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Ceta, via libera alle multinazionali: faranno causa agli Stati
La Corte di giustizia europea ha dato il via libera al sistema exstragiudiziale Isds. Si tratta di uno dei più controversi aspetti del Ceta, l’accordo di libero scambio tra Ue e Canada: in caso di controversia – ricorda il “Salvagente” – una multinazionale potrà chiamare in causa uno Stato membro non presso un tribunale ordinario ma dinanzi a un abritrato, una sorta di “corte” privata prevista dallo stesso Ceta. Secondo il parere appena diffuso dalla Corte di Strasburgo, la procedura di risoluzione delle controversie fra investitori e Stati prevista dall’accordo è compatibile col diritto dell’Unione. «Si tratta in sostanza di un meccanismo di risoluzione delle controversie – l’Investment court system, Ics – che permette alle aziende e alle multinazionali di fare causa agli Stati davanti a un tribunale arbitrale». A settembre del 2017, aggiunge il “Salvagente”, il Belgio ha chiesto il parere della Corte di giustizia sulla compatibilità di questa procedura di risoluzione delle controversie con il diritto primario dell’Unione, esprimendo di fatto dubbi sugli effetti della procedura in relazione alla competenza esclusiva della Corte nell’interpretare il diritto della Ue e sull’autonomia dell’ordinamento giuridico europeo. Nel parere espresso ora, la Corte di Giustizia di fatto dà via libera all’arbitrato.Netta e preoccupata la presa di posizione del comitato Stop Ttip/Stop Ceta: «La sentenza legittima un sistema controverso, che consente alle multinazionali di fare causa agli Stati per scoraggiare l’approvazione di leggi che minacciano i loro profitti», affermano i membri del comitato. «Qualunque norma – anche se varata per proteggere l’interesse pubblico o l’ambiente – sarà impugnabile in opachi tribunali, che prestano il fianco a gravi conflitti di interessi». Secondo Monica Di Sisto, portavoce della campagna Stop Ceta (una coalizione di 200 organizzazioni) si tratta di un meccanismo «costruito su misura per gli investitori esteri, a scapito della sovranità degli Stati e dei diritti dei cittadini». Aggiunge: «Nel recente rapporto “Diritti per le persone, regole per le multinazionali: Stop Isds”, abbiamo dimostrato che la creazione della Corte per gli investimenti inserita nel Ceta su proposta della Commissione Europea rappresenta una minaccia per la democrazia e l’ambiente». Il comitato chiede che il Parlamento Europeo «si attivi immediatamente per bocciare il trattato in blocco, così da aprire in tutta Europa un fronte critico verso il commercio senza regole e senza rispetto dei diritti».L’arbitrato internazionale, prosegue la Di Sisto, è diventato «una macchina da soldi che si autoalimenta grazie al conflitto di interessi», in cui gli avvocati sono pagati a chiamata e possono approvare richieste di indennizzo imponenti, da parte delle imprese. «Rifiutiamo il principio stesso di un tribunale sovranazionale, che consente agli investitori esteri, e soltanto a loro, di aggirare le giurisdizioni nazionali ed europee per contrastare una decisione pubblica che non rispecchia le loro aspettative di profitto». Era chiaro fin dall’inizio, che sarebbe finita così: anche per questo era stata congelata l’approvazione del Ttip, trattato transatlantico Usa-Ue che avrebbe legato le mani agli Stati, esponendoli alle ritorsioni affaristiche dei colossi economici. Poi è stato approvato alla chetichella il Ceta (Ue-Canada), e quindi la norma è stata introdotta “dalla finestra”, a dispetto dell’enorme mobilitazione democratica che si era attivata per fermare il trattato gemello, il Ttip.Negli ultimi trent’anni, in tutto il mondo – ricorda ora il “Salvagente” – gli Stati hanno già dovuto pagare 84,4 miliardi di dollari alle imprese private a seguito di sentenze sfavorevoli (67,5 miliardi) o costosi patteggiamenti (16,9 miliardi). Le compagnie possono citare in giudizio gli Stati per nuove politiche ambientali (è accaduto in Canada), per provvedimenti che limitano la presenza di zucchero nelle bevande (due colossi del food americano contro il Messico), per quelli che aggiornano il packaging dei pacchetti di sigarette (le major del tabacco contro Uruguay e Australia). «In Italia ad esempio si segnala il caso delle trivelle: la causa più pesante è stata intentata dalla compagnia petrolifera britannica Rockhopper nel 2017 con la richiesta di 350 milioni di dollari in compensazioni per aver subito il no al rinnovo della concessione per la piattaforma Ombrina Mare, che voleva cercare petrolio nell’Adriatico abruzzese entro le 12 miglia marine». L’arbitrato, denunciano dalla campagna, rappresenta «un’arma delle multinazionali contro l’ambiente e la sovranità degli Stati».La Corte di giustizia europea ha dato il via libera al sistema exstragiudiziale Isds. Si tratta di uno dei più controversi aspetti del Ceta, l’accordo di libero scambio tra Ue e Canada: in caso di controversia – ricorda il “Salvagente” – una multinazionale potrà chiamare in causa uno Stato membro non presso un tribunale ordinario ma dinanzi a un abritrato, una sorta di “corte” privata prevista dallo stesso Ceta. Secondo il parere appena diffuso dalla Corte di Strasburgo, la procedura di risoluzione delle controversie fra investitori e Stati prevista dall’accordo è compatibile col diritto dell’Unione. «Si tratta in sostanza di un meccanismo di risoluzione delle controversie – l’Investment court system, Ics – che permette alle aziende e alle multinazionali di fare causa agli Stati davanti a un tribunale arbitrale». A settembre del 2017, aggiunge il “Salvagente”, il Belgio ha chiesto il parere della Corte di giustizia sulla compatibilità di questa procedura di risoluzione delle controversie con il diritto primario dell’Unione, esprimendo di fatto dubbi sugli effetti della procedura in relazione alla competenza esclusiva della Corte nell’interpretare il diritto della Ue e sull’autonomia dell’ordinamento giuridico europeo. Nel parere espresso ora, la Corte di Giustizia di fatto dà via libera all’arbitrato.
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Alfredino? Gettato nel pozzo di Vermicino dai suoi assassini
La fine di Alfredino Rampi a Vermicino non è dovuta a una disgrazia, ma al disegno di un criminale che ha imbracato il bambino alla vita, lo ha calato nel pozzo con una corda a doppino e lo ha lasciato cadere. La sconvolgente ipotesi non ha ancora il crisma della certezza ma le prove documentali e testimoniali, riscontrate durante il processo contro il titolare che ha costruito il pozzo lasciano poco spazio a possibili errori. La ricostruzione, valida fino ad oggi, secondo la quale Alfredino è scivolato per caso nello stretto cunicolo, si regge su una testimonianza, confusa e contraddittoria: quella di Angelo Licheri, il coraggioso tipografo che si fece calare nel pozzo nel tentativo di salvare il bambino. Ma mercoledì prossimo il pm Giancarlo Armati chiederà la restituzione degli atti processuali. Le sue nuove indagini saranno indirizzate su una nuova ipotesi di reato: l’omicidio premeditato. Come in un giallo imperniato sul delitto perfetto ricapitoliamo, seguendo gli atti processuali, gli episodi così come sono accaduti dopo la morte di Alfredino, rimasto incastrato nello stretto cunicolo a 60 metri di profondità.E’ la notte del 13 giugno ‘81, milioni di telespettatori spengono il video alle prime ore del mattino, profondamente amareggiati e delusi. Addolorato è anche il presidente della Repubblica, Pertini, che era corso sul posto nel pomeriggio quando si credeva che il bambino di sei anni potesse essere salvato. Il pm Giancarlo Armati, dopo la dichiarazione di morte presunta, ordina che siano immessi nel cunicolo gas refrigeranti. Il magistrato dovrà, poi, passare l’inchiesta al giudice istruttore. Si scava per alcuni giorni, poi viene prelevata una grossa sfera di terreno congelato con all’interno il corpo di Alfredino. La palla di terra e ghiaccio è trasportata all’Istituto di medicina legale dell’università. Il corpo, pur rimanendo congelato, viene isolato dalla terra; si fotografano le varie fasi e alcuni fotogrammi testimoniano l’esatta posizione di Alfredino dentro il pozzo. Il bambino si trovava nel cunicolo come fosse seduto, con le gambe ritirate a angolo retto in avanti. Il braccio sinistro, piegato anch’esso ad angolo retto, era dietro la schiena, l’altro era libero e la mano sovrastava verticalmente la testa.I medici legali scoprono che sotto la maglietta a righe colorate, a partire dalla pancia, c’è una lunga fettuccia di quelle usate per trasportare gli zaini, divisa in due segmenti uniti con un anello metallico molto largo. In sostanza un’imbracatura robusta e ben sistemata che passa anche sotto il braccio rimasto incastrato. Su questo reperto, i medici legali scattano molte foto: in una di esse si vede distintamente un grosso nodo. Per l’imbracatura viene usato anche un manichino, mentre due foto mettono in evidenza una ferita che il bambino aveva sulla testa. Ed è proprio dalla macabra sequenza di queste 62 foto, allineate in un album, che sono nati i primi sospetti sulla vicenda di Vermicino. Il primo interrogativo che si è posto il pm Giancarlo Armati nell’esaminare quei documenti fotografici riguarda il perché i due soccorritori, Licheri e Donato Caruso, non hanno agganciato la corda rossa di soccorso a quell’anello. La risposta più semplice a questo interrogativo l’ha fornita Caruso, sceso dopo Licheri: «Non ho visto quell’imbracatura, forse stava nella parte del corpo incastrata o era coperta e sporca dal fango».Se la risposta fosse quella giusta è evidente che Alfredino è finito nel pozzo con quell’imbracatura – o meglio, qualcuno lo ha calato nel cunicolo e poi lo ha fatto precipitare in modo che il suo corpo non fosse mai trovato. Il bambino invece rimase incastrato per due giorni a circa 36 metri di profondità poi sprofondò a 60 metri. Tutto semplice? Non è così. La soluzione del giallo ancora presenta un punto da chiarire. Angelo Licheri, il primo che raggiunse Alfredino, affermò che quell’imbracatura gli era stata data da uno speleologo prima di scendere nel pozzo di soccorso scavato a due metri dal cunicolo, e che era stato lui ad avvolgere con quella fettuccia il corpo del bambino. Proprio questa testimonianza potrebbe aver portato, finora, gli inquirenti fuori strada. Al processo, in tribunale la versione data da Licheri è stata smentita da alcuni protagonisti delle operazioni di soccorso; il pm Armati ha ravvisato molte contraddizioni su quanto è stato affermato dal coraggioso tipografo. L’ingegner Elveno Pastorelli, in modo perentorio, ha detto in tribunale che Licheri non aveva quell’attrezzatura quando scese con quella specie di ascensore fino a 30 metri. «Non lo avrei mai permesso», ha detto l’ex comandante dei vigili del fuoco, «era un’attrezzatura inadatta».Le sequenze televisive gli danno ragione, si vede Licheri che entra nel bidone-ascensore con le braccia alzate e senza alcuna fettuccia. Ha soltanto una benda legata ad un braccio: l’aveva preparata il professor Fava, il sanitario del San Giovanni che seguì le vicende del bambino e lo aiutò a resistere con latte e bevande mentre era nel cunicolo. La benda, di quelle usate in ospedale, da una parte era fissata al braccio di Licheri, dall’altra aveva un cappio che doveva essere introdotto nel braccio del bambino. Licheri ha eseguito questa operazione, però la benda scivolò. Infatti è stata trovata dai medici legali su una spalla di Alfredino e appare in due foto. Ma l’ingegner Pastorelli afferma un’altra verità, dopo aver visto le foto dell’Istituto di medicina legale. Era impossibile a Licheri o a qualsiasi altra persona realizzare quell’imbracatura all’ interno del cunicolo. Il pozzo è largo soltanto 28 centimetri, il soccorritore doveva stringere le spalle e unire le braccia protese in avanti, per potersi calare. Poteva soltanto far uso di piccoli movimenti delle sole mani e, in quelle condizioni, è pazzesco pensare che si possa fare una imbracatura.Più drammatico è stato il confronto tra il vigile del fuoco Mario Gonini e Licheri. Gonini, che si trovava a 30 metri nella piccola galleria scavata tra il cunicolo e il pozzo di soccorso, aiutò Licheri a calarsi: gli legò i piedi, fece scendere lentamente davanti a lui la corda rossa di soccorso e un piccolo tubo che portava ossigeno per respirare. Il vigile del fuoco ha sostenuto che Licheri non aveva alcuna fettuccia e, quando quest’ultimo insisteva nella sua versione, Gonini ha urlato: «Non fare il bambino, dì la verità!». Che Licheri non avesse l’imbracatura quando scese nel cunicolo lo ha sostenuto anche lo speleologo Bernabei, che era insieme a Gonini. Bernabei e Gonini erano le uniche due persone che si trovavano, sdraiate, nella piccola galleria di raccordo, lunga 2 metri. C’è inoltre un altro elemento che mette in discussione la testimonianza di Licheri. Lo ha fornito lui stesso quando raggiunse Alfredino nel cunicolo. «Lo hai preso?», gli chiese il vigile Gonini. «Mi scivola… mi scivola», rispose Licheri. E’ evidente che il soccorritore non stava operando su quella imbracatura, forte e massiccia, che il bambino aveva sul corpo, ma tentava di agganciare la mano con la benda.Anche le manette con le quali l’altro soccorritore, Caruso, tentò di agganciare quella mano, scivolarono e il tentativo fu inutile. Licheri, inoltre, quando risalì non disse a nessuno che aveva imbracato il piccolo e che bastava agganciare la corda rossa all’ anello metallico. In questo quadro assume una rilevante importanza il comportamento di Alfredino nei due giorni che visse nel cunicolo. Non parlò mai, durante i colloqui con il vigile Nando, di come era finito in quel pozzo. L’ esame delle cose dette dal bambino comporta una sola spiegazione: Alfredino non si era reso conto in quale posto si trovava. «Quando venite a salvarmi?», chiese a Nando. Il vigile rispose: «Abbiamo delle difficoltà, ma verrò presto a prenderti». Alfredino, con voce risentita: «Ma quale difficoltà! Sfondate la porta e entrate nella stanza buia». Non fece mai il nome di nessuna persona da lui conosciuta, ad eccezione di due volte, quando invocò e parlò con la mamma. Un atteggiamento che lascia adito a numerose considerazioni – una, soprattutto: che il piccolo sia stato calato nel pozzo dopo essere stato addormentato.(Franco Scottoni, “Alfredino du gettato in quel pozzo”, da “La Repubblica” dell’8 febbraio 1987. L’articolo si conclude con la menzione del pm Armati contro Elio Ubertini, il titolare della ditta che eseguì lo sbancamento del terreno. Due operai testimoniarono che l’imboccatura del pozzo nel quale rimase intrappolato il bambino era stata da loro chiusa con una grossa lastra di ferro, quest’ ultima coperta con grosse pietre e con due palanche di legno. «Un altro elemento che prova che il bambino non era in grado di aprire l’imboccatura del pozzo». L’articolo è ripreso dal blog dello scrittore Giuseppe Genna, autore del romanzo “Dies Irae” ispirato alla tragedia di Vermicino. Lo stesso Genna riporta anche un secondo articolo di “Repubblica”, datato 6 novembre 1987, nel quale il quotidiano scrive: «I misteri della tragedia di Alfredino Rampi, il bambino deceduto il 13 giugno ’81 nel cunicolo del pozzo di Vermicino, resteranno insoluti». Il pm si è arreso, chiedendo l’archiviazione del caso: Armati si è trovato nella impossibilità di accertare se la fine di Alfredino sia stata causata da disgrazia o da altre ragioni «più sconvolgenti», come lascerebbe pensare «la discordanza delle prove testimoniali e materiali».Ubertini, che aveva sbancato il terreno, fu accusato di omicidio per aver lasciato incustodita l’apertura del pozzo. L’imputato fu assolto con formula piena, ma durante il dibattimento emersero nuovi fatti. Il capo dei soccorritori, Mino Pastorelli, insieme a due vigili del fuoco sostenne che la cinghia trovata attorno al corpo di Alfredino «non poteva essere stata messa dal soccorritore Licheri, ma da qualcuno che aveva voluto calare il bambino nel pozzo». Inoltre fu presentata una perizia che stabiliva l’impossibilità che Alfredino fosse precipitato per disgrazia, in quel maledetto pozzo, a causa dalla limitata circonferenza del cunicolo. «Queste e altre circostanze – scrive sempre “Repubblica” – non hanno trovato dei riscontri probatori tali da chiarire con certezza il giallo». Così il pm Armati non ha potuto far altro che richiedere l’archiviazione, come normalmente avviene in casi così controversi. «L’ipotesi che dietro la morte di Alfredino ci sia stata volontà non è una fantasmagoria da conspiracy theory», sottolinea Giuseppe Genna nel suo blog. «Ci fu un processo e quel processo manifestò irresolubili ambiguità, legate all’esame del povero corpicino». Tutto ciò, aggiunge lo scrittore, è poco noto agli italiani «poiché l’impatto della diretta televisiva, che mostrava a milioni di spettatori un caso tragicamente fortuito, impresse un’immagine inscalfibile nell’immaginario nazionale»).La fine di Alfredino Rampi a Vermicino non è dovuta a una disgrazia, ma al disegno di un criminale che ha imbracato il bambino alla vita, lo ha calato nel pozzo con una corda a doppino e lo ha lasciato cadere. La sconvolgente ipotesi non ha ancora il crisma della certezza ma le prove documentali e testimoniali, riscontrate durante il processo contro il titolare che ha costruito il pozzo lasciano poco spazio a possibili errori. La ricostruzione, valida fino ad oggi, secondo la quale Alfredino è scivolato per caso nello stretto cunicolo, si regge su una testimonianza, confusa e contraddittoria: quella di Angelo Licheri, il coraggioso tipografo che si fece calare nel pozzo nel tentativo di salvare il bambino. Ma mercoledì prossimo il pm Giancarlo Armati chiederà la restituzione degli atti processuali. Le sue nuove indagini saranno indirizzate su una nuova ipotesi di reato: l’omicidio premeditato. Come in un giallo imperniato sul delitto perfetto ricapitoliamo, seguendo gli atti processuali, gli episodi così come sono accaduti dopo la morte di Alfredino, rimasto incastrato nello stretto cunicolo a 60 metri di profondità.
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Dan Olmsted, una morte comoda per l’industria dei vaccini
Una morte “comoda” per l’industria dei vaccini? Dan Olmsted si è spento il 23 gennaio nella sua casa di Falls Church, in Virginia, il giorno prima di un incontro cruciale: il 24 gennaio, secondo alcune fonti, Kennedy Jr, fondatore del World Mercury Project, lo avrebbe presentato a Trump nell’ambito della Commissione per la sicurezza dei vaccini da lui presieduta. Olmsted, ricorda Emanuela Lorenzi, era un grande giornalista investigativo formatosi a Yale, «uno di quelli che ancora scavano dentro e dietro la notizia per ottenere la verità e lo fanno ponendo domande». Per la “United Press International” denunciò l’insabbiamento da parte dell’esercito americano degli effetti neurotossici provocati dal farmaco antimalarico Lariam. Ma è soprattutto noto come fondatore di “The Age of Autism” e vero e proprio “detective dell’autismo”, cui ha consacrato gli ultimi anni della sua vita. Le sue relazioni sono state citate dall’avvocato ambientalista Robert Kennedy Jr, dalla “Columbia Journalism Review” e da David Kirby in una edizione del suo libro “Evidence of harm”.Insieme a Mark Blaxill, padre di una bambina autistica, Dan Olmsted «ha investigato a lungo le cause dell’autismo, rintracciandone la storia ed il costante rapporto con l’esposizione al mercurio», scrive Lorenzi su “Come Don Chisciotte”. Il reporter ha indagato sulla recente epidemia «sovrapponibile all’intensificazione del calendario vaccinale», passando per l’anomalia degli Amish, che rifiutano i vaccini e sono immuni da “effetti collaterali”. Olmsted ha denunciato la “iatrogenicità” di alcuni vaccini, «opponendosi al dogma della teoria genetica e del fatalismo con cui si devono confrontare i genitori dei bambini che ricevono diagnosi di autismo». Per Emanuela Lorenzi, «il tabù dell’eziologia porta in sé l’altro tabù: la guarigione: non si può “guarire” dall’autismo, perché questo proverebbe che non si tratta di una malattia genetica bensì di una malattia causata dall’uomo». A partire dal 2005, Olmsted «aveva indagato attentamente il legame fra autismo e vaccinazioni», fondando “Age of Autism”.In pratica, Olmsted «affermava senza mezzi termini quello che la letteratura scientifica seria (e i pensatori critici i cui neuroni non sono stati ancora totalmente demielinizzati dai vapori di mercurio) sostiene da tempo». E cioè che «con l’intento (apparente) di spazzare via ogni possibile infezione dal pianeta, il paradigma vaccinale ha causato assalti immunitari da iperstimolazione», oltre che «da introduzione di tossine come il mercurio», ma anche «alluminio, arsenico, squalene, formaldeide, polisorbato 80, neomicina, proteine e virus eterologi», nonché «materiale genetico da tessuti di pollo, vacca, cane, scimmia, coniglio, cellule di feti abortiti e virus a Dna ricombinante, endotossine batteriche, glutammato, nanoparticelle». Tutti elementi «che hanno slatentizzato malattie croniche nei nostri bambini, fra le quali l’autismo è solo la più nota», perché poi bisogna considerare «asma, Add, Adhd, diabete giovanile, malattie autoimmuni e molte altre». Il mercurio, osserva Lorenzi, è la sostanza più tossica del pianeta, seconda solo al plutonio: «E mai come per questo veleno è inapplicabile il motto paracelsiano sulla dose: il mercurio (ancora presente nei vaccini in tracce benché non sia obbligatorio riportarlo nel bugiardino) è tossico in quantità sub-micro e nano-molecolari».La quantità di mercurio contenuta nei vaccini antinfluenzali, «incredibilmente raccomandata a neonati e donne in gravidanza (ed inoculata per via parenterale, mentre si sconsiglia agli stessi soggetti di consumare pesci di grossa taglia perché contenenti molto mercurio», bell’esempio di «schizofrenia istituzionale»), secondo Emanuela Lorenzi «è tale da causare danni irreparabili nel sistema immunitario di un feto». E il metilmercurio, forma organica derivata dalla “metilazione” del mercurio inorganico, è infinitamente più tossico. «Olmsted fa anche un cenno alla tossicità delle amalgame dentali che, pur avendo alla base mercurio inorganico, diventano molto pericolose emanando vapori di mercurio già a temperatura corporea», peggio ancora «se sottoposte al calore di una bevanda, allo spazzolamento, alla semplice masticazione, per non parlare del trapanamento del dentista». La morte di Olmsted, «le cui cause non sono state rese note ma il cui tempismo è davvero sospetto», suona come «un duro colpo alla ricerca della verità sull’“era dell’autismo”». Secondo la Lorenzi, «è singolare che si sia verificata proprio mentre “The Age of Autism” denunciava la censura del primo, innovativo e lungamente atteso studio sottoposto a “peer review” che confrontava la salute di vaccinati versus non vaccinati, ritirato a novembre proprio poco prima della pubblicazione».Fra gli scienziati indipendenti non coinvolti nello studio, la dottoressa Stephanie Seneff, ricercatrice “senior” del laboratorio di informatica e intelligenza artificiale del Mit, ha dichiarato: «I risultati sono allarmanti, e ci obbligano a mettere seriamente in dubbio che i benefici dei vaccini prevalgano sui rischi». Su “HealthCare”, il 22 febbraio, il giornalista James Grundvig scrive: perché i centri di controllo e prevenzione non hanno mai finanziato uno studio del genere? L’agenzia sanitaria ha evitato di farlo di proposito? «Sembra che sia così», conclude Grundvig, «poiché andava contro il messaggio dei Cdc (Centers for Disease Control and Prevention) che recita che “i vaccini sono tutti sicuri”». Alcune scoperte dello studio sono illuminanti, come l’incidenza sproporzionata di disturbi cronici nei bambini con differenziazioni etniche, di genere e classe sociale, in modi che né gli autori né i finanziatori dello studio immaginavano. «In sintesi: vaccinazione, razza nera e sesso maschile erano significativamente associati alle patologie del neurosviluppo (Ndd) dopo aver tenuto conto di altri fattori. La nascita pre-termine combinata con la vaccinazione costituiva un forte fattore per lo sviluppo di Ndd nel modello finale, con un aumento pari a più del doppio di probabilità di Ndd rispetto alla sola vaccinazione».Lo studio, in effetti, non è mai stato ritirato: è stato “non accettato”. «Cosa resta di uno studio dopo che è stato accettato, visionato dalla comunità scientifica 80.000 volte in meno di 100 ore? La censura», scrive Lorenzi, che aggiunge: «Forse non è il caso di tirare fuori la Cia. Forse anche Big Pharma piangerà questa morte». Attenzione: nella sua recente lettera a Trump del 7 febbraio, la American Academy of Pediatrics, «un’organizzazione sindacale che non è certo immune da conflitti di interesse», protestando contro la costituzione di una Commissione per la sicurezza vaccinale e adducendo una serie di studi che ne proverebbero l’inutilità, ha «dimenticato di annoverare una cinquantina di studi che gettano quantomeno un’ombra equivoca sull’ “inequivocabile sostegno” espresso nei confronti della sicurezza dei vaccini». Gli studi dell’associazione pediatrica «sono pieni di conflitti di interesse, inesattezze e persino scandali». Uno dei redattori «ha dichiarato di avere, con i colleghi, gettato via dei dati commettendo frode scientifica».Il dottor William Thompson se ne scusa: «Sono dispiaciuto che i miei colleghi ed io abbiamo omesso informazioni statisticamente rilevanti nel nostro articolo del 2004 pubblicato sulla rivista “Pediatrics”». I dati omessi, continua Thompson, «suggeriscono che i maschi afroamericani che hanno ricevuto il vaccino Mpr prima dei 36 mesi di età hanno riportato un aumentato rischio di autismo. Sono state prese decisioni in merito a quali scoperte riportare dopo la raccolta dei dati, ed io credo che il protocollo finale dello studio non sia stato nemmeno seguito». Un altro redattore, Poul Thorsen, che Emanuela Lorenzi definisce «un criminale ricercato», è accusato di «aver sottratto fondi ai Cdc», i centri di prevenzione e cura. Questo studio, scrive la “Vaccines Safety Commission”, «mostra inequivocabilmente che alcuni vaccini causano vari tic, una condizione neurologica devastante». Informazione «ad ulteriore sostegno di una Commissione per la sicurezza vaccinale».Una morte “comoda” per l’industria dei vaccini? Dan Olmsted si è spento il 23 gennaio nella sua casa di Falls Church, in Virginia, il giorno prima di un incontro cruciale: il 24 gennaio, secondo alcune fonti, Kennedy Jr, fondatore del World Mercury Project, lo avrebbe presentato a Trump nell’ambito della Commissione per la sicurezza dei vaccini da lui presieduta. Olmsted, ricorda Emanuela Lorenzi, era un grande giornalista investigativo formatosi a Yale, «uno di quelli che ancora scavano dentro e dietro la notizia per ottenere la verità e lo fanno ponendo domande». Per la “United Press International” denunciò l’insabbiamento da parte dell’esercito americano degli effetti neurotossici provocati dal farmaco antimalarico Lariam. Ma è soprattutto noto come fondatore di “The Age of Autism” e vero e proprio “detective dell’autismo”, cui ha consacrato gli ultimi anni della sua vita. Le sue relazioni sono state citate dall’avvocato ambientalista Robert Kennedy Jr, dalla “Columbia Journalism Review” e da David Kirby in una edizione del suo libro “Evidence of harm”.