali, a tempo indeterminato». Quel passaggio ora frutterà un guadagno di circa 25.000 euro a lavoratore. Un giusto incentivo alla stabilizzazione del rapporto di lavoro? «Peccato che esso avvenga in parallelo all’introduzione del Jobs Act, che di fatto precarizza anche i contratti in teoria più stabili». E in ogni caso i quasi 2 miliardi previsti ricadranno sulla fiscalità generale, dunque sulle tasche dei soliti cittadini, mentre il minor gettito dell’Irap costringerà le Regioni a nuove tasse o a dolorosi tagli alla sanità, cioè «ospedali chiusi, meno infermiere, esami diagnostici rimandati a quando non servono più, ticket più cari».
    Lo ha ammesso lo stesso Padoan: le Regioni «potranno aumentare le tasse», agendo sull’addizionale Irpef, e i Comuni faranno la stessa cosa rincarando Imu e Tasi. «Qui siamo semplicemente di fronte a uno scaricabarile dal governo centrale a danno delle autonomie locali». Quanto alle “rendite finanziarie”, sale dall’11,5 al 20% la tassazione sulle pensioni integrative: vero, sono servite soprattutto come alibi per demolire quelle pubbliche, ma ad esserne colpiti saranno quei lavoratori rassegnati a pagarsi anche una pensione privata come «unica alternativa a una vecchiaia da fame». Infine c’è il Tfr, l’ultima trovata propagandistica di Renzi: «Qui la truffa fiscale è completa e garantita a 360 gradi», perché l’offerta di disponibilità mensile della quota Tfr in busta paga serve solo a «nascondere il persistente calo del salario reale, al quale il governo (vedi il Jobs act) lavora alacremente». In cosa consiste la truffa? «Semplice, dal 2015 i lavoratori avranno tre possibilità: mantenere il Tfr così com’è, farselo versare in busta paga, versarlo in un fondo pensione integrativo». Nel primo caso avranno una tassazione della rivalutazione annuale aumentata dall’11 al 17%, nel secondo non solo rinunceranno alla rivalutazione ma si ritroveranno con aliquote fiscali (quelle Irpef ordinarie) assai più alte del trattamento previsto per il Tfr, e nel terzo si vedranno applicare una tassazione quasi raddoppiata rispetto all’attuale.
    Quindi, la riduzione della pressione fiscale per le fasce popolari è sostanzialmente una bufala, solo parzialmente compensata dai famosi “80 euro”, limitata peraltro solo ai lavoratori dipendenti, esclusi pensionati e lavoro autonomo. Ed ecco spiegata l’insolita gioia di Confindustria per la manovra renziana. Ma si tratta, ancora e sempre, di una manovra recessiva, sottolinea Mazzei. Il presupposto è fragile: i “regalini” ai soliti noti dovrebbero spingerli a investire, producendo crescita e occupazione. Facile immaginare che – a fronte del protrarsi della crisi – la pressione fiscale aumenterà ancora, «magari dispersa nelle mille forme delle tassazioni comunali e regionali». Ma se anche i 15 miliardi di tagli previsti corrispondessero a tagli equivalenti delle tasse, «avremmo un effetto negativo sul Pil di quasi un punto percentuale». Secondo il Fmi, infatti, «per ogni miliardo di taglio alle spese si ha una contrazione del Pil di 1,3 miliardi», mentre «la parallela riduzione fiscale di un miliardo dà invece solo una crescita di 0,3 miliardi».
    Ne consegue, all’ingrosso, che «per ogni miliardo di tagli si abbia una riduzione equivalente (sempre di 1 miliardo) del Pil», dunque «anche nel 2015 avremo un Pil col segno meno». E il governo «lo sa benissimo». Matematico: «Se la spesa pubblica cala, se quella delle famiglie non potrà certo riprendersi, se gli investimenti pubblici e privati rimangono in calo, pensiamo forse che la luce potrà accendersi solo grazie alle esportazioni?». Nell’idea mercantilista – il modello tedesco – le cose potrebbero in teoria funzionare, ma in pratica non è così: perché i venti di crisi spirano anche fuori dall’Europa, e perché l’euro ha imposto all’Italia un deficit di competitività verso il suo principale competitor, la Germania. «Detto in altre parole, nell’euro non c’è posto per due Germanie. C’è posto, semmai, soltanto per alcune appendici purché subordinate all’economia tedesca». Ma allora, in cosa spera l’ipercinetico Renzi?
    A differenza di Monti e Letta, il nuovo premier «non appare affatto succube della Merkel», interpretando un liberismo non “targato” Berlino. «E’ normale dunque che Renzi non venga percepito come un servo dell’eurocrazia di Bruxelles». Con l’euro e l’Ue, però, si può “rompere” in vari modi, da destra o da sinistra: nell’interesse delle classi popolari o in quello dei pescecani della finanza, in nome dell’uguaglianza e dei diritti sociali o in quello delle virtù del mercato. E’ dunque neoliberista la critica che Renzi oppone all’eurocrazia austeritaria. La sua manovra? «Non è espansiva come si vorrebbe far credere, ma di certo non è neppure quella che avrebbe voluto la Commissione Europea», perché contiene comunque più deficit e «un netto smarcamento rispetto al tradizionale rigorismo europeo in materia di conti pubblici», in linea con la Francia.
    «La verità è che lo scontro è iniziato», dice Mazzei, e gli interessi tra i principali paesi europei «sono troppo confliggenti per trovare una vera composizione». Al tempo stesso, «manca ai protagonisti la caratura necessaria per affrontare a viso aperto l’indispensabile processo di uscita dalla moneta unica». Sul versante italiano, questa palese contraddizione ha prodotto una finanziaria che non è né carne né pesce: «E’ così che si spiega il parto di un mostriciattolo ancora recessivo, ma non sufficiente a placare il rigorismo del triangolo della morte Berlino-Francoforte-Bruxelles». Il problema per la triade Merkel-Draghi-Juncker è che «le finanziarie italiana e francese mettono in discussione alla radice (e non solo per il 2015) il Fiscal Compact, vero architrave di quella convergenza dei debiti senza la quale non potrà esservi nessuna unione fiscale e di bilancio, decretando in questo modo la manifesta insostenibilità dell’euro».
    E su questo – aggiunge Mazzei – non solo i tedeschi, ma la suddetta triade al completo, non possono proprio mollare. Tanto più in considerazione della posta in gioco, «uno scontro non esclude momenti di tregua e di pace armata». Ma una eventuale provvisoria “quadratura del cerchio” «sarà solo il preludio ad uno scontro ben più aspro, quello che porterà alla definitiva resa dei conti». Problema: chi giocherà quello scontro? «Sarà solo interno al blocco dominante, o vedrà finalmente il protagonismo delle classi popolari e quello di una soggettività politica in grado di guardare più avanti, ad una prospettiva di sganciamento dal capitalismo-casinò? Questa è la posta in gioco».

    Renzi archivia Monti e Letta, proni all’euro-rigore, ma lo fa “da destra”: all’autismo suicida dell’euro oppone l’antica ricetta del neoliberismo, senza il coraggio di rompere con la prigione della moneta unica. E intanto trucca le carte, per tentare di imbrogliare Angela Merkel. «E’ noto come Mussolini usasse spostare di continuo i pochi e inefficienti carri armati di cui disponeva per far credere a tutti, e a Hitler in particolare, di avere un esercito ben più potente della misera realtà che la guerra dimostrerà ben presto». Passano gli anni, ma certi vizi restano: «Al posto dei carri armati ci sono ora i miliardi di una manovra economica che ha la stessa credibilità dell’esercito mussoliniano», sostiene Leonardo Mazzei. «Allora Hitler non si fece certo impressionare dal suo alleato italiano, tanto ambizioso quanto subordinato nei fatti». La Merkel? Vedremo. «Ma il “cambiare verso” all’Europa è ormai soltanto un ricordo a cui nessuno più crede». Il prestigiatore Renzi ha da tempo superato il “maestro” Berlusconi, con una finanziaria che doveva essere di 20 miliardi, poi 30, anzi 36.

  • Cercasi leader che ci porti in salvo, lontano dall’euro

    Scritto il 16/10/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Cercasi politica per uscire dall’euro. Servirebbe un premier. Ci vorrebbe un governo dalla parte degli italiani, non asservito ai poteri forti tecno-finanziari, quelli che impongono il rigore, il suicidio a rate dello Stato, la privatizzazione di tutto. Moneta sovrana, unica arma per la ricostruzione dell’economia. Domanda: si può uscire dalla trappola dell’euro e dell’Europa a guida tedesca o saremo costretti a rimanere per sempre legati alle catene dell’Eurozona, cioè dell’euro-marco che affossa l’Italia? La risposta, ammette Enrico Grazzini, è squisitamente politica: «Dopo il dollaro, l’euro è la seconda valuta di riserva per le banche centrali di tutti i paesi del mondo e la sua rottura potrebbe provocare non solo la crisi della Ue ma una crisi geopolitica internazionale». Non a caso l’euro è sostenuto, in quanto valuta internazionale non competitiva nei confronti del dollaro, anche dall’amministrazione Obama. Peccato che, per noi europei, la moneta unica della Bce sia una autentica tragedia. L’ingresso nell’euro? «Un errore enorme e grossolano».
    Ormai è chiaro a tutti: l’ingresso dell’Italia nell’euro è stato «un escamotage inventato dalle classi dirigenti nazionali per tentare di vincolare l’economia italiana a quella europea, di riportare a bada l’inflazione e i sindacati, e di domare il lavoro e la spesa pubblica». Risultato: l’economia precipita, la comunità nazionale vacilla e gli Stati sono completamente in balia della speculazione internazionale, visto che non possono più emettere moneta e si finanziano solo attraverso la cessione di titoli di Stato, con la mediazione monopolistica del sistema bancario privato. «Purtroppo l’Unione Europea è ormai fondata soprattutto sulla moneta unica, sull’euro che divide», scrive Grazzini su “Micromega”. «E la Ue ha abbandonato ogni prospettiva di cooperazione e di benessere sociale». Diciamoci la verità: «Gli Stati Uniti d’Europa – invocati in Italia da un ampio ed eterogeneo schieramento, da Matteo Renzi a Giorgio Squinzi, da Nichi Vendola a Barbara Spinelli – sono solo una chimera, e sotto l’ombrello dell’euro-marco e dell’egemonia tedesca sarebbero comunque un vero e proprio incubo».
    Il problema, continua Grazzini, è che una moneta unica per 18 paesi estremamente diversi sul piano competitivo – inflazione, tecnologie, costo del lavoro – è un vero e proprio «insulto al buon senso». L’euro-marco? «E’ una moneta troppo forte e soprattutto troppo rigida, una moneta straniera, una trappola che provoca crisi non solo perché è scioccamente unica (e quindi rigida) ma perché è costruita su istituzioni e politiche monetarie intrinsecamente deflattive, modellate a somiglianza del marco e della Bundesbank». Così, la moneta unica nata dichiaratamente per unire l’Europa «è diventata lo strumento principe di una politica neo-coloniale che le élite finanziarie e industriali tedesche e dei paesi del nord Europa conducono per egemonizzare l’Europa». Impedendo le svalutazioni competitive ai paesi deboli e la rivalutazione monetaria dei paesi forti, la moneta della Bce ha favorito solo la Germania, che ha potuto esportare manufatti e capitali in tutti i paesi europei, indebolendoli e indebitandoli. Poi, i deficit commerciali dei paesi deboli hanno generato i debiti verso i paesi forti. E i paesi creditori dettano legge.
    I trattati europei imposti dalla Germania – da Maastricht in poi (Fiscal Compact, Six Pack, Two Pack) sono sempre più soffocanti. Più che governare, la Troika regna e scavalca i Parlamenti eletti. E’ un disegno neo-feudale, perfettamente realizzato, per moltiplificare i profitti dell’élite finanziaria al prezzo della devastazione dei sistemi economici, sociali e produttivi. Si va avanti a suon di diktat: via i diritti del lavoro, tagli al welfare, tassazione folle. E la democrazia è ormai un ricordo. «La Germania non abbandonerà queste politiche recessive e suicide – dice Grazzini – semplicemente perché le convengono e perché l’ideologia monetarista è connaturata alla Bundesbank». Niente illusioni: «Non ci sarà alcuna solidarietà o cooperazione europea, e nemmeno flessibilità. Con questo euro non usciremo dalla crisi, anche se la Bce ogni tanto concede un po’ di ossigeno per non soffocare del tutto la moribonda economia europea. La stagnazione-recessione potrebbe proseguire, provocando gravi crisi sociali fino a riportare l’Europa a un equilibrio economico assestato al livello più basso – con la rovina del welfare, del lavoro e dei paesi e delle regioni deboli – o potrebbe deflagrare in una nuova disastrosa crisi finanziaria europea e globale».
    Come uscire dalla trappola? Secondo Emiliano Brancaccio, dopo la svalutazione iniziale causata dall’abbandono dell’euro, i lavoratori potrebbero recuperare i loro salari in pochi anni. Addio Bce? «Cambierà tutto se la rottura dell’euro sarà in qualche maniera concordata con la Ue e con la Germania o se invece sarà del tutto unilaterale», sostiene Grazzini, «e se la mossa italiana avrà in qualche modo il consenso o anche solo la neutralità delle potenze globali o regionali extraeuropee, come gli Usa, la Cina, la Russia (e le grandi potenze private, le banche d’affari come Jp Morgan e Goldman Sachs e i fondi speculativi) o se invece le grandi potenze saranno contrarie». E’ chiaro che l’Italia, come potenza industriale e manifatturiera con vocazione esportatrice, «potrebbe più di altri paesi beneficiare dall’uscita dall’euro e dalla conseguente svalutazione della sua ritrovata moneta nazionale». Il momento sarebbe propizio: oggi il bilancio statale è in attivo e la bilancia commerciale è in sostanziale pareggio, quindi il nostro paese non avrebbe bisogno dell’aiuto di nessuno, né della Bce né della finanza internazionale.
    A pesare è l’ingombro del peso storico del deficit, «2300 miliardi di euro di debito pubblico verso l’estero». Oggi, in mancanza di moneta sovrana, lo si potrebbe finanziare solo «con le tasse dei cittadini o con i tagli di spesa», due strade che, come si vede, conducono nel vicolo cieco della depressione cronica. Tutto cambierebbe, invece, se si disponesse della nuova lira: «Senza il peso del debito pubblico verso l’estero – che è stato emesso secondo le leggi italiane e che quindi potrebbe essere riconvertito abbastanza facilmente e legalmente in moneta nazionale – non ci sarebbe bisogno di aumentare il deficit: e nessuno proporrebbe di aumentare le tasse o di tagliare selvaggiamente la spesa pubblica nazionale, che è minore della media europea», osserva Grazzini. Con la svalutazione della nuova lira, secondo Alberto Bagnai, l’economia diventerebbe più competitiva, gli investimenti e la produzione riprenderebbero, così come l’occupazione. Alla fine anche i redditi da lavoro aumenterebbero, dopo la svalutazione iniziale. «In questo senso, l’ipotesi di uscire unilateralmente dall’euro ristrutturando i debiti verso l’estero avrebbe un senso economico apparentemente positivo».
    In più, aggiunge Grazzini, «la svalutazione della lira non sarebbe una disgrazia o un fatto vergognoso, come molti economisti anche di sinistra ci dicono: infatti tutti i paesi – Usa, Giappone, Cina – stanno svalutando la loro moneta per recuperare competitività sul piano internazionale e crescita sul fronte nazionale». Quindi, «la svalutazione non è un peccato di cui vergognarsi: è solo un riallineamento dei prezzi verso l’estero». Secondo Grazzini, però, è sbagliato limitarsi al profilo economico e finanziario sottovalutando quello politico internazionale: «Nessun modello econometrico e quantitativo potrebbe stabilire che cosa succederà realmente se un paese come l’Italia, o anche solo un paese più piccolo come la Grecia, uscisse dell’euro». La moneta della Bce «rappresenta all’incirca un quarto delle valute di riserva mondiali, per un valore complessivo pari a oltre 2.000 miliardi, cioè al 25% del totale delle valute di riserva, mentre il dollaro è al 60% circa». Per questo, «molti Stati hanno un preminente interesse economico a salvaguardare l’euro», la cui drastica svalutazione o rottura comporterebbe «sconvolgimenti tellurici per quanto riguarda le riserve valutarie di Stati come Cina, Russia, Giappone, India e Brasile».
    Inoltre, agli Usa converrebbe «mantenere l’euro come moneta internazionale debole, cioè come improbabile alternativa al suo dollaro», cioè al dollaro che gli Stati Uniti possono «stampare all’infinito per pagare i loro debiti e comprare ciò che vogliono nel mondo». Vivecersa, sempre secondo Grazzini, Washington appoggerebbe la fine dell’euro per motivi geopolitici, «per esempio per punire la Germania e l’Europa se si avvicinassero troppo alla Russia». Purtroppo, però, la sensazione è che sia Wall Street che la Casa Bianca puntino sulla sopravvivenza dell’Eurozona, calcolando che l’euro impiegherà ancora qualche anno prima di completare la distruzione definitiva dell’economia europea. Pessime notizie, dunque, perché «l’euro non conviene all’Italia, né alle sue industrie, né alle sue banche, né ai lavoratori né al ceto medio, né al sud né al nord», sottolinea Grazzini. «E’ convenuto solo alle multinazionali finanziarie e industriali per eliminare i rischi di cambio. Ma ora è una gabbia anche per le imprese medio-grandi, perché impedisce la crescita».
    In più, una volta entrati nella moneta unica «è molto difficile uscirne senza danni e senza sofferenze, proprio perché l’euro è una valuta di riserva mondiale e non una moneta nazionale qualsiasi». Per Grazzini, una rottura unilaterale è rischiosa: «Se l’Italia si trovasse contro tutti gli Stati e tutta la finanza europea e mondiale, l’uscita unilaterale provocherebbe prevedibilmente una svalutazione a catena e un disastro nazionale (e globale) difficilmente valutabile e recuperabile». Peggio: «La tragedia è che attualmente non sembrano esserci via di uscita», perché «le scelte alternative sono comunque tragiche». Infatti, «se da una parte l’uscita unilaterale appare difficilmente proponibile, dall’altra – rimanendo nella prigione dell’euro-marco – la condizione europea e italiana peggiorerà a causa del Fiscal Compact». Questo sarebbe dunque il paradiso europeo profetizzato dai vari Prodi, Visco, Bassanini, Padoa-Schioppa. Non uno dei dirigenti decisivi del centrosinistra italiano, responsabile della consegna del paese alla sciagura dell’Eurozona, ha finora pronunciato una sola parola di autocritica.
    Se la politica tace, per Grazzini c’è solo da sperare nel blackout: «Prima o poi il sistema dell’euro-marco imploderà, perché è intrinsecamente insostenibile a causa della sua assoluta inefficienza economica e dei pesantissimi costi sociali e politici che comporta». Tutto è possibile, però: persino che l’euro «sopravviva con il sostegno della finanza internazionale», o che «gli Stati europei si adeguino alla rovina economica e alla subordinazione economica e politica imposte dall’egemonia tedesca». Difficile, però, che i paesi sopportino a lungo questa situazione: «Nonostante la stupefacente inettitudine di François Hollande, perfino una parte dei socialisti francesi – che certamente non brillano per acume e progressismo ma appaiono piuttosto propensi al suicidio elettorale – hanno cominciato a reagire dopo il successo travolgente dell’antieuro partito del Front National». Anche le potenze extraeuropee sono preoccupate del possibile contagio derivante dalla malattia europea, e la speculazione è sempre in agguato: prima o poi la finanza anglosassone «interverrà per trarre profitto dai conflitti tra i diversi Stati europei in modo da affossare la moneta unica».
    E’ certo che la crisi si prolungherà perché i paesi europei non crescono, la disoccupazione aumenta e i debiti pubblici continuano a crescere. Se poi i paesi del sud Europa – Francia e Italia – riuscissero ad allentare i vincoli imposti dalle regole Ue, allora la stessa Germania potrebbe abbandonare l’euro e ritornare al marco per difendere la forza della sua moneta. Secondo Grazzini, «la sinistra italiana ed europea dovrebbe battersi fin da ora per una rottura concordata dell’euro in modo da minimizzare i danni e permettere ai popoli e ai governi democraticamente eletti di perseguire una via di uscita dalla crisi». Ma forse Grazzini ha in mente una sinistra immaginaria: quella italiana ed europea è esattamente la forza che più di ogni altra ha collaborato al disegno eurocratico, antidemocratico e anti-sovranista. In Germania la riforma Harz contro i sindacati è stata condotta dalla Spd di Schroeder, in Gran Bretagna i lavoratori sono stati “sistemati” dai laburisti di Blair. E in Italia, liquidati i partiti della Prima Repubblica, le principali riforme strutturali contro il lavoro e la sovranità nazionale sono state progettate e realizzate da Ciampi, Prodi e D’Alema.
    Oggi, Grazzini riconosce che se si resta nell’euro si sprofonda nella crisi. E per uscire dalla moneta unica nel modo meno doloroso possibile è necessario «ricreare una banca centrale nazionale responsabile verso il governo e il Parlamento», una Banca d’Italia «in grado di sostenere una politica espansiva, ovvero di comprare i titoli del debito pubblico nazionale». Va ricordato che a disabilitare Bankitalia come “prestatore di ultima istanza” non fu certo il bieco Berlusconi, all’epoca non ancora “sceso in campo”, ma furono il governatore Carlo Azeglio Ciampi e il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, esponente di quella sinistra Dc che mirava – insieme ai politici del futuro centrosinistra – a consegnare a Bruxelles la cassaforte del paese, per sottrarla alla nomenklatura dei Craxi, degli Andreotti e dei Forlani. A più di trent’anni dal “misfatto” del 1981, oggi si ammette che solo una banca centrale in grado di emettere moneta sovrana potrebbe finanziare il governo e gli investimenti produttivi, sostenere la spesa pubblica strategica, controllare i movimenti di capitali, convogliare il risparmio nazionale verso lo sviluppo del paese.
    Per Grazzini, «bisognerebbe copiare l’esperienza dei paesi emergenti, come Cina e Brasile, che mantengono vincoli forti sulla finanza e la valuta ma incentivano gli investimenti industriali esteri». E attenzione: «Bisognerebbe nazionalizzare – anche con difficili misure di prestito forzoso – il debito pubblico, in modo che la nazione sia indebitata quasi esclusivamente con se stessa (come il Giappone, che ha il più alto debito al mondo ma lo sostiene perché è debito interno)». Il problema maggiore, aggiunge Grazzini, verrebbe però dal debito privato pagabile solo in euro, e soprattutto dal debito estero delle grandi banche. Dunque, «occorrerebbe nazionalizzare le maggiori banche anche per rilanciare il credito verso le piccole e medie aziende». Di pari passo, «per proteggere i salari e gli stipendi e rilanciare la domanda interna bisognerebbe ripristinare meccanismi analoghi alla scala mobile e agganciare automaticamente i salari all’inflazione e alla crescita della produttività».
    Un percorso impervio, tenendo conto del personale politico italiano: partiti e leader sono stati completamente “colonizzati” dal capitale finanziario straniero, da cui dipende la protezione delle loro carriere. La parola chiave, dunque, è democrazia: solo nuove leve e nuovi politici, non ancora presenti sulla scena odierna, potrebbero progettare l’uscita dall’euro mettendo a punto innanzitutto una politica di alleanze internazionali, «non solo con gli altri paesi del sud Europa e la Francia, ma anche con le banche centrali dei paesi extraeuropei». Servirebbe anche «una moneta comune (ma non più unica, come l’euro) contro la speculazione internazionale», come l’euro-bancor proposto da Keynes «come moneta comune europea da fare valere verso il dollaro e le altre valute internazionali».
    Qualcuno lo vede, un governo italiano in grado di compiere questi difficili passi? «Non solo non esiste attualmente – ammette Grazzini – ma è molto dubbio che esisterà mai». Un governo anti-euro, cioè di salvezza nazionale, «dovrebbe avere un grande consenso sociale, la capacità di imporre sacrifici temporanei ai ceti medi e soprattutto vincoli stretti ai settori privilegiati. Dovrebbe essere autonomo dalle élite dei potenti e dall’alta finanza e avere l’appoggio di gran parte della società civile e dei sindacati». Abbiamo una sola certezza: così non si può andare avanti. «Non è possibile che le politiche economiche vengano decise a Berlino, Francoforte, Bruxelles e Washington. I governi nazionali, come quello di Matteo Renzi, agiscono sempre più sotto dettatura».

    Cercasi politica per uscire dall’euro. Servirebbe un premier. Ci vorrebbe un governo dalla parte degli italiani, non asservito ai poteri forti tecno-finanziari, quelli che impongono il rigore, il suicidio a rate dello Stato, la privatizzazione di tutto. Moneta sovrana, unica arma per la ricostruzione dell’economia. Domanda: si può uscire dalla trappola dell’euro e dell’Europa a guida tedesca o saremo costretti a rimanere per sempre legati alle catene dell’Eurozona, cioè dell’euro-marco che affossa l’Italia? La risposta, ammette Enrico Grazzini, è squisitamente politica: «Dopo il dollaro, l’euro è la seconda valuta di riserva per le banche centrali di tutti i paesi del mondo e la sua rottura potrebbe provocare non solo la crisi della Ue ma una crisi geopolitica internazionale». Non a caso l’euro è sostenuto, in quanto valuta internazionale non competitiva nei confronti del dollaro, anche dall’amministrazione Obama. Peccato che, per noi europei, la moneta unica della Bce sia una autentica tragedia. L’ingresso nell’euro? «Un errore enorme e grossolano».

  • Gros: scordatevi la ripresa, la Germania la impedirà

    Scritto il 29/9/14 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Non crediate di riuscire a risollevarvi: l’austerità ha vinto e il dogma tedesco che l’ha imposta, condannamdo il resto d’Europa, non sarà mai intaccato. La “voce del padrone” è quella di un economista leader a Berlino, Daniel Gros, direttore del “Centre for European Policy Studies”: dal suo think-tank, centro studi di politica europea, Gros ammette di fatto che è un solo paese – la Germania – a dettare le sue regole a tutti gli altri partner della cosiddetta Unione Europea. Regole che affliggono il continente, e che non cambieranno: gli Stati come l’Italia continueranno ad avere amputazioni alla spesa pubblica, destinate a sabotare il sistema-paese trasformandolo in terra di profughi economici e di salariati a basso costo, secondo uno schema funzionale soltanto al “made in Germany”. Per Gros, lo scambio a distanza tra Renzi il guardiano dell’austerità europea, il finlandese Jyrki Katainen, segna la fine del dibattito sulla flessibilità nei conti pubblici perché «sancisce la definitiva incomunicabilità fra le due scuole di pensiero che si fronteggiano in Europa».
    Non sarà mai sconfessata «la linea della Germania, di contrasto alla crisi del debito», prende nota il blog di Gad Lerner commentando l’intervista a “Repubblica” concessa da Gros all’indomani del vertice dell’Ecofin e dell’Eurogruppo a Milano il 13 settembre, riunioni caratterizzate dal duello tra il premier italiano e Katainen, vicepresidente in pectore della Commissone Europea presieduta dal lussemburghese Jean-Claude Juncker, nominato dalla Merkel. L’incontro di Milano sarà da ricordare, dice Gros, perchè «probabilmente rappresenta la fine delle speranze dell’Italia di ottenere questo sospirato allentamento da parte della Germania». La prova, secondo Daniel Gros, è la nuova manovra di bilancio approntata da Berlino: la grande coalizione tra Angela Merkel e i socialdemocratici dell’Spd ha ridotto gli investimenti pubblici per realizzare una finanziaria senza nuovi debiti, «un obiettivo condiviso praticamente da tutti i partiti tedeschi presenti al Bundestag, con l’eccezione della sinistra radicale», la Linke. Una manovra che «spegne le richieste di chi chiedeva a Berlino la maggior mobilitazione di risorse pubbliche al fine di stimolare la crescita nell’Eurozona».
    «Da questa posizione di ortodosso rispetto del rigore la Germania non si muoverà», osserva Lerner, e secondo Daniel Gros la composizione della nuova Commissione Juncker evidenzia come non è possibile attendersi alcuna svolta. «I toni concilianti dell’Ecofin sono poco credibili, almeno quanto le rassicurazioni italiane», dice il tecnocrate tedesco. «Certo, la Germania non ammette neanche un intervento d’emergenza, ma l’Italia, come la Francia che forse preoccupa anche di più, non aiuta con i comportamenti la comprensione reciproca». L’Italia ha un debito pubblico al 136%? «Non so come faccia a poter spendere di più: potrebbe anche smetterla di chiedere aperture o flessibilità”». Quanto al  ricatto delle “riforme” neoliberiste, ispirate dal mercantilismo neoclassicista dell’export – massima competitività derivante dalla compressione salariale per tagliare i costi di produzione, sacrificando alla legge dell’export i consumi interni e il benessere sociale della nazione – per il dottor Gros si tratta di una speranza vana, perché il “no” della Germania non cambierebbe. «Non credo che la risposta di Berlino sarebbe diversa da quella di oggi. Il passato continuerebbe a pesare come un macigno. Per questo mi sembrano ipocriti tutti questi abbracci alla Spagna, un paese che ha il 25% di disoccupazione, solo per un paio di riforme fatte».

    Non crediate di riuscire a risollevarvi: l’austerità ha vinto e il dogma tedesco che l’ha imposta, condannando il resto d’Europa, non sarà mai intaccato. La “voce del padrone” è quella di un economista leader a Berlino, Daniel Gros, direttore del “Centre for European Policy Studies”: dal suo think-tank, centro studi di politica europea, Gros ammette di fatto che è un solo paese – la Germania – a dettare le sue regole a tutti gli altri partner della cosiddetta Unione Europea. Regole che affliggono il continente, e che non cambieranno: gli Stati come l’Italia continueranno ad avere amputazioni alla spesa pubblica, destinate a sabotare il sistema-paese trasformandolo in terra di profughi economici e di salariati a basso costo, secondo uno schema funzionale soltanto al “made in Germany”. Per Gros, lo scambio a distanza tra Renzi il guardiano dell’austerità europea, il finlandese Jyrki Katainen, segna la fine del dibattito sulla flessibilità nei conti pubblici perché «sancisce la definitiva incomunicabilità fra le due scuole di pensiero che si fronteggiano in Europa».

  • Wall Street, gli amici nazisti e il solito bersaglio: la Russia

    Scritto il 28/9/14 • nella Categoria: segnalazioni • (13)

    Criminali, bugiardi, complici. Non ci fa una bella figura, l’ipocrita Occidente, nemmeno rileggendo la Seconda Guerra Mondiale: furono americani e inglesi a scommettere su Hitler. Ne finanziarono l’ascesa in modo decisivo, incaricandolo – già allora – di una missione che ossessiona gli anglosassoni: colpire la Russia e affondarla. Lo ricorda Yuriy Rubtsov, alla luce degli attuali drammatici sviluppi in Ucraina: «I denti del drago devono essere conficcati ancora una volta nella carne viva dell’Europa», come già fu in passato. Lo conferma «la storia segreta dei rapporti fra Wall Street e la Germania nazista». Storia che nessuno ha voglia di rievocare, e che fu seppellita dalla solennità del Processo di Norimberga, che inchiodava la Germania sconfitta come unica colpevole, senza alleati atlantici. Se oggi sono in molti a definire “nazista” il golpe di Kiev costruito dagli Usa utilizzando l’estrema destra ucraina, Rubtsov chiarisce: «Per quanto ne sappiamo, l’Ucraina di oggi non può essere paragonata alla Germania di Hitler». Ma attenzione: «Non dimentichiamo che la folle corsa del nazismo ebbe inizio da uno sconosciuto caporale che predicava xenofobia e vendetta».
    L’altra verità, fondamentale, è che quel caporale non sarebbe andato molto lontano, senza i suoi amici d’oltreoceano. «E’ un “segreto di pulcinella” il fatto che Hitler sia stato sostenuto dagli Stati Uniti», scrive Rubtsov in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. «La penetrazione commerciale e finanziaria statunitense, e in particolare la cooperazione con l’industria bellica tedesca, è stata fin dall’inizio molto significativa». Nel 1933, l’anno del boom elettorale nazista, «gli Stati Uniti controllavano alcuni settori-chiave dell’economia tedesca, ma anche diverse grandi banche, come ad esempio la Deutsche Bank e la Dresdner Bank». Le grandi imprese cominciarono a fidarsi di Hitler, continua Rubtsov. E molti fondi esteri presero ad affluire in quel paese. Per esemoio, grazie alle donazioni del gruppo di Fritz Thyssen, che comprendeva la “Vereinigte Stahlwerke Ag” e la “Interessen-Gemeinschaft Farbenindustrie Ag”. E poi i soldi del magnate dell’industria mineraria Emil Kirdorf. Risultato: 6,4 milioni di tedeschi votarono per Hitler. Non sapevano, però, quanto denaro gli angloamericani avessero investito nel futuro del loro capo.
    L’economista Hjalmar Schacht, banchiere e politico liberale, nonché co-fondatore nel 1918 del “Partito Democratico Tedesco”, diventò il collegamento fra l’industria tedesca e gli investitori stranieri, ricorda Rubtsov. A quel punto, «anche il mondo commerciale e bancario britannico cominciò a canalizzare importanti donazioni verso il partito nazista: il 4 gennaio 1932 Montague Norman, governatore della Banca d’Inghilterra dal 1920 al 1944, incontrò Hitler e il cancelliere tedesco Franz von Papen, per stringere un accordo segreto volto al finanziamento di quel partito». Alla fatidica riunione erano rappresentati anche gli Stati Uniti, coi fratelli Dulles, anche se «gli storici occidentali evitano di menzionare questa circostanza», accusa Rubtsov. John Foster poi segretario di Stato, suo fratello Allen direttore della Cia. «Erano due avvocati politicamente collegati a Wall Street, servi di quelle corporations che hanno gettato gli Stati Uniti nella guerra invisibile che ha forgiato il mondo di oggi. Negli anni ‘50, in piena guerra fredda, proprio i due fratelli Dulles, immensamente potenti, guidarono gli Stati Uniti in una lunga serie di avventure all’estero, i cui effetti stanno ancora scuotendo il mondo».
    Nel ‘33, continua Rubtsov, il nuovo governo tedesco fu trattato molto favorevolmente dai circoli dominanti degli Usa e del Regno Unito: «Non casualmente le democrazie occidentali tacquero, quando Berlino si rifiutò di pagare le riparazioni di guerra», relative al primo conflitto mondiale. Lo stesso Schacht, divenuto presidente della Reichsbank e ministro dell’economia, il 30 maggio di quell’anno andò negli Stati Uniti per incontrare il presidente Roosevelt e i principali banchieri di Wall Street. Alla Germania fu concesso un credito pari ad 1 miliardo di dollari. Un mese dopo, durante una visita al banchiere centrale di Londra, Montague Norman, Schacht chiese un prestito aggiuntivo pari a 2 miliardi di dollari, nonché la riduzione e l’eventuale cessazione del pagamento dei vecchi prestiti. «I nazisti ottennero, in conclusione, qualcosa che i precedenti governi avevano chiesto invano». E nell’estate del 1934 la Gran Bretagna firmò l’“Anglo-German Transfer Agreement”, che diventò uno dei princìpi fondamentali della politica britannica nei riguardi del Terzo Reich. Negli anni successivi il Regno Unito diventò il primo partner commerciale della Germania: la “Banca Schroeder” divenne l’agente principale per gli affari fra Berlino e Londra, e nel 1936 la sua filiale di New York si fuse nella Holding Rockefeller, per creare la banca d’investimento “Schroeder, Rockfeller e Co.”, che il “New York Times” descrisse come «il perno economico-propagandistico dell’asse Berlino-Roma».
    Già nell’agosto del ‘36 Hitler aveva redatto un “Memorandum Segreto”, dei cui contenuti solo pochi alti dirigenti nazisti erano a conoscenza. Il memorandum, scrive Rubtsov, stabiliva che entro quattro anni la Germania avrebbe dovuto dotarsi di forze armate pronte al combattimento. Di conseguenza, l’economia tedesca avrebbe dovuto mobilitarsi per supportare l’imminente sforzo bellico. Di qui l’annuncio, a Norimberga, del “Piano Quadriennale” di investimenti strategici. «Il credito estero costituiva la base finanziaria necessaria», quindi «tutto ciò non aveva sollevato il minimo allarme»: il Terzo Reich si stava semplicemente preparando a fare il “lavoro” per il quale era stato profumatamente pagato. «Nel mese di agosto del 1934 il gigante petrolifero americano Standard Oil acquistò 730.000 ettari di terreno in Germania, per costruirci delle grandi raffinerie di petrolio, per rifornire di carburante i nazisti. Allo stesso tempo altre corporations statunitensi rifornirono la Germania delle più moderne attrezzature per la costruzione di aerei civili, che in realtà davano copertura alla produzione di aerei militari».
    La Germania, aggiunge Rubtsov, fu in grado di utilizzare un gran numero di brevetti provenienti da società americane, tra le quali la Pratt & Whitney, la Douglas e la Bendix Corporation. «Il bombardiere “Junkers-87”, ad esempio, fu costruito utilizzando esclusivamente delle tecnologie americane». Così, quando la guerra scoppiò, «i monopoli americani si attaccarono alla vecchia e buona regola del “niente di personale, si tratta solo di affari”». Nel 1941, quando la Seconda Guerra Mondiale era ormai in pieno svolgimento, «gli investimenti americani nell’economia tedesca furono pari a 475 milioni di dollari dell’epoca: la Standard Oil, da sola, aveva investito 120 milioni di dollari, la General Motors 35 milioni, la Itt 30 milioni, la Ford 17,5 milioni». Quali motivazioni aveva l’Occidente per far crescere la forza della Germania nazista? «L’obiettivo era quello di far dirigere Hitler ad Est, verso l’invasione tedesca della Russia. La conquista dello “spazio vitale” costituiva, per Hitler ed il resto dei nazionalsocialisti, il più importante obiettivo di politica estera».
    Al suo primo incontro con i principali generali e ammiragli del Reich, il 3 febbraio 1933, Hitler parlò infatti della «conquista dello spazio vitale» a Est e della spietata «germanizzazione» come dei due «obiettivi finali» della sua politica estera. Per Hitler, la terra che avrebbe fornito sufficiente “spazio vitale” alla Germania era costituita dall’Unione Sovietica, che agli occhi di Hitler era un paese dotato di ricchi e vasti terreni agricoli, abitato da «slavi sub-umani» governati da una banda di «rivoluzionari ebrei», assetati di sangue ma grossolanamente incompetenti. Queste persone non erano “germanizzabili”, ma la loro terra sì. «Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, che si opponevano con fermezza alla crescita del comunismo sovietico, avevano tacitamente avallato la “conquista dello spazio vitale a Est” da parte di Hitler, che egli stesso aveva preannunciato nel “Mein Kampf”». Lo scrisse, Hitler, nel suo manifesto programmatico: «Vogliamo cominciare da dove abbiamo finito, sei secoli fa. Se fermiamo la perpetua marcia tedesca verso il Sud e l’Ovest dell’Europa, avremo sotto ai nostri occhi i paesi che si trovano ad Est». Quella era «la direzione della politica territoriale del futuro». Per chi non avesse capito: «Sia chiaro, comunque, che quando parliamo di “nuove terre” in Europa, parliamo soprattutto della Russia e dei paesi al confine orientale».
    A partire dal 1930, ricorda Rubtsov, i paesi occidentali attuarono verso la Germania una politica di “appeasement”, nel contesto generale costituito dalla piena cooperazione economica e finanziaria fra anglo-americani e Germania nazista, anche se Berlino si era appena ritirata dalla Società delle Nazioni e dalla conferenza di Ginevra sul disarmo mondiale. Da lì in poi, una sequenza ininterrotta di provocazioni e aggressioni. Prima la rioccupazione della Renania, smilitarizzata dopo il Trattato di Versailles. Poi l’annessione dell’Austria. «In nessun caso l’Occidente reagì». Nel 1937, il piano per invadere la Cecoslovacchia, pure protetta dal Patto di Monaco: subito dopo aver firmato l’accordo di non aggressione, insieme ad Arthur Neville Chamberlain, Edouard Daladier e Benito Mussolini, nel 1938 Hitler decise di marciare comunque su Praga e poi su Memel, il porto baltico che dal 1923 faceva parte della Lituania. Quindi nel marzo del 1939 l’ultimatum alla Polonia per ottenere il corridoio di Danzica, che divideva la Prussia Orientale dal resto della Germania. «Hitler era consapevole del fatto che nessuno, in Occidente, aveva intenzione di fermarlo: così, nell’aprile del 1939, ordinò segretamente che la Polonia doveva essere attaccata il successivo 1° settembre».
    Con l’occupazione della Cecoslovacchia, continua Rubtsov, il fine della politica di Hitler diventò il classico “segreto di pulcinella” anche per i politici e i diplomatici meno lungimiranti. Tutti sapevano che l’Unione Sovietica accarezzava la speranza di poter costruire un sistema di sicurezza collettivo in Europa. Mosca «riuscì a dar inizio, in effetti, a dei colloqui con Londra e Parigi, per la creazione di un’efficace alleanza in grado di contrastare l’aggressore. Ma quei colloqui rivelarono che i partner occidentali erano piuttosto riluttanti ad ostacolare la politica espansionistica di Hitler verso l’Oriente». Lo conferma il britannico Sir Alexander Cadogan, sottosegretario agli esteri: «Riferì in seguito che Chamberlain avrebbe preferito dimettersi (dalla premiership), piuttosto che stringere un accordo con i sovietici». Quando Hitler fece esplodere la Seconda Guerra Mondiale invadendo la Polonia, i leader occidentali preferirono puntare il dito contro l’accordo difensivo che Berlino appena firmato con Mosca. «Supportati dal coro della propaganda, dissero che la colpa per aver scatenato la guerra non era da attribuire alla politica di “appeasement” portata avanti dai paesi occidentali, ma piuttosto al “patto di non aggressione” fra l’Urss e la Germania».
    «Nonostante fossero chiaramente sulla strada che portava alla Seconda Guerra Mondiale – continua Rubtsov – né Londra, né Washington, né Parigi vollero lasciar spazio alla verità, in relazione a quegli eventi storici». Domanda: «Com’è possibile che questi paesi abbiano firmato il verdetto del “Processo di Norimberga”, che ha giudicato la Germania colpevole di crimini molto gravi (aver violato il “diritto internazionale” e le “leggi di guerra”), senza riconoscere chi c’era dietro alla Germania nazista?». In realtà, «le élites politiche e finanziarie degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e della Francia erano direttamente coinvolte nella promozione del regime nazista: hanno incitato Hitler a muoversi verso Est». Di fatto, «l’Occidente non ha mai riconosciuto la proprie responsabilità per aver dato sostegno al regime di Hitler». E oggi, nel 2014, «sta facendo del suo meglio», ancora una volta, «per impedire il ritorno della Russia sulla scena mondiale». Nessun imbarazzo, nele capitali occidentali, per il nazismo e la xenofobia del regime di Kiev. Si preferisce «far circolare la storia, inventata da Washington e imposta all’Europa, dell’aggressione russa contro l’Ucraina». Un classico: «La Russia viene prima provocata e poi demonizzata, per coinvolgerla direttamente nel conflitto interno ucraino». Attenzione: «L’ulcera del nazismo, combinata con le spinte russofobiche, sta guadagnando slancio». Già in passato, gli apprendisti stregoni dell’Occidente non riuscirono più a controllare il mostro che avevano contribuito a creare. Oggi va forte lo slogan “l’Ucraina innanzitutto”, un sinistro remake del motto nazista “Deutschland über Alles”. «Il motto “Ukraine über Alles” viene costantemente utilizzato per giustificare i crimini commessi dalle forze ucraine in Novorossiya».

    Criminali, bugiardi, complici. Non ci fa una bella figura, l’ipocrita Occidente, nemmeno rileggendo la Seconda Guerra Mondiale: furono americani e inglesi a scommettere su Hitler. Ne finanziarono l’ascesa in modo decisivo, incaricandolo – già allora – di una missione che ossessiona gli anglosassoni: colpire la Russia e affondarla. Lo ricorda Yuriy Rubtsov, alla luce degli attuali drammatici sviluppi in Ucraina: «I denti del drago devono essere conficcati ancora una volta nella carne viva dell’Europa», come già fu in passato. Lo conferma «la storia segreta dei rapporti fra Wall Street e la Germania nazista». Storia che nessuno ha voglia di rievocare, e che fu seppellita dalla solennità del Processo di Norimberga, che inchiodava la Germania sconfitta come unica colpevole, senza alleati atlantici. Se oggi sono in molti a definire “nazista” il golpe di Kiev costruito dagli Usa utilizzando l’estrema destra ucraina, Rubtsov chiarisce: «Per quanto ne sappiamo, l’Ucraina di oggi non può essere paragonata alla Germania di Hitler». Ma attenzione: «Non dimentichiamo che la folle corsa del nazismo ebbe inizio da uno sconosciuto caporale che predicava xenofobia e vendetta».

  • Francia sfinita dai diktat di Berlino, l’Eurozona crollerà

    Scritto il 22/9/14 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Quanto sarebbero diverse le cose in Europa, oggi, se l’euro non fosse mai nato? Data l’enorme importanza – politica, economica e finanziaria – di paesi sovrani che condividono una moneta, è difficile persino fare congetture su come potrebbe apparire il mondo se i paesi europei avessero tenuto le loro sterline, franchi, marchi, lire e pesetas. Certo, non avremmo assistito dal clamoroso strappo del ministro francese dell’economia, Arnaud Montebourg, che ha avvertito: «La Francia è la seconda economia più grande dell’Eurozona, la quinta più grande potenza mondiale, e non intende allinearsi alle eccessive ossessioni dei conservatori tedeschi». Ha chiesto una «giusta e sana resistenza» alle politiche di austerità, secondo lui imposte dal governo tedesco (larghe intese) al resto d’Europa. Così, Montebourg ha perso la poltrona di ministro: troppo critico con l’Ue pilotata da Berlino. Per Dan O’Brien, l’asse franco-tedesco si sta sbriciolando: ed è «ancora più stupefacente» che Montebourg «abbia alluso alla Seconda Guerra Mondiale, parlando di Resistenza».
    Nell’ultimo mezzo secolo, scrive O’Brien sull’“Independent”, il superamento della sanguinosa storia di questi due paesi – ben tre guerre, tra il 1870 e il 1944 – è stato un imperativo per entrambe le nazioni. «L’attacco illustra lo stato terribile delle relazioni franco-tedesche, che sono state il rapporto bilaterale europeo più importante nell’era successiva alla Seconda Guerra Mondiale». Tutto questo, afferma il giornalista in un articolo ripreso da “Voci dall’Estero”, preannuncia guai seri tutti i paesi nell’Eurozona: «Se Parigi e Berlino non riescono ad andare d’accordo, la moneta unica e l’intero progetto di integrazione europea sono in pericolo». Ironia della storia: «Una valuta che è stata progettata per riunire l’Europa e contenere il potere della Germania unita sta ottenendo esattamente l’opposto», dal momento che «l’inevitabile necessità di regole condivise nell’area valutaria porta a scambi di accuse che stanno avvelenando i rapporti fra i suoi membri». Tendenza già evidente da tempo nella periferia europea, ma ora estesa al centro franco-tedesco.
    «Queste recriminazioni potrebbero svanire se l’economia europea si riprendesse per proprio conto o se venissero implementate delle modifiche di politica economica sostenute da tutti i paesi», continua O’Brien. «Ma se non dovesse accadere nessuna di queste due cose, il centro franco-tedesco della zona euro si indebolirà ulteriormente e probabilmente aumenterà ancora in entrambi i paesi il consenso verso i partiti favorevoli all’uscita dall’euro – compreso il Front National francese, che ha già il consenso di un elettore su quattro». Una ragione ancora più fondamentale per essere pessimisti sul futuro dell’euro, aggiunge O’Brien, è la difficoltà di trovare un modo condiviso di gestione del progetto euro, data la divergenza tra i due paesi sulla maggior parte delle questioni economiche. Se Francia e Germania credono ancora nella gestione pubblica di sanità, istruzione e welfare, «ci sono molte più differenze che somiglianze». I francesi, notoriamente, non si fidano del mercato, e per i servizi preferiscono uno Stato forte.
    Vale anche per le relazioni economiche internazionali: «Mentre la Francia è sempre tra i paesi Ue più restii a liberalizzare il commercio con altri paesi (inclusi, attualmente, gli Stati Uniti), la Germania è tradizionalmente nel campo pro-liberalizzazione. I loro diversi punti di vista sull’importanza relativa del mercato e dello Stato nella vita economica si riflettono anche nelle opinioni sulla gestione macroeconomica. Nessun governo francese, come si ricorda di continuo, ha presentato un bilancio in pareggio da quasi 40 anni, e le proposte di tagliare la spesa pubblica quasi inevitabilmente portano a proteste». I tedeschi, invece, hanno quasi un’ossessione per la disciplina fiscale. Per loro, un bilancio in rosso (cioè basato su un sano deficit positivo per sostenere la spesa pubblica) significa “vivere al di sopra dei loro mezzi”: «La Germania è una rarità, in quanto i politici che promettono tagli possono aspettarsi applausi, piuttosto che proteste». Così, le tendenze sulla politica monetaria sono diverse tanto quanto quelle sulla politica fiscale. «La classe politica francese chiede frequentemente alla Banca Centrale Europea di fare questa o quell’azione, mentre la loro controparte a est del Reno ritiene sacrosanta l’indipendenza dell’autorità monetaria e crede che anche il solo cercare di influenzarla comprometta tale indipendenza». Un po’ ipocrita, visto che poi la Bce prende ordini dalla Merkel e della Bundesbank.
    «Anche se l’euro fosse stato un club di soli due paesi – Francia e Germania – una serie dettagliata di regole avrebbero dovuto essere concordate, prima o poi, sulla falsariga del “Two Pack” e del “Six Pack” che ora governano l’Eurozona, continua O’Brien. E visto che la Germania «è economicamente e politicamente più forte della Francia», ne consegue che «la sua filosofia economica è dominante: ciò è particolarmente difficile da digerire per i francesi». Le parole di Montebourg «sottolineano non solo quanto molti in Francia già pensano», e cioè «che le politiche vengono loro imposte», ma dicono anche che «lasciare che ciò accada significa subire un’umiliazione, per un paese non incline a sottovalutare la sua grandeur». Proprio questo senso di umiliazione, osserva il giornalista dell’“Independent”, ha svolto un ruolo considerevole nell’ascesa del «reazionario» Jean-Marie Le Pen, «la cui retorica anti-Bruxelles è perfino più estrema di quella della maggior parte dei membri dell’Ukip in Gran Bretagna».
    Lo sfogo di Montebourg, insieme ad altri due membri di sinistra del governo che si sono uniti alla sua rivolta, ha costretto l’Eliseo al secondo rimpasto in soli quattro mesi. «La parola “crisi” non riesce nemmeno a descrivere la condizione della presidenza ormai biennale di François Hollande, ridicola perfino per gli standard di un elettorato francese perennemente scontento», scrive O’Brien. «Nessun presidente francese ha mai sperimentato gli infimi livelli che Hollande sta attualmente registrando nelle valutazioni di soddisfazione dell’elettorato». E anche se lo stato dell’economia francese non è ancora così tremendo come molti commentatori anglofoni sostengono, è comunque stagnante, esacerbato dall’assenza di crescita indotta proprio dal rigore euro-tedesco. «Non è chiaro se l’élite politica dell’Eurozona abbia pienamente interiorizzato la dimensione del cambiamento avvenuto con l’adesione all’euro», conclude O’Brien. In compenso, «è molto chiaro che l’élite politica francese non l’ha fatto». E questo, «insieme a una serie di altri fattori, porterà – prima o poi – a una rottura dell’Eurozona».

    Quanto sarebbero diverse le cose in Europa, oggi, se l’euro non fosse mai nato? Data l’enorme importanza – politica, economica e finanziaria – di paesi sovrani che condividono una moneta, è difficile persino fare congetture su come potrebbe apparire il mondo se i paesi europei avessero tenuto le loro sterline, franchi, marchi, lire e pesetas. Certo, non avremmo assistito dal clamoroso strappo del ministro francese dell’economia, Arnaud Montebourg, che ha avvertito: «La Francia è la seconda economia più grande dell’Eurozona, la quinta più grande potenza mondiale, e non intende allinearsi alle eccessive ossessioni dei conservatori tedeschi». Ha chiesto una «giusta e sana resistenza» alle politiche di austerità, secondo lui imposte dal governo tedesco (larghe intese) al resto d’Europa. Così, Montebourg ha perso la poltrona di ministro: troppo critico con l’Ue pilotata da Berlino. Per Dan O’Brien, l’asse franco-tedesco si sta sbriciolando: ed è «ancora più stupefacente» che Montebourg «abbia alluso alla Seconda Guerra Mondiale, parlando di Resistenza».

  • Cabras: siam pronti anche noi alla macelleria della guerra?

    Scritto il 05/9/14 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Perché mai, domanda il giornalista, avete deciso di far sfilare i prigionieri di guerra? «E’ stata Kiev a dire che avrebbero marciato in parata a Donetsk il giorno 24. E così han fatto». Questa la terribile ironia che i difensori russofoni del Donbass aggredito dall’esercito ucraino esibiscono dopo aver respinto l’attacco. Avvertono: nessuna illusione sui cosiddetti dispersi dell’esercito regolare. «Le famiglie ricevono lettere che li dichiarano “dispersi in azione”. In realtà sono morti. Le autorità di Kiev lo fanno apposta. Centinaia e migliaia di morti in qualche decina di tombe». Il comandante russofono lo annuncia ufficialmente: «Ognuno sappia che se hai ricevuto una lettera che lo definisce “disperso in azione”, allora molto probabilmente tuo marito, fratello o figlio è stato ucciso». Il video è proposto da “Pandora Tv”, che presenta anche l’intera conferenza stampa del presidente del Donbass, Aleksandr Zakharchenko, tenutasi il 24 agosto nel pieno della controffensiva delle milizie ribelli, che hanno sbaragliato le meglio armate e più numerose forze del governo di Kiev.
    «Sarà l’Ucraina, sarà il richiamo bellico dell’anno quattordici, sarà che ormai le dichiarazioni di molti politici europei già annunciano la carneficina all’orizzonte», moltiplicando ogni giorno le nuove evocazioni di una guerra mondiale, ma intanto «cresce per molti una sensazione di pericolo», scrive Pino Cabras su “Megachip”. «Evocare è facile, ma essere davvero pronti all’anticamera dell’Apocalisse è un’altra cosa». Chi è davvero pronto per la guerra? Certo non i popoli europei: «Vivono in una bolla televisiva che fa loro sperare di essere ancora a lungo i consumatori che sono stati negli ultimi decenni. La cuccagna non è stata ancora smontata, perciò il ricordo dell’ultima guerra mondiale rimane annacquato. Gli europei medi – continua Cabras – non riescono più a immaginare la guerra come catastrofe. I telegiornali e i grandi quotidiani li ammaestrano all’isteria bellica, alla propaganda più sfacciata, alla russofobia, questo sì. Ma occultano l’idea che la distruzione possa entrare nelle loro case o sommergere intere coorti dei loro figli».
    Il peggio è che «nessun europeo medio ha saputo cosa è accaduto in Ucraina negli ultimi sei mesi, dal golpe in poi. Tanto meno sa cosa c’era prima. Né sa che il governo di Kiev ha martoriato la popolazione civile delle regioni orientali». L’europeo medio «ignora gli interessi predatori di quei capitalisti mafiosi che vorrebbero svuotare quelle regioni dei loro abitanti russofoni», non sa che «le forze di sicurezza ucraine sono in mano ad avventurieri imbevuti di ideologie naziste». E naturalmente «non sa nulla della Russia, non sa nulla di nulla: e si ritroverà nella guerra vasta che annuncia il neopresidente polacco del Consiglio Europeo, Donald Tusk (un burattino atlantista), e peggio di lui il ministro della difesa ucraino Gheletei, senza sapere ancora nulla». Certamente a scalpitare è Tusk, il regime dell’Ue è al guinzaglio di Washington, lo stesso Cameron sembra avere il dito sul grilletto. La Nato sembra abbozzare una frenata – su richiesta della Merkel, cioè dell’export tedesco danneggiato dalle sanzioni contro Mosca – ma intanto prepara una forza di pronto intervento per l’Est. In teoria, era pronta alla guerra anche la giunta golpista di Kiev, «ma in modo totalmente irresponsabile, con una tragica incapacità di valutare gli interessi dei russi e – di questi – la determinazione (cioè una prontezza reale) a pagare e infliggere il prezzo di una guerra vera».
    Quel che accade ora in Ucraina, dice Cabras, misura le reali dimensioni di queste diverse “prontezze”. Da un lato i popoli occidentali «anestetizzati dai loro media», popoli «che non hanno alcuna misura dei fatti», e in più il popolo ucraino «che si sorprende di dover subire una disfatta (in Italia si direbbe una Caporetto), come nel caso delle mamme e sorelle disperate che chiedono conto delle notizie di una brigata di 4.700 uomini, di cui sono tornati con le proprie gambe in appena 83». Queste famiglie «hanno appena riscoperto il concetto di “carne da cannone”», quello della Grande Guerra. «Sono le avanguardie delle mamme che ripeteranno la scena in tante altre lingue, anche da noi, nelle capitali in bancarotta dell’Europa ai comandi di Bruxelles e Francoforte». Dall’altro lato della barricata, ecco invece i militari del Donbass: «Colpisce la sicurezza e l’agghiacciante autorevolezza – in un dosaggio di gravitas e brutale ironia – con cui questi partigiani dei nostri giorni parlano di migliaia di vittime di guerra». La “gravitas” è quella che annuncia l’avvenuta strage dei militari mandati allo sbaraglio dagli aggressori incoraggiati dalla Nato. L’ironia è quella della sfilata dei prigionieri: a marciare (disarmati e sconfitti) il 24 agosto sono stati gli ucraini di Kiev, quelli che avevano annunciato con troppa fretta la conquista di Donesk, con tanto di parata dal sapore hitleriano.
    «Purtroppo, cari giornalisti, l’Occidente cerca di invaderci con una frequenza di 30-50 anni», dicono i resistenti dell’Est. «Ogni 30-50 anni la civiltà occidentale cerca di imporci la sua opinione e il suo modo di vivere. La Prima Guerra Mondiale, la Grande guerra patriottica, la guerra di Crimea prima ancora, e così via nelle profondità della storia. Come risultato, l’Occidente tradizionalmente ottiene la caduta di Berlino, di Parigi. L’Occidente arriva ogni 30-50 anni per ottenere ciò che si merita. Ora, nel 2014, sono un po’ in ritardo», ma il copione sembra lo stesso. Loro, sì, sono pronti alla guerra. Lo hanno dimostrato. E lo spiegano in modo chiarissimo: «Diremo a chiunque venga a farci del male sul nostro territorio: ci batteremo con le unghie e con i denti per la nostra patria. Kiev e l’Occidente hanno fatto un grosso sbaglio a risvegliarci. Noi siamo gente laboriosa. Mentre altri saltavano a Maidan per 300 grivne, la nostra gente era giù in miniera a estrarre carbone, a fondere metallo e a seminare le colture. Nessuno di noi ha avuto il tempo di saltare, eravamo impegnati a lavorare». Poi, quando li hanno presi a cannonate, si sono ribellati.
    «Quando un tizio che appena ieri lavorava con un martello pneumatico o guidava una mietitrebbia, oggi si trova alla guida di un carro armato o di un Grad, o a raccogliere un mitra, la linea è stata passata e non lo potete più fermare», dicono i militari dell’Est. «Quello che ha dovuto lasciare il proprio lavoro sa che combatterà fino alla fine e fino al suo ultimo respiro». E l’Occidente è pronto è combattere “fino all’ultimo respiro”? Certo non lo è la nuova Lady Pesc, Federica Mogherini, che si abbandona a dichiarazioni desolanti, del tipo: «Se non esiste più un partenariato strategico è per scelta di Mosca». Ovvero: nessuna autocritica ai piani alti dell’Ovest. «Ecco, Mogherini non è pronta», scrive Cabras. «Fa interamente sua tutta l’eredità della Nato e della Ue in questi anni di crisi internazionali, destabilizzazioni, aggressioni ed escalation: cioè un bilancio disastroso e criminale, dall’Iraq all’Afghanistan al dossier libico, alla Siria, e ora all’Ucraina».
    Il bilancio occidentale di questi anni? «Un caos funesto interamente imputabile alla lunga “guerra infinita” scatenata dalle capitali dell’atlantismo», subito dopo l’opaco super-attentato dell’11 Settembre. Lo stesso Cabras ricorda che, all’indomani della guerra-lampo nell’Ossezia del Sud attaccata dall’esercito georgiano armato da Bush e poi travolto dai russi, nel 2008 il “Times” ricordava le parole di Lord Salisbury, ministro degli esteri e primo ministro ai tempi dell’Impero Britannico», un uomo che «irradiò un potere globale immenso». Di fronte a proposte pericolose, in cui Londra minacciava seriamente altri paesi, Salisbury avrebbe guardato i suoi colleghi negli occhi, chiedendo semplicemente: «Siete davvero pronti a combattere? Altrimenti, non imbarcatevi in questa politica».
    Già: siete davvero pronti a combattere? «E’ la domanda giusta, quella che non vi hanno ancora fatto», osserva Cabras. «Nell’Europa politicamente desertificata dall’obbedienza alla Nato si continua ad agire come se la Russia fosse ancora oggi lo Stato esausto degli anni novanta, su cui si muoveva etilicamente Boris Eltsin e sul cui collo si stringeva il capestro del Fondo Monetario Internazionale. La situazione è completamente diversa, eppure si va lo stesso allo scontro. O si va proprio per questo, nel momento in cui i Brics picconano il Dollar Standard. E gli Usa non possono accettare un mondo multipolare in cui il dollaro non sia l’architrave». Allora, siamo pronti a combattere? La risposta la anticipano – a distanza – i comandanti militari dell’Est ucraino, che a questa guerra hanno già preso le misure. «Potete dirlo in giro: non svegliate la bestia», raccomandano. «Non fatelo, davvero. Finché c’è ancora la possibilità, lasciate che le madri risparmino i propri figli».

    Perché mai, domanda il giornalista, avete deciso di far sfilare i prigionieri di guerra? «E’ stata Kiev a dire che avrebbero marciato in parata a Donetsk il giorno 24. E così han fatto». Questa la terribile ironia che i difensori russofoni del Donbass aggredito dall’esercito ucraino esibiscono dopo aver respinto l’attacco. Avvertono: nessuna illusione sui cosiddetti dispersi dell’esercito regolare. «Le famiglie ricevono lettere che li dichiarano “dispersi in azione”. In realtà sono morti. Le autorità di Kiev lo fanno apposta. Centinaia e migliaia di morti in qualche decina di tombe». Il comandante russofono lo annuncia ufficialmente: «Ognuno sappia che se hai ricevuto una lettera che lo definisce “disperso in azione”, allora molto probabilmente tuo marito, fratello o figlio è stato ucciso». Il video è proposto da “Pandora Tv”, che presenta anche l’intera conferenza stampa del presidente del Donbass, Aleksandr Zakharchenko, tenutasi il 24 agosto nel pieno della controffensiva delle milizie ribelli, che hanno sbaragliato le meglio armate e più numerose forze del governo di Kiev.

  • Benvenuti nel Grande Caos, quello che ci farà a pezzi

    Scritto il 02/9/14 • nella Categoria: idee • (2)

    I tempi in cui ci tocca di vivere stanno diventando cupi e tetri. Pur senza concedere nulla al pessimismo della ragione, sentire un pontefice evocare la Terza Guerra Mondiale, il segretario della Nato non escluderla come scenario, e importanti giornali proporci quotidianamente una mappa dei conflitti che incendiano le regioni strategiche del mondo in cui viviamo, non è certo rassicurante. Soprattutto perchè la realtà incasella e aggiunge giorno dopo giorno le conferme che la pallina collocata sul piano inclinato continua a scivolare pericolosamente. Accelerando. Ma le guerre non sono una fatalità. Possono esplodere quando un incidente accelera i processi storici; ma si verificano perchè ci sono forze materiali che hanno spinto i processi verso la rottura, lo scontro, il “clash tra le potenze”, come scrissero in un ottimo libro Petras, Casadio e Vasapollo. La cosa che colpisce – che deve colpire anche gli ottusi “di sinistra” – è che il novanta per cento dei focolai di conflitto circonda l’Europa come un cerchio di fuoco.
    L’ovest appare pacifico solo perchè confina con l’Atlantico, un oceano che divide l’Europa dagli Stati Uniti, ovvero la sponda da cui arrivano le spinte più forti a coinvolgere l’Europa verso il “clash”. La linea intrapresa dai governi dell’Unione Europea sulla crisi e il conflitto in Ucraina è emblematica. Gli Usa spingono i paesi europei verso il conflitto con il più grande e armato di essi: la Russia. Il prossimo vertice Nato a Newport appare foriero di pessime decisioni che accentueranno e non depotenziaranno i pericoli di guerra sulla frontiera est. Resistenze e dubbi, se ancora esistono, abitano menti silenziose. Ma a sud non va meglio. La destabilizzazione creativa (una categoria rassicurante per descrivere le guerre asimmetriche di aggressione scatenate dal 2001 a oggi), ha creato una fascia di instabilità belligerante nella vicina Libia e in Iraq, Siria, Palestina ed Egitto dove, tra Gaza e Sinai, la normalizzazione militare imposta dal generale Al Sisi – diventato beniamino delle cancellerie occidentali – riesce a malapena a comprimere il fuoco sotto le braci.
    Insomma, la sponda sud dell’Europa è l’area di instabilità e guerra più infuocata del globo. Oggi appare evidente come nessuna delle potenze in campo abbia chiaro quali siano le prospettive, se non quella di ripetuti bagni di sangue e instabilità da gestire a distanza, attraverso la logica del bombardamento con i droni quando gli effetti rischiano di tracimare, mettendo in discussione parametri vitali come le forniture energetiche, idriche, o gli equilibri geopolitici. I ripetuti cambi di campo e di alleanze appaiono molto più che inevitabili cinismi della governance. Il doppio e triplo gioco di Stati Uniti e potenze europee ha entusiasmato e coinvolto anche altri soggetti, come le petromonarchie del Golfo o la Turchia, che usano gli ingenti introiti che vengono dalle rendite petroliferi o dalle royalties sui diritti di passaggio per finanziare milizie in guerra tra loro. Una disamina delle ingerenze di petromonarchie come Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi, dalla Bosnia del ‘93 passando per la Cecenia, l’Afghanistan fino a Libia, Iraq, Libano, Siria, Palestina e Sudan, ci consegna uno scenario di guerra di tutti contro tutti e una brusca rimessa in discussione dei confini coloniali definiti dalle potenze europee alla fine della Prima Guerra Mondiale.
    In realtà questo assetto era già stato sconvlto dall’entrata in campo degli Stati Uniti in Medio Oriente, fin dal colpo di Stato del 1953 contro Mossadeq in Iran e poi lo stop imposto a Francia e Gran Bretagna nel 1956 a Suez. Da quel momento, il Medio Oriente è diventato terreno di caccia privilegiato di Washington; un’enclave in cui le potenze europee, Italia inclusa, potevano al massimo ritagliarsi interstizi per i propri limitati interessi (vedi la Libia). Ma gli ultimi anni, quelli in cui gli Stati Uniti hanno visualizzato e cercato di contrastare con ogni mezzo il proprio lento declino, hanno assestato un nuovo scossone all’assetto precedente. Via l’Iraq di Saddam, la Libia di Gheddafi, la Siria di Assad, ma anche la Palestina dell’Olp; sostituendoli con il caos e la balcanizzazione, abolendo gli Stati. Senza mai dimenticarsi la disintegrazione della Jugoslavia e della ex Urss. Altri territori “vergini” che hanno visto nascere a est di Berlino ben 30 Stati dove prima ve ne erano otto; e solo la metà di questi hanno più di dieci milioni di abitanti. Staterelli, dunque, poco più che “granducati”. Facili da piegare, minacciare, ricattare, eventualmente cancellare o sovvertire.
    Fino a un certo punto.
    Ecco, è questo “certo punto” che indica la soglia di crisi che si va raggiungendo. E non solo perchè oggi la Russia di Putin punta i piedi nel proprio “cortile di casa”, ma perchè somiglia, assai più che l’Urss, ai suoi competitori; e perchè tra i paesi a capitalismo di Stato (usiamo una forzatura per semplificare una realtà complessa come i Brics) e quelli a capitalismo mercantilista che caratterizzano Stati Uniti ed Unione Europea (cioè potenze più compiutamente imperialiste), non ci sono più i margini per spartirsi in modo concertato come in passato il mondo. Dunque se la concertazione e le camere di compensazione – per quanto asimmetriche, rispetto al Washington Consensus – non hanno più la materia per realizzarsi, il mondo diventa oggetto di competizione. E la competizione avviene con ogni mezzo. Il caos e l’instabilità nel cortile di casa degli altri possibili competitori diventano la condizione preliminare e necessaria, anche se mai sufficiente. Che tutto questo abbia un costo umano sempre più alto non pare essere un problema. Un capitalismo in crisi distrugge i capitali in eccesso, è noto. E per un sistema che punta solo alle risorse, alla sopravvivenza competitiva, anche il “capitale umano” – definito anche e non a caso “capitale variabile” – può diventare un eccesso da dover distruggere.
    (Sergio Cararo, “Il caos che sfugge di mano”, da “Contropiano” del 27 agosto 2014).

    I tempi in cui ci tocca di vivere stanno diventando cupi e tetri. Pur senza concedere nulla al pessimismo della ragione, sentire un pontefice evocare la Terza Guerra Mondiale, il segretario della Nato non escluderla come scenario, e importanti giornali proporci quotidianamente una mappa dei conflitti che incendiano le regioni strategiche del mondo in cui viviamo, non è certo rassicurante. Soprattutto perchè la realtà incasella e aggiunge giorno dopo giorno le conferme che la pallina collocata sul piano inclinato continua a scivolare pericolosamente. Accelerando. Ma le guerre non sono una fatalità. Possono esplodere quando un incidente accelera i processi storici; ma si verificano perchè ci sono forze materiali che hanno spinto i processi verso la rottura, lo scontro, il “clash tra le potenze”, come scrissero in un ottimo libro Petras, Casadio e Vasapollo. La cosa che colpisce – che deve colpire anche gli ottusi “di sinistra” – è che il novanta per cento dei focolai di conflitto circonda l’Europa come un cerchio di fuoco.

  • Guerra: ma Pechino sarà pronta a morire per Mosca?

    Scritto il 02/9/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Gli Usa restano l’unica superpotenza imperiale, in una architettura a piramide, a carattere neofeudale, a cui gli altri Stati si associano, a vario rango, in condizione di vassallaggio. I grandi Stati vassalli avrebbero aree di influenza di loro pertinenza: alla Cina l’Asia orientale, alla Germania l’Europa, al Brasile il Sudamerica. Le nazioni che non volessero sottomettersi spontaneamente sarebbero affrontate con la forza. In questo schema, sembrerebbe naturale che la struttura neofeudale si riflettesse anche all’interno dei singoli Stati, con strutture sociali piramidali e con potere e grandi ricchezze detenute da piccole élite. «L’appello a tutti coloro che ritenessero un tale scenario almeno possibile, e non volessero ad esso assoggettarsi – scrive Simone Santini – è di considerare in questa fase la Russia come la terra di confine di un autentico scontro di civiltà». Quindi, si prospetta «una scelta di campo tra la civiltà umana e la civiltà della barbarie». Superfluo aggiungere che «si accettano scommesse sul rango di vassallaggio riservato all’Italia».
    Secondo l’analisi di Santini, pubblicata da “Megachip”, si è ormai diffusa la percezione (fuorviante, erronea) che l’ordine “imperiale” costituito dagli Stati Uniti dopo la caduta dell’Urss sia giunto sul viale del tramonto. Si esalta l’ascesa economica dei Brics, si cita la grande crisi finanziaria di Wall Street del 2007, si ricordano le defaillance militari americane in Afghanistan e in Iraq, seguite all’11 Settembre. «A questi fattori va aggiunto un panorama mondiale, specialmente negli ultimi anni, che sembra farsi sempre più caotico e privo di guida, con tensioni o addirittura guerre che si susseguono nelle cerniere fondamentali del pianeta». La rapidità dell’evoluzione in effetti «suggerisce la possibilità di un Impero allo sbando, in preda a una crisi sistemica senza uscita», ma non è detto che tutte le criticità possano determinare un esito univoco, avverte Santini. L’alternativa dei Brics è ancora «in fieri», la loro super-banca – alternativa a Fmi e Banca Mondiale – è una creatura neonata, ed non è scontato che nell’alleanza pesino ancora rivalità storiche, come quelle tra Cina e India, «su cui gli Usa potrebbero intervenire per determinarne la disgregazione».
    La crisi finanziaria, «originata dai limiti dello sviluppo del sistema capitalistico», con «mercati ormai saturi» e incapaci di garantire i maxi-profitti del passato, ha fatto volare la speculazione pura, la «finanza creativa» che genera denaro direttamente dal denaro, saltando l’economia reale: «Una enorme bolla di soldi virtuali che vale, a seconda delle stime, decine di volte il Pil mondiale», e che prima poi «scoppierà o verrà sgonfiata in qualche modo: vedremo chi ne pagherà il prezzo». Nel frattempo, però, questa immensa massa di denaro «può essere impiegata dai “Masters of Universe” per fare shopping tra i pezzi industriali pregiati dei sistemi economici in crisi (vedasi in Italia) o fare letteralmente incetta di terra coltivabile in Africa o America Latina». Di riflesso, la crisi è diventata «crisi dei debiti sovrani» nell’Europa che non è più “sovrana” della propria moneta. Se a soffrire sono innanzitutto i cosiddetti Piigs, lo scenario non è affatto sfavorevole agli Usa, perché – proprio grazie alla recessione dell’Eurozona – si sta staccando l’Europa dalla Russia.
    Il più grande successo di questa fase per l’Impero? «Scongiurare ogni tentazione di costituire un blocco europeo continentale, da Lisbona a Mosca, indipendente politicamente, autosufficiente dal punto di vista economico», scrive Santini. Un blocco «culturalmente e territorialmente coeso, avanzato tecnologicamente, armato nuclearmente, complessivamente il più ricco e dinamico del pianeta, più degli stessi Stati Uniti. Altro che Brics». Quanto alle non-vittorie militari americane in Iraq e Afghanistan, «sono tali solo se viste nell’ottica della classica conquista coloniale». Al contrario, diventano tappe-chiave della “geopolitica del caos”, «una metodologia imperiale più oscura e complessa», ma molto efficace, «propugnata da alcuni settori dell’establishment americano che hanno il loro pubblico rappresentante più noto in Zbigniew Brzezinski, già segretario di Stato durante la presidenza di Jimmy Carter e allora ideatore della “trappola afghana”». Una tecnica, che se ben condotta, è utile per «tenere divisi i popoli “barbari”» e «impedire la nascita di potenze regionali» che possano disturbare gli Usa.
    I focolai di crisi in Afghanistan, Iraq, Siria, Libia, Ucraina e Palestina potrebbero sembrare il sintomo di «un mondo in preda alla pazzia, senza più gendarmi in grado di imporre l’ordine», ma se invece «si ammette la possibilità, terribile e dunque da sottacere, di una regia di fondo», allora diventa lampante «un quadro complessivo lucido e atroce, in cui il destino dei popoli è giocato come su una “grande scacchiera”». Emblematico il caso ucraino, «attraverso cui gli Usa – continua Santini – stanno ottenendo il risultato storico di dividere in uno spazio temporale decisivo la Russia dal resto d’Europa, colpendo al contempo Mosca e Berlino, costringendo la Ue a votare sanzioni contro un possibile alleato strategico e contro i propri stessi interessi, contorcendosi e ripiegandosi su se stessa». Dove siamo diretti? Secondo Aldo Giannuli, gli Usa potrebbero arroccarsi sulla difensiva, sfruttando i vantaggi strategici che ancora detengono, oppure potrebbero “assorbire” l’Europa nel blocco commerciale euroatlantico protetto dalla Nato. O magari accettare un “nuovo ordine bipolare” con la Cina, persino aprendo a nuove potenze emergenti, in un Consiglio di Sicurezza dell’Onu riformato in base a un nuovo “ordine multipolare”. Davvero gli Usa lo accetterebbero?
    «È sorprendente – replica Santini – che il professor Giannuli non preveda, al di fuori di questi schemi, altri sbocchi che non siano “il progressivo degenerare verso un disordine mondiale sempre più caotico”. Ovvero, nemmeno prenda in considerazione la possibilità che l’attuale situazione si consolidi, mutatis mutandis, con gli Stati Uniti che rimangono l’unica superpotenza imperiale», ipotesi tutt’altro che da scartare. Al contrario, è la condizione «che ha maggiori probabilità di prosecuzione, almeno nel medio termine», perché «nessuna nazione appare in grado non solo di soppiantare, ma nemmeno di sfidare gli Stati Uniti con la forza». Per Santini, quella degli Usa non è affatto una “ritirata”, ma un’offensiva. In Medio Oriente, con possibilità di proiezione anche in Africa, Israele rimane l’unica vera potenza regionale, insieme all’Iran, mentre ad Est gli accadimenti ucraini accelerano «l’accerchiamento della Russia e il controllo sempre più stretto sull’Europa da parte americana». Cina e Russia «vedono sempre più comprimersi i rispettivi spazi di manovra». Per resistere, dovranno “compenetrarsi”: «Ma, davanti alle sfide che lancerà l’Impero, Mosca sarà pronta a morire per Pechino e Pechino sarà pronta a morire per Mosca?».

    Gli Usa restano l’unica superpotenza imperiale, in una architettura a piramide, a carattere neofeudale, a cui gli altri Stati si associano, a vario rango, in condizione di vassallaggio. I grandi Stati vassalli avrebbero aree di influenza di loro pertinenza: alla Cina l’Asia orientale, alla Germania l’Europa, al Brasile il Sudamerica. Le nazioni che non volessero sottomettersi spontaneamente sarebbero affrontate con la forza. In questo schema, sembrerebbe naturale che la struttura neofeudale si riflettesse anche all’interno dei singoli Stati, con strutture sociali piramidali e con potere e grandi ricchezze detenute da piccole élite. «L’appello a tutti coloro che ritenessero un tale scenario almeno possibile, e non volessero ad esso assoggettarsi – scrive Simone Santini – è di considerare in questa fase la Russia come la terra di confine di un autentico scontro di civiltà». Quindi, si prospetta «una scelta di campo tra la civiltà umana e la civiltà della barbarie». Superfluo aggiungere che «si accettano scommesse sul rango di vassallaggio riservato all’Italia».

  • Israele, uno Stato inventato (a insaputa degli ebrei)

    Scritto il 09/8/14 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    La guerra, che continua ininterrottamente da 66 anni in Palestina, ha conosciuto una nuova svolta con le operazioni israeliane “Guardiani dei nostri fratelli”, e poi “Roccia inamovibile” (stranamente tradotta dalla stampa occidentale con l’espressione “Margine protettivo”). Chiaramente, Tel Aviv – che aveva scelto di strumentalizzare la scomparsa di tre giovani israeliani per lanciare queste operazioni e «sradicare Hamas» al fine di sfruttare il gas naturale di Gaza, secondo il piano enunciato nel 2007 dall’attuale ministro della difesa – è stata spiazzata dalla reazione della Resistenza. Il Jihad islamico ha risposto inviando razzi di media gittata molto difficili da intercettare, che si aggiungono a quelli lanciati da Hamas. La violenza degli eventi che hanno già ucciso oltre 1.500 palestinesi e 62 israeliani (ma le cifre israeliane sono soggette a censura militare e sono probabilmente minimizzate) ha sollevato un’ondata di proteste in tutto il mondo.
    Oltre ai 15 membri del Consiglio di Sicurezza, riunitosi il 22 luglio, l’Onu ha dato la parola ad altri 40 Stati che intendevano esprimere il loro sdegno per il comportamento di Tel Aviv e la sua «cultura dell’impunità». La sessione, anziché durare le solite 2 ore, si è protratta per 9 ore. Simbolicamente, la Bolivia ha dichiarato Israele uno «Stato terrorista» e ha abrogato l’accordo sulla libera circolazione che lo riguardava. Ma in generale, le dichiarazioni di protesta non sono state seguite da un aiuto militare, ad eccezione di quelle dell’Iran e simbolicamente della Siria. Entrambi sostengono la popolazione palestinese attraverso il Jihad islamico, l’ala militare di Hamas (ma non la sua ala politica, membro dei Fratelli Musulmani), e tramite il Fplp-Cg.
    A differenza dei casi precedenti (operazioni “Piombo fuso” nel 2008 e “Colonna di nuvola” nel 2012), i due Stati che proteggono Israele presso il Consiglio (Stati Uniti e Regno Unito) hanno favorito l’elaborazione di una dichiarazione del presidente del Consiglio di Sicurezza che sottolineava gli obblighi umanitari di Israele. In realtà, al di là della questione di fondo di un conflitto che dura dal 1948, si assiste a un consenso per condannare almeno il ricorso da parte di Israele di un uso sproporzionato della forza. Tuttavia, questo consenso apparente maschera analisi assai diverse: alcuni autori interpretano il conflitto come una guerra di religione tra ebrei e musulmani; altri lo vedono al contrario come una guerra politica secondo uno schema coloniale classico. Che cosa dobbiamo pensarne?
    SIONISMO Che cos’è il sionismo? A metà del XVII secolo, i calvinisti britannici si riunirono intorno a Oliver Cromwell e rimisero in questione la fede e la gerarchia del regime. Dopo aver rovesciato la monarchia anglicana, il “Lord Protettore” pretese di consentire al popolo inglese di raggiungere la purezza morale necessaria ad attraversare una tribolazione di sette anni, dare il benvenuto al ritorno del Cristo e vivere in pace con lui per mille anni (il “Millennium”). Per far ciò, secondo la sua interpretazione della Bibbia, gli ebrei dovevano essere dispersi fino agli estremi confini della terra, poi raggruppati in Palestina, dove ricostruire il tempio di Salomone. Su questa base, instaurò un regime puritano, levò nel 1656 il divieto che era stato fatto agli ebrei di stabilirsi in Inghilterra e annunciò che il suo paese s’impegnava a creare in Palestina lo Stato di Israele.
    Poiché la setta di Cromwell fu a sua volta rovesciata alla fine della “Prima Guerra civile inglese”, i suoi sostenitori uccisi o esiliati, e poiché la monarchia anglicana fu restaurata, il sionismo (cioè il progetto della creazione di uno Stato per gli ebrei) fu abbandonato. Riapparve nel XVIII secolo con la “Seconda guerra civile inglese” (secondo il nome dei manuali di storia delle scuole secondarie nel Regno Unito) che il resto del mondo conosce come la “Guerra d’Indipendenza degli Stati Uniti” (1775-1783). Contrariamente alla credenza popolare, essa non fu intrapresa in nome degli ideali dell’Illuminismo che animarono pochi anni dopo la Rivoluzione Francese, ma fu finanziata dal re di Francia e condotta per motivi religiosi al grido di «Il nostro re è Gesù!». George Washington, Thomas Jefferson e Benjamin Franklin, per citarne alcuni, si sono presentati come i successori dei sostenitori esiliati di Oliver Cromwell. Gli Stati Uniti hanno dunque logicamente ripreso il suo progetto sionista.
    Nel 1868, in Inghilterra, la regina Victoria nominò primo ministro l’ebreo Benjamin Disraeli. Questi propose di concedere una parte di democrazia ai discendenti dei sostenitori di Cromwell, in modo da poter contare su tutto il popolo per estendere il potere della Corona nel mondo. Soprattutto, propose di allearsi alla diaspora ebraica per condurre una politica imperialista di cui essa sarebbe stata l’avanguardia. Nel 1878, fece iscrivere «la restaurazione di Israele» all’ordine del giorno del Congresso di Berlino sulla nuova spartizione del mondo. È su questa base sionista che il Regno Unito ristabilì i suoi buoni rapporti con le sue ex colonie, divenute nel frattempo gli Stati Uniti alla fine della “Terza guerra civile inglese” – nota negli Stati Uniti come la “guerra civile americana” e nell’Europa continentale come la “guerra di Secessione” (1861-1865) – che vide la vittoria dei successori dei sostenitori del Cromwell, gli Wasp (White Anglo-Saxon Puritans). Anche in questo caso, è del tutto sbagliato che si presenti questo conflitto come una lotta contro la schiavitù, intanto che cinque stati del nord la praticavano ancora.
    Fino quasi alla fine del XIX secolo, il sionismo è solo un progetto puritano anglo-sassone al quale solo un’élite ebraica aderisce. È fortemente condannato dai rabbini che interpretano la Torah come un’allegoria e non come un piano politico. Tra le conseguenze attuali di questi fatti storici, dobbiamo ammettere che se il sionismo mira alla creazione di uno Stato per gli ebrei, è anche il fondamento degli Stati Uniti. Pertanto, la questione se le decisioni politiche d’insieme siano prese a Washington o a Tel Aviv ha solo interesse relativo. È la stessa ideologia ad essere al potere in entrambi i paesi. Inoltre, poiché il sionismo ha permesso la riconciliazione tra Londra e Washington, il fatto di sfidarlo significa affrontare questa alleanza, la più potente del mondo.
    POPOLO EBRAICO L’adesione del popolo ebraico al sionismo anglosassone. Nella storia ufficiale attuale, è consuetudine ignorare il periodo dal XVII al XIX secolo e presentare Theodor Herzl come il fondatore del sionismo. Tuttavia, secondo le pubblicazioni interne dell’Organizzazione Sionista Mondiale, anche questo punto è falso. Il vero fondatore del sionismo contemporaneo non era ebreo, bensì cristiano dispenzionalista. Il reverendo William E. Blackstone era un predicatore americano per il quale i veri cristiani non avrebbero dovuto partecipare alle prove della fine del tempo. Basava l’insegnamento su coloro che sarebbero stati elevati al cielo durante la battaglia finale (il “rapimento della Chiesa”, in inglese “the rapture”). Nella sua visione, gli ebrei avrebbero combattuto questa battaglia e ne sarebbero usciti allo stesso tempo convertiti a Cristo e vittoriosi.
    È la teologia del reverendo Blackstone che è servita da base per il sostegno immancabile di Washington alla creazione di Israele. E questo, molto prima che l’Aipac (la lobby pro-Israele) venisse creata e prendesse il controllo del Congresso. In realtà, il potere della lobby non risiede tanto nel suo denaro e la sua capacità di finanziare le campagne elettorali, quanto in questa ideologia ancora presente negli Stati Uniti. La teologia del rapimento, per quanto stupida possa sembrare, è oggi molto potente negli Stati Uniti. Rappresenta un fenomeno nel mercato dei libri e nel cinema (si veda il film “Left Behind”, con Nicolas Cage, che uscirà ad ottobre). Theodor Herzl era un ammiratore del magnate dei diamanti Cecil Rhodes, teorico dell’imperialismo britannico e fondatore del Sudafrica, della Rhodesia (cui diede il suo nome) e dello Zambia (ex Rhodesia del Nord).
    Herzl non era israelita praticante né aveva circonciso suo figlio. Ateo come molti borghesi europei del suo tempo, si batté all’inizio per assimilare gli ebrei convertendoli al cristianesimo. Tuttavia, riprendendo la teoria di Benjamin Disraeli, giunse alla conclusione che la soluzione migliore fosse quella di farli partecipare al colonialismo britannico creando uno Stato ebraico, collocato nell’attuale Uganda o in Argentina. Seguì l’esempio di Rhodes nella maniera di acquistare terreni e di costruire l’Agenzia Ebraica. Blackstone riuscì a convincere Herzl a unire le preoccupazioni dei dispenzionalisti a quelle dei colonialisti. Era sufficiente per tutto questo considerare di stabilire Israele in Palestina e di moltiplicare i riferimenti biblici. Grazie a questa idea assai semplice, giunsero a far aderire la maggioranza degli ebrei europei al loro progetto. Oggi Herzl è sepolto in Israele (sul monte Herzl) e lo Stato ha posto nella sua bara la Bibbia annotata che Blackstone gli aveva offerto.
    Il sionismo non ha dunque mai avuto come obiettivo quello di «salvare il popolo ebraico dandogli una patria», bensì quello di far trionfare l’imperialismo anglosassone associandovi gli ebrei. Inoltre, non solo il sionismo non è un prodotto della cultura ebraica, ma la maggior parte dei sionisti non è mai stata ebrea, mentre la maggioranza dei sionisti ebrei non sono israeliti dal punto di vista religioso. I riferimenti biblici, onnipresenti nel discorso pubblico israeliano, rispecchiano il pensiero solo della parte credente del paese e sono destinati principalmente a convincere la popolazione statunitense.
    IL PATTO Il patto anglosassone per la creazione di Israele in Palestina. La decisione di creare uno Stato ebraico in Palestina è stata presa congiuntamente dai governi britannico e statunitense. È stata negoziata dal primo giudice ebreo della Corte Suprema degli Stati Uniti, Louis Brandeis, sotto gli auspici del reverendo Blackstone, e fu approvata sia dal presidente Woodrow Wilson sia dal primo ministro David Lloyd George, sulla scia degli accordi franco-britannici Sykes-Picot sulla spartizione del “Vicino Oriente”. Questo accordo fu progressivamente reso pubblico. Il futuro Segretario di Stato per le Colonie, Leo Amery, ebbe l’incarico di inquadrare gli anziani del “Corpo dei mulattieri di Sion” per creare, con i due agenti britannici Ze’ev Jabotinsky e Chaim Weizmann, la “Legione ebraica” in seno all’esercito britannico. Il ministro degli esteri Lord Balfour inviò una lettera aperta a Lord Walter Rothschild per impegnarsi a creare un «focolare nazionale ebraico» in Palestina (2 novembre 1917). Il presidente Wilson annoverò tra i suoi obiettivi di guerra ufficiali (il 12° dei 14 punti presentati al Congresso l’8 gennaio 1918) la creazione di Israele.
    Pertanto, la decisione di creare Israele non ha nulla a che fare con la distruzione degli ebrei d’Europa sopravvenuta due decenni più tardi, durante la Seconda Guerra Mondiale. Durante la Conferenza di pace di Parigi, l’emiro Faisal (figlio dello Sharif della Mecca e futuro re dell’Iraq britannico) firmò, in data 3 gennaio 1919, un accordo con l’Organizzazione Sionista, impegnandosi a sostenere la decisione anglosassone. La creazione dello Stato di Israele, realizzata contro la popolazione della Palestina, era quindi fatta anche con l’accordo dei monarchi arabi. Inoltre, all’epoca, lo Sharif della Mecca, Hussein bin Ali, non interpretava il Corano alla maniera di Hamas. Non pensava che «una terra musulmana non può essere governata da non-musulmani»
    ISRAELE La creazione giuridica dello Stato d’Israele. Nel maggio 1942, le organizzazioni sioniste tennero il loro congresso al Biltmore Hotel di New York. I partecipanti decisero di trasformare il «focolare nazionale ebraico» della Palestina in «Commonwealth ebraico» (riferendosi al Commonwealth con cui Cromwell aveva brevemente sostituito la monarchia britannica) e di autorizzare l’immigrazione di massa degli ebrei verso la Palestina. In un documento segreto, venivano precisati tre obiettivi: «(1) lo Stato ebraico avrebbe abbracciato l’intera Palestina e probabilmente la Transgiordania; (2) il trasferimento delle popolazioni arabe in Iraq; (3) la presa in mano da parte degli ebrei dei settori dello sviluppo e del controllo dell’economia in tutto il Medio Oriente». Quasi tutti i partecipanti ignoravano allora che la «soluzione finale della questione ebraica» (die Endlösung der Judenfrage) aveva appena preso inizio segretamente in Europa.
    In definitiva, mentre i britannici non sapevano più come soddisfare sia gli ebrei sia gli arabi, le Nazioni Unite (che a quel tempo annoveravano appena 46 Stati membri) proposero un piano per spartire la Palestina a partire dalle indicazioni che gli fornirono i britannici. Uno Stato bi-nazionale doveva essere creato, comprendente uno Stato ebraico, uno Stato arabo e una zona soggetta a un “regime internazionale speciale” per amministrare i luoghi santi (Gerusalemme e Betlemme). Questo progetto fu adottato attraverso la risoluzione 181 dell’Assemblea Generale. Senza attendere il seguito dei negoziati, il presidente dell’Agenzia Ebraica, David Ben Gurion, proclamò unilateralmente lo Stato di Israele, subito riconosciuto dagli Stati Uniti. Gli arabi del territorio israeliano furono sottoposti alla legge marziale, i loro movimenti furono limitati, i loro passaporti confiscati. I paesi arabi di recente indipendenza intervennero. Ma senza eserciti ancora costituiti, furono rapidamente sconfitti. Durante questa guerra, Israele procedette a una pulizia etnica e costrinse almeno 700.000 arabi a fuggire.
    L’Onu inviò un mediatore, il conte Folke Bernadotte, un diplomatico svedese che aveva salvato migliaia di ebrei durante la guerra. Constatò che i dati demografici trasmessi dalle autorità britanniche erano falsi e pretese la piena attuazione del piano di spartizione della Palestina. Al dunque, la risoluzione 181 implica il ritorno dei 700.000 arabi espulsi, la creazione di uno Stato arabo e l’internazionalizzazione di Gerusalemme. L’inviato speciale delle Nazioni Unite fu assassinato, il 17 settembre 1948, su ordine del futuro primo ministro Yitzhak Shamir. Furibonda, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò la risoluzione 194, che riafferma i principi della risoluzione 181 e, inoltre, proclama il diritto inalienabile dei palestinesi a tornare alle loro case e ad essere risarciti per il danno che avevano appena subito. Tuttavia, poiché Israele aveva arrestato gli assassini di Bernadotte, e poi li processò e condannò, fu accolto in seno all’Onu con la promessa di onorare le risoluzioni. Ma erano nient’altro che bugie. Subito dopo gli assassini furono graziati e lo sparatore divenne la guardia del corpo personale del primo ministro David Ben Gurion.
    Fin dalla sua adesione all’Onu, Israele non ha mai smesso di violare le risoluzioni che si sono accumulate all’Assemblea Generale e al Consiglio di Sicurezza. I suoi legami organici con due membri del Consiglio che dispongono del diritto di veto lo hanno collocato di fuori del diritto internazionale. È diventato uno Stato off-shore che permette agli Stati Uniti e al Regno Unito di fingere di rispettare anche loro il diritto internazionale, mentre lo violano dietro questo pseudo-Stato. È assolutamente sbagliato ritenere che il problema posto da Israele riguardi solo il Medio Oriente. Oggi Israele agisce militarmente in tutto il mondo a copertura dell’imperialismo anglosassone. In America Latina, ci furono agenti israeliani che organizzarono la repressione durante il colpo di stato contro Hugo Chávez (2002) o il rovesciamento di Manuel Zelaya (2009). In Africa, erano ovunque presenti durante la guerra dei Grandi Laghi e hanno organizzato l’arresto di Muammar el-Gheddafi. In Asia, hanno condotto l’assalto e il massacro delle Tigri Tamil (2009), ecc. Ogni volta, Londra e Washington giurano che non c’entrano per nulla. Inoltre, Israele controlla numerose istituzioni mediatiche e finanziarie (come la Federal Reserve statunitense).
    IMPERIALISMO La lotta contro l’imperialismo. Fino alla dissoluzione dell’Urss, era evidente a tutti che la questione israeliana scaturisse dalla lotta contro l’imperialismo. I palestinesi erano sostenuti da tutti gli anti-imperialisti del mondo – perfino dai membri dell’Armata Rossa giapponese – che venivano a combattere al loro fianco. Oggi, la globalizzazione della società dei consumi e la perdita di valori che ne è seguita hanno fatto perdere coscienza del carattere coloniale dello Stato ebraico. Solo arabi e musulmani si sentono coinvolti. Essi mostrano empatia per la condizione dei palestinesi, ma ignorano i crimini israeliani nel resto del mondo e non reagiscono ad altri crimini imperialisti. Tuttavia, nel 1979, l’ayatollah Ruhollah Khomeini spiegò ai suoi fedeli iraniani che Israele era solo una bambola nelle mani degli imperialisti e che l’unico vero nemico era l’alleanza degli Stati Uniti e del Regno Unito. Per il fatto di affermare questa semplice verità, Khomeini fu caricaturizzato in Occidente e gli sciiti furono presentati come eretici in Oriente. Oggi l’Iran è l’unico paese al mondo ad inviare grandi quantità di armi e consiglieri per aiutare la Resistenza palestinese, mentre i regimi sionisti arabi se ne stanno a discutere amabilmente in videoconferenza con il presidente israeliano durante le riunioni del Consiglio di sicurezza del Golfo.
    (Thierry Meyssan, “Chi è il nemico?”, articolo apparso il 3 agosto 2014 su diversi giornali internazionali e tradotto da “Megachip”).

    La guerra, che continua ininterrottamente da 66 anni in Palestina, ha conosciuto una nuova svolta con le operazioni israeliane “Guardiani dei nostri fratelli”, e poi “Roccia inamovibile” (stranamente tradotta dalla stampa occidentale con l’espressione “Margine protettivo”). Chiaramente, Tel Aviv – che aveva scelto di strumentalizzare la scomparsa di tre giovani israeliani per lanciare queste operazioni e «sradicare Hamas» al fine di sfruttare il gas naturale di Gaza, secondo il piano enunciato nel 2007 dall’attuale ministro della difesa – è stata spiazzata dalla reazione della Resistenza. Il Jihad islamico ha risposto inviando razzi di media gittata molto difficili da intercettare, che si aggiungono a quelli lanciati da Hamas. La violenza degli eventi che hanno già ucciso oltre 1.500 palestinesi e 62 israeliani (ma le cifre israeliane sono soggette a censura militare e sono probabilmente minimizzate) ha sollevato un’ondata di proteste in tutto il mondo.

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