Archivio del Tag ‘Bianca Guidetti Serra’
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Fofi: addio Luca Rastello, voce libera di quest’Italia atroce
Scompare con Luca Rastello la voce libera di una persona d’eccezione, che ha avuto tra i suoi grandi meriti anche quello di salvare, con pochi altri, l’onore della generazione cresciuta negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, nel pieno di un forte scontro sociale e poi dentro il riflusso e nel vivo di una radicale mutazione della scena politica causata dalla radicale mutazione dell’economia e dalla totalizzante invadenza dei nuovi mezzi. E insieme a rarissimi altri di salvare l’onore (forse insalvabile da tempo) del nostro giornalismo. Ho conosciuto Luca assai presto, nella redazione dell’“Indice”, quando quella rivista era nei suoi primi anni e aveva ambizioni che andavano oltre il ristretto cerchio universitario torinese. In quegli anni (gli ottanta) due erano i giovani più promettenti espressi da quelle pagine, lui e Alessandro Baricco, che scelse una strada molto diversa dalla sua. Dell’“Indice” Luca fu per un breve tempo anche direttore, nella vana impresa di rimetterla al passo con i problemi dell’epoca, e ricordo con qualche commozione che, quando fu incaricato di quest’impresa impossibile, venne con me a trovare Nuto Revelli a Cuneo come per averne una benedizione, un’investitura che andasse di pari passo con quella di un’altra grande resistente, Bianca Guidetti Serra.Gli interessi del giovane Luca vertevano sulla letteratura dei paesi dell’est europeo, e fu trattando di questa che cominciò a collaborare con “Linea d’ombra”, spostandosi più tardi dalla letteratura alla politica (all’economia, alla società) ma senza rinunciare all’amore per i buoni romanzi e alla curiosità per i nuovi scrittori. La svolta fu la guerra fratricida nella ex Jugoslavia (ma tutte le guerre sono fratricide e tutte sono “civili”, ci hanno detto i classici), quando la seguì come inviato sui luoghi ma anche come operatore sociale a Torino, attivo nell’assistenza ai profughi, ai cacciati, agli esuli. Raccontò quest’esperienza in “La guerra in casa” (1998), un saggio-narrazione di eccezionale intelligenza e rigore morale, i due caratteri che più lo distinsero. Vi si esprimeva una convinzione che non è mai venuta meno, di non fare mai il reduce, di abitare appieno il proprio presente. Alla confluenza tra inchiesta e saggio, gli fecero seguito “Io sono il mercato” (Chiarelettere; sull’economia della droga), “La frontiera addosso” (Laterza; sui diritti dei rifugiati), “Binario morto” (Chiarelettere; sull’assurdità della Tav, che è anche il libro più onesto tra quanti hanno cercato di raccontare la risposta dei No Tav).Con il tempo, ci si renderà conto che questi libri sono tra i pochi da salvare nella marea di carta inutile e predicatoria – e quasi sempre ipocrita – che i giornalisti italiani e i loro fratelli guru hanno dedicato a questi argomenti fondamentali, per farsene belli e non per la ricerca della verità e l’incitamento a una reazione limpida e attiva. Allo stesso modo, si può essere certi che tra i pochissimi romanzi che resteranno dei mille che hanno affrontato gli argomenti più forti del nostro tempo, saranno in prima fila i due che egli ha scritto, tornando alla sua prima vocazione, “Piove all’insù” (Bollati Boringhieri 2006) e “I buoni” (Chiarelettere 2014), il primo sulla “vera storia” della sua generazione (e gli anni del movimento e poi del terrorismo e poi dell’accettazione) e il secondo sull’ipocrisia che, volenti o no, ha riguardato e riguarda coloro che in questi ultimi decenni hanno scelto di occuparsi del prossimo, partendo da motivazioni alte e finendo nella costruzione di nuove aree di privilegio e nelle povere pratiche della sopravvivenza, nonché della guerra tra poveri.Del primo romanzo si colse la qualità artistica più facilmente che del secondo, variamente osteggiato da coloro di cui trattava, appunto “i buoni”. Ma “I buoni” resta anzitutto un grande romanzo “dostoevskiano”, forse unico nella nostra letteratura. Sulla figura e l’opera di Luca Rastello si dovrà tornare spesso, nei prossimi tempi, perché sono tra le più belle e più esemplari tra quelle che hanno agito in questi anni e hanno cercato di investigarne le tensioni, gli interessi, le brutture e disgrazie e le pochissime grazie, così come si è finito per tornare così spesso a un’altra figura esemplare della generazione appena precedente la sua, quella di Alex Langer, altro amico indimenticabile.La sua limpidezza morale, la franchezza delle sue polemiche (assumendosi tutta la fatica del rispetto verso gli avversari), la sua bravura “tecnica” di giornalista in anni in cui il buon giornalismo è andato morendo, la sua capacità di leggere i movimenti della storia e dell’economia (le guerre per l’energia che stanno alle spalle di tutto), la sua ostinazione nel cercare anche tra i “buoni” i buoni veri così come li è andati trovando anche tra i reietti, la sua capacità di fare di tutto questo narrazione e comunicazione chiarificatrici e coinvolgenti, il suo umano calore privo di qualsivoglia calcolo e opportunismo, e infine la sua guerra contro una malattia per la quale lo si dava per spacciato già una dozzina di anni fa e contro la quale lottò instancabilmente – lavorando in ogni pausa lunga o breve concessa dal dolore sostenuto da un grandissimo amore per la vita e dalla convinzione di poter portare un contributo anche a battaglie che si sospettano già perdute. Addio, Luca, i tuoi pareri e le tue conoscenze, i tuoi consigli ci mancheranno tantissimo. Ti salutiamo abbracciando le tue splendide figlie, che così tanto hai amato.(Goffredo Fofi, “La voce libera di Luca Rastello”, da “Internazionale” del 7 luglio 2015).Scompare con Luca Rastello la voce libera di una persona d’eccezione, che ha avuto tra i suoi grandi meriti anche quello di salvare, con pochi altri, l’onore della generazione cresciuta negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, nel pieno di un forte scontro sociale e poi dentro il riflusso e nel vivo di una radicale mutazione della scena politica causata dalla radicale mutazione dell’economia e dalla totalizzante invadenza dei nuovi mezzi. E insieme a rarissimi altri di salvare l’onore (forse insalvabile da tempo) del nostro giornalismo. Ho conosciuto Luca assai presto, nella redazione dell’“Indice”, quando quella rivista era nei suoi primi anni e aveva ambizioni che andavano oltre il ristretto cerchio universitario torinese. In quegli anni (gli ottanta) due erano i giovani più promettenti espressi da quelle pagine, lui e Alessandro Baricco, che scelse una strada molto diversa dalla sua. Dell’“Indice” Luca fu per un breve tempo anche direttore, nella vana impresa di rimetterla al passo con i problemi dell’epoca, e ricordo con qualche commozione che, quando fu incaricato di quest’impresa impossibile, venne con me a trovare Nuto Revelli a Cuneo come per averne una benedizione, un’investitura che andasse di pari passo con quella di un’altra grande resistente, Bianca Guidetti Serra.
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Io sto col Valsusa Filmfest, 10 euro per sorridere al futuro
“Unkatahe”. Non è solo il nome impronunciabile di una creatura zoomorfa che ricorda un bisonte americano. E’ anche una divinità degli indiani del Nord America, che “protegge dagli spiriti del male”. In valle di Susa, la metamorfosi di “Unkatahe” è cinematografica: il corpo, tra le corna e la coda, si trasforma in un frammento di pellicola per dare vita al logotipo del Valsusa Filmfest, piccola tribù di anime resistenti affacciate da quasi vent’anni alla finestra che hanno spalancato sul mondo. Braccia e sorrisi che hanno accolto monumenti del cinema italiano, da Citto Maselli a Giuliano Montaldo, insieme a registi più giovani, come Guido Chiesa, Renzo Martinelli, Davide Ferrario, Daniele Vicari. Nell’album di famiglia anche Gabriele Salvatores e il valsusino Marco Ponti, originario di Avigliana, nonché Gianluca Tavarelli (“Qui non è il paradiso”, noir basato su una pagina di cronaca locale) e Daniele Gaglianone, autore del documentario “Qui”, che propone ritratti di valsusini NoTav. Esplicito, in pieno clima natalizio, l’appello votivo per intercessione del sommo “Unkatahe”: regalateci 10 euro, per aiutarci a sostenere il festival.Tempi duri anche per le casse del Valsusa Filmfest? Niente paura: sul portale “Produzioni dal basso” è stata predisposta una pagina speciale per una campagna di crowdfunding. «Bastano davvero anche solo 10 euro per darci una mano», sostengono i promotori, tutti volontari. «Se saremo in tanti, potremo assicurare il futuro della nostra rassegna». In valle di Susa, il volontariato è da record: non solo per via delle tante associazioni alleate nella promozione culturale. Accanto al vasto network sociale del movimento NoTav, la rassegna “Il Grande Cortile” attira ogni anno personalità di primissimo piano, che da ogni parte d’Italia salgono in valle di Susa per discutere i maggiori temi di attualità. Fondamentale l’elaborazione culturale del festival cinematografico, che in quasi due decenni ha prodotto straordinari incontri ravvicinati: con artisti come Felice Anderasi, Paolo Pietrangeli, Daniele Segre, Florestano Vancini. E poi Enzo Iachetti, Enrico Lo Verso, il compianto Alberto Signetto, lo sceneggiatore occitano Fredo Valla, autore de “Il vento fa il suo giro”, e il regista del film, Giorgio Diritti.«Facciamo parte di una schiera infinita di piccoli festival disseminati lungo la penisola, realtà che mantengono viva la cultura diffusa, elemento caratteristico dell’Italia», spiegano i cinefili valsusini. «Quelli come i nostri chiamano festival ma sono lontani anni luce dai tappeti rossi e dagli sfarzi del cinema, sono indipendenti e danno spazio e voce a documentaristi, produzioni e registi attenti al territorio». Festival, per inciso, «abituati a organizzare le famose nozze coi fichi secchi e, più di recente, capaci di realizzare veri miracoli». Ne sa qualcosa il pubblico, che grazie al festival valsusino, nato nel cuore delle Alpi per riflettere sull’identità europea della montagna, grande frontiera di pace e di scambi tra popoli e culture, ha potuto incontrare voci preziosissime per decifrare i nostri anni. Da Marco Revelli a Bruno Gambarotta, dal pionere himalayano Walter Bonatti al climatologo Luca Mercalli. Il festival ha accolto una paladina dei diritti civili come Bianca Guidetti Serra, insieme ad altri campioni democratici, da don Andrea Gallo ad Alex Zanotelli. E poi musicisti del calibro di Gianni Basso e Fulvio Albano, Gian Maria Testa, Simone Cristicchi. Tra gli scrittori, Erri De Luca è ormai valsusino d’adozione. Ed è in ottima compagnia: ha incrociato le sue parole con quelle di Massimo Carlotto, Mauro Corona e tanti altri, compresa Nicoletta Bocca, che oggi produce dolcetto a Dogliani ma è legata quanto suo padre, il grande Giorgio Bocca, al singolare destino della valle di Susa.«Il progetto del Valsusa Filmfest – sintetizzano gli organizzatori – nasce dalla consapevolezza di vivere in un territorio molto vivace, sia culturalmente che politicamente». In questi anni, il festival si è impegnato a fondo per diffondere la cultura della comunità e del confronto, «in una valle alpina che ha saputo da sempre accogliere altre culture, come testimoniato dal patrimonio artistico presente sul territorio, acquisendo la capacità elaborare le modificazioni che via via nel tempo si sono rese necessarie». Le Alpi non più viste come barriera, ma come cerniera. «Una montagna in movimento, viva, fuori da ogni retorica. La montagna come memoria e come innovazione, come radici e come futuro, ricerca e palestra di vita. La montagna come leggerezza, divertimento, solitudine. Come silenzio». Il Valsusa Filmfest parla la stessa lingua di “Unkatahe”, il dio-bisonte: venite in pace, qui non ci sono nemici. Siamo parte del mondo, anche noi. E vorremmo continuare a incontrarlo, il mondo. Non è difficile, basta non spegnere la luce. Lo conferma Tommaso Cerasuolo, cantante dei “Perturbazione”, che il 16 gennaio regaleranno al pubblico l’ennesimo evento. Aiutateci a sopravvivere, dicono i valsusini, già proiettati verso la prossima edizione del festival (per gli amici, si sa, l’Hotel Valsusa non chiude mai).“Unkatahe”. Non è solo il nome impronunciabile di una creatura zoomorfa che ricorda un bisonte americano. E’ anche una divinità degli indiani del Nord America, che “protegge dagli spiriti del male”. In valle di Susa, la metamorfosi di “Unkatahe” è cinematografica: il corpo, tra le corna e la coda, si trasforma in un frammento di pellicola per dare vita al logotipo del Valsusa Filmfest, piccola tribù di anime resistenti affacciate da quasi vent’anni alla finestra che hanno spalancato sul mondo. Braccia e sorrisi che hanno accolto monumenti del cinema italiano, da Citto Maselli a Giuliano Montaldo, insieme a registi più giovani, come Guido Chiesa, Renzo Martinelli, Davide Ferrario, Daniele Vicari. Nell’album di famiglia anche Gabriele Salvatores e il valsusino Marco Ponti, originario di Avigliana, nonché Gianluca Tavarelli (“Qui non è il paradiso”, noir basato su una pagina di cronaca locale) e Daniele Gaglianone, autore del documentario “Qui”, che propone ritratti di valsusini NoTav. Esplicito, in pieno clima natalizio, l’appello votivo per intercessione del sommo “Unkatahe”: regalateci 10 euro, per aiutarci a sostenere il festival.