Archivio del Tag ‘Bersaglieri’
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Pino Aprile: truccati gli archivi, nascosto il genocidio del Sud
Come nasce la storiografia italiana? Nasce con un atto del 1830 da un piccolo, ristrettissimo gruppetto – parliamo di 2-3 famiglie: nessuno di loro aveva mai scritto o insegnato storia. Persone di buona cultura, normalmente di ambiente cattolico molto tradizionalista, alla De Maistre; individui nobili, possidenti terrieri, di strettissima osservanza sabauda. Le regole sono: vanno distrutti tutti i documenti che gettano ombre sulla dinastia. Quelli che non vengono distrutti devono essere classificati e collocati in un archivio segreto, inviolabile. Un’altra parte deve finire in archivi controllati da loro. Quella mostrata dev’essere una piccola parte. Saranno gli archivisti a scegliere a chi far vedere i documenti, controllando (in corso d’opera) come li usano. E chi poi scriverà di quei documenti dovrà prima sottoporre ai controllori l’elaborato, in modo che si decida se potrà essere pubblicato oppure no. Tutto questo è documentato dall’Istituto Studi Storici del Risorgimento (la massima autorità, il professor Umberto Levra, già docente all’università di Torino e presidente dell’associazione dei docenti di storia risorgimentale). Viene documentato come il Re in persona, per “aggiustare” la storia, strappasse documenti e lettere dei suoi familiari.
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Quale 25 Aprile e quale Liberazione, nella Colonia Italia?
Ho superato il 25 aprile uscendo dalla culla di questo eterno presente, dalla quale, a noi pupetti, i pupari non fanno né vedere passato, né prospettare futuro. Eterna sospensione tra l’unico pensiero possibile, quello attuale, e l’unica tecnologia disponibile, quella digitale. Ho afferrato una radice e mi sono ritrovato sotto il monumento sul Gianicolo alle vittorie di Garibaldi sui francesi e alla memoria della Repubblica Romana (1848), poi annegata nel sangue dei patrioti e del popolo romano dalle monarchie francese, borbonica, austroungarica che Pio IX aveva invocato dal suo esilio a Gaeta (i bersaglieri gli avrebbero reso la pariglia a Porta Pia, vent’anni dopo). Priorità assoluta delle potenze, non diversamente da oggi, stracciare una Costituzione che a quella di esattamente cent’anni dopo poco aveva da invidiare e, dato l’ambiente europeo e la sua affermazione di sovranità, era perciò anche più meritevole. Un monumento che mi proteggeva dallo scroscio di toni enfatici e parole declamatorie grandinate dal Quirinale e rimbombate nella camera dell’eco che è la stampa italiana. Toni e parole all’apparenza del tutto rituali, generiche e banali, altisonanti, proprio come si retoricheggiava ai tempi di Lui, prendendo fiato a ogni periodo, passando dal grave all’imperativo nobile e finendo sull’intimidatorio per chi non dovesse darsela per intesa.Insomma, discorsi da Balcone, dalla cui pomposa prosopopea cerimoniale, nel caso specifico del tutto abusiva, immancabilmente esalano i vapori dell’ipocrisia e dell’autorità fondata su chiacchiere e distintivo. E a volte, su felpe e giubbotti, abusivi pure questi. Tutte cose che con i fasti evocati da lontano, sempre senza averne i titoli, abusivamente, hanno il compito di coprire i nefasti del presente e dei presenti. Non ho partecipato ad alcuna celebrazione, ufficiale o ufficiosa, trovandole tutte spurie e inquinate. Dal Quirinale a un’Anpi che condivide con tutte le sinistre la perdita di sé e che si mette ad arzigogolare sull’equivalenza tra nazifascismo e quello che i superrazzisti dell’Impero e delle sue marche definiscono razzismo. Mistificando per tale quello di chi smaschera l’operazione colonialista, detta globalizzazione, ai danni dei dominati del Sud e del Nord. Gli sciagurati sovranisti, identitari, refrattari alla levigatezza dell’uniformato. Seppure lo definiscano tale, non ne fa sicuramente parte Matteo Salvini, sovranista farlocco e sfascia-Italia del “prima gli italiani”, purchè si tratti di trafficoni eolici, trivellatori di terre e mari, sfondatori di valli e montagne, magna magna di ogni genere, cravattai lombardoveneti, insomma tutti i missi dominici dell’Impero.Genìa che è stata decisiva perché i risultati del 25 aprile fossero consegnati nelle mani e nelle borse dei nuovi invasori. Genìa maledetta. E’ stato lo spirito dei tempi coronati dal 25 aprile e subito successivi che ha innalzato l’Italia – dal fascismo squadrista frantumata in giovani obnubilati, popolo plebeizzato e impecoranato, federali in stivali e loro mignotte, intellettualità sedotta, asservita e abbandonata, brutalità ed elementarietà di azione e pensiero (salvo grandi architetti) – ai livelli di un passato come quello dei Leopardi e dei moti ottocenteschi. Che ha prodotto i Fenoglio, Calvino, Pavese, i De Sica, Rossellini, Monicelli, giganti che hanno nanificato, moralmente e culturalmente, tutto quello che è venuto dopo e che formicola a petto in fuori nei Premi Strega e Bancarella. Si può dire, e spiacerà ai nonviolenti, di vocazione o altro, che quello Zeitgeist, così generoso, è uscito dalla canna di un fucile.Da ex-direttore responsabile e inviato di guerra del quotidiano “Lotta Continua” e militante (a lungo latitante) di quell’organizzazione, che contro il fascismo aggiornato del consociativismo di regime, con il suo terrorismo di Stato, pure qualcosa ha fatto, mi permetto, nel mio piccolo e intimo, di ringraziare i partigiani tutti. Formazione di popolo. Più di tutti quelli garibaldini, e rigettare nel buco nero dell’esecrazione gli Alleati, che ai primi hanno sottratto e pervertito la vittoria, poi procedendo a sottrarre e pervertire ciò che di ogni vivente fa quello che è: la sovranità sua, della sua comunità, del suo passato, presente, futuro, nome. Di questo gli antifascisti da terrazzo, antisovranisti del re di Prussia, non sanno e non dicono, bisognosi come sono dei cartonati in camicia nera e saluto romano per occultare il fascismo global-digital-finanziario che li ha reclutati e di cui si sono inoculato il virus. Il che non mi impedisce, sia detto per inciso, di trasecolare a fronte di chi insiste a definire Piazzale Loreto “giustizia di popolo”.Stessa matrice. Oggi si vedono sul palcoscenico della commedia nazionale e occidentale, in grande spolvero, nuovi “antifascisti”. Ce ne sono addirittura di patrocinati da George Soros, che non si fa scrupoli di affiancarli all’altra sua creatura: “Me too”. Come sempre quando il pifferaio riesce a riunire e riconciliare in un’unica truppa ratti e bambini ignari, li si trovano, schiamazzoni e autocertificati, dall’estrema sinistra a quella vera destra che si dice vuoi centrosinistra, vuoi centrodestra. Virgulti, balilla e giovani italiane del Nuovo Ordine Mondiale, puntano quello che in artiglieria viene chiamato “falso scopo” (e il puntamento indiretto verso un obiettivo non individuabile a vista). In parole semplici, additando un chihuahua ringhiante nei bassifondi ideologici urbani, si urla “al lupo, al lupo”, con l’effetto di distogliere la nostra mira dal lupo mannaro vero che tiene al guinzaglio chi urla. (Chiedendo scusa al lupo per la becera metafora fiabesca. E ricordando che il ministro dell’ambiente 5 Stelle, Costa, proibisce di abbattere i lupi, mentre Salvini, forte di mitraglietta, ne autorizza l’abbattimento: fatto che contiene in nuce tutto il significato delle temperie in cui il post-25 aprile, tradito come nemmeno il presunto Giuda il presunto Gesù, ci ha ingabbiato e nelle quali, o i 5 Stelle staccano la spina, o rischiamo il corto circuito e il black out loro e di tutti noi).Il discorso della Liberazione va ripreso ab imis fundamentis. E’ per questo che ho spostato le mie commemorazioni-celebrazioni a due giorni dopo, il 27 maggio del 1937. E il giorno tristissimo della morte di Antonio Gramsci (io c’ero già e ricordo una serie di quaderni di mio padre con sopra, imparai dopo, le immagini, tra altre, di Marinetti, D’Annunzio, Gozzano, Leopardi e Gramsci). Non significa niente, ma sono contento di esserci già stato quando ancora viveva Gramsci. E’ insensato, ma mi pare che così sono in qualche modo contemporaneo e, quindi, più partecipe di quel “popolo” a cui questo sardo degno della sua terra ha ridato un nome, un’identità, un progetto, nel tempo che più lo ha visto conculcato, mistificato, sviato da una storia che era iniziata con Dante, che aveva serpeggiato per secoli e che si era rifatta prorompente con la Repubblica Romana e le altre affini, incancellabili madri dei nostri partigiani. Come Anita Garibaldi, che, sul colle Gianicolo, sparava ai francesi rinnegati, lo è specificamente delle nostre partigiane. E come lo era anche delle brigate femminili alla Comune di Parigi (dove c’erano pure i dai neoborbonici esecrati garibaldini!). Che nessun movimento o gruppo femminista ricorda e onora, preferendo icone tipo Hillary o Boldrini.(Fulvio Grimaldi, “Quale 25 aprile. Quale 27 aprile. Quale liberazione”, dal blog di Grimaldi del 26 aprile 2019).Ho superato il 25 aprile uscendo dalla culla di questo eterno presente, dalla quale, a noi pupetti, i pupari non fanno né vedere passato, né prospettare futuro. Eterna sospensione tra l’unico pensiero possibile, quello attuale, e l’unica tecnologia disponibile, quella digitale. Ho afferrato una radice e mi sono ritrovato sotto il monumento sul Gianicolo alle vittorie di Garibaldi sui francesi e alla memoria della Repubblica Romana (1848), poi annegata nel sangue dei patrioti e del popolo romano dalle monarchie francese, borbonica, austroungarica che Pio IX aveva invocato dal suo esilio a Gaeta (i bersaglieri gli avrebbero reso la pariglia a Porta Pia, vent’anni dopo). Priorità assoluta delle potenze, non diversamente da oggi, stracciare una Costituzione che a quella di esattamente cent’anni dopo poco aveva da invidiare e, dato l’ambiente europeo e la sua affermazione di sovranità, era perciò anche più meritevole. Un monumento che mi proteggeva dallo scroscio di toni enfatici e parole declamatorie grandinate dal Quirinale e rimbombate nella camera dell’eco che è la stampa italiana. Toni e parole all’apparenza del tutto rituali, generiche e banali, altisonanti, proprio come si retoricheggiava ai tempi di Lui, prendendo fiato a ogni periodo, passando dal grave all’imperativo nobile e finendo sull’intimidatorio per chi non dovesse darsela per intesa.
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Sperano in Mattarella per fabbricare il nuovo Renzusconi?
Insieme al picco dei calori estivi, in questi giorni sembra si sia arrivati anche al picco di confusione politica: dopo l’ondata di entusiasmi in primavera, con l’avvicinarsi dell’autunno pochi ormai scommettono che il governo supererà la soglia delle elezioni europee l’anno prossimo. Lo scrive Lao Xi, dalla Cina, sul “Sussidiario”: sempre più gente crede che il governo si scioglierà e si arriverà a un redde rationem tra le varie forze politiche. Vero, il clima resta volatile e tutto potrebbe sempre cambiare: in questa altalena di tensioni magari il governo durerà per cinque anni, superato il giro di boa della legge di bilancio in autunno. Se non altro, ammette l’analista, oggi «non ci sono alternative vincenti», e quindi «si passerebbe da confusione in confusione». E se il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella – storico esponente del Pd insediato al Quirinale da Renzi – lavorasse a un partito nuovo, in grado si archiviare il patto tra Salvini e Di Maio? Conclusione ipotetica, a cui Lao Xi perviene esaminando lo scenario attuale, che vede la Lega come primo partito, nettamente in vantaggio: «Potrebbe arrivare alla soglia del 40% dei voti e prendersi quindi più del 51% dei seggi in Parlamento». Prospettiva che inquieta i detentori del potere europeo, gli artefici della sciagurata austerity in nome della quale – evocando il fantasma dello spread – lo stesso Mattarella sbarrò la strada a Paolo Savona come ministro dell’economia.La propaganda di Salvini è efficiente, riconosce Lao Xi: il leader leghista «batte su paure a basso costo: gli emigranti che scombussolano la nostra società e la sicurezza personale e della propria casa». Grandi incertezze, letteralmente esplose «con la decadenza della classe media», insieme all’aumento della povertà e dell’insicurezza «percepita nelle periferie e nelle piccole città». Ma anche con il 40% dei voti e il 51% dei seggi, continua l’analista, nessun paese si governa facilmente con il 60% della gente contro e senza una vera e propria egemonia culturale: «Con la Chiesa contro e i vecchi apparati intellettuali ostili, la Lega ha bisogno di spostarsi al centro e parlare a queste due istituzioni con profondità e spessore, al di là dei tweet». Operazione tutt’altro che facile. Quanto ai 5 Stelle, per loro le difficoltà sono maggiori: il movimento «ha vinto promettendo il bengodi», cioè il reddito di cittadinanza – ma senza spiegare come finanziario, cosa che in questi termini equivale a promettere «la botte piena e la moglie ubriaca, senza avere né la moglie né la botte». Lao Xi paragona i pentastellati addirittura ai giovanissimi dirigenti della disastrosa Rivoluzione Culturale di Mao, che spedì «i contadini all’università e i liceali nei campi». I grillini? «Paiono volenterosi, ma sembrano altrettanto incapaci di capire cosa stiano facendo: da questa confusione probabilmente deriva anche il loro calo nei sondaggi».Parte del Vaticano «sembra voglia adottarli come argine realistico alla brutalità di certi slogan leghisti: in fondo è quello che fece la Chiesa con i barbari». Ma allora, aggiunge Lao Xi, ci vollero secoli per civilizzare germani, slavi e unni: «Oggi non ci sono nemmeno anni, ma solo mesi: riusciranno?», si domanda l’analista, dando per scontato che la “civilizzazione” dei “barbari” sia stata un affare, per l’Europa delle Crociate e delle guerre di religione, delle persecuzioni degli ebrei e dei eretici, del totalitarismo oscurantista che mandò in carcere Galileo e sul rogo Giordano Bruno, prima di cedere Roma alla nuova Italia solo grazie alle cannonate dei bersaglieri, per poi benedire l’ultimo “barbaro” italico proposto dalla storia, Benito Mussolini. Tornando all’oggi e tralasciando i presunti barbari – Salvini sembra un pargoletto, a confronto con gli squali-tigre come Draghi, Monti e Merkel – Lao Xi cita il politologo Claudio Landi, intervistato da “Radio Radicale”: se l’alleanza gialloverde vale il 60% del consenso, l’orrendo Renzusconi (l’inciucio per il quale fu appositamente progettato il Rosatellum) potrebbe non arrivare neppure al 20%. Un’alleanza aperta tra Renzi e Berlusconi migliorerebbe i valori elettorali del Pd e di Forza Italia? «Forse li peggiorerebbe. Due debolezze insieme non fanno una forza, fanno una debolezza ancora maggiore».Questo, aggiunge Lao Xi, a meno che il calcolo non sia un altro: «Ottenere un manipolo di voti in base al quale sedersi al tavolo delle trattative parlamentari. In fondo la bocciatura di Foa presidente della Rai dimostra che il duo conta ancora», almeno oggi. Ma in un nuovo Parlamento come andrebbero le cose? E’ lecito, per loro, sperare in un’inversione di tendenza? Lo stesso Lao Xi invita a non escludere l’ipotesi teorica del “jolly”, ovvero «la fisica, cioè le grandi leggi della politica». Tradotto: «Quando nessun partito gira, qualcosa nascerà: questo sperano gli illuminati romani e certi ambienti che vantano legami con il Quirinale». Obiettivo: un partito “nuovo”, che l’anno prossimo si accaparri quel 20%, puntando anche al 30% di indecisi. Certo, resta «un pensiero da laboratorio», visto che «non si sa che cosa dirà il nuovo partito, dove si inserirà, chi proporrà». In realtà, il bivio è obbligatorio: o ci si piega all’Europa del rigore, o – come si spera farà il governo gialloverde – la si sfiderà, cercando di ampliare il deficit. Non esiste terza via, nella realtà. Quanta parte della popolazione lo comprende? Questo è il punto: c’è grande insoddisfazione, in parte dell’elettorato. Milioni di voti, forse, attendono ancora una proposta convincente: una narrazione efficace. Magari l’ennesima truffa, come quelle rifilate agli italiani prima da Berlusconi e poi da Prodi, e infine da Monti e Letta, Renzi e Gentiloni. Ci cascheranno ancora, gli italiani? L’establishment, intanto – intellettuali in testa – spara ogni giorno sulla Lega, cioè il partito che ha promesso di ribellarsi alla “dittatura” dell’Ue. Non uno di loro fiatò, quando Monti – con Berlusconi e Bersani – impose il pareggio di bilancio in Costituzione, cioè la morte civile del paese per strangolamento finanziario.Insieme al picco dei calori estivi, in questi giorni sembra si sia arrivati anche al picco di confusione politica: dopo l’ondata di entusiasmi in primavera, con l’avvicinarsi dell’autunno pochi ormai scommettono che il governo supererà la soglia delle elezioni europee l’anno prossimo. Lo scrive Lao Xi, dalla Cina, sul “Sussidiario”: sempre più gente crede che il governo si scioglierà e si arriverà a un redde rationem tra le varie forze politiche. Vero, il clima resta volatile e tutto potrebbe sempre cambiare: in questa altalena di tensioni magari il governo durerà per cinque anni, superato il giro di boa della legge di bilancio in autunno. Se non altro, ammette l’analista, oggi «non ci sono alternative vincenti», e quindi «si passerebbe da confusione in confusione». E se il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella – storico esponente del Pd insediato al Quirinale da Renzi – lavorasse a un partito nuovo, in grado si archiviare il patto tra Salvini e Di Maio? Conclusione ipotetica, a cui Lao Xi perviene esaminando lo scenario attuale, che vede la Lega come primo partito, nettamente in vantaggio: «Potrebbe arrivare alla soglia del 40% dei voti e prendersi quindi più del 51% dei seggi in Parlamento». Prospettiva che inquieta i detentori del potere europeo, gli artefici della sciagurata austerity in nome della quale – evocando il fantasma dello spread – lo stesso Mattarella sbarrò la strada a Paolo Savona come ministro dell’economia.
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Eresia verde: l’ultima ideologia vincente prima del liberismo
Un mondo più pulito, e quindi più giusto. In una parola: più verde. Erano gli anni ‘80, e il nuovissimo radicalismo ecologista del “Sole che ride”, di matrice scandinava, poteva sembrare un lusso. Era una suggestione “da tempo di pace”, inoculata come un virus benefico in un sistema disordinato e molto inquinato eppure in costante crescita, fondato su un consumismo di massa sempre più condiviso, grazie al famoso ascensore sociale funzionante nella vituperata Prima Repubblica, la società consociativa governata da industriali e vescovi, partiti e sindacati. Superata la lunghissima stagione dell’estremismo, delle bombe e del brigatismo, restava la mafia in Sicilia a far strage di magistrati, mentre montava l’insofferenza per lo strapotere di una partitocrazia logora, corrotta e clientelare. Ma in quell’Italia, così provata dagli anni di ferro e di piombo che aveva appena attraversato, non c’era spazio per il dominio della paura. Non c’era neppure l’ombra dei fantasmi pre-moderni ora riapparsi: povertà e disoccupazione di massa, l’angoscia della vecchiaia senza pensione e di un futuro senza figli.La Grecia era ancora il paradiso in cui andare in vacanza, non l’inferno di oggi senza medicine per i bambini. Nessun esodo di esseri umani disperati: apostoli come Thomas Sankara lavoravano per un’Africa libera e dignitosa. Finiva in soffitta anche il gelido bullismo delle superpotenze: in accordo con Reagan, l’intrepido Gorbaciov stava per rottamare i suoi famosi missili. Quella italiana era una società relativamente rilassata e tollerante, ottimista e in parte progressista, già divorzista e abortista, non ostile alle provocazioni culturali. Gli intellettuali scrivevano libri, il “Nome della rosa” metteva alla berlina il potere medievale del Vaticano. E un certo Primo Levi prendeva posizione contro i massacri ordinati da Israele in Libano, il martoriatro paese mediorientale dove i soldati del generale Angioni sfilavano tra gli applausi, sui loro carri armati bianchi. Rivista oggi, quell’Italia imperfetta e minata da mali endemici era infinitamente più coesa e meno cinica, più serena e fiduciosa dell’attuale euro-periferia cronicamente depressa.C’è di mezzo un’era glaciale, è vero: senza Internet, le notizie facevano ancora notizia. Il terremoto in Irpinia e il business della camorra, la bomba di Bologna e la strage di Ustica, il bambino finito nel pozzo a Vermicino. Non esisteva Facebook, per gli italiani parlava Renzo Arbore. Minoli intervistava Agnelli, Gianni Minà ospitava De André. Guardava avanti, quell’Italia, verso successi inimmaginabili: una stagione di trionfi per l’economia, gli anni rampanti di Bettino Craxi, il boom del made in Italy. Stupiva il mondo, la penisola dell’Iri, proprio quando l’Inghilterra sprofondava nell’austerity varata dalla Thatcher. C’era già allora chi pensava di sabotarlo, il Belpaese – i medesimi poteri che l’avevano riempito di bombe, seminando il terrore nelle piazze. E c’era chi, al contrario, sperava di correggerne lo sviluppo tumultuoso, bonificandone le scorie. C’era stato un evento epocale, che aveva costretto tutti a fermarsi e pensare. Era saltata in aria un’enorme centrale nucleare sovietica, in Ucraina. Messaggio esplicito: nessuno può sentirsi al riparo; non c’è frontiera che tenga, di fronte a un simile disastro. Retromessaggio: il mondo ormai è strettamente interconnesso. La nube tossica di Chernobyl aveva investito l’intera Europa, ma l’Italia fu l’unico paese ad avere il coraggio di mettere al bando l’energia atomica.Riletto oggi, l’ideologo ecologista Alex Langer potrebbe sembrare un visionario epigono di Gandhi. Nel loro positivismo scientifico fondato sulla fiducia nella ragione, i fisici Gianni Mattioli e Massimo Scalia, primissimi parlamentari verdi, erano altrettanto consapevoli di predicare nel deserto: sapevano che sarebbero stati ignorati e poi derisi, prima di essere ascoltati. Dalla loro avevano una convinzione speciale, oggi estinta: la forza dell’ideologia. Cioè la visione profonda, prospettica, di un mondo diverso. Un pensiero lungo: come sarebbe bello, se la nostra consapevolezza di oggi potesse produrre, domani, una vita migliore – più sicura, più felice, con più diritti. Volevano un paese trasformato, in un pianeta progressivamente ripulito. Erano certi che la missione avrebbe richiesto decenni di duro lavoro, anche oscuro, fatto di studio e di consultazione progressiva con cittadini e territori, italiani e non. Sognavano un mondo “glocal”, i primi Verdi, rifondato secondo il preciso schema operativo riassunto dal loro slogan: pensare globalmente e agire localmente. Non seminavano odio, ma futuro. Non chiedevano di votare “contro”, ma “per”: in palio, secondo loro, poteva esserci un domani diverso e inclusivo, migliore per tutti. Non ha nemici, l’ideologia – solo avversari temporanei, popolo da persuadere, alleati potenziali da conquistare alla causa.Non hanno mai sbancato la lotteria delle elezioni, i Verdi italiani – anzi, col tempo si sono degradati fino a scomparire nell’irrilevanza, tra infime diatribe di potere. Non altrettanto si può dire delle loro idee: grazie a quell’eresia, è stata messa in cassaforte una legislazione scrupolosamente attenta alla tutela dell’ambiente. Una rivoluzione copernicana, tradotta in politica, ha imposto (per legge) un cambio di paradigma, nei confronti dell’ecosistema, dai piani regolatori ai depuratori delle fabbriche e delle città. Poi la cultura “green” è diventata moda, veganesimo chic, persino malaffare (l’opaco business delle rinnovabili). In mano al marketing politico-affaristico, l’ecologismo maninstream s’è fatto dogma, conformismo da pensiero unico, politically correct. Ma intanto la natura è salita in cattedra nelle scuole, e lo splendore dei parchi ha piena cittadinanza, tuttora, in televisione. Potevano sembrare una setta di pazzoidi stravaganti, i discepoli di Langer, quando parlavano di prevenzione sanitaria e sovranità dei territori, qualità della vita e sicurezza alimentare: oggi l’Italia ha norme severissime, in materia, a tutela della genuinità delle filiere corte.E’ la filosofia del biologico, settore sempre più trainante, che ha spinto con successo milioni di giovani verso il ritorno all’agricoltura intelligente, pulita e selettiva. E persino nelle regioni terremotate dell’Italia centrale, ancora ingombre di macerie, è il consumatore della porta accanto a tenere in piedi l’economia del contadino, del piccolo artigiano. Cambiano le stagioni e tramontano i partiti, ma le idee camminano. Se hanno prodotto futuro, lo si vede alla distanza. Chi ne ha subito il fascino, in questi anni, ha condiviso un immaginario fondato su un’estetica, prima ancora che su un’etica: un mondo più verde è innanzitutto più bello. Oggi, i vincitori delle elezioni sono costretti a parlare soltanto di soldi: reddito garantito, meno tasse. Sono misure d’emergenza, richieste dalle circostanze. Siamo infatti tornati al “tempo di guerra”: non c’è più spazio per pensieri lunghi. Eppure, chi poi le guerre le vince per davvero – compresa l’ultima, mondiale – dalla sua parte non ha solo gli arsenali, ha anche e soprattutto un’idea chiara in testa, per il “dopo”. E’ quella, in fondo, che assicura la vittoria. Quella che oggi manca ancora, non a caso, rendendo proibitiva la percezione del futuro.E’ tutto più difficile, nel mondo digitale ultra-globalizzato? Eppure, in teoria, dovrebbe essere più facile far circolare idee, farle attecchire. A latitare è forse l’humus, il fertile terreno su cui coltivarle, dandosi tutto il tempo necessario. Sul piano culturale, l’ultima incarnazione dell’ecologismo nato negli anni ‘80 è stata la teoria economica della “decrescita felice”, sviluppata dall’italiano Maurizio Pallante con il francese Serge Latouche. La loro intuizione, mutuata da Bob Kennedy: alla crescita del Pil non corrisponde affatto quella del benessere. Non c’è stato bisogno di metterla alla prova: a stroncarla ha provveduto la “decrescita infelice” imposta dall’oligarchia europea. Una studiosa come Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta”, conferma che oggi, grazie alla deformazione strutturale del profitto finanziarizzato, la crescita del Pil non solo non migliora le condizioni del cittadino medio, ma addirittura le peggiora, accrescendo le diseguaglianze. Forse la soluzione non sta nel prodotto interno lordo, crescente o decrescente, ma risiede da tutt’altra parte: nel futuro, nel mondo delle idee.Il brutto film di oggi sembra fatto apposta per oscurarlo in ogni modo, l’avvenire: è un copione dell’orrore a corto raggio, che propone una normalità di sacrifici e sofferenze, terrorismo e guerra. Viviamo in un kolossal, scritto e diretto dal peggiore degli autori: la paura. Un labirinto cieco, che sembra senza uscita. Ma da ogni dedalo c’è sempre una qualche scappatoia – magari verticale, da indovinare alzando gli occhi al cielo. La forza dell’ideologia sta anche nell’universalismo delle idee: se qualcosa è buono qui, dev’esserlo anche altrove. Vale per tutti, ovunque: le idee non hanno nazionalità, ma possono salvare le nazioni. Globalizzare la democrazia, fermando il mostro onnivoro: roba da avanguardisti carbonari. Dicevano, i seguaci di Alex Langer: ma perché mai avvelenarci l’anima, in un paese favoloso (un Eden, per il turismo verde) che detiene la maggior parte dei beni culturali della Terra? Parole spese quarant’anni fa. Qualcuno oggi sa come saremo fra tre anni?(Giorgio Cattaneo, “Eresia verde, l’ultima ideologia vincente prima del neoliberismo”, dal blog del Movimento Roosevelt del 29 marzo 2018).Un mondo più pulito, e quindi più giusto. In una parola: più verde. Erano gli anni ‘80, e il nuovissimo radicalismo ecologista del “Sole che ride”, di matrice scandinava, poteva sembrare un lusso. Era una suggestione “da tempo di pace”, inoculata come un virus benefico in un sistema disordinato e molto inquinato eppure in costante crescita, fondato su un consumismo di massa sempre più condiviso, grazie al famoso ascensore sociale funzionante nella vituperata Prima Repubblica, la società consociativa governata da industriali e vescovi, partiti e sindacati. Superata la lunghissima stagione dell’estremismo, delle bombe e del brigatismo, restava la mafia in Sicilia a far strage di magistrati, mentre montava l’insofferenza per lo strapotere di una partitocrazia logora, corrotta e clientelare. Ma in quell’Italia, così provata dagli anni di ferro e di piombo che aveva appena attraversato, non c’era spazio per il dominio della paura. Non c’era neppure l’ombra dei fantasmi pre-moderni ora riapparsi: povertà e disoccupazione di massa, l’angoscia della vecchiaia senza pensione e di un futuro senza figli.
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La strage a Dacca contro l’Italia schierata in Iraq e in Siria
Non ingannino le apparenze visto che tutto, nello spettacolare globale degli attentati, pare somigliarsi. La strage di italiani a Dacca non è simile e ad altre, dove sono rimasti coinvolti, e uccisi, altri nostri connazionali. Come accaduto in Egitto e in Tunisia, dove turisti italiani sono rimasti coinvolti in attentati che avevano come obiettivo di fermare i flussi turistici per penalizzare i governi di quei paesi. Stavolta gli italiani sono manifestamente parte dell’obiettivo principale. Visto che l’obiettivo della strage è stato un complesso di bar e ristoranti notoriamente frequentato da italiani, stando a fonti non sensazionalistiche, collocato molto vicino all’ambasciata del nostro paese in Bangladesh. Ma, si dirà, con il governo Renzi che ha rifiutato l’avventura coloniale in Libia, chi può lanciare un simile atto di guerra all’esecutivo, con una strage che non vedeva coinvolti un numero di italiani così alto dai tempi dell’attentato al treno del natale 1984?Beh, la risposta è semplice. E sta in Iraq e in Siria. Dove truppe italiane sono parte integrante del conflitto, che riguarda l’Isis e altre forze dell’islamismo radicale, mentre il parlamento non ne parla e le forze politiche discutono dell’Italicum. Basta scorrere un po’ di siti di intelligence per scoprire l’acqua calda: con l’arrivo a Erbil (Iraq) del reparto della Brigata Friuli per le operazioni di Personnell Recovery (secondo “Analisi Difesa”, 130 militari con 4 elicotteri Nh-90 e 4 elicotteri da attacco A-129D Mangusta) e delle prime aliquote del contingente, sulla base del 6° reggimento bersaglieri, destinato a schierarsi presso la Diga di Mosul (a 10 km dall’Isis), il comando delle forze italiane impegnate contro lo Stato Islamico (Operazione “Inherent Resolve”, per l’Italia “Prima Parthica”) è stato elevato al rango di generale di brigata. Questo per capire un paio di cose: la prima è che l’Italia è sul fronte Isis in Iraq, la seconda che l’operazione si fa così complessa da dover richiedere un rango più alto di comando sul campo.Su siti di intelligence si trovano poi informazioni sul fatto che l’identità dei militari in azione in Iraq è oscurata, assieme a qualsiasi foto che li riguardino, per motivi di sicurezza (e di informazione sui media, aggiungiamo). Niente però impedisce all’Isis, o a chi vuol mandare messaggi a Renzi, di uccidere italiani, ad esempio, in Bangladesh. Sono le regole del conflitto asimmetrico, applicate da più di un ventennio ormai. Non è finita qui, la stessa “Analisi Difesa”, fonte di destra ma preziosa per capire guerre anche dimenticate come l’Afghanistan (dove l’Italia continua ad esserci grazie anche al voto della allora sinistra superpacifista), ricorda che nel caldo fronte di guerra della Siria ci sono batterie di missili italiane con 135 artiglieri. Ufficialmente posizionati in Turchia ma con il compito di monitorare il fronte siriano. Non c’è da stupirsi, in presenza di un impegno militare italiano in Siria ed in Iraq che dei nostri connazionali vengano uccisi da islamisti radicali in Bangladesh. Una strage mirata, tipica della guerra asimmetrica: non ti colpisco sul fronte dove ti sei blindato, ma in uno delle tante retrovie dove sei sensibile, nella superficie globale.Il governo Renzi mostra così di essere in guerra, a bassa intensità e nascosta appena possibile, dove con la Brexit ha fatto vedere di essere dentro una guerra finanziaria, con il tracollo delle banche (del quale si prova a rimediare trattando con l’Ue e la Bce). Certo, il governo Renzi fa il suo mestiere: diluire gli eventi, decontestualizzarli, nel governo dei media. Fare in modo che l’impatto, sull’opinione pubblica, della guerra sul campo e di quella finanziaria sia minimo. Il modo da attribuire i disastri in corso ad altre cause mai contestualizzate tra loro. Desta invece stupore che le opposizioni, a vario titolo, non riescano ad andare più in là delle polemiche sulla legge elettorale appena entrata in vigore. Da gennaio a giugno la capitalizzazione delle banche si è dimezzata, poi l’attacco finanziario agli istituti bancari nazionali dopo la Brexit: minimo doveva esserci il parlamento mobilitato, od occupato, dalle opposizioni che dovevano proporre misure serie ed efficaci. Per non parlare di questo atto di guerra, asimmetrica, in risposta all’impegno militare italiano certificato sul campo.Al di là delle posizioni di rito, e di cordoglio, le opposizioni hanno risposto con l’encefalogramma piatto. Se il colmo di un governo, come quello Renzi, è comandare i media e rischiare di andare a casa lo stesso, quello delle opposizioni è farsi trascinare in una doppia guerra, finanziaria e sul campo, senza accorgersene. Ora i fatti continueranno il loro corso, senza la politica italiana, evidentemente. Restano i morti sul campo, con storie di esternalizzazione del tessile italiano in Bangladesh, e il paese in cui si è svolto l’attentato. Quasi 170 milioni di abitanti, uno dei paesi con la più alta densità di abitanti per km quadrato al mondo, e le contraddizioni acute tipiche della nazione “in via di sviluppo”, quelle che piacciono tanto al neoliberismo standard. E con l’islamismo radicale, feroce, cieco che svolge anche funzioni di reazione al liberismo, altrettanto feroce. Questo il mondo in cui siamo. Ed ora via ad un altro bel dibattito sulla legge elettorale.(“Dacca, strage di italiani per dichiarare guerra al governo Renzi”, da “Senza Soste” del 3 luglio 2016).Non ingannino le apparenze visto che tutto, nello spettacolare globale degli attentati, pare somigliarsi. La strage di italiani a Dacca non è simile e ad altre, dove sono rimasti coinvolti, e uccisi, altri nostri connazionali. Come accaduto in Egitto e in Tunisia, dove turisti italiani sono rimasti coinvolti in attentati che avevano come obiettivo di fermare i flussi turistici per penalizzare i governi di quei paesi. Stavolta gli italiani sono manifestamente parte dell’obiettivo principale. Visto che l’obiettivo della strage è stato un complesso di bar e ristoranti notoriamente frequentato da italiani, stando a fonti non sensazionalistiche, collocato molto vicino all’ambasciata del nostro paese in Bangladesh. Ma, si dirà, con il governo Renzi che ha rifiutato l’avventura coloniale in Libia, chi può lanciare un simile atto di guerra all’esecutivo, con una strage che non vedeva coinvolti un numero di italiani così alto dai tempi dell’attentato al treno del natale 1984?
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Potevano liberare Moro, ma una telefonata fermò il blitz
Il giorno prima di morire, Aldo Moro era a un passo dalla salvezza: le forze speciali del generale Dalla Chiesa stavano per fare irruzione nel covo Br di via Montalcini, sotto controllo da settimane. Ma all’ultimo minuto i militari furono fermati da una telefonata giunta dal Viminale: abbandonare il campo e lasciare il presidente della Dc nelle mani dei suoi killer. E’ la sconvolgente rivelazione che Giovanni Ladu, brigadiere della Guardia di Finanza di stanza a Novara, ha affidato a Ferdinando Imposimato, oggi presidente onorario della Corte di Cassazione, in passato impegnato come magistrato inquirente su alcuni casi tra i più scottanti della storia italiana, compreso il sequestro Moro. Prima di passare il dossier alla Procura di Roma, che ora ha riaperto le indagini, Imposimato ha impiegato quattro anni per verificare le dichiarazioni di Ladu, interrogato nel 2010 anche dal pm romano Pietro Saviotti.
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Serve un Partito d’Azione, contro la Coalizione del Colle
Qualcuno deve aver fatto credere al Colle più alto che in Italia sia già stato introdotto il (semi) presidenzialismo alla francese, visto che Giorgio Napolitano si comporta ormai quotidianamente come se agenda, priorità, orientamenti dell’attività di governo fossero in suo potere. Del resto, quando si cominciano ad accampare pretese di “prerogative” inesistenti (vedi accuse alla Procura di Palermo), è facile che venga la bulimia, se il coro partitocratico e massmediatico intona il “Te Deum” anziché pronunciare l’altolà che logica e buon senso vorrebbero. Perciò succede questo: da qualche giorno Roma è tappezzata di manifesti del “Popolo della libertà” di Berlusconi e Alemanno, che “sparano” il presidenzialismo come cosa fatta, precisando che l’approvazione è solo del Senato in un corpo tipografico più pudibondo.
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Siamo tutti stranieri, nessuna terra è nostra
Il nazionalismo peggiore è quello di legittimazione religiosa. Ne abbiamo avuto un esempio con il nazismo, che è stato una filiazione diretta del cuius regio eius religio. La matrice del nazionalismo religioso, che è una vera metastasi, si ha quando la religione, che è in cerca di assoluto e si legittima nell’assoluto, sostiene di possedere la verità. Io tento di contrastare questa tendenza perniciosa che è presente nell’Ebraismo, ma non solo, è un’ idea comune a tutti i monoteismi: l’idea della verità, il “noi abbiamo la verità”. Io sostengo: noi abbiamo opinioni. Inoltre: noi non abbiamo rivelazioni, abbiamo storie di rivelazioni, che è molto diverso.