Archivio del Tag ‘camicia di forza’
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Draghi, l’Innominato: rifondare il futuro, vincendo la paura
Nei “Promessi Sposi”, l’Innominato è un potente masnadiero al quale i malvagi si rivolgono per il loro piano, che infatti va in porto, fino a quando è lo stesso Innominato – convertitosi al bene – a farlo saltare per aria, aprendo la strada alla felicità di Renzo e Lucia. In attesa di capire quanto possa esservi di realmente manzoniano, in Mario Draghi, risuonano le parole che ha pronunciato il 18 agosto 2020 – data storica, probabilmente – nel santuario cattolico militante del Meeting di Rimini, di fronte al silenzio urlante di una politica italiana azzerata da decenni di grigiore e ora letteralmente annichilita dal coronavirus, o meglio dalla gestione della paura – nazionale e mondiale – come unica bussola per il futuro. E qui si erge, di colpo, il gigante Mario Draghi: la prudenza sanitaria è obbligatoria, ma la sola paura non è accettabile. Urge un futuro degno di questo nome, e si chiama gioventù. Possiamo chiudere bottega, se “suicidiamo” un’intera generazione condannandola al panico perpetuo, sembra dire l’ex banchiere centrale, nei giorni in cui i media – a reti unificate, e in modo ridicolo – trasformano in untori i giovani della movida, scambiando i contagi per malattie.
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Eresia Roosevelt: giù le tasse, e reddito universale per tutti
Giù le tasse, usando anche la moneta complementare emessa a costo zero. E soprattutto, reddito universale: assegno mensile di 500 euro, a chiunque, con l’unico obbligo di spendere subito quei soldi. Sembra un costo, ma non lo è. O meglio: la spesa iniziale sarebbe letteralmente oscurata dal salto in avanti del Pil, grazie al “moltiplicatore” keynesiano (spendi 100, e produci 3-400). Risultato: economia in grande ripresa e, alla fine, maggiori entrate fiscali. Sono due dei tre punti-chiave messi a fuoco dal Movimento Roosevelt (il terzo è il diritto costituzionale al lavoro, oggi assente) con l’intento di capovolgere l’ipnosi finanziaria, del tutto artificiosa, che detiene le vere chiavi della crisi europea. Una “maledizione” che sembra economica, e invece è interamente politica. «Si ciancia di lotta all’evasione fiscale, ma l’evasione la si combatte imponendo tasse eque: se si abbassano le aliquote, oggi folli, cresceranno immediatamente le entrate». Lo sostiene Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, rilanciando un’idea del rooseveltiano Carlo Toto: rimettere in moto l’Italia, facendola uscire da decenni di sofferenze imposte dall’alto, attraverso una camicia di forza macroeconomica. A questo è servito il vincolo esterno europeo: a comprimere le possibilità del made in Italy, dopo averlo largamente sabotato, smembrato e indebolito.Teoria e pratica del neoliberismo, ideologia di cui l’Italia è stata una cavia perfetta. Pura demenzialità, il tetto del 3% imposto alla spesa. Idem la gestione privatistica dell’euro, basata sulla leggenda della scarsità di moneta (in realtà creabile in modo illimitato e senza costi). In pratica, qualcuno lassù ha chiuso i rubinetti. E al paese ha raccontato che, semplicemente, “doveva” soffrire. Peggio: che le tasse servono a pagare stipendi, a far funzionare lo Stato. Nella stanza dei bottoni, tutti sanno che non è vero: ma il mainstream (economisti neoliberali, partiti e media) fingono di non saperlo. Non ne parlano le Sardine, interessate solo a stoppare Salvini (agevolando la corsa di Prodi verso il Quirinale). Non ne parla Bonaccini, e neppure Zingaretti. La promessa di Flat Tax sbandierata dallo stesso Salvini si è fermata col siluramento di Armando Siri. L’Italia politica sembra essersi rimessa a dormire, divisa solo in apparenza tra custodi del centrosinistra e guardiani del centrodestra. Da Renzi a Berlusconi, nessuna soluzione in vista. Nel 2018, in pieno caos gialloverde, i 5 Stelle sembravano volerci provare: ma il reddito di cittadinanza promosso da Di Maio si è rivelato un’amara barzelletta, un’inutile elemosina elargita al prezzo di severe condizioni.Niente da fare neppure sul fronte della moneta parallela, di cui si era parlato nei mesi scorsi. Ne sa qualcosa un economista keynesiano come Nino Galloni, vicepresidente del Movimento Roosevelt: basterebbe pochissimo, sostiene, per creare una “moneta di Stato” da affiancare all’euro, senza neppure violare il Trattato di Lisbona. Valore emesso a costo zero, accettato per il pagamento di tasse e imposte. Sarebbe un sollievo immediato, per l’economia. Due piccioni con una fava: meno tasse, ed economia in ripresa. Un altro rooseveltiano, Toto, ora rilancia: se all’abbattimento delle aliquote (e alla facilitazione fiscale propriziata dalla moneta parallela) si aggiunge la maxi-iniezione del reddito universale, l’economia può risorgere. Volerebbero i consumi, dunque il lavoro. Eresia? Sì, certo, ma sarà meglio farci l’abitudine: il Movimento Roosevelt ha intenzione di lanciare una campagna nazionale, sostenendo queste sue proposte a colpi di petizioni popolari. Non ultima quella sul diritto al lavoro: ha poco senso, ribadisce lo stesso Magaldi, che la Costituzione definisca l’Italia una repubblica fondata sul lavoro, se poi l’occupazione non c’è. Meglio che lo Stato assolva in pieno alla sua funzione, fino in fondo: così come la stessa Bce dovrebbe riscrivere il proprio statuto, puntando alla piena occupazione in Europa, anche l’Italia dovrebbe rivedere la sua Carta, impegnandosi a dare un lavoro a chiunque.L’eresia è l’unica possibilità che resta, se gli attori della politica nazionale balbettano. Soluzioni vere, radicali, frontali. Un orizzonte antropologico alternativo all’attuale bassa marea, nella quale nuotano (male o malissimo) tutti i partiti. Ma attenzione: non sono solo i rooseveltiani a scrutare il cielo, in cerca di un futuro possibile e dignitoso. La signora Christine Lagarde ha appena evocato il massimo tabù di questi anni di austerity “teologica”: gli eurobond, per sostenere in modo illimitato i debiti pubblici dei paesi europei, senza più l’incubo speculativo dello spread. E persino Mario Draghi, da parte sua, ha parlato addirittura della Modern Money Theory, cioè l’emissione monetaria teoricamente infinita, con cui rianimare l’economia europea. Il contrario esatto di quel rigore che i sacerdoti dell’eurocrazia continuano a spacciare per volere divino. E se in Italia nessuno si muove, Magaldi annuncia un appello direttamente ai cittadini: firme su firme, per sollecitare la rivoluzione di cui si avverte il disperato bisogno. Smettere di avere paura, scacciare la crisi, tornare a progettare un’Italia più comoda per tutti. Senza più evasione fiscale, grazie a tasse affrontabili. E senza più l’alibi della penuria, in virtù del reddito universale: utile a salvare chi un lavoro non ce l’ha ancora, e fondamentale per movimentare consumi, imprese, assunzioni. Si tratta di cambiare tutto, da cima a fondo. Primo step: scoprire che l’eresia non è il problema, è la soluzione.Giù le tasse, usando anche la moneta complementare emessa a costo zero. E soprattutto, reddito universale: assegno mensile di 500 euro, a chiunque, con l’unico obbligo di spendere subito quei soldi. Sembra un costo, ma non lo è. O meglio: la spesa iniziale sarebbe letteralmente oscurata dal salto in avanti del Pil, grazie al “moltiplicatore” keynesiano (spendi 100, e produci 3-400). Risultato: economia in grande ripresa e, alla fine, maggiori entrate fiscali. Sono due dei tre punti-chiave messi a fuoco dal Movimento Roosevelt (il terzo è il diritto costituzionale al lavoro, oggi assente) con l’intento di capovolgere l’ipnosi finanziaria, del tutto artificiosa, che detiene le vere chiavi della crisi europea. Una “maledizione” che sembra economica, e invece è interamente politica. «Si ciancia di lotta all’evasione fiscale, ma l’evasione la si combatte imponendo tasse eque: se si abbassano le aliquote, oggi folli, cresceranno immediatamente le entrate». Lo sostiene Gioele Magaldi, presidente del Movimento Roosevelt, rilanciando un’idea del rooseveltiano Carlo Toto: rimettere in moto l’Italia, facendola uscire da decenni di sofferenze imposte dall’alto, attraverso una camicia di forza macroeconomica. A questo è servito il vincolo esterno europeo: a comprimere le possibilità del made in Italy, dopo averlo largamente sabotato, smembrato e indebolito.
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Peggio del patto degli zombie, la fanta-sinistra di Bersani
Da una parte «il finto segretario del partito di Renzi», dall’altra il fantasma del movimento di protesta che nel 2018 sfiorò il 33% e ora sarebbe ridotto al 10% dei consensi, secondo i sondaggi evocati da Vittorio Sgarbi. Più che imbarazzanti le manovre per tentare di dar vita al governo-zombie, tra le voci sulla regia occulta di Prodi (che spera di arrivare al Quirinale dopo Mattarella), i ventilanti “sconti-flessibilità” dell’ignobile Ue e le navi delle Ong improvvisamente dirottate su Malta, ora che non c’è più Salvini da “speronare”. Mentre metà dei grillini manifestano orrore per l’inciucio, Sgarbi sintetizza: non solo si cerca di mettere al governo chi ha perso le elezioni lasciando fuori chi le ha vinte, cioè la Lega, «che oggi veleggia attorno al 40%». Peggio: i notai del possibile patto di potere, sostenuto solo dal terrore di perdere le poltrone che anima i parlamentari Pd e 5 Stelle, sono Zingaretti (che non controlla deputati e senatori, largamente renziani) e l’altrettanto inconsistente Di Maio, sorretto da Grillo ma ormai isolato da Fico, Di Battista e dalla base grillina, che ormai invoca – con Casaleggio – il ricorso alla consultazione interna per respingere in extremis l’accordo-vergogna che metterebbe fine, per sempre, all’illusione ottica e politica del grillismo. In questo sfacelo, si può fare di peggio? Ci prova, mestamente, Pierluigi Bersani.Ospite di Luca Telese e David Parenzo a “In Onda” su La7, l’ex segretario del Pd (defenestrato da Renzi all’indomani della “non vittoria” del 2013) riesce a trasformare in capolavoro surrealista lo sconcio della trattativa per il Conte-bis, che – come ricorda Nicola Porro – rischierebbe di «portare il Pd al governo per la quarta volta, in 6 anni, senza elettori». In mezz’ora di puro delirio politologico, Bersani – senza mai venir meno al suo stile casereccio, onestamente simpatico – racconta un’Italia che esiste solo nella sua fantasia: un paese imbranato e sfortunato, pasticcione, unico responsabile del caos nel quale si trova. La sola analisi che Bersani fornisce è la seguente: gli elettorati del Pd e dei 5 Stelle sono contigui, per questo il Pd ha commesso un errore storico nel demonizzare i grillini, come se il centrosinistra – peraltro – fosse immacolato, figlio di una storia esemplare. Non è lecito dubitare della sincerità di Bersani, e in questo sta la vera tragedia: perché l’ex capo della “ditta”, infatti, sembra ignorare del tutto l’esistenza del vincolo esterno chiamato Unione Europea, la camicia di forza post-democratica che impedisce, nei fatti, qualsiasi politica espansiva. Rompere il guscio (come chiede Salvini) sarebbe l’unica possibilità per ottenere politiche diverse, anche sociali, come quelle che invoca Bersani. Ma l’ex leader del Pd sembra non rendersene conto: e siamo nel 2019.Bersani militarizzò il Pd come una caserma, suicidando qualsiasi residuo della parola “sinistra” nell’imporre il sostegno al governo nazi-liberista di Mario Monti, fino al sacrificio supremo inflitto alla nazione, senza anestesia: iper-tassazione, legge Fornero sulle pensioni, Fiscal Compact e pareggio di bilancio in Costituzione. Nerl giro di pochi mesi, l’Italia perse il 25% del suo potenziale economico. Corollario: l’esplosione della disoccupazione. Non ha imparato niente, Bersani? Pare di no: oggi infatti rimprovera al governo gialloverde di aver potuto agire, laddove è riuscito a combinare qualcosa, solo grazie al denaro racimolato coi mini-condoni e con il ricorso al deficit. E dove lo andrebbe a recuperare, Bersani, il denaro necessario a finanziare politiche “di sinistra”? Semplice: instaurando una tassazione più progressiva e scatenando una lotta epocale contro l’evasione fiscale – cioè, ancora una volta: a valle del problema che affossa l’Italia, ovvero il bullismo degli oligarchi Ue. Un tempo, proprio la sinistra combatteva per il welfare, saggiamente sostenuto dal deficit. La stessa sinistra s’è rimangiata tutto, comprata a peso dall’establishment. Bersani evidentemente non c’è stato bisogno di comprarlo: esegue volontariamente i diktat dell’establishment finanziario, e lo fa orgogliosamete “da sinistra”, come se l’Unione Europea nemmeno esistesse. Uno spettacolo sconcertante e preoccupante: quand’anche la storia togliesse di mezzo i Conte, i Di Maio e gli Zingaretti, resterebbero tra i piedi i Bersani (e i Prodi) a raccontare agli italiani, ancora una volta, il contrario della verità.Da una parte «il finto segretario del partito di Renzi», dall’altra il fantasma del movimento di protesta che nel 2018 sfiorò il 33% e ora sarebbe ridotto al 10% dei consensi, secondo i sondaggi evocati da Vittorio Sgarbi. Più che imbarazzanti le manovre per tentare di dar vita al governo-zombie, tra le voci sulla regia occulta di Prodi (che spera di arrivare al Quirinale dopo Mattarella), i ventilanti “sconti-flessibilità” dell’ignobile Ue e le navi delle Ong improvvisamente dirottate su Malta, ora che non c’è più Salvini da “speronare”. Mentre metà dei grillini manifestano orrore per l’inciucio, Sgarbi sintetizza: non solo si cerca di mettere al governo chi ha perso le elezioni lasciando fuori chi le ha vinte, cioè la Lega, «che oggi veleggia attorno al 40%». Peggio: i notai del possibile patto di potere, sostenuto solo dal terrore di perdere le poltrone che anima i parlamentari Pd e 5 Stelle, sono Zingaretti (che non controlla deputati e senatori, largamente renziani) e l’altrettanto inconsistente Di Maio, sorretto da Grillo ma ormai isolato da Fico, Di Battista e dalla base grillina, che ormai invoca – con Casaleggio – il ricorso alla consultazione interna per respingere in extremis l’accordo-vergogna che metterebbe fine, per sempre, all’illusione ottica e politica del grillismo. In questo sfacelo, si può fare di peggio? Ci prova, mestamente, Pierluigi Bersani.
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Bidone Gialloverde, elezioni-farsa: e ora gli oligarchi ridono
Ma non dovevano aprire il fuoco contro i padroni del rigore europeo? Quello almeno era l’impegno di Salvini, consapevole della necessità di liberarsi della camicia di forza di Bruxelles. Di Maio invece aveva spiccato un volo pindarico: avremo di tutto, aveva promesso, ma senza spiegare come, con che soldi. Frode, incapacità, destino cinico e baro? Semplice gatekeeping all’italiana? Presa per i fondelli dell’elettorato? Rivisto al ralenty, l’inglorioso tramonto gialloverde è sbrodolato di Nutella salviniana, caviale russo, vaniloquio grillino. Difficile capire chi l’abbia vinta, la gara al ribasso verso il nulla: il Salvini che a parole rivendicava la Flat Tax o il Di Maio che, aggiungendo chiacchiere a chiacchiere, elargiva il suo reddito di cittadinanza teoricamente quasi universale? Man bassa di voti, un anno fa: i leghisti al Nord, i grillini al Sud. Bifronte come Giano, il Bidone Gialloverde. Ci erano cascati, gli italiani? Eccome: l’estate scorsa, il “governo del cambiamento” volava sulle ali di un consenso mai visto, né in Italia né nel resto d’Europa.Parlavano da soli gli applausi rovesciati addosso a Salvini e Di Maio dal popolo di Genova sulle macerie del Viadotto Morandi, prima che si sapesse che i super-incassatori dei pedaggi italiani, da mungere attraverso Autostrade, non erano i Benetton ma i veri padroni di Atlantia, gli americani di BlackRock. E addio “nazionalizzazione” dannunziana dell’italica rete autostradale, infrastruttura strategica costruita grazie all’uso intelligente del debito pubblico. Poi, va da sé, “il seguito è una vergogna”, come cantava Edoardo Bennato. Il peccato originale? Il cedimento sul deficit, l’addio alla cassaforte: Paolo Savona che si defila, silurato da Mattarella per la gioia di Visco, Draghi e tutti gli altri euro-strozzini che in questi decenni hanno spolpato il Belpaese, facendolo a pezzi per svenderlo agli amici degli amici. Questo significava il “niet” della Commissione: non avrete i soldi per fare quello che avevate promesso. Reazioni: nessuna. Faremo tutto ugualmente, hanno detto (barando) i bidonisti gialloverdi, sapendo perfettamente che – da quel momento – il “governo del cambiamento” era finito, clinicamente morto.Potevano protestare, insorgere? Dovevano farlo: godevano della fiducia del paese. Un fatto che aveva del miracoloso, in sé, visto il curriculum dell’Italia. Prima l’attacco al cuore del sistema, con la Prima Repubblica messa in ginocchio per via giudiziaria di fronte alle forche caudine del Trattato di Maastricht. Poi l’avvento del finto bipolarismo tra Berlusconi e Prodi, tra le “cene eleganti” di Arcore e la presidenza della Commissione Europea, passando per la Goldman Sachs. Quindi la macelleria di Monti, l’anestesia del falso medico Renzi, il pallore dei maggiordomi Letta e Gentiloni. Un establishment esausto, ridotto a banchettare sui resti di industrie e banche largamente cedute a mani straniere, grazie a governi-fantoccio appaltati a piccoli yesman. Poi sono arrivati loro, i giustizieri. Due aziende distinte: quella grillina senza idee, ma con la fedina immacolata. L’altra, la ditta leghista, con trascorsi non esattamente esaltanti, ma rigenerata da una leadership teoricamente sovraneggiante.Da come s’erano messe le cose, in autunno, c’era da sperare che i biscazzieri gialloverdi facessero fronte comune, affondando il colpo – Davide contro Golia – in modo spettacolare, magari presentandosi uniti alle elezioni europee per spiegare che le ragioni dell’Italia non sono diverse da quelle degli altri paesi, se ci si mette dalla parte del popolo e contro l’élite abusiva, privata, che domina le istituzioni pubbliche. Ma niente da fare. I due sparring partner, il leghista e il grillino, non hanno fatto altro che allenare i muscoli dei campioni, gli oligarchi, che almeno su una cosa si erano sbagliati: per un attimo, avevano pensato che Salvini e Di Maio facessero sul serio. Poi, quando li hanno visti azzannarsi tra loro ogni giorno, hanno capito di che pasta fosse, il Bidone Gialloverde. Gli hanno rubato il portafoglio, e l’hanno passata liscia: anziché coi ladri, Salvini se l’è presa coi migranti africani e coi negozietti di cannabis light. Di Maio, al solito, l’ha superato in capacità acrobatica: prima ha lisciato il pelo ai Gilet Gialli massacrati fa Macron, poi s’è genuflesso di fronte alla socia tedesca di Macron, e infine ha contribuito in modo decisivo all’elezione di Ursula von der Leyen, candidata della Merkel alla guida della Commissione Ue.Ora il film è finito, ma l’alternativa è il vuoto. Sfidando il ridicolo, Matteo Salvini – armato di crocifisso – dopo aver azzoppato l’ex socio ora tenta di proporre se stesso come salvatore della patria, sperando che gli italiani abbiano la memoria così corta da non ricordare chi era, Salvini, un anno fa, cosa diceva, cosa prometteva e cosa non ha mai neppure lontanamente provato a fare, in questi lunghi mesi in cui, insieme all’altro sparring partner, ha perso in giro gli elettori. Crede davvero, il leghista, che fare da valletto (l’ennesimo) ai voraci squaletti del Tav gli possa valere grandiosi trionfi? Seriamente si illude che il 34% rimediato alle europee, tornata in cui ha votato solo un italiano su due, si possa trasformare in un’apoteosi, nelle elezioni anticipate che ora pretende? Matteo Renzi riuscì a cadere faccia terra dall’alto del suo 40%, e anche lui per un test elettorale non dovuto, personalmente imposto al paese. Storie sinistramente parallele, quelle dei due Matteo, nella bassa marea in cui la navicella italiana continua a languire, con le vele flosce, senza che sia in vista nessun alito di vento.La campagna elettorale prossima ventura – trita continuazione di quella in corso da mesi – vedrà i bidonisti ex gialloverdi recitare una farsa penosa e cattiva, da commedianti falliti. Ripeteranno sensazionali stupidaggini, tentando di convincere il pubblico che il problema è solo italiano – è tutta colpa di Di Maio, anzi di Salvini – come se Di Maio e Salvini avessero davvero potuto fare quello che volevano. Da loro sentiremo di tutto, tranne la verità. Il grottesco sta nel fatto che questi due signori si rivolgeranno agli italiani come se niente fosse, come se non sapessero quali poteri – nella migliore delle ipotesi – li hanno sabotati fin dall’inizio. Ma gli italiani oggi si interrogano anche sull’altra ipotesi, la peggiore: non sarà che quei poteri li hanno guidati da subito, a partire dall’esordio, prima gonfiandoli e poi sgonfiandoli, i simpatici bidonisti gialloverdi? Lega e 5 Stelle non si libereranno del marchio che ormai li squalifica: avevano impegnato l’onore dell’Italia, di fronte all’Europa, in una promessa di liberazione democratica. Se si maneggiano parole come giustizia, trasparenza e soprattutto sovranità, la gente rischia di prenderti sul serio. Quando poi scopre che era solo un bluff, ti presenta il conto. L’unica certezza, di fronte al cadavere del Bidone Gialloverde, è che la politica italiana è da ricostruire da zero. Con tanti saluti all’increscioso acrobata grillino e allo sceriffo balneare padano, travestito da poliziotto e illuminato dalla Madonna di Medjugorje.(Giorgio Cattaneo, “Bidone Gialloverde: ridono gli oligarchi ma non gli italiani, costretti a subire elezioni-farsa”, dal blog del Movimento Roosevelt del 10 agosto 2019).Ma non dovevano aprire il fuoco contro i padroni del rigore europeo? Quello almeno era l’impegno di Salvini, consapevole della necessità di liberarsi della camicia di forza di Bruxelles. Di Maio invece aveva spiccato un volo pindarico: avremo di tutto, aveva promesso, ma senza spiegare come, con che soldi. Frode, incapacità, destino cinico e baro? Semplice gatekeeping all’italiana? Presa per i fondelli dell’elettorato? Rivisto al ralenty, l’inglorioso tramonto gialloverde è sbrodolato di Nutella salviniana, caviale russo, vaniloquio grillino. Difficile capire chi l’abbia vinta, la gara al ribasso verso il nulla: il Salvini che a parole rivendicava la Flat Tax o il Di Maio che, aggiungendo chiacchiere a chiacchiere, elargiva il suo reddito di cittadinanza teoricamente quasi universale? Man bassa di voti, un anno fa: i leghisti al Nord, i grillini al Sud. Bifronte come Giano, il Bidone Gialloverde. Ci erano cascati, gli italiani? Eccome: l’estate scorsa, il “governo del cambiamento” volava sulle ali di un consenso mai visto, né in Italia né nel resto d’Europa.
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Macron e Merkel: l’Italia “ribelle” sarà esclusa dai fondi Ue
La Disunione Europea getta la maschera: se l’Italia non rispetta il patto di stabilità, insieme alle regole europee sui conti pubblici, non avrà più diritto ai fondi dell’Unione Europea. È il ricatto che Emmanuel Macron e Angela Merkel stanno preparando, sintetizza Chiara Sarra sul “Giornale”: è infatti in arrivo all’Eurogruppo (riunione straordinaria a Bruxelles) un’ipotesi di piano congiunto franco-tedesco per creare un bilancio unico dell’Eurozona. Come rivelano il “Financial Times” e la stessa “Repubblica”, che ha avuto accesso alle bozze, la proposta del presidente francese e della cancelliera tedesca prevede che il bilancio, finanziato con i contributi dei singoli paesi e con una “tassa sulle transazioni finanziarie”, punti a «stimolare la crescita attraverso investimenti, ricerca e sviluppo, innovazione e capitale umano, cofinanziando la spesa pubblica». Ma soprattutto, aggiunge il “Giornale”, il documento prevede che siano i ministri delle finanze dell’Eurozona, anzichè la Commissione Europea, a progettare i programmi di investimento in settori come la ricerca, lo sviluppo e l’innovazione. Clausola: dovranno essere esclusi dall’accesso ai fondi Ue i paesi che non perseguono «politiche in sintonia con gli obblighi». In altre parole: se non rispetta le “regole europee”, l’Italia «può dire addio ai contributi finanziari».Le cifre del budget devono essere ancora discusse e trattate. In passato, il ministro francese Bruno Le Maire ha indicato la cifra di 20-25 miliardi di euro come «un buon punto di partenza». Si tratterebbe, in tal caso, di una cifra equivalente circa allo 0,2% del Pil dei 19 paesi. Inizialmente, Macron aveva però auspicato un budget pari a «diversi punti di Pil». Sembra una barzelletta, ma è la realtà. I due ideologi del patto contro l’Italia, a quanto pare, sono spaventati dal timido 2,4% di deficit per il 2019 strappato dal governo Conte nonostante l’opera di dissuasione a reti unificate (Draghi, Visco, Mattarella, Moscovici e il Fmi). Dettaglio: in Europa, Germania e Francia sonoi paesi con meno titoli per imporre regole di condotta, specie se ammantate di sospetto moralismo. La Germania, ricorda l’imprenditore italiano Andrea Zoffi, ha un debito pubblico reale ben lontano da quello dichiarato, fermo all’80% del Pil: i conti di Berlino sono molto più in rosso (addirittura il 287% del Pil) se si calcola l’immenso debito “sommerso” della Germania, non contabilizzato da Bruxelles. Quanto alla Francia, il panafricanista Mohamed Konare riassume: Parigi “drena” ogni anno ben 500 miliardi di euro a 14 ex colonie dell’Africa Sub-Sahariana. Una cifra enorme, pari al 20% del Pil francese, anche questa “bypassata” dai guardiani dell’Eurozona nonostante Parigi gestisca in proprio il franco Cfa, la moneta coloniale imposta all’Africa centro-occidentale.Per inciso, accusa Konare, i paesi dissanguati dalla Francia sono proprio quelli da cui proviene la marea di profughi economici diretti in Italia e respinti alla frontiera transalpina. In altre parole: non possono disporre della propria moneta, devono rinunciare al 50% delle loro risorse e, per gestire liberamente l’altra metà, devono prima ottenere il consenso di Parigi. Com’è possibile che una simile Francia possa far parte dell’Unione Europea? Presto detto: proprio la culla dell’europeismo neo-feudale fu utilizzata per ammortizzare l’exploit della Germania riunita dopo la caduta del Muro. La Francia impose l’introduzione di regole non democratiche (l’euro e il limite di spesa del 3% introdotto da Mitterrand) con l’obiettivo di frenare l’economia tedesca – vincolo che Berlino accettò, ottenendo in cambio la possibilità di agire a livello legislativo (austerity Ue) per neutralizzare il suo diretto concorrente industriale, l’Italia. Oggi, Francia e Germania tornano all’attacco del Belpaese in modo sfrontato, dopo che il governo Conte ha osato innalzare di qualche decimale il deficit 2019.Quel 2,4% è troppo poco, spiega Nino Galloni, per sperare in effetti visibili: il “moltiplicatore” della spesa pubblica (chi più spende meno spende, perché dall’anno seguente l’investimento frutterà 3-4 volte tanto, in termini di Pil) avrebbe bisogno in Italia di un deficit più robusto, almeno il 4-5%, per rilanciare l’economia. Ma quell’esiguo 2,4% basta e avanza a spaventare i padroni dell’Ue, che – a pochi mesi dalle elezioni europee – temono che “cattivo esempio” dell’Italia possa contagiare il resto d’Europa, spingendo altri paesi a rompere le righe e ribellarsi alla camicia di forza (ideologica) dei vincoli del rigore, che servono solo a deprimere l’economia e accelerare il trasferimento delle leve economiche in pochi, grandi gruppi, a spese del sistema nazionale delle aziende. Per contro, la mossa franco-tedesca avrà forse il pregio di aprire gli occhi ancora socchiusi, svelando la reale natura dell’attuale Unione Europea, priva di una Costituzione democratica e gestita da una Commissione autocratica, non eletta dal Parlamento Europeo. La scure sull’Italia agitata da Macron e Merkel è teoricamente una manna, dunque, per la prossima euro-campagna elettorale di Di Maio e in particolare di Salvini: additando il “nemico” esterno, verrà loro più facile giustificare i risultati, finora non esaltanti, del governo gialloverde.La Disunione Europea getta la maschera: se l’Italia non rispetta il patto di stabilità, insieme alle regole europee sui conti pubblici, non avrà più diritto ai fondi dell’Unione Europea. È il ricatto che Emmanuel Macron e Angela Merkel stanno preparando, sintetizza Chiara Sarra sul “Giornale”: è infatti in arrivo all’Eurogruppo (riunione straordinaria a Bruxelles) un’ipotesi di piano congiunto franco-tedesco per creare un bilancio unico dell’Eurozona. Come rivelano il “Financial Times” e la stessa “Repubblica”, che ha avuto accesso alle bozze, la proposta del presidente francese e della cancelliera tedesca prevede che il bilancio, finanziato con i contributi dei singoli paesi e con una “tassa sulle transazioni finanziarie”, punti a «stimolare la crescita attraverso investimenti, ricerca e sviluppo, innovazione e capitale umano, cofinanziando la spesa pubblica». Ma soprattutto, aggiunge il “Giornale”, il documento prevede che siano i ministri delle finanze dell’Eurozona, anzichè la Commissione Europea, a progettare i programmi di investimento in settori come la ricerca, lo sviluppo e l’innovazione. Clausola: dovranno essere esclusi dall’accesso ai fondi Ue i paesi che non perseguono «politiche in sintonia con gli obblighi». In altre parole: se non rispetta le “regole europee”, l’Italia «può dire addio ai contributi finanziari».