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Archivio del Tag ‘Bundeswehr’

  • Aquisgrana, due piccoli avvoltoi sul cadavere dell’Europa

    Scritto il 23/1/19 • nella Categoria: idee • (6)

    Il Trattato franco-tedesco di Aquisgrana, antica capitale del Sacro Romano Impero (la città-simbolo dove si assegna il Premio Carlo Magno) formalizza quell’idea di Europa «che finora aveva avuto cittadinanza solo a livello finanziario». E gli altri paesi? O vassalli, o colonie da tenere in riga, meglio se più povere di prima. Fantasie? No, basta leggere il testo predisposto da Emmanuel Macron e Angela Merkel, ultra-sovranisti alla bisogna. Secondo Alessandro Mangia, costituzionalista dell’Università Cattolica di Milano, il nuovo trattato «accelera il processo di disgregazione dell’Unione Europea». Fino al 2016, aggiunge, il Regno Unito è stato «il solo contraltare alla coppia franco-tedesca a livello politico e di occupazione degli spazi burocratici». Usciti di scena gli inglesi, «che assieme a Italia, Spagna ed altri paesi potevano fare da contrappeso», gli equilibri di potenza in Europa sono saltati. E l’Europa si è improvvisamente contratta. Intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”, il professor Mangia insiste: «Senza Gran Bretagna, l’Unione non ha capacità di proiezione esterna. E il suo spazio di manovra sullo scenario mondiale, che nemmeno prima era granché, si è ulteriormente ristretto». Il nuovo patto «è una manovra classica da arrocco: la mossa difensiva di due potenze diverse, ma entrambe in grande difficoltà fuori dallo scenario europeo», a cominciare dagli Stati Uniti.
    Di fronte alle pressioni americane (e alle minacce di disimpegno degli Usa dalla Nato, a meno che i paesi europei non incrementino l’acquisto di forniture militari americane nei prossimi anni), Francia e Germania se ne escono con questo trattato che, almeno sulla carta, «disegna una struttura di tipo quasi confederale, imperniata su organi e meccanismi stabili di collaborazione in tema di difesa, sicurezza interna, operazioni militari all’estero, industria militare, posti in Consiglio di Sicurezza Onu e concertazione sulle politiche europee». Secondo Alessandro Mangia siamo di fronte a una struttura polifunzionale, «destinata a operare come patto di controllo all’interno dell’Unione in attesa che Trump se ne vada». Oppure, se lo sfaldamento dell’Ue accelera dopo le elezioni europee, Francia e Germania hanno già messo in cantiere questo possibile Piano-B: un disegno «che riduca tutto a Germania, con baltici e Olanda al seguito, e Francia, con esercito, nucleare e colonie della zona franco Cfa», tuttora sottoposte a un severo regime di sfruttamento colonialistico. E ora? L’Unione Europea «diventa qualcosa di obsoleto o, nel migliore dei casi, una struttura destinata ad essere funzionale, in chiave subordinata, ad un asse politico che ha pretese di egemonia continentale».
    Qui si va molto al di là di una classica cooperazione rafforzata, sottolinea il professor Mangia: si tocca la sfera militare, e dunque politica per eccellenza. «La verità è che a fomentare squilibri e conflitti all’interno dei paesi dell’Unione è stata la politica mercantilista tedesca, che non si è limitata ad operare all’interno del continente, ma ha cominciato a infastidire gli stessi Usa. Se si pensa che la sola Germania ha un surplus sull’estero superiore a quello cinese – osserva Mangia – si capisce perché la proposta di Trump di livellare le spese militari al 2% dei paesi aderenti non fosse poi tanto peregrina, almeno dal suo punto di vista». Al di fuori di armi e tecnologia militare, aggiunge Mangia, non è che gli Usa abbiano ormai molto da esportare in Europa. «E infatti questo trattato è un “no” chiaro e tondo alle richieste americane: e si propone, non so con quale efficacia, di sviluppare un’industria militare e una forza di intervento esclusivamente franco-tedesca, che possa prendere il posto del fornitore americano». Scenario realistico? Manca esprime forti dubbi: «Il mercato mondiale delle armi è soprattutto in mano ad americani e russi, che ne hanno fatto un volano economico. Andarlo a sfidare senza avere la capacità economica – e la volontà di spesa – di Usa e Russia è a dir poco velleitario. Eppure, il segnale che si vuole lanciare è esattamente questo».
    Quanto al testo del trattato, il livello di cooperazione (sulla carta) è molto stretto. Si parla di un Consiglio franco-tedesco di difesa e sicurezza comune, di un Consiglio dei ministri franco-tedesco, di partecipazione su base regolare di membri del governo francese o tedesco ai Consigli dei ministri dell’altro Stato. Ma ci sono anche dei passaggi meno generici, avverte Manca: nell’articolo 6 si parla di “unità comuni per operazioni di stabilizzazione in paesi terzi”. E si prevedono interventi tanto in Europa e in Africa: e cioè nelle zone del franco Cfa. «E’ chiaro che, se queste non restassero solo parole, ci si troverebbe di fronte ad un fatto politico piuttosto rilevante». Tradotto: «Se ci si ferma a riflettere su cosa si intende per “sicurezza interna” si finisce per leggere “ordine pubblico”. E si capisce che qui si va oltre il Trattato di Velsen del 2004 che istituisce Eurogendfor come piattaforma di Gendarmeria Europea. Potenzialmente la base giuridica per interventi diretti delle rispettive polizie oltre confine qui ci sarebbe. Non so se rendo l’idea».
    Nella sostanza, sottolinea Manca, il trattato si prefigge di formalizzare quell’idea di “Europa core” che finora aveva avuto cittadinanza solo a livello finanziario. «Sullo sfondo c’è l’idea di passare dalla sfera economico-commerciale alla sfera militare, e cioè politica per definizione». Non è casuale, infatti, che sia stata scelta Aquisgrana come sede per la firma: il luogo-simbolo del Sacro Romano Impero. «Appunto. Nella cattedrale è sepolto Carlo Magno che aveva unificato Franchi e Germani; è la città dove viene attribuito quel Premio Carlo Magno che, negli ambienti europeisti, ha un fortissimo valore simbolico. Quando si passa a curare i simboli – aggiunge il professore – ci si muove in una dimensione apertamente politica. Ricordate le piramidi o le stelle a cinque punte di Macron? Siamo sempre lì». E partendo da Aquisgrana dove si può arrivare? La Merkel, «quasi dimissionaria in patria», ha delle mire precise sulla prossima Commissione Europea. Dall’altra parte c’è Macron, «che è riuscito nella non facile impresa di battere i livelli di impopolarità di Hollande», e che da dieci settimane si trova la città messe a ferro e a fuoco, nel weekend, dai Gilet Gialli. La sua unica strategia? «Lanciare le consultazioni con i sindaci e aspettare che i rivoltosi si stufino, nel più puro stile d’Ancien Régime».
    Merkel e Macron, per Alessandro Manca, «sono due figure deboli in patria, deboli sullo scenario mondiale, che riescono ad imporsi solo nei confronti degli altri paesi dell’Unione». Sul breve periodo, hanno ogni convenienza a sostenersi a vicenda. Ma il professore insiste ancora sul profilo militare: in Germania, oltre che sulle infrastrutture, si è giocato al risparmio anche sulle spese militari per la Bundeswehr, che soffre di sottofinanziamenti cronici. Ma dall’estate scorsa, «dopo lo scontro con Trump, si è iniziato a parlare, sulla stampa tedesca, dell’opportunità di divenire una potenza nucleare, in barba ai trattati di non proliferazione del dopoguerra». E qui, il partner ideale è la Francia. «Sì, perché la Germania è una potenza economica, ma un nano militare». La Francia ha un’industria militare di qualche rilievo, storicamente sovralimentata dallo Stato, e dispone di capacità e tecnologia nucleare sia civile che militare. «Ha qualcosa da vendere, insomma, che i tedeschi non hanno e non possono avere a breve. In cambio – aggiunge Manca – la Francia può ricevere accoglienza al vertice politico dell’Unione come “regina consorte” e vantare un rapporto privilegiato con il paese con il più grande surplus commerciale al mondo. Sembra uno scambio utile ad entrambi».
    Quanto all’impegno della Francia a favorire il riconoscimento della Germania come membro permanente del Consiglio di Sicurezza Onu, Alessandro Manca sorride: ve le immaginate le risate, al Dipartimento di Stato e al Foreign Office inglese, il giorno che la Francia proverà a tener fede a questo impegno preso con i tedeschi, «con quello che stanno facendo passare al governo britannico sulla Brexit?». Per non parlare di Russia e Cina, «che “non aspettano altro” di avere la Germania seduta a quel tavolo a metter bocca sulle questioni internazionali». Come dire: uno scenario solo virtuale, del tutto irrealistico. Poi però ci siamo noi, l’Italia, insieme agli altri paesi esclusi dall’accordo: che conseguenze avrà, sulla nostra pelle, questo evidente progetto di dominio? «Questa è la nota più dolente, almeno a breve». Un asse franco-tedesco «che costituisca una struttura intrecciata anche militarmente ha poco rilievo fuori dal continente, ma ha molto rilievo al suo interno, soprattutto per il competitor naturale di Francia e Germania, che è poi l’Italia». Siamo «l’unico paese che, nonostante tutto, ha ancora una manifattura e un’industria militare capace di confrontarsi con Francia e Germania». L’Ue ha sgretolato le antiche alleanze. La prima vittima del Trattato di Aquisgrana, secondo Manca, sarà proprio l’industria militare italiana, «che è diretta concorrente dell’industria francese».

    Il Trattato franco-tedesco di Aquisgrana, antica capitale del Sacro Romano Impero (la città-simbolo dove si assegna il Premio Carlo Magno) formalizza quell’idea di Europa «che finora aveva avuto cittadinanza solo a livello finanziario». E gli altri paesi? O vassalli, o colonie da tenere in riga, meglio se più povere di prima. Fantasie? No, basta leggere il testo predisposto da Emmanuel Macron e Angela Merkel, ultra-sovranisti alla bisogna. Secondo Alessandro Mangia, costituzionalista dell’Università Cattolica di Milano, il nuovo trattato «accelera il processo di disgregazione dell’Unione Europea». Fino al 2016, aggiunge, il Regno Unito è stato «il solo contraltare alla coppia franco-tedesca a livello politico e di occupazione degli spazi burocratici». Usciti di scena gli inglesi, «che assieme a Italia, Spagna ed altri paesi potevano fare da contrappeso», gli equilibri di potenza in Europa sono saltati. E l’Europa si è improvvisamente contratta. Intervistato da Federico Ferraù per il “Sussidiario”, il professor Mangia insiste: «Senza Gran Bretagna, l’Unione non ha capacità di proiezione esterna. E il suo spazio di manovra sullo scenario mondiale, che nemmeno prima era granché, si è ulteriormente ristretto». Il nuovo patto «è una manovra classica da arrocco: la mossa difensiva di due potenze diverse, ma entrambe in grande difficoltà fuori dallo scenario europeo», a cominciare dagli Stati Uniti.

  • Cottarelli e Macron, il vero partito che rema contro l’Italia

    Scritto il 27/9/18 • nella Categoria: idee • (5)

    Attenti a Carlo Cottarelli: non lavora per l’Italia, ma per il “partito” trasversale (italiano) che vuole mantenere il nostro paese in crisi perenne. Un avvertimento che, sul “Sussiadiario”, Federico Ferraù rilancia, intervistando il professor Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale all’Università Cattolica di Milano. Pur senza essere esplicitamente nominato, l’ex commissario alla spending review del governo Letta – ormai ospite fisso dei maggiori talkshow, incluso il salotto televisivo di Fabio Fazio – è definito “Manciurian candidate”, cioè cavallo di Troia e quinta colonna di poteri esterni al nostro paese. Letteralmente: «Un economista che rilascia interviste da premier in pectore, facendo della riduzione del deficit e del debito il comandamento di una religione secolare». Tutto questo, «in attesa che il patto M5S-Lega si rompa, magari con l’aiuto del Colle», cioè di quel Mattarella che la candidatura Cottarelli l’aveva agitata come minaccia, in alternativa a quella di Conte, subito dopo aver bocciato la proposta di Paolo Savona come ministro dell’economia. Neoliberista, a lungo dirigente del Fmi, Cottarelli è considerato – insieme a Mario Draghi, allora dirigente di Goldman Sachs – uno dei maggiori responsabili della catastrofe abbattuasi sulla Grecia. Da tempo ci prova anche con l’Italia. La sua ricetta? Quella di Monti: deprimere l’economia tagliando il deficit. Agisce da solo, Cottarelli? Niente affatto: si muove in tandem con Emmanuel Macron.
    Lo stesso Ferraù definisce l’inquilino dell’Eliseo «un antipopulista a vocazione continentale che fa il populista alla bisogna, approfittando del fatto che il suo paese è ancora troppo importante per fallire». Macron e Cottarelli, sottolinea il professor Mangia, fanno parte dello stesso disegno anti-italiano: non ordito “dalla Francia” o “dalla Germania”, bensì da un cartello di poteri economici, che agiscono – inseguendo esclusivamente i propri interessi privatistici – all’insaputa degli stessi francesi e tedeschi. «In realtà – afferma Alessandro Mangia – ad essere vincitore, oggi, in Europa, è soltanto un blocco industriale e finanziario che dall’unificazione europea ha tratto solo vantaggi e ha distribuito gli svantaggi in modo più o meno equo tra i vari paesi d’Europa». Oggi Macron annuncia un’espansione del deficit francese, mentre Cottarelli tuona contro la ventilata (minima) crescita del disavanzo italiano? Niente di strano: quei poteri hanno bisogno che la Francia non crolli, per questo le consentono di sostenere la propria economia con una dose maggiore di debito pubblico. L’Italia, invece, “deve” crollare: a questo servono le prediche a reti unificate di Cottarelli, contro l’aumento della spesa invocato da Di Maio e Salvini per finanziare Flat Tax, pensioni e reddito di cittadinanza. La filosofia di Cottarelli? Quella, fallimentare, del Fmi: se infatti si taglia la spesa produttiva, decresce automaticamente il Pil e l’economia peggiora, aggravando il peso del debito pubblico.
    Dopo che Macron ha comunicato di voler aumentare il deficit fino al 2,8% per tagliare 25 miliardi di tasse, Di Maio ha detto: «Facciamo anche noi il 2,8% come loro». Domanda: perché l’Italia non può imitare i francesi? «Perché la Francia, nell’assetto attuale d’Europa – spiega Mangia – è un elemento essenziale per la tenuta del sistema di potere che si è instaurato dopo la crisi del 2010-2011». E quindi, chiarisce il professore, le va lasciato margine di manovra. Anche perché, senza la foglia di fico (francese) del famoso “asse franco-tedesco”, sarebbe evidente a tutti chi domina e chi è dominato, in Europa: «E l’Europa si ridurrebbe alla sola Germania e ai suoi sottoposti». In altre parole: in cambio di una parte in commedia, alla Francia viene lasciata maggiore libertà di bilancio. Solo che, «stanti le caratteristiche strutturali della moneta unica», questa maggiore libertà «si traduce in maggior debito e maggior deficit sull’estero». La spesa aggiuntiva francese, argomenta Mangia, viene fatta acquistando beni esteri — cioè tedeschi e italiani — perché costano meno di quelli francesi. Sicché, Macron potrà anche «tirare a campare, politicamente, come ha cercato di fare Hollande con l’esito che sappiamo», ma non farà altro che «aggravare la situazione e accumulare passivi sull’estero».
    E questo, sottolinea il professore, è esattamente ciò che succede da anni alla Francia, che «dopo sforamenti superiori al 5% (che noi ci sogneremmo) è su una china assai peggiore di quella dell’Italia: solo che non si può dire, se no viene giù tutta la messinscena dell’asse franco-tedesco e non si può più fare la voce grossa con Italia e Spagna». In più, se Bruxelles è di manica larga con Parigi, è anche per sostenere il suo uomo – Macron – ormai inviso al 70% dei francesi. La Francia, ricorda Alessandro Mangia, da oltre 10 anni sfora il tetto del 3% sul rapporto debito-Pil. Il paese è stabilmente in disavanzo commerciale sull’estero. Inoltre «ha un debito pubblico prossimo al 100% con un trend di stabile crescita e un volume superiore a quello italiano». La disoccupazione è stabile al 9% (in Italia è attorno all’11) con una manifattura «ormai secondaria, nel continente». Ancora: la Francia «è in stato d’emergenza dai tempi del Bataclan, e cioè dal novembre 2015, e ne è uscita (a parole) con il trucchetto di trasformare la legislazione d’emergenza in legislazione ordinaria, con quel che ne viene in termini di poteri della polizia su libertà personale e di riunione». Non solo: la Francia «riesce ad avere un governo solo grazie agli artifici di una legge elettorale a doppio turno, fatta apposta per drogare il consenso del vincitore».
    Come se non bastasse, l’Eliseo «sta cercando di approvare una riforma costituzionale osteggiata persino in quell’Assemblea nazionale dove la maggioranza drogata di “En Marche” dovrebbe essere netta e sicura». A fronte di tutto questo, aggiunge il professor Mancia, come stupirsi del fatto che Macron abbia problemi di popolarità? Tutto sommato, aggiunge, a Macron «sta andando ancora bene», se consideriamo che quel presidente, eletto in quel modo e con quell’esiguo consenso, «si è messo in testa di fare ai lavoratori francesi quello che è stato fatto ai lavoratori italiani dai governi Monti e Renzi in nome di “debito” e “competitività”, senza tener conto del fatto che sciopero generale e resistenza popolare fanno parte del mito repubblicano su cui si regge la Francia». Gli scandaletti come quello che ha coinvolto Macron e la sua guardia del corpo Alexandre Benalla? Un pretesto fisiologico per esprimere la protesta contro le scelte (politiche, non private) del presidente, «in un sistema istituzionale bloccato dalla mancanza di un voto di sfiducia, come è quello presidenziale della V Repubblica», dove «l’unico modo di liberarsi di un presidente è quello di costringerlo alle dimissioni». Mancando la possibilità del voto parlamentare di sfiducia, «poi si finisce con il parlare di stagiste e guardie del corpo come se fossero affari di Stato».
    Ma la Francia ha comunque due potenti frecce al suo arco: i 500 miliardi di euro che sottrae ogni anno a 14 ex colonie africane, più il fatto di essere rimasta – dopo la Brexit – l’unica potenza nucleare europea. «Nonostante le figuracce rimediate in Siria», afferma Mangia, la Francia è l’unica nazione in Europa a disporre di un deterrente nucleare, Per questo «è essenziale per calciare il barattolo europeo in avanti, parlando di Unione di Difesa, sessant’anni dopo il fallimento della Comunità Europea di Difesa». Tant’è vero che da qualche settimana, in Germania, «si parla di munire la Bundeswehr di armi nucleari tattiche, per non lasciare il monopolio del nucleare alla Francia». Il che, aggiunge Mangia, «dà la misura di quanto le attuali classi politiche europee siano stralunate, fino a diventare visionarie, ipotizzando un futuro indipendente dall’ombrello Usa», come se la Nato non esistesse più. E comunque, «la Francia è l’unico Stato dell’Unione ad avere una proiezione extracontinentale, vuoi per i territori d’oltremare, vuoi per l’aggancio valutario dei paesi subshariani attraverso il sistema del franco Cfa, perfettamente convertibile in euro a condizione che le ex-colonie depositino metà delle loro riserve valutarie in un conto in Francia».
    E guarda caso, puntualizza il professor Mangia, «stiamo parlando di quegli stessi paesi che da qualche anno ci inondano di profughi che naturalmente scappano da fame e guerra». Che la Francia abbia qualcosa a che fare con quello che viene presentato come un inarrestabile evento naturale che si produce – combinazione – proprio nelle sue ex colonie? «Non possiamo stupirci che, nell’insieme, la Francia abbia ancora un margine di manovra di fronte alla Commissione in tema di bilancio», ribadisce il professore. «A reggere la Francia è la sua proiezione di potenza, non la sua economia, che è messa male almeno quanto la nostra, anche se per ragioni diverse». E che posto ha l’Italia in questo gioco di poteri? «La Francia serve alla Germania, anche se l’unico paese dove può espandersi è ormai soltanto l’Italia, naturalmente con l’attiva collaborazione di buona parte delle nostre élites politiche». Fateci caso, osserva Alessandro Mangia: «Avete mai visto quanti e quali esponenti politici italiani sono stati insigniti della Legion d’onore? E’ impressionante». Tra i nomi più in vista svettano quelli di Massimo D’Alema e Franco Bassanini, Emma Bonino, Piero Fassino e Walter Veltroni, Dario Franceschini, Enrico Letta. E poi il renziano Sandro Gozi, Giovanna Melandri, Roberta Pinotti, Romano Prodi, i sindaci milanesi Giuliano Pisapia e Beppe Sala.
    «Qualcuno si è mai chiesto – si domanda Mangia – per quali ragioni la Francia dovrebbe conferire quella che, dai tempi di Napoleone, è la massima onorificenza della nazione a una schiera di politici italiani? Solo per spirito europeo?». L’amara verità, aggiunge il professore, è che in questa Europa ci sono paesi «più sovrani degli altri». Il risultato? E’ sotto i nostri occhi: ormai, a votare in massa per i cosiddetti sovranisti, o populisti – in Italia ma anche in Francia, Germania, Austria, Svezia – è quello che fino a dieci anni fa era ancora “ceto medio”, e oggi, «oltre ad essere impoverito, è insultato quotidianamente sui giornali». Viene bollato come “ignorante, incolto e xenofobo”, da quegli stessi media che accolgono come rivelazioni sensazionali le palesi falsità spacciate da Cottarelli, che “vende” come virtù il “risparmio” nei conti pubblici, paragonando il bilancio statale a quello di una famiglia o di un’azienda. «Semplici slogan che non hanno nessun fondamento economico», protesta Alessandro Mangia: «Gli Stati, se sono Stati, non possono essere equiparati a una famiglia per il semplice fatto che, in genere, le famiglie non possono stamparsi il denaro che gli serve per vivere, mantenersi e investire. Gli Stati, se sono davvero Stati, la moneta se la stampano. E il limite è dato da congiuntura economica e andamento generale dell’economia, come è sempre stato in Italia fino al divorzio Tesoro-Bankitalia».
    Il punto, aggiunge il professore, è che «la moneta unica ha ridotto gli Stati a dover dipendere dai fornitori di moneta, esattamente come le famiglie, e ha trasformato il debito virtuale di uno Stato nel debito reale di una collettività». E’ stato questo il vero passaggio dalla valuta nazionale all’euro: si è ottenuta «la creazione di un debito reale in capo alle collettività nazionali, in cambio di un ribasso temporaneo dei tassi di interesse». Dovremmo “ringraziare” a lungo chi ci ha portati in questa situazione, «che ha ucciso ogni libertà politica». E cioè: ha ucciso «la libertà di scegliere le politiche da praticare con l’esercizio del diritto di voto». Svuotamento della democrazia: «Certo, oggi si può ancora votare – aggiunge Mangia – ma alla fine le scelte possibili sono solo quelle dettate dalle regole europee sul bilancio. E mi sembra che i discorsi di questi giorni sullo “zero virgola” e sulla dialettica Tria-Di Maio ne siano la più perfetta dimostrazione». Ribellarsi a questo falso paradigma, basato sulla mistificazione ideologica del neoliberismo? Facile a dirsi, ma prima bisogna sbarazzarsi del cartello-ombra costituito da potenti connazionali che “remano contro” il nostro paese.
    «Esiste un partito, che diviene sempre più incalzante – scrive Ferraù, sul “Sussidiario” – per il quale il taglio del debito è divenuta una ricetta trans-economica, un credo, un obbligo morale, un modo di salvare l’Europa e l’Italia attenendosi, senza se e senza ma, alle direttive di Bruxelles e di Berlino». Come potrebbe spuntarla, il governo gialloverde, se il ministro Giovanni Tria appare sempre più nella veste del “pilota automatico”, sulle orme di Mario Draghi? Come ogni ministro del bilancio da Maastricht in poi, cioè dal 1992 – dice il professor Mangia – anche Tria «si trova a dover mediare tra quelle scelte politiche che i cittadini credono ancora di fare, quando vanno a votare, e i vincoli che la Commissione impone al bilancio, interpretando, modulando, calibrando i vincoli formali, dal Patto di Stabilità al Fiscal Compact». Gli interlocutori di Tria? «Non sono solo Di Maio e Salvini, ma la Commissione e gli altri ministri dell’Eurogruppo, che sono lì solo per fare gli interessi dei paesi di provenienza». L’unica domanda è: «Quand’è che noi smetteremo di fare gli interessi degli altri e di produrre – malamente, e con quello che passa il convento, che non è proprio granché – i nostri piccoli “Manchurian candidates”, cui affidare la continuazione di queste politiche? All’orizzonte ne vedo almeno uno», chiosa il professore. Non ne fa il nome, non ce n’è bisogno: per scoprire chi è basta accendere il televisore.

    Attenti a Carlo Cottarelli: non lavora per l’Italia, ma per il “partito” trasversale (italiano) che vuole mantenere il nostro paese in crisi perenne. Un avvertimento che, sul “Sussiadiario”, Federico Ferraù rilancia, intervistando il professor Alessandro Mangia, ordinario di diritto costituzionale all’Università Cattolica di Milano. Pur senza essere esplicitamente nominato, l’ex commissario alla spending review del governo Letta – ormai ospite fisso dei maggiori talkshow, incluso il salotto televisivo di Fabio Fazio – è definito “Manciurian candidate”, cioè cavallo di Troia e quinta colonna di poteri esterni al nostro paese. Letteralmente: «Un economista che rilascia interviste da premier in pectore, facendo della riduzione del deficit e del debito il comandamento di una religione secolare». Tutto questo, «in attesa che il patto M5S-Lega si rompa, magari con l’aiuto del Colle», cioè di quel Mattarella che la candidatura Cottarelli l’aveva agitata come minaccia, in alternativa a quella di Conte, subito dopo aver bocciato la proposta di Paolo Savona come ministro dell’economia. Neoliberista, a lungo dirigente del Fmi, Cottarelli è considerato – insieme a Mario Draghi, allora dirigente di Goldman Sachs – uno dei maggiori responsabili della catastrofe abbattutasi sulla Grecia. Da tempo ci prova anche con l’Italia. La sua ricetta? Quella di Monti: deprimere l’economia tagliando il deficit. Agisce da solo, Cottarelli? Niente affatto: si muove in tandem con Emmanuel Macron.

  • Barcellona spacca l’Ue, e l’esercito tedesco teme il peggio

    Scritto il 13/11/17 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    La Catalogna? «Sono pazzi se pensano di cavarsela in questo modo», cioè lavandosene le mani. «Immaginate che il Belgio “ceda” Puidgemont, l’uomo il cui movimento ha portato la nonviolenza a un livello nuovo e moderno, e immaginate che Rajoy lo condanni a 30 anni di carcere, e che lo stesso individuo il giorno dopo sieda a qualche meeting a Bruxelles. Che quadro verrebbe dipinto davanti agli occhi di 500 milioni di cittadini europei?». Per Raul Ilargi Meijer, semplicemente, l’Unione Europea sta per collassare. Lo scrive in un post su “The Automatic Earth”, ripreso da “Zero Hedge” e tradotto da “Voci dall’Estero”, che osserva: «La situazione attuale non fa altro che esporre per l’ennesima volta la totale inettitudine delle istituzioni unioniste di Bruxelles», mentre nel frattempo «il paese più potente, il vero egemone, la Germania, lascia fare». Ma attenzione: «Le forze armate tedesche si preparano al “caso peggiore”, quello di crollo della Ue». Secondo lo “Spiegel”, infatti, gli strateghi militari della Bundeswehr, per la prima volta, ritengono possibile la fine dell’euro-sistema. E cominciano a preparare piani per proteggere la Germania da un ipotetico collasso dell’Unione Europea.
    «Se c’è una cosa che la diatriba tra Spagna e Catalogna può servire a ricordare è la Turchia», scrive Raul Ilargi Meijer. «Per la Ue si tratta di un problema molto più grosso di quanto si pensi». Innanzitutto, premette, Bruxelles non può più continuare a insistere sul fatto che si tratti di un problema interno della Spagna – almeno, non da quanto il presidente catalano Puidgemont è… a Bruxelles, dove si trovano anche altri quattro membri del suo governo. «Questa situazione sposta le decisioni dal sistema giudiziario spagnolo alla sua controparte belga. E le due parti non sono esattamente gemelle, nonostante si tratti di due paesi che fanno parte della Ue. Questo – prosegue l’analista – porta alla luce un problema europeo piuttosto importante: la mancanza di omogeneità nei sistemi giudiziari. I cittadini dei paesi Ue sono liberi di spostarsi e di lavorare in tutti i paesi della Ue, ma sono comunque soggetti a diversi sistemi legislativi e a diverse costituzioni». E il modo in cui il governo spagnolo sta cercando di mettere le mani su Puidgemont, scrive Meijer, «è esattamente lo stesso in cui il presidente turco Erdogan sta cercando di catturare il suo presunto arcinemico, Fethullah Gülen, che da tempo è residente in Pennsylvania».
    Come noto, gli Usa non sono disposti a estradare Gülen, «nemmeno ora che la Turchia mette sotto arresto il personale delle ambasciate statunitensi». E’ evidente: «Gli americani ne hanno avuto abbastanza di Erdogan». L’autocrate turco accusa Gülen di aver organizzato un colpo di Stato? «Il primo ministro spagnolo Rajoy accusa il governo catalano esattamente della stessa cosa». Non si tratta, però, dello stesso tipo di colpo di Stato: «Quello turco è stato caratterizzato da violenza e morte. Quello spagnolo invece non lo è stato, o almeno non lo è stato da parte di chi oggi viene accusato di aver condotto questa azione». Secondo Raul Ilargi Meijer, «Bruxelles avrebbe dovuto intervenire nel caos catalano già da molto tempo, invocando un incontro e una composizione pacifica, anziché insistere sul fatto che tutto questo non avesse a che vedere con la Ue, come invece è stato vigliaccamente e facilmente affermato». Logico: «O sei un’Unione oppure non lo sei. Se lo sei, allora è tua responsabilità garantire il benessere di tutti i tuoi cittadini. Non puoi fare distinzioni e preferenze, devi essere coerente».
    Il giornale belga “De Standaard” ha fatto una curiosa distinzione: ha detto che al sistema giudiziario belga non è stato chiesto di “estradare” (uitlevering) Puidgemont in Spagna, ma di cederlo (overlevering). È questo l’assurdo lessico del “legalese”. L’articolo ha anche affermato che il caso sarà portato davanti a tre diverse corti giudiziarie, ciascuna delle quali avrà 15 giorni per annunciare una propria decisione. Per questo motivo Puidgemont è al sicuro per almeno un mese e mezzo. Poi, per il 21 dicembre, Rajoy ha indetto le elezioni in Catalogna. In vista di queste, si dice che voglia bandire come illegali diversi partiti: «Non sorprendetevi se tra questi ci sarà il partito di Puidgemont», scrive Raul Ilargi Meijer. «Peraltro, se anche il presidente catalano democraticamente eletto dovesse perdere tutti i ricorsi a sua disposizione, potrebbe sempre chiedere asilo politico al Belgio (a quanto pare il Belgio è l’unico paese Ue a cui i cittadini Ue possano chiedere asilo politico). A quel punto ci troveremmo in una situazione giudiziaria alquanto caotica, che vedrà la Spagna contro il Belgio contro la Ue. In un certo senso questo sarebbe un fatto positivo, perché metterebbe alla prova un sistema che non è affatto preparato a tutte queste divergenze».
    Per l’Unione Europea, però, sarebbe l’ennesimo disastro: la Ue «ha già mostrato zero capacità di leadership in questo caso politico, sia da parte dei suoi vertici come il capo della Commissione Europea, Juncker, sia da parte di Angela Merkel, il suo capo di Stato più potente». E quindi, aggiunge Meijer, come potremmo non pensare che l’Unione Europea sia completamente alla deriva? «Da questo punto di vista si tratta di una situazione non meno grave della crisi dei rifugiati o della decapitazione dell’economia greca». Francamente, «la minaccia di infliggere condanne a 30 anni di prigione a persone che hanno solamente organizzato un’elezione pacifica non è esattamente ciò per cui la Ue dovrebbe battersi», aggiunge l’analista. «E adesso che sta avvenendo, questo minaccia la sua stessa sopravvivenza». E’ un fatto: «L’Europa non può essere la terra di Francisco Franco o di Erdogan. Non può voltarsi dall’altra parte e pretendere di andare avanti». Potrebbe essere questo il motivo per il quale le forze armate tedesche, la Bundeswehr, hanno preparato un rapporto che considera gli scenari futuri per l’Europa, inclusi i peggiori.
    Gli strateghi tedeschi, secondo “Der Spiegel”, ammettono di prendere in considerazione anche gli scenari più catastrofici. «La Bundeswehr – scrive il giornale tedesco – ritiene che la fine dell’Occidente nella sua forma attuale sia una possibilità che potrebbe verificarsi entro i prossimi decenni». Lo si afferma in un documento redatto a febbraio dalla difesa, “Prospettive strategiche 2040”, finora passato sotto silenzio. «Per la prima volta nella storia, questo documento di 102 pagine della Bundeswehr mostra come le tendenze nella società e i conflitti internazionali possano influenzare le politiche di sicurezza tedesche dei decenni a venire». Lo studio quindi «definisce il quadro entro il quale la Bundeswehr dovrà probabilmente muoversi nel prossimo futuro». In uno degli scenari (“La disintegrazione della Ue e la Germania in modalità reattiva”) gli autori ipotizzano una serie di “contrapposizioni multiple”. «Le proiezioni future descrivono un mondo nel quale l’ordine internazionale sarà eroso dopo “decenni di instabilità”, e dove i sistemi di valori globali divergeranno e la globalizzazione avrà termine».
    «L’ampliamento della Ue è stato un obiettivo per lo più abbandonato, già altri paesi hanno lasciato il blocco Ue e l’Europa ha perso la sua competitività globale», scrive uno stratega della Bundeswehr. «Un mondo sempre più caotico e propenso al conflitto ha mutato drasticamente il contesto della difesa per la Germania e l’Europa». Nel quinto scenario esaminato (“Oriente contro Occidente”), alcuni paesi della Ue orientale bloccano il processo di integrazione europea mentre altri hanno già «aderito al blocco orientale». Nel quarto scenario (“competizione multipolare”) l’estremismo è in crescita e ci sono paesi Ue che «occasionalmente sembrano avvicinarsi al modello russo» di capitalismo statale. Il documento non fa espressamente alcuna previsione, ma tutti gli scenari sembrano «verosimili entro il 2040», scrivono gli autori. «E’ abbastanza divertente notare – chiosa Raul Ilargi Meijer – che le “proiezioni future” assomigliano proprio alla Ue di oggi, almeno per come la vedo io, non a quella del 2040». Angela Merkel «può anche passare tutto il suo tempo a pronunciare discorsi pro-Ue», come gli altri  leader europei, «ma il suo esercito ha dei seri dubbi su tutto ciò: e di fronte alla palude che si è aperta col caso catalano, chi potrebbe più dubitare che abbiano ragione ad avere dubbi?».
    Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca perseguono obiettivi completamente diversi da quelli dei Paesi Bassi e della Germania, osserva l’analista. E in Francia, Macron si sta rendendo conto che potrà farà solo quello la Merkel gli permetterà di fare. «E ora ecco che arriva la Spagna e cerca di comminare leggi franchiste e violenza ai suoi cittadini. Bruxelles non fa nulla, Berlino non fa nulla. I rifugiati possono restarsene a marcire sulle isole greche se i paesi dell’Est non li vogliono, e le nonne catalane vengono massacrate dalle truppe franchiste mentre Bruxelles non trova proprio niente da ridire». La Bruxelles di oggi, anota Meijer, è il culmine di 50-60 anni di progressiva istituzionalizzazione: non è cosa che si possa cambiare con un’elezione qua o là. «La Catalogna sarà la fine dei giochi per Bruxelles? O lo sarà invece la crisi dei rifugiati? Lo sarà la Brexit? E’ impossibile dirlo, ma ciò che è sicuro è che allo stato attuale l’Unione non ha futuro, e al tempo stesso non c’è alcuna soluzione in vista». I poteri di Bruxelles sono ben radicati, «e non hanno alcuna intenzione di abdicare solo perché lo vuole qualche paese, o parte di qualche paese, o qualche partito politico, o qualche gruppo di elettori». E’ la dura realtà: «L’Ue è profondamente antidemocratica e ha tutta l’intenzione di rimanerlo».

    La Catalogna? «Sono pazzi se pensano di cavarsela in questo modo», cioè lavandosene le mani. «Immaginate che il Belgio “ceda” Puidgemont, l’uomo il cui movimento ha portato la nonviolenza a un livello nuovo e moderno, e immaginate che Rajoy lo condanni a 30 anni di carcere, e che lo stesso individuo il giorno dopo sieda a qualche meeting a Bruxelles. Che quadro verrebbe dipinto davanti agli occhi di 500 milioni di cittadini europei?». Per Raul Ilargi Meijer, semplicemente, l’Unione Europea sta per collassare. Lo scrive in un post su “The Automatic Earth”, ripreso da “Zero Hedge” e tradotto da “Voci dall’Estero”, che osserva: «La situazione attuale non fa altro che esporre per l’ennesima volta la totale inettitudine delle istituzioni unioniste di Bruxelles», mentre nel frattempo «il paese più potente, il vero egemone, la Germania, lascia fare». Ma attenzione: «Le forze armate tedesche si preparano al “caso peggiore”, quello di crollo della Ue». Secondo lo “Spiegel”, infatti, gli strateghi militari della Bundeswehr, per la prima volta, ritengono possibile la fine dell’euro-sistema. E cominciano a preparare piani per proteggere la Germania da un ipotetico collasso dell’Unione Europea.

  • Esercito europeo sotto il comando tedesco: sta nascendo

    Scritto il 03/6/17 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Ogni pochi anni, l’idea di un esercito dell’Ue torna a farsi strada tra le notizie, facendo molto rumore. Per alcuni è un’idea fantastica, per altri un incubo: per ogni federalista di Bruxelles convinto che una forza di difesa comune sia ciò che serve all’Europa per rilanciare la sua posizione nel mondo, ci sono quelli, a Londra e altrove, che inorridiscono all’idea di un potenziale rivale della Nato. Ma quest’anno, lontano dall’attenzione dei media, la Germania e due dei suoi alleati europei, la Repubblica Ceca e la Romania, hanno silenziosamente fatto un passo  avanti radicale verso un qualcosa che assomiglia ad un esercito Ue, evitando le complicazioni politiche che questo passo comporta: hanno annunciato l’integrazione delle loro forze armate. L’intero esercito della Romania non si unirà alla Bundeswehr, né le forze armate ceche diventeranno una semplice divisione tedesca. Ma nei prossimi mesi, ciascun paese integrerà una brigata nelle forze armate tedesche: l’81a Brigata Meccanizzata della Romania si unirà alla Divisione delle Forze di Risposta Rapida della Bundeswehr, mentre la 4a Brigata di Dispiegamento Rapido della Repubblica Ceca, che ha servito in Afghanistan e in Kosovo ed è considerata la punta di lancia dell’esercito ceco, diventerà parte della Decima Divisione Blindata tedesca.
    Così facendo, seguiranno le orme di due brigate olandesi, una delle quali è già entrata a far parte della Divisione delle Forze di Risposta Rapida mentre l’altra è stata integrata nella Prima Divisione Blindata della Bundeswehr. Secondo Carlo Masala, professore di politica internazionale presso l’Università della Bundeswehr a Monaco di Baviera, «il governo tedesco si sta dimostrando disposto a procedere verso l’integrazione militare europea» – anche se altri paesi del continente ancora non lo sono. Il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker ha ripetutamente ventilato l’idea di un esercito dell’Unione Europea, solo per ricevere in risposta derisione o un imbarazzato silenzio. È così anche adesso che l’Uk, eterno nemico dell’idea, sta uscendo dall’unione. C’è poco accordo tra i rimanenti Stati membri su come dovrebbe essere organizzata esattamente una simile forza e a quali competenze le forze armate nazionali dovrebbero conseguentemente rinunciare. E così il progresso è stato lento. A marzo di quest’anno, l’Unione Europea ha creato un quartier generale militare congiunto – ma ha soltanto la responsabilità dell’addestramento delle missioni in Somalia, Mali e Repubblica Centrafricana e ha un magro personale di 30 unità.
    Sono state progettate anche altre forze multinazionali, come il Gruppo da Battaglia del Nord, una piccola forza di reazione rapida di 2.400 militari formata dagli Stati baltici, da diversi paesi nordici e dai Paesi Bassi, e la Forza Congiunta di Spedizione della Gran Bretagna, una “mini Nato” i cui membri includono gli Stati baltici, la Svezia e la Finlandia. Ma in assenza di adeguate opportunità di schieramento, questi gruppi operativi potrebbero anche non esistere. Tuttavia sotto la blanda etichetta del Framework Nations Concept, la Germania ha lavorato a qualcosa di molto più ambizioso: la creazione di quella che sostanzialmente è una rete di mini-eserciti europei, guidata dalla Bundeswehr. «L’iniziativa è scaturita dalla debolezza della Bundeswehr», ha dichiarato Justyna Gotkowska, analista di sicurezza dell’Europa settentrionale presso il think-tank polacco Centro per gli Studi Orientali. «I tedeschi hanno capito che la Bundeswehr doveva colmare le lacune delle sue forze terrestri… per guadagnare influenza politica e militare all’interno della Nato». Un aiuto da parte dei partner potrebbe essere la carta migliore a disposizione della Germania per rinforzare rapidamente il suo esercito – e i mini-eserciti a guida tedesca potrebbero essere l’opzione più realistica per l’Europa, se deve considerare seriamente la sicurezza comune. «È un tentativo per impedire che la sicurezza comune europea fallisca completamente», ha detto Masala.
    “Lacune” della Bundeswehr è un eufemismo. Nel 1989, il governo della Germania Occidentale spendeva il 2,7% del Pil per la difesa, ma nel 2000 questa spesa era scesa all’1,4%, dove è rimasta per anni. Infatti, tra il 2013 e il 2016, la spesa per la difesa è rimasta bloccata all’1,2% – lontano dal livello di riferimento del 2% della Nato. In un rapporto del 2014 al Bundestag, il Parlamento tedesco, gli ispettori generali della Bundeswehr hanno presentato un quadro imbarazzante: la maggior parte degli elicotteri della Marina non funzionava e dei 64 elicotteri dell’esercito solo 18 erano utilizzabili. E mentre la Bundeswehr della Guerra Fredda era composta da 370.000 soldati, la scorsa estate era forte soltanto di 176.015 tra uomini e donne. Da allora la Bundeswehr è cresciuta a più di 178.000 soldati attivi; l’anno scorso il governo ha aumentato i finanziamenti del 4,2%, e quest’anno la spesa per la difesa crescerà dell’8%. Ma la Germania è ancora molto lontana dalla Francia e dall’Uk come forza militare. E l’aumento della spesa per la difesa non è immune da polemiche in Germania, dato che il paese è consapevole della propria storia come potenza militare.
    Il ministro degli esteri Sigmar Gabriel ha recentemente affermato che è «completamente irrealistico» pensare che la Germania raggiunga il riferimento di spesa per la difesa della Nato del 2% del Pil – anche se quasi tutti gli alleati della Germania, dai più piccoli paesi  europei agli Stati Uniti, la stanno sollecitando ad avere un ruolo militare più importante nel mondo. La Germania può non avere ancora la volontà politica di espandere le sue forze militari alle dimensioni che molti sperano – ma ciò che ha avuto dal 2013 è il Framework Nations Concept. Per la Germania, l’idea è di condividere le sue risorse con i paesi più piccoli in cambio dell’uso delle loro truppe. Per questi paesi più piccoli, l’iniziativa è un modo per far sì che la Germania sia più coinvolta nella sicurezza europea, evitando la difficile politica dell’espansione militare tedesca. «È un passo verso una maggiore indipendenza militare europea», ha detto Masala. «L’Uk e la Francia non sono disposte a prendere la guida della sicurezza europea». L’Uk è in un via di collisione con i suoi alleati dell’Ue, mentre la Francia, un peso massimo militare, ha spesso mostrato riluttanza verso le operazioni multinazionali della Nato. «Resta solo la Germania», ha detto.
    Operativamente, le risultanti unità bi-nazionali sono maggiormente dispiegabili perché sono permanenti (la maggior parte delle unità multinazionali fino ad ora sono state temporanee). Questo amplifica in modo determinante il potere militare dei paesi partner. E se la Germania decidesse di schierare un’unità integrata, potrebbe farlo solo con il consenso del partner minoritario. Naturalmente, dal 1945 la Germania è stata straordinariamente riluttante a dispiegare il suo esercito all’estero, addirittura  fino al 1990 ha vietato alla Bundeswehr di schierarsi fuori dai confini. In effetti, i partner minoritari – e quelli potenziali – sperano che il Framework Nations Concept farà assumere alla Germania più responsabilità nella sicurezza europea. Finora, la Germania e i suoi mini-eserciti multinazionali non sono altro che delle iniziative su piccola scala, ben lontane da un vero esercito europeo. Ma è probabile che l’iniziativa cresca.
    I partner della Germania hanno sfruttato i vantaggi pratici dell’integrazione: per la Romania e la Repubblica Ceca, significa portare le proprie truppe allo stesso livello di addestramento delle forze tedesche; per i Paesi Bassi, ha significato riconquistare competenze coi carri armati (gli olandesi avevano venduto l’ultimo dei loro carri armati nel 2011, ma le truppe della 43a Brigata Meccanizzata, che sono in parte acquartierate con la Prima Divisione Blindata nella città tedesca occidentale di Oldenburg, ora guidano i carri armati tedeschi e potrebbero utilizzarli se schierati con il resto dell’esercito olandese). Il colonnello Anthony Leuvering, comandante della 43a Meccanizzata di base a Oldenburg, mi ha detto che l’integrazione ha avuto veramente pochi intoppi: «La Bundeswehr ha circa 180.000 unità, ma i tedeschi non ci trattano come l’ultima ruota del carro». Si aspetta che altri paesi si uniscano all’iniziativa: «Molti, molti paesi vogliono collaborare con la Bundeswehr». La Bundeswehr, a sua volta, ha in mente un elenco di partner secondari, ha dichiarato Robin Allers, un professore tedesco, associato presso l’Istituto norvegese per gli Studi sulla Difesa, che ha visto l’elenco dell’esercito tedesco.
    Secondo Masala, i paesi scandinavi, che già utilizzano una grande quantità di apparecchiature tedesche, sarebbero i migliori candidati per il prossimo ciclo di integrazione nella Bundeswehr. Finora, l’approccio empirico di basso profilo del Framework Nations Concept è andato a vantaggio delle Germania; poche persone in Europa hanno obiettato all’integrazione di unità olandesi o rumene con le divisioni tedesche, in parte perché potrebbero non averla notata. E’ meno chiaro se ci saranno ripercussioni politiche nel caso in cui  più nazioni dovessero unirsi all’iniziativa. Al di fuori della politica, il vero test sul valore del Framework Nations Concept sarà il successo in combattimento delle unità integrate. Ma la parte più complessa dell’integrazione, sul campo di battaglia e fuori, potrebbe rivelarsi la ricerca di una lingua franca. Le truppe dovrebbero imparare le lingue gli uni degli altri? O il partner minoritario dovrebbe parlare tedesco? Il Colonello Leuvering, olandese di lingua tedesca, riferisce che la divisione bi-nazionale di Oldenburg si sta orientando verso l’uso dell’inglese.
    (Elisabeth Braw, “La Germania sta costruendo un esercito europeo sotto il suo comando”, da “Foreign Policy” del 22 maggio 2017, articolo tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).

    Ogni pochi anni, l’idea di un esercito dell’Ue torna a farsi strada tra le notizie, facendo molto rumore. Per alcuni è un’idea fantastica, per altri un incubo: per ogni federalista di Bruxelles convinto che una forza di difesa comune sia ciò che serve all’Europa per rilanciare la sua posizione nel mondo, ci sono quelli, a Londra e altrove, che inorridiscono all’idea di un potenziale rivale della Nato. Ma quest’anno, lontano dall’attenzione dei media, la Germania e due dei suoi alleati europei, la Repubblica Ceca e la Romania, hanno silenziosamente fatto un passo  avanti radicale verso un qualcosa che assomiglia ad un esercito Ue, evitando le complicazioni politiche che questo passo comporta: hanno annunciato l’integrazione delle loro forze armate. L’intero esercito della Romania non si unirà alla Bundeswehr, né le forze armate ceche diventeranno una semplice divisione tedesca. Ma nei prossimi mesi, ciascun paese integrerà una brigata nelle forze armate tedesche: l’81a Brigata Meccanizzata della Romania si unirà alla Divisione delle Forze di Risposta Rapida della Bundeswehr, mentre la 4a Brigata di Dispiegamento Rapido della Repubblica Ceca, che ha servito in Afghanistan e in Kosovo ed è considerata la punta di lancia dell’esercito ceco, diventerà parte della Decima Divisione Blindata tedesca.

  • Tank sul fronte russo, comincia l’ultima guerra di Obama

    Scritto il 05/1/17 • nella Categoria: segnalazioni • (7)

    La notizia ha dell’incredibile, ma è vera: per la stampa tedesca, stiamo assistendo alla più grande operazione di riposizionamento dell’esercito Usa in Germania dal 1990. «Più di 2.000 carri armati, obici, jeep e automezzi stanno per essere impiegati nelle esercitazioni Nato nell’Europa dell’Est che dureranno nove mesi», scrive Johannes Stern. Lo stato maggiore della Bundeswehr conferma: colossale dislocazione di forse Usa e Nato in Polonia e negli Stati baltici, proprio mentre Obama tenta – anche con la “guerra delle spie” – di incendiare la frontiera orientale, alla vigilia dell’insediamento di Donald Trump, ostacolato in ogni modo. La situazione starebbe precipitando, dopo l’impegno della Russia per la liberazione di Aleppo, a lungo ostaggio di milizie “Isis” capeggiate da leader del Caucaso e dai combattenti di Al-Nusra, altrimenti detta “Al-Qaeda in Siria”, formazione creata, protetta e armata dall’intelligence occidentale. Persa la Siria, ora si enfatizza l’operazione “Atlantic Resolve”, spettacolare (e pericolosa) provocazione alle frontiere con la Russia, cui Obama non perdona l’aver reagito al golpe americano in Ucraina mantenendo il controllo della Crimea.
    A scandire le news, nei primissimi giorni del 2017, sono le fonti delle forze armate tedesche, racconta Stern in un articolo su “Wsws” ripreso da “Come Don Chisciotte”: oltre 2.500 mezzi militari Usa hanno appena raggiunto la Germania «per essere trasportati in Polonia ed in altri paesi dell’Europa Centrale e dell’Est». Il materiale deve «arrivare nel periodo compreso fra il 6 e l’8 gennaio a Bremerhaven via mare e quindi essere trasferito in Polonia per via ferroviaria e convogli militari a partire approssimativamente dal 20 gennaio», cioè il giorno in cui dovrebbe finalmente installarsi Trump alla Casa Bianca. Sempre secondo comunicati diffusi dall’esercito statunitense in Europa, continua Stern, altri 4.000 militari e 2.000 carri armati «contribuiranno a rafforzare la forza di dissuasione e difesa dell’alleanza». Il colonnello Todd Bertulis dell’Eucom, il comando Usa in Europa di stanza a Stoccarda, ha affermato che l’operazione assicurerà che «la potenza di fuoco necessaria verrà schierata in Europa nel posto giusto al momento giusto». E il generale Frederick “Ben” Hodges, comandante delle forze americane in Europa, aggiunge: «E’ una risposta all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ed alla sua illegale annessione della Crimea».
    Il che è palesemente falso, ricorda Johannes Stern: «In Ucraina non è la Russia l’aggressore, ma lo sono Usa e Nato», dal momento che «Washington e Berlino, in stretta collaborazione con le forze fasciste, hanno organizzato un colpo di Stato contro il presidente filorusso, Viktor Yanukovych, agli inizi del 2014, insediando a Kiev un regime nazionalista, fanaticamente antirusso». Mossa che «ha fatto esplodere la ribellione separatista da parte delle regioni russofone nella parte orientale del paese». Una rivolta che Mosca ha sostenuto, e che il governo di Kiev, sorretto dalle armi e dai soldi occidentali, ha tentato senza successo di reprimere con la forza. «Quanto successo in Ucraina è stato sfruttato dagli Usa, dall’Unione Europea e dalla Nato per imporre sanzioni economiche e diplomatiche alla Russia ed espandere drammaticamente le forze militari della Nato lungo il suo confine occidentale». E ora, «volendo giocare d’anticipo rispetto al 20 gennaio, inizio del mandato del nuovo presidente eletto Usa Donald Trump», che ha chiesto di abbassare il livello della tensione con la Russia, «forze contrarie all’interno dell’intelligence militare Usa e dell’establishment politico stanno cercando un’escalation nel confronto con Mosca».
    Ad aprire il fuoco è lo stesso generale Hodges, secondo cui la Russia si starebbe «preparando per la guerra», con «ministeri già mobilitati». Nulla di inevitabile, per ora, «ma Mosca si sta preparando per questa evenienza». Lo spiegamento delle truppe da combattimento Usa, osserva Stern, fa parte della preparazione della Nato per una possibile guerra contro la Russia, «il culmine di una continua espansione della Nato verso est», in aperta violazione degli storici accordi conclusi con Gorbaciov in cambio del ritiro dell’Urss dall’Est Europa. Evidente l’altra guerra, sotterranea, in corso a Washington: mentre Trump scoraggia il futuro della Nato in chiave anti-russa, il senatore John McCain (fotografato tempo fa in Siria con il “Califfo” Abu-Bark Al-Baghdadi) ha appena visitato gli Stati Baltici per rassicurarli sul fatto che il supporto degli Stati Uniti continuerà. In un’intervista alla radio dell’Estonia, McCain ha chiesto un ulteriore rafforzamento delle forze Nato contro la Russia. E ha dichiarato che ogni «membro credibile» del Congresso americano vede il presidente russo Vladimir Putin «per quello che è», ovvero «un delinquente, un prepotente e un agente del Kgb».
    Nella pericolosa escalation nei confronti della potenza nucleare Russia, che pone le premesse per una Terza Guerra Mondiale, la Bundeswehr ha un ruolo centrale, osserva Stern: «Senza il supporto delle forze armate tedesche non possiamo andare da nessuna parte», ha affermato il generale Hodges. E il generale Peter Bohrer, vicecapo del Joint Support Service, è d’accordo: «In passato la Germania era uno Stato di frontiera, oggi siamo una zona di transito ed uno dei compiti-chiave è fornire un comune supporto». Aggiunge Stern, con un occhio alla storia: «La Germania, che avanzò sull’Europa dell’Est nella sua guerra di sterminio 75 anni fa, si prepara a mandare truppe da combattimento nei paesi baltici». In un’intervista al giornale militare “Bundeswehr Aktuell”, il generale Volker Wieker ha confermato che la Germania ha concordato con Stati Uniti, Canada e Gran Bretagna al summit della Nato tenutosi a Varsavia di «prendere il comando con chi formasse un gruppo di battaglia». Si conta di «acquisire la cosiddetta “capacità operativa completa” per la metà dell’anno”». Un video riportato dal “Frankfurter Allgemeine Zeitung” mostra le manovre di un battaglione tedesco a Grafenwöhr, contro «un attacco nemico al confine russo-lituano». Ancora pochi giorni, per capire se Trump – qualora riuscisse a insediarsi davvero nello Studio Ovale – spegnerà rapidamente l’incendio.

    La notizia ha dell’incredibile, ma è vera: per la stampa tedesca, stiamo assistendo alla più grande operazione di riposizionamento dell’esercito Usa in Germania dal 1990. «Più di 2.000 carri armati, obici, jeep e automezzi stanno per essere impiegati nelle esercitazioni Nato nell’Europa dell’Est che dureranno nove mesi», scrive Johannes Stern. Lo stato maggiore della Bundeswehr conferma: colossale dislocazione di forze Usa e Nato in Polonia e negli Stati baltici, proprio mentre Obama tenta – anche con la “guerra delle spie” – di incendiare la frontiera orientale, alla vigilia dell’insediamento di Donald Trump, ostacolato in ogni modo. La situazione starebbe precipitando, dopo l’impegno della Russia per la liberazione di Aleppo, a lungo ostaggio di milizie “Isis” capeggiate da leader del Caucaso e dai combattenti di Al-Nusra, altrimenti detta “Al-Qaeda in Siria”, formazione creata, protetta e armata dall’intelligence occidentale. Persa la Siria, ora si enfatizza l’operazione “Atlantic Resolve”, spettacolare (e pericolosa) provocazione alle frontiere con la Russia, cui Obama non perdona l’aver reagito al golpe americano in Ucraina mantenendo il controllo della Crimea.

  • I leader Ue sono marci: tangenti da 120 miliardi l’anno

    Scritto il 10/6/14 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    L’Europa è malata. Quanto gravemente è questione non sempre facile da giudicare. Ma tra i sintomi ce ne sono tre di cospicui, e interrelati.  Il primo, e più familiare, è la svolta degenerativa della democrazia in tutto il continente, di cui la struttura della Ue è a un tempo la causa e la conseguenza. Lo stampo oligarchico delle sue scelte costituzionali, a suo tempo concepite come impalcatura di una sovranità popolare a venire di scala sovranazionale, nel tempo si è costantemente rafforzato. I referendum sono regolarmente sovvertiti se intralciano la volontà dei governanti. Gli elettori le cui idee sono disdegnate dalle élite rigettano i governi che nominalmente li rappresentano, l’affluenza alle urne cala di elezione in elezione. Burocrati che non sono mai stati eletti controllano i bilanci dei parlamenti nazionali espropriati del potere di spesa. All’involuzione generalizzata si è accompagnata una corruzione pervasiva della classe politica, argomento su cui le scienze politiche, parecchio loquaci a proposito di quello che nel linguaggio dei contabili è definito il deficit democratico dell’Unione, solitamente tacciono.
    Le forme di tale corruzione devono ancora trovare una tassonomia sistematica. C’è la corruzione pre-elettorale: il finanziamento di persone e partiti da fonti illegali – o legali – contro la promessa, esplicita o tacita, di futuri favori. C’è la corruzione post-elettorale: l’uso delle cariche per ottenere fondi mediante malversazioni sulle entrate o mazzette sui contratti. C’è l’acquisto di voci o voti nei parlamenti. C’è il furto puro e semplice dalle casse pubbliche. C’è la falsificazione di credenziali per vantaggi politici. C’è l’arricchimento dalla carica pubblica dopo l’evento, così come durante o prima di esso. Il panorama di questa malavita è impressionante. Un affresco di esso potrebbe cominciare con Helmut Kohl, governante della Germania per sedici anni, che accumulò due milioni di marchi di fondi neri da donatori illegali i cui nomi, quando fu denunciato, rifiutò di rivelare per timore che venissero alla luce i favori che aveva fatto loro. Oltre il Reno, Jacques Chirac, presidente della Repubblica Francese per dodici anni, fu condannato per appropriazione di fondi pubblici, abuso di ufficio e conflitti d’interesse, una volta caduta l’immunità. Nessuno dei due ha subito pene. Questi erano due dei più potenti politici dell’epoca in Europa.
    In Germania il governo di Gerhard Schroeder garantì un prestito da un miliardo di euro alla Gazprom per la costruzione di un gasdotto sul baltico poche settimane prima che egli si dimettesse da cancelliere e andasse a libro paga della Gazprom con uno stipendio maggiore di quello che aveva ricevuto governando il paese. Dopo la sua partenza, Angela Merkel ha visto due presidenti della repubblica, uno dietro l’altro, costretti a dimettersi da screditati: Horst Koehler, ex capo del Fmi, per aver spiegato che il contingente della Bundeswehr in Afghanistan stava proteggendo interessi commerciali tedeschi; e Christian Wulff, ex capo cristiano-democratico della Bassa Sassonia, per un prestito discutibile ricevuto da un affarista amico per la sua casa. Due ministri eminenti, uno della difesa e l’altro dell’istruzione, hanno dovuto andarsene quando sono stati privati dei loro dottorati – una credenziale importante per una carriera politica nella Repubblica Federale – per violazione dei diritti di proprietà intellettuale. Quando il secondo, Annette Schavan, un’intima amica della Merkel (che aveva manifestato piena fiducia in lei) era ancora in carica, il “Bild Zeitung” ha osservato che avere un ministro dell’istruzione che aveva falsificato le sue ricerche era come avere un ministro delle finanze con un conto segreto in Svizzera.
    In Francia il ministro socialista del bilancio, il chirurgo plastico Jérôme Cahuzac, la cui direttiva era di difendere la probità e l’equità fiscale, è stato scoperto detenere qualcosa tra i 600.000 e i 15 milioni di euro in depositi segreti in Svizzera e a Singapore. Nicolas Sarkozy, nel frattempo, è accusato da testimoni concordi di aver ricevuto circa 20 milioni di dollari da Gheddafi per la campagna elettorale che lo portò alla presidenza. Christine Lagarde, il suo ministro delle finanze, che oggi dirige il Fmi, è sotto inchiesta per il suo ruolo nella concessione di 420 milioni di dollari di ‘risarcimento’ a Bernard Tapie, un ben noto truffatore con un passato in carcere, negli ultimi tempi amico di Sarkozy. Contiguità disinvolta con la criminalità è bipartisan. François Hollande, attuale presidente della repubblica, usava come pied-à-terre  per gli incontri con la sua amante un appartamento della donna di un gangster corso, ucciso l’anno scorso in una sparatoria sull’isola.
    In Gran Bretagna, circa nello stesso periodo, l’ex premier Blair consigliava a Rebekah Brooks, che rischiava il carcere per cinque accuse di cospirazione criminale («Sii forte e prendi pastiglie per dormire. Passerà») e la sollecitava a «pubblicare un rapporto in stile Hutton», come aveva fatto lui per sterilizzare qualsiasi parte il suo governo potesse aver avuto nella morte di una fonte interna che aveva fatto rivelazioni sulla sua guerra in Iraq: un’invasione dalla quale ha poi proseguito a raccogliere – naturalmente per la sua Fondazione Faith – mance e contratti assortiti in giro per il mondo, considerevoli fondi in contanti da una compagnia petrolifera della Corea del Sud gestita da un delinquente condannato con interessi in Iraq e presso la dinastia feudale del Kuwait. Quali ricompense possa essersi guadagnato più a est resta da vedere («I progressi del Kazakistan sono splendidi. Comunque, signor Presidente, lei ha toccato nuovi vertici nel suo messaggio alla nazione». Alla lettera.).
    In patria, in uno scambio di favori a proposito dei quali ha mentito compuntamente al Parlamento, le sue mani sono state unte da un milione di sterline versate alle casse del partito dal magnate delle corse automobilistiche Bernie Ecclestone, attualmente sotto giudizio in Baviera per tangenti al ritmo di 33 milioni di euro. Nella cultura del New Labour, figure di spicco della cerchia di Blair, ministri di gabinetto un tempo – Byers, Hoon, Hewitt – non sono stati in grado di offrirsi in vendita al successore. Negli stessi anni, indipendentemente dal partito, la Camera dei Comuni è stata denunciata come un pozzo nero di meschine malversazioni di denaro dei contribuenti. In Irlanda, contemporaneamente, il leader del Fianna Fàil, Bertie Ahern, avendo canalizzato più di 400.000 euro di pagamenti non spiegati prima di diventare “taioseach”, si è votato lo stipendio più elevato di qualsiasi premier in Europa – 310.000 euro, più persino del presidente degli Stati Uniti – un anno prima di doversene andare con disonore per assoluta disonestà.
    In Spagna l’attuale primo ministro, Mariano Rajoy, alla guida di un governo di destra, è stato colto con le mani nel sacco mentre riceveva mazzette per contratti di costruzione e di altro genere per un totale di un quarto di milione di euro nel giro di un decennio, passategli da Luis Bàrcenas. Tesoriere del suo partito per vent’anni, Bàrcenas è oggi sotto arresto per aver accumulato un tesoro di 48 milioni di euro in conti svizzeri non dichiarati. I libri mastri, compilati a mano, contenenti i dettagli dei suoi versamenti a Rajoy e ad altri notabili del Partito del Popolo – tra cui Rodrigo Rato, altro ex capo del Fmi – sono apparsi in facsimile in abbondanza sulla stampa spagnola. Una volta scoppiato lo scandalo Rajoy ha inviato a Bàrcenas un messaggio con parole virtualmente identiche a quelle di Blair alla Brooks: «Luis, io capisco. Resta forte. Ti chiamerò domani. Un abbraccio». Pur con uno scandalo in cui l’85% del pubblico spagnolo ritiene che egli menta, resta incollato alla poltrona nel Palazzo della Moncloa.
    In Grecia, Akis Thochatzopoulos, del Pasok – ministro, in successione, dell’interno, della difesa e dello sviluppo – in un’occasione arrivato a un soffio dalla guida della socialdemocrazia greca, è stato meno fortunato: condannato l’autunno scorso a vent’anni di carcere per una formidabile carriera di estorsioni e di riciclaggi di denaro sporco. Oltre il mare Tayyip Erdogan, a lungo celebrato dai media e dall’establishment intellettuale dell’Europa come il più grande statista democratico della Turchia, la cui condotta ha virtualmente dato al paese il titolo di membro onorario della Ue ante diem, ha dimostrato di essere meritevole di essere incluso nei ranghi della dirigenza europea in un altro modo: in una conversazione registrata in cui dava al figlio istruzioni su dove nascondere decine di milioni in contanti, in un’altra in cui alzava il prezzo di una robusta tangente su un contratto di costruzioni. Tre ministri del governo sono caduti dopo scoperte analoghe, prima che Erdogan purgasse le forze della polizia e della magistratura per assicurarsi che non si spingessero oltre.
    Mentre egli faceva questo la Commissione Europea ha pubblicato il suo primo rapporto ufficiale sulla corruzione nell’Unione, la cui dimensione il commissario autore del rapporto l’ha descritta come “mozzafiato”: secondo una stima prudente, costa alla Ue quanto l’intero bilancio dell’Unione, circa 120 miliardi l’anno, ma la cifra reale è «probabilmente molto più alta». Prudentemente il rapporto si è occupato solo degli stati membri. La stessa Ue, la cui intera Commissione fu costretta in tempi non lontani a dimettersi screditata, è stata esclusa (la Commissione Santer fu costretta a dimettersi nel 1999 per accuse di corruzione contro alcuni suoi membri). Diffuso in un’Unione che si presenta come tutore morale del mondo, l’inquinamento del potere ad opera del denaro e della frode deriva dallo svuotamento di sostanza o dalla caduta del coinvolgimento nella democrazia. Le élite, liberate sia da una reale divisione in alto sia da un significativo dovere di rispondere in basso, possono permettersi di arricchirsi alla follia e impunite. La denuncia cessa di contare molto, poiché l’impunità diviene la regola. Come i banchieri, i politici di spicco non finiscono in carcere.
    Ma la corruzione non è solo una funzione del declino dell’ordine politico. E’ anche, ovviamente, un sintomo del regime economico che si è impossessato dell’Europa a partire dagli anni ’80. In un universo neoliberista dove i mercati sono il metro del valore, il denaro diventa, più platealmente che mai, la misura di tutte le cose. Se ospedali, scuole e carceri possono essere privatizzati a fini di profitto delle imprese, perché non anche le cariche politiche? Oltre alla ricaduta culturale del neoliberismo, tuttavia, vi è l’impatto del sistema socio-economico, la terza e, nell’esperienza del popolo, di gran lunga più acuta delle malarie che affliggono l’Europa. Che la crisi economica scatenate in occidente nel 2008 sia stata il risultato di decenni di liberalizzazioni nel settore finanziario e di espansione del credito lo ammettono, più o meno, i loro stessi architetti; si veda Alan Greenspan. Collegate oltre Atlantico, le banche e le attività immobiliari europee erano già coinvolte nel disastro tanto quanto le loro omologhe statunitensi. Nella Ue, tuttavia, questa crisi generale è stata aggravata da un altro fattore peculiare dell’Unione, le distorsioni create dalla moneta unica imposta a economie nazionali molto diverse tra loro, spingendo le più vulnerabili di esse sull’orlo della bancarotta quando sono state colpite dalla crisi generale.
    (Perry Anderson, estratto dall’intervento “Il disastro italiano”, pubblicato da “Sinistra in rete” il 29 maggio 2014).

    L’Europa è malata. Quanto gravemente è questione non sempre facile da giudicare. Ma tra i sintomi ce ne sono tre di cospicui, e interrelati.  Il primo, e più familiare, è la svolta degenerativa della democrazia in tutto il continente, di cui la struttura della Ue è a un tempo la causa e la conseguenza. Lo stampo oligarchico delle sue scelte costituzionali, a suo tempo concepite come impalcatura di una sovranità popolare a venire di scala sovranazionale, nel tempo si è costantemente rafforzato. I referendum sono regolarmente sovvertiti se intralciano la volontà dei governanti. Gli elettori le cui idee sono disdegnate dalle élite rigettano i governi che nominalmente li rappresentano, l’affluenza alle urne cala di elezione in elezione. Burocrati che non sono mai stati eletti controllano i bilanci dei parlamenti nazionali espropriati del potere di spesa. All’involuzione generalizzata si è accompagnata una corruzione pervasiva della classe politica, argomento su cui le scienze politiche, parecchio loquaci a proposito di quello che nel linguaggio dei contabili è definito il deficit democratico dell’Unione, solitamente tacciono.

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