Archivio del Tag ‘brexiters’
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Stop Brexit: ma a perdere è l’Ue, che non piace a nessuno
E’ una mazzata per Bruxelles, non per Londra, la decisione del Parlamento inglese di respingere (con 432 voti contrari e 202 favorevoli) la bozza di accordo con l’Unione Europea sulla Brexit, presentata da Theresa May – che rimedia, peraltro, «la peggiore sconfitta di sempre, per un primo ministro». Lo afferma Paolo Annoni sul “Sussidiario”, nel commentare il clamoroso esito della votazione britannica del 15 gennaio, che espone il governo alla sfiducia e proietta il Regno Unito verso nuove elezioni, spingendo probabilmente l’Ue a prolungare oltre il 29 marzo la scandenza per il negoziato. Secondo Annoni, visto comunque l’esito del referendum – con la vittoria della Brexit – in assenza di un nuovo elemento politico che ne ribalti l’esito o addirittura lo annulli, in qualche modo si va comunque verso un’uscita dell’Inghilterra dall’Unione Europea. «ll “caos” da questa e dall’altra parte della Manica – osserva l’analista – lavora nel senso di un’uscita». E attenzione: «Qualsiasi posticipo di una decisione non mette sotto i riflettori la Gran Bretagna, ovviamente, ma l’Unione Europea».Su questa vicenda, per Annoni «c’è una confusione clamorosa», visto che siamo immersi «in una asfissiante propaganda europeista». La Brexit? E’ stata dipinta nella narrazione maggioritaria come «una battaglia tra le forze della reazione e quelle della rivoluzione, tra populisti-sovranisti ed “europeisti”, tra trogloditi e uomini sapiens». Qualcuno, aggiunge Annoni, ha opportunamente sollevato considerazioni di geopolitica: per esempio, è sempre più complicato il rapporto tra “anglosfera” e Cina. Al cuore della questione «rimane sempre un giudizio sulla traiettoria dell’Unione Europea, in particolare dal 2008, e le sue prospettive». Al di là dei disegni non detti – sottolinea Annoni – la Brexit è fondamentalmente un atto di sfiducia nei confronti dell’Unione Europea: «Infatti, se non ci fossero dubbi sull’Unione, nessuno si sarebbe preoccupato di farci un referendum». Facciamo fatica a capirlo, «perché la discussione sull’Europa è inquinata da valutazioni su quello che vorremmo che fosse o che ci hanno detto che sarebbe stata, ma che non è e continua a non essere».Il dibattito sui problemi dell’Europa, poi, è intorbidito da un secondo problema: «Chiunque ne evidenzi i limiti o i difetti strutturali viene immediatamente rinchiuso nel recinto dei sovranisti-fascisti, e in questo modo la discussione è congelata». L’Europa, ricorda Annoni, non è stata non solo «il blocco economico che è cresciuto di meno nello scenario globale», ma anche «quello che ha mostrato i limiti di governance più evidenti, soprattutto dopo la crisi del 2008». Le ricette economiche neoliberiste improntate sull’austerity «hanno scavato faglie all’interno dell’Europa producendo disastri economico-finanziari e dando vita a squilibri politici crescenti tra i membri». La stessa austerity «è una parola che abbiamo imparato a conoscere solo noi europei», visto che «né Stati Uniti, né Cina o Giappone l’hanno mai contemplata». Oltretutto, insiste Annoni, «la sua applicazione arbitraria e “politica” è diventata strumento di lotta interna, oppure ha salvato i creditori lasciando i debitori distrutti». Economia mercantilista: il modello-Germania, fondato sull’export, «oggi manifesta tutta la sua fragilità». E in un mondo globalizzato, che diventa sempre più complicato e competitivo, «i difetti di governance dell’Unione Europea rendono non solo la costruzione fragile, ma impediscono una crescita armonica e stabile».Non fa una grinza, il ragionamento di Annoni: «Il dibattito sulla Brexit sarebbe impensabile se l’Unione Europea fosse un progetto in salute e funzionale». E invece non lo è. Non solo: riformarla appare impossibile. E la sua costruzione «appare particolarmente inadeguata per affrontare le sfide future, dall’economia alle migrazioni». Ecco perché «aumentano gli incentivi ad abbandonarla». In altre parole: «Non si abbandona la perfetta Europa dei nostri sogni, ma quella che c’è e ci sarà nella realtà di tutti i giorni». Sempre secondo Annoni, gli unici che potrebbero salvarla sono forse i tedeschi, «ma pagando con i soldi dei contribuenti tedeschi, che finora hanno avuto tutto senza mettere un euro». Per salvare l’Europa, inoltre, la Germania dovrebbe «cedere potere politico». E qundi: «Auguri». Siamo in tunnel: col passare del tempo, «più l’Europa si irrigidisce nel suo attuale equilibrio politico e nelle sue attuali regole, più diventerà difficile proporla come alternativa valida». Questa è l’Europa che in Germania fa volare l’Afd, in Francia i Gilet Gialli e in Italia i 5 Stelle. E’ l’Europa che fa salire al 25% la disoccupazione in Grecia per salvare le banche tedesche e francesi. E’ la Disunione Europea «in cui è impossibile un approccio comune al tema dei migranti». Proprio questa Europea, ribadisce Annoni, «è il più grande sponsor per i “brexiters”». E sinceramente, «visto lo stato del dibattito al di qua della Manica, sarà difficile opporre argomenti altrettanto spendibili».Oltretutto, rileva sempre Annoni, il tempo scarseggia: cresce infatti la velocità dei cambiamenti in atto, nei commerci e nei rapporti politici globali. L’Europa dei nostri sogni? «Non c’è, e quindi ha già fallito, vista la nuova fase internazionale». A questo punto «servirebbe un grande atto di umiltà e realismo», insieme a «tantissima, lungimirante e buona politica», per dare vita a «un processo di riforma radicale, in cui forse si può salvare una parte o il nocciolo del progetto originale». Unica precondizione, drastica: «Sacrificare una buona parte della costruzione attuale». Ipotesi percorribile? Non oggi, vista la qualità degli attori in campo. «Se non c’è un’iniziativa forte in questo senso – riassume Annoni – tutto verrà travolto dagli eventi e dalle pressioni esterne». Parallelismi inquietanti: «La Gran Bretagna è sui binari di un’uscita senza ulteriori elementi, esattamente come l’Unione Europea è sui binari di uno sfaldamento senza riforme radicali del suo assetto e dei suoi rapporti di forza interni». Ciò che rende debolissima l’Unione Europea è proprio la sua apparente forza: l’assenza di democrazia nella governance dell’Ue. Le istituzioni autocratiche di Bruxelles possono anche maltrattare la Gran Bretagna, ma la storia finirà male (per l’Unione, non per gli inglesi).E’ una mazzata per Bruxelles, non per Londra, la decisione del Parlamento inglese di respingere (con 432 voti contrari e 202 favorevoli) la bozza di accordo con l’Unione Europea sulla Brexit, presentata da Theresa May – che rimedia, peraltro, «la peggiore sconfitta di sempre, per un primo ministro». Lo afferma Paolo Annoni sul “Sussidiario”, nel commentare il clamoroso esito della votazione britannica del 15 gennaio, che espone il governo alla sfiducia e proietta il Regno Unito verso nuove elezioni, spingendo probabilmente l’Ue a prolungare oltre il 29 marzo la scadenza per il negoziato. Secondo Annoni, visto comunque l’esito del referendum – con la vittoria della Brexit – in assenza di un nuovo elemento politico che ne ribalti l’esito o addirittura lo annulli, in qualche modo si va comunque verso un’uscita dell’Inghilterra dall’Unione Europea. «ll “caos” da questa e dall’altra parte della Manica – osserva l’analista – lavora nel senso di un’uscita». E attenzione: «Qualsiasi posticipo di una decisione non mette sotto i riflettori la Gran Bretagna, ovviamente, ma l’Unione Europea».
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Sapelli: Brexit, l’Ue verso l’abisso. E la Germania ci stupirà
Ancora Brexit: è una disgregazione che pare non finire mai. Il governo inglese entra in una crisi profonda, che secondo lo storico dell’ecomomia Giulio Sapelli esprime bene quello che sta lentamente minando le basi socio-politiche dell’Europa, e da cui forse il Regno Unito non ha fatto in tempo a salvarsi. La deflazione secolare, scrive Sapelli sul “Sussidiario”, va di pari passo con la disgregazione delle subculture politiche europee, e ciò conduce all’emersione dei “cacicchi”, i capetti che già esistevano nei partiti, ma «erano messi in sonno dalla pesantezza dei legami territoriali e dal modello “rank and file” dell’organizzazione della partecipazione politica di massa». Ora quest’ultima ha trasformato il suo volto «per la digitalizzazione crescente delle relazioni virtuali», e così «l’angoscia politica si condensa non più nella ribellione oppure nell’astensione di massa, ma nell’emersione – appunto – dei capi politici solitari, alveolari». Sapelli li chiama “caciqui” citando Joacquin Costa, studioso dell’oligarchia spagnola di inizio Novecento. Ciò che caratterizza il “cacicco”, avverte Sapelli, è la lotta di tutti contro tutti, la battaglia in solitudine con pochi fedeli.Ora anche nel Regno Unito, continua Sapelli, la lotta è tra “Re nani”, che combattono da soli l’un contro l’altro armati: “Siamo ancora troppo succubi dell’Unione Europea, dobbiamo difendere i nostri territori”, gridano. E via di seguito, con le cantilene che conosciamo bene e che sono l’essenza del “nazionalismo dei poveri” e delle borghesie nazionali, opposte alle borghesie “vendidore”, mercantiliste. Di fronte a questo fenomeno, l’Europa «non tenta di costruire una via di uscita», aprendo le porte al dialogo, ma al contrario «si veste invece come una Erinni sempre in battaglia e scrive una bozza di trattato “in deroga”, ossia dà vita a un nuovo trattato di centinaia di pagine che ancor più infiamma gli animi dei “brexiters” e scalda il cuore degli scopritori delle ataviche virtù». Il tutto «mentre la crisi economica europea e mondiale avanza», e Mario Draghi «interpreta bene le paure nordamericane per una crisi europea senza fine». Infatti, la fine del Quantitative easing e il rialzo dei tassi, attesi invariati almeno fino a tutta l’estate 2019 – dice Draghi – potrebbero essere rimessi in discussione già a partire da dicembre a causa di un aumento meno mercato dei prezzi rispetto alle aspettative.«L’inflazione nell’Eurozona continua a oscillare intorno all’1% e deve ancora mostrare una tendenza al rialzo convincente», aggiunge Draghi. E quindi, deduce Sapelli, l’addio al Qe è rimandato. Il consiglio della Bce ha anche notato che «le incertezze sono aumentate». Solo a dicembre, con le nuove previsioni disponibili, la banca centrale sarà «in grado di fare una piena valutazione». Per Sapelli, si tratta di segnali assai chiari. Sul “Financial Times” il responsabile del centro studi della Deutsche Bank, David Folkerts-Landau, invoca «con parole inconsuete» una sorta di benevolenza, da parte dell’Ue, nei confronti dell’Italia: una nazione, dice, con un avanzo primario sempre attivo, una forza nel risparmio privato assai notevole e una situazione industriale tra le più invidiabili. «Evidentemente – annota Sapelli – il peso della crisi profonda in cui versa Deutsche Bank ispira le parole del capo dell’ufficio studi, che invia un messaggio chiaro ed eloquente ai falchi nazionalisti ordoliberisti polacchi e dell’Europa centrale, che non vedono l’ora di contendersi il primato di co-attori nella lotta che si sta scatenando nel sistema europeo nel tramonto del potere condizionante prevalente tedesco».Un tramonto che, secondo Sapelli, rischia di lasciare l’Europa senza un ancoraggio preciso. E se Berlino non è allegra, non ride nemmeno Parigi: «Anche la stella di Macron decade, e la pulsione imperiale della Francia – come hanno dimostrato le vicende libiche, che devono essere lette in stretta congiunzione con quelle europee – la trascinerà sempre più verso il dominio africano anziché nel cuore del suo destino europeo, che non può che essere antitedesco per una coazione a ripetere che è anche la salvezza dell’Europa, impedendo in tal modo un solo dominatore». Le conseguenze? Le abbiamo appena viste, dice Sapelli: ordoliberismo e deflazione. La Brexit? E’ un evento tragico, «che avviene tuttavia senza una tragedia che si rappresenti per quello che è: una catastrofe». Prevale invece «uno sbadiglio, il non assumersi tutte le responsabilità, un non cogliere il dramma di un abbandono definitivo dell’Europa da parte della patria culturale dell’umana libertà, della common law». Secondo Sapelli, «non si può continuare a far finta di niente e considerare la vicenda Brexit un incidente della storia», quando invece «è una vera e propria rivelazione della storia europea e dei limiti che ha qualsivoglia sua tentazione federalista o funzionalista come quella che le élites tecnocratiche hanno perseguito nell’ultimo mezzo secolo».E’ sempre lui, il Novecento, «quel secolo che non finisce mai». E’ alle spalle, «e che ora si chiude con il distacco della nazione più civile del globo terracqueo». Se sfidate, la tradizione e la storia si ribellano, sostiene Sapelli, citando Edmund Burke, umanista britannico del Settecento. «E dinanzi a tale ribellione che ricorda l’Ira dei miti, che, come dice la Bibbia, quando si rivela è terribile, dinanzi a tutto ciò la Commissione Europea si accanisce sull’Italia e discute di quanti errori si sarebbero fatti consentendo a essa un grado di “flessibilità” troppo elevato, emanando una condanna dei governi precedenti e non solo dell’attuale esecutivo italiano». Secondo Sapelli «non hanno fatto i conti – i Commissari vassalli — con la paura che sta invadendo l’Imperatore tedesco, che fa parlare ora i suoi banchieri e che forse si prepara a una mossa imprevista, per difender certo il suo impero, ma anche l’Europa, o meglio ciò che dell’Europa rimarrà dopo il dominio del neofiti dell’ordoliberismo che riescono a far peggio dei loro capi». In altre parole: «La crisi tedesca si avvicina, e allora si comprenderà veramente sul crinale di quale abisso siamo giunti. E la Germania ci stupirà».Ancora Brexit: è una disgregazione che pare non finire mai. Il governo inglese entra in una crisi profonda, che secondo lo storico dell’ecomomia Giulio Sapelli esprime bene quello che sta lentamente minando le basi socio-politiche dell’Europa, e da cui forse il Regno Unito non ha fatto in tempo a salvarsi. La deflazione secolare, scrive Sapelli sul “Sussidiario”, va di pari passo con la disgregazione delle subculture politiche europee, e ciò conduce all’emersione dei “cacicchi”, i capetti che già esistevano nei partiti, ma «erano messi in sonno dalla pesantezza dei legami territoriali e dal modello “rank and file” dell’organizzazione della partecipazione politica di massa». Ora quest’ultima ha trasformato il suo volto «per la digitalizzazione crescente delle relazioni virtuali», e così «l’angoscia politica si condensa non più nella ribellione oppure nell’astensione di massa, ma nell’emersione – appunto – dei capi politici solitari, alveolari». Sapelli li chiama “caciqui” citando Joacquin Costa, studioso dell’oligarchia spagnola di inizio Novecento. Ciò che caratterizza il “cacicco”, avverte Sapelli, è la lotta di tutti contro tutti, la battaglia in solitudine con pochi fedeli.