Archivio del Tag ‘canto’
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Cristo e la Maddalena: così Raffaello smentisce Dan Brown
Il “Codice da Vinci”? Un equivoco da 80 milioni di copie, grazie all’abilità di Dan Brown. Lo scrittore fa dire a Leonardo che c’era la Maddalena accanto a Gesù nell’ultima cena: dunque il messia aveva una compagna segreta? E il Santo Graal (in realtà “Sang Real”, sangue reale) non sarebbe stato altro che la discendenza occulta di Cristo, sbarcata in Francia insieme alla donna clandestina del Nazareno? Un segreto inconfessabile, secondo il bestseller americano, in cui alla fine dell’800 si sarebbe imbattuto Bérenger Saunière, il famoso parroco di Rennes-le-Château, scavando sotto l’altare della sua chiesetta di campagna. Di quel segreto, secoli prima, sarebbe stato il massimo custode il sommo Leonardo, rappresentato come “gran maestro” di un ipotetico e leggendario ordine iniziatico, il Priorato di Sion. Nel suo capolavoro, il Cenacolo affrescato nel refettorio milanese di Santa Maria delle Grazie, Leonardo avrebbe lasciato un indizio rivelatore: la presenza della Maddalena, tra i Dodici riuniti per l’ultima cena. A smentire i dietrologi, però, provvede – già vent’anni dopo – un altro grande del Rinascimento italiano: Raffaello Sanzio. Nella sua Estasi di Santa Cecilia, Raffaello riproduce quella stessa figura, scambiata per la Maddalena. Solo che non è una donna, è un giovanissimo dai tratti efebici: l’apostolo Giovanni, futuro San Giovanni evangelista. Nel quadro di Raffaello, infatti, c’è anche la Maddalena: una donna, non un soggetto dall’identità incerta.Lo rivela il simbologo Gianfranco Carpeoro, analizzando l’Estasi raffaellita dipinta nel 1514 e custodita alla Pinacoteca Nazionale di Bologna. Raffaello riproduce alla perfezione la misteriosa figura dell’affresco di Leonardo: osservandola, «non si può non riscontrarne la assoluta somiglianza, nelle fattezze, alla omologa raffigurazione leonardesca del Cenacolo: stessi tratti efebici, stessa impostazione», scrive Carpeoro sulla sua pagina Facebook. Ma attenzione: nel quadro di Raffaello «la figura della Maddalena è presente», e quindi «la raffigurazione di San Giovanni è al di sopra di ogni sospetto». C’è lui, e c’è la Maddalena. Certo, Giovanni è ritratto giovanissimo – esattamente come la figura del Cenacolo, scambiata per la Maddalena. «Così i cosiddetti maddaleniani, compreso Dan Brown e il suo “Codice da Vinci” sono serviti a dovere». La somiglianza tra i due Giovanni è impressionante: Raffaello “cita” in modo esplicito Leonardo. E’ come se dicesse: credevate fosse la Maddalena? No, è Giovanni. Ergo: tra i Dodici, nell’ultima cena di Cristo, la Maddalena non c’era. Nell’analisi simbologica, Raffaello è lo “specchio” di Leonardo: offre la stessa identica immagine, ma capovolta nel suo significato. Come dire: per cogliere l’insieme, conviene esaminare le due opere in modo complementare, come fossero parte di un unico messaggio cifrato.Autore del ciclo saggistico “Summa Symbolica” nonché di romanzi sui Rosa+Croce, confraternita iniziatica a cui si suppone appartenessero sia Leonardo che Raffaello, Carpeoro ha condotto approfonditi studi storici e simbologici su Leonardo, figura in realtà misteriosissima e quasi comparsa dal nulla, con quel non-cognome (“da Vinci”), che indica solo una provenienza geografica, in un secolo – il ‘400 – in cui i cognomi erano regolarmente presenti. Carpeoro ipotizza che il geniale Leonardo fosse in realtà un formidabile “depistatore”, incaricato da un lato di fissare nelle sue opere la “conoscenza segreta” tramandata dalla confraternica rosacrociana (i Fidelis in Amore di Dante Alighieri, poi Giordaniti con Giordano Bruno) e dall’altra di allontanare da quel gruppo sapienziale le attenzioni delle occhiute polizie dell’epoca, a cominciare da quella vaticana. Cent’anni dopo, la firma Rosa+Croce siglerà i clamorosi manifesti pubblici apparsi in Francia (Fama Fraternitatis e Confessio Fraternitatis), scritti con l’evidente intento di suscitare una radicale riforma di una società dominata dal doppio giogo dell’assolutismo monarchico e dell’oscurantismo teocratico cattolico.Non a caso, sottolinea Carpeoro, a quel periodo appartiene la straordinaria fioritura della letteratura utopistica rosacrociana: da “Utopia” di Tommaso Moro a “La città del Sole” di Tommaso Campanella, fino a “Christianopolis” di Johann Valentin Andreae, considerato l’autore della Fama Fraternitatis, manifesto politico-programmatico che adotta il tema evangelico per stimolare la nascita di un’umanità migliore, fraterna e unita, non più divisa dai confini tra le nazioni. Giustizia sociale: «I Rosa+Croce propongono addirittura l’abolizione della proprietà privata: sono, a tutti gli effetti, i progenitori del socialismo», sostiene Carpeoro. E dato che proprio quella confraternita iniziatica decise di “parlare” a tutti attraverso i capolavori artistici, fino a permeare le maggiori opere del Rinascimento, ricchissime di letture a più strati, è sicuramente utile – suggerisce Carpeoro – esaminare con attenzione un’opera fondamentale come quella di Raffaello, che sembra “rispondere”, a distanza, al celeberrimo Cenacolo leonardesco. L’Estasi di Santa Cecilia è un olio su tavola poi trasferito su tela. Raffigura Santa Cecilia, patrona della musica, nel momento della sua rinuncia agli strumenti musicali in favore della voce. Traduzione simbolica: meglio il canto, per produrre «una musica vicina a Dio», visto che l’ugola è un dono “divino”, mentre gli strumenti restano una creazione umana.Come comprovato da un disegno preparatorio conservato a Parigi, aggiunge Carpeoro, è stato accertato che, nel dipinto, «il dualismo originario era tra la musica divina degli angeli, anch’essi raffigurati mentre suonavano degli strumenti, e la musica umana». Evidentemente, «in un momento successivo l’artista ha deciso di sottolineare diversamente la contrapposizione». Un altro rilievo evidente, annota sempre Carpeoro, riguarda l’analisi geometrica del dipinto: «Santa Cecilia è collocata al centro di un quadrato, formato da quattro santi», ovvero San Paolo, San Giovanni evangelista, Sant’Agostino e Santa Maria Maddalena. «Ciò può assumere il significato che Santa Cecilia simboleggi la quintessenza, il quinto elemento degli alchimisti, lo spirito universale della materia». E non è tutto: «C’è anche il sottile simbolismo di una croce spaziale e assiale, raffigurata dagli sguardi dei santi». Infatti San Paolo guarda in basso e Santa Cecilia verso l’alto, San Giovanni e Sant’Agostino «realizzano un asse destra-sinistra, incrociando reciprocamente i loro occhi», mentre la Maddalena fissa chi guarda il quadro, e quindi «stabilisce una asse tra l’interno e l’esterno dell’opera, tra il passato e il presente».A loro volta, i santi sono simboli: se Cecilia può raffigurare la quintessenza, Sant’Agostino (riprodotto col bastone) può essere la Terra. La Maddalena può simboleggiare l’acqua, visto che tiene in mano un’anfora, mentre San Paolo, «raffigurato come sempre con la spada», incarna lo spirito del fuoco. San Giovanni invece può simboleggiare l’aria, «secondo il suo simbolo evangelico, cioè l’aquila». Elementi fondamentali: terra, acqua, fuoco e aria (più la quintessenza, Cecilia: la musica). Alchimia, appunto: «La spada di San Paolo e il bastone di Sant’Agostino possono essere definiti come il “solve” e il “coagula” degli alchimisti». Quanti indizi può contenere un singolo quadro, se è opera di un genio? Carpeoro lo definisce «l’ultimo messaggio di Raffaello», dato che l’Estasi fu dipinta poco prima che l’artista si spegnesse. Un avvertimento chiarissimo, ignorato dai seguaci di Dan Brown: all’epoca di Cristo (secondo Raffaello, almeno) la Maddalena non era un’adolescente scambiabile per un ragazzino, ma una donna perfettamente compiuta.Il che non esclude di per sé la possibilità che la stessa Maddalena si sia poi davvero imbarcata per approdare nel Sud della Francia, insieme alle altre Marie del Mare, sulle spiagge della Camargue dove ancora oggi i gitani eleggono la loro regina, di nome Miriam. Proprio alla Maddalena, i francesi hanno dedicato le loro chiese più importanti, a cominciare da Notre-Dame de Paris. La storia non fornisce appigli certi: la stessa vicenda del Cristo è supportata unicamente dai Vangeli, che restano testi privi di fonti attendibili (sono attribuiti agli evangelisti solo in base alla convenzione tradizionale). Proprio per questo, può essere interessare scavare tra le pieghe delle narrazioni dei primi secoli, per scoprire l’importanza di una figura elusiva ma determinante: quella di Giuseppe d’Arimatea, il potente armatore che avrebbe guidato la leggendaria spedizione navale dalla Palestina alla Provenza, dopo aver avuto il coraggio di riscattare il corpo di Cristo da Pilato per poi inumarlo nella sua tomba di famiglia. Ma le notizie biografiche su Giuseppe d’Arimatea sono scarne quanto quelle sulla genealogia di Leonardo. Solo un caso?Quel racconto è di capitale importanza, per la tradizione religiosa: alla Maddalena (come anche a San Giacomo) è legata l’introduzione del Cristianesimo in Europa. Due narrazioni controverse, entrambe imbarazzanti per la Chiesa dell’epoca: il messaggio di Cristo sarebbe giunto nel continente europeo grazie a una donna, vicinissima al Maestro, e grazie all’apostolo attorno a cui fu cucita la fiaba del Campo di Stelle per battezzare il santuario di Santiago de Compostela in Galizia. Un evento miracoloso, cioè magico – la straordinaria pioggia di stelle cadenti nel campo in cui spirò Giacomo, alla fine della sua predicazione – fu inventato di sana pianta per travisare il senso del vero Campo di Stelle, tratto di Via Lattea che si riteneva visibile dalla Palestina all’Italia, che per l’antica Chiesa di Giacomo (diversa da quella di Pietro) aveva un significato simbolico preciso: riportare a Roma “la verità di Gerusalemme”, cioè la reale identità del Cristo, interpretabile come simbolo del Dio presente in ogni essere umano. Declinato in mille modi, il tema è sempre lo stesso: un pensiero che viaggia dal Medio Oriente all’Europa. Anche di questo parlarono, Leonardo e Raffaello, dietro il Cenacolo e l’Estasi, insistendo sulla Maddalena? Di certo non accennarono minimamente, neppure loro, a quella che probabilmente resta la figura più misteriosa della narrazione evangelica: Giuseppe d’Arimatea, sfuggente quanto Leonardo.Il “Codice da Vinci”? Un equivoco da 80 milioni di copie, grazie all’abilità di Dan Brown. Lo scrittore fa dire a Leonardo che c’era la Maddalena accanto a Gesù nell’ultima cena: dunque il messia aveva una compagna segreta? E il Santo Graal (in realtà “Sang Real”, sangue reale) non sarebbe stato altro che la discendenza occulta di Cristo, sbarcata in Francia insieme alla donna clandestina del Nazareno? Un segreto inconfessabile, secondo il bestseller americano, in cui alla fine dell’800 si sarebbe imbattuto Bérenger Saunière, il famoso parroco di Rennes-le-Château, scavando sotto l’altare della sua chiesetta di campagna. Di quel segreto, secoli prima, sarebbe stato il massimo custode il sommo Leonardo, rappresentato come “gran maestro” di un ipotetico e leggendario ordine iniziatico, il Priorato di Sion. Nel suo capolavoro, il Cenacolo affrescato nel refettorio milanese di Santa Maria delle Grazie, Leonardo avrebbe lasciato un indizio rivelatore: la presenza della Maddalena, tra i Dodici riuniti per l’ultima cena. A smentire i dietrologi, però, provvede – già vent’anni dopo – un altro grande del Rinascimento italiano: Raffaello Sanzio. Nella sua Estasi di Santa Cecilia, Raffaello riproduce quella stessa figura, scambiata per la Maddalena. Solo che non è una donna, è un giovanissimo dai tratti efebici: l’apostolo Giovanni, futuro San Giovanni evangelista. Nel quadro di Raffaello, infatti, c’è anche la Maddalena: una donna, non un soggetto dall’identità incerta.
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Giulietto Chiesa in Rai con Messora, Dijsselbloem al Corsera
«Molto improbabile che nasca un governo politico, a meno che Berlusconi non faccia un passo di lato e lo sostenga dall’esterno». Così Alessandro Trocino, ai microfoni di “Radio Radicale” il 7 maggio scorso, a meno di un mese dall’insediamento di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. Due previsioni, entrambe sbagliate: alla fine s’è fatto, eccome, il governo più clamorosamente politico da 25 anni a questa parte, e il Cavaliere si è ben guardato dal sostenerlo. Sei mesi dopo, lo stesso giornalista – in forza al “Corriere della Sera” – spara ad alzo zero contro Giulietto Chiesa, in realtà per colpire i 5 Stelle, “rei” di aver preso per buona l’analisi di Chiesa sull’ultima sparata del signor Jeroen Dijsselbloem, tipico esemplare del potere eurocratico: anonimo e incolore il suo profilo politico, ma micidiale quello tecnocratico, speso al servizio dell’oligarchia finanziaria che ha massacrato la Grecia e imposto il prelievo forzoso a Cipro, scatenando il panico e l’assalto ai bancomat. Cos’ha detto, l’insigne Dijsselbloem? Che l’economia italiana imploderà, per colpa del governo gialloverde. E Giulietto Chiesa? Ha interpretato le parole di Dijsselbloem nell’unico modo possibile: una minaccia. Ovvio, a questo punto, il rilancio dei 5 Stelle sul loro blog.Ovvio per tutti, salvo che per il “Corriere”, secondo cui Giulietto Chiesa ha travisato le parole dell’apollineo, impeccabile, meraviglioso Dijsselbloem. Niente di strano, peraltro: secondo Trocino, Chiesa non sarebbe altro che una specie di mentecatto. Allo storico corrispondente da Mosca (prima per “l’Unità”, poi per la “Stampa” e per il Tg5), il “Corriere” dedica un affondo che merita di essere letto come capolavoro comico, sia pure del genere neo-orwelliano inaugurato dalla popstar Colin Powell, irresistibile nel famoso numero con la fialetta all’antrace. Il grande Powell poté esbirsi all’Onu solo grazie all’altra vicenda spettacolare del secolo, altrettanto cristallina: il crollo delle Torri Gemelle, notoriamente collassate su se stesse in pochi secondi per colpa di aerei dirottati da oscuri energumeni arabi, armati di taglierini e capaci di schiantare a velocità folle, con manovre da top-gun, velivoli che non sapevano pilotare e che la stessa azienda costruttrice, la Boeing, dichiara che – semplicemente – non potrebbero volare a 900 chilometri orari, a quote così basse, senza sbriciolarsi in aria prima ancora dell’impatto.Certo si tratta di trascurabili amenità, sulle quali è impensabile si soffermi il “Corriere della Sera”, impegnato com’è a formulare vaticinii e profezie sui governi italiani, specie l’inguardabile esecutivo gialloverde, i cui azionisti politici osano mancare di rispetto ai sacerdoti della santa eurocrazia, i bramini dai nomi impossibili – Dijsselbloem, Oettinger, Dombrovskis – che gli italiani hanno tuttavia imparato ad amare, in questi anni di benessere, prosperità e serenità per tutto il continente. Come sarebbe bello, cinguetta Massimo Mazzucco – altro incorreggibile mascalzone, del calibro di Giulietto Chiesa – se finalmente, grazie alla presidenza della Rai affidata a Marcello Foa, lo stesso Chiesa potesse lasciare per un attimo la redazione di “Pandora Tv” e partecipare ogni tanto, magari in terza serata, a programmi come quelli che un tempo persino la televisione di Stato produceva, all’epoca in cui faceva anche vera informazione, con signori come Biagi, Minà, Zavoli.Pensate, dice Mazzucco, se – magari all’una di notte – ci fosse la possibilità di assistere a un confronto tra Chiesa e, per dire, il fondatore di “ByoBlu”, Claudio Messora, capace di realizzare servizi su YouTube visionati ogni volta anche da 200.000 utenti. Numeri enormi, sottolinea Mazzucco, se paragonati agli standard televisivi (per esempio, i 600.000 spettatori che faceva registrare “Matrix”, ai bei tempi). Non c’è paragone, conferma Fabio Frabetti di “Border Nights”, in web-streaming con Mazzucco, anche perché la potentissima e ricchissima Tv basta accenderla, mentre un video-blog devi andartelo a cercare: quei click valgono mille volte tanto. E lo sanno, i signori dei “giornaloni”, al punto – oggi – da attaccare Giulietto Chiesa, anche a costo di fare involontariamente pubblicità alla sua web-tv. Lo sanno così bene, che il vento è cambiato, da applaudire a scena aperta l’eroico bavaglio imposto al web da Bruxelles, su iniziativa dei soliti noti – su tutti Oettinger, l’uomo che sussurra ai mercati, proprio come il suo socio Dijsselbloem.Poi, si sa, è noto che le minacce mafiose le fanno appunto i capimafia, non certo i cardinali e ciambellani del superclan euro-finanziario che ha coordinato, sul campo, il più vasto trasferimento di ricchezza, dal basso verso l’alto, che la storia moderna ricordi. Un’operazione ammantata di misticismo e ispirata dal Bene, cioè il rigore di bilancio che vieta i deficit e quindi obbliga ad aumentare le tasse, producendo le meraviglie che fanno dell’Unione Europea e in particolare dell’Eurozona il paradiso terrestre a cui il mondo intero guarda con invidia, non potendo fare a meno di ammirare il commovente spirito di cooperazione e solidarietà che oggi affratella i popoli europei, pronti a correre in soccorso del più debole e a risolvere insieme, da buoni amici, ogni controversia, a cominciare dal problema dei migranti. Un’Europa così sublime non può che primeggiare anche nell’arte del bel canto, visti i soavi gorgheggi giornalistici che si levano da giornali e talkshow. Troppo bello, lo spettacolo del Bene che celebra se stesso, per rischiare di offuscarlo con sgraziate stonature, profeti di sventura e blogger, così impudenti da insolentire il divo Dijsselbloem, l’affabile Juncker, il garbato Moscovici.A chi si fosse curiosamente convinto che lo show quotidiano sia soltanto una tragica farsa piuttosto scadente, affidata a interpreti la cui mediocrità è pari solo all’immenso potere di cui dispongono, protetto dall’anonimato finanziario che ha sequestrato la democrazia nel vecchio continente, Mazzucco va ripetendo un consiglio pratico: insistere, nel raccontare quello che si è scoperto, perché soltanto l’impegno di migliaia di neo-sudditi potrebbe un giorno restituire agli europei lo status di cittadini, a buon diritto membri di una comunità civile vera e propria, con le sue sue regole fondamentali – una su tutte: governa chi è stato designato dai cittadini, mediante regolari elezioni. Il giorno che la maggioranza si accorgesse dell’insostenibile anomalia europea, costituita da mezzo miliardo di persone governate da un consiglio di amministrazione, probabilmente i solisti come Oettinger e Dijsselbloem si troverebbero senza uno spartito e senza più nemmeno il coro, cartaceo e radiotelevisivo, al quale sono abituati: una clacque preziosa e imprescindibile, per evitare fischi e pomodori. E’ come se una lunga marcia fosse cominciata, dice Mazzucco, fino a giungere di fronte alle mura del palazzo, seminando allarme: non si spiega altrimenti tanta permura nel prendere a sberle, in pubblico, gli storici tribuni della trasparenza. Ma in caso di rivoluzione, niente paura: il grande Dijsselbloem potrebbe sempre cantare ancora, nel coro degli autorevolissimi editorialisti del “Corriere”.«Molto improbabile che nasca un governo politico, a meno che Berlusconi non faccia un passo di lato e lo sostenga dall’esterno». Così Alessandro Trocino, ai microfoni di “Radio Radicale” il 7 maggio scorso, a meno di un mese dall’insediamento di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi. Due previsioni, entrambe sbagliate: alla fine s’è fatto, eccome, il governo più clamorosamente politico da 25 anni a questa parte, e il Cavaliere si è ben guardato dal sostenerlo. Sei mesi dopo, lo stesso giornalista – in forza al “Corriere della Sera” – spara ad alzo zero contro Giulietto Chiesa, in realtà per colpire i 5 Stelle, “rei” di aver preso per buona l’analisi di Chiesa sull’ultima sparata del signor Jeroen Dijsselbloem, tipico esemplare del potere eurocratico: anonimo e incolore il suo profilo politico, ma micidiale quello tecnocratico, speso al servizio dell’oligarchia finanziaria che ha massacrato la Grecia e imposto il prelievo forzoso a Cipro, scatenando il panico e l’assalto ai bancomat. Cos’ha detto, l’insigne Dijsselbloem? Che l’economia italiana imploderà, per colpa del governo gialloverde. E Giulietto Chiesa? Ha interpretato le parole di Dijsselbloem nell’unico modo possibile: una minaccia. Ovvio, a questo punto, il rilancio dei 5 Stelle sul loro blog.
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Parlare con gli alberi cambia la vita, ve lo spiega Giovagnoli
«Parlare con gli alberi è un gesto antichissimo, meraviglioso e potente: quasi una danza, erotica e delicata, che vivifica l’intelligenza emotiva e armonizza gli emisferi celebrali». Maghi, streghe e alchimisti l’hanno compiuta per millenni, «celebrando la connessione sacra fra la nostra intimità e il pianeta Terra». Oggi, secondo Michele Giovagnoli, «l’umanità è pronta per tornare a parlare con gli alberi». Magari anche con l’aiuto di un testo «rivoluzionario, semplice e poetico, preciso e sorprendente», come appunto “Impara a parlare con gli alberi”, che Uno Editori presenta come “manuale pratico per comunicare, evolvere e guarire col bosco”. Missione: «Ricordarci chi siamo davvero e da dove veniamo», fino ad «ampliare il fronte del possibile», alla ricerca del proprio essere. E’ verdissima e decisamente fuori ordinanza la bussola che orienta Giovagnoli, laureato in scienze naturali e a lungo impegnato nello studio dei boschi. Poi, una notte, la rivelazione: il contatto ancestrale con la foresta può essere illuminante e persino radicalmente terapeutico. Ricerca, a metà strada tra il visibile scientifico e l’invisibile, che solo gli ingenui chiamano ancora soprannaturale. Niente di occulto, nella sapienza (naturale) dell’ultrapiccolo: piuttosto una sorta di misteriosa, antichissima saggezza, dove a “parlare” è l’immanenza di una dimensione percettiva sospesa a mezz’aria fra terra e cielo – come, appunto, quella degli alberi.Alchimista e scrittore, Giovagnoli si dichiara «animato dalla pulsione alla verità e da un universale senso di giustizia». Dalla frequentazione quotidiana dei boschi sostiene di apprendere «l’infinita arte dell’autotrascendenza». Qualcosa che ricorda, misteriosamente, il Giovanni Francese che poi passò alla storia come San Francesco, l’uomo di Assisi che elevò il primo Cantico delle Creature, mettendo l’uomo al pari delle stelle, del sole, dell’acqua e degli uccelli. Giovagnoli condivide le sue conoscenze “di frontiera” attraverso conferenze e seminari. Ha esordito nel 2004 con il saggio “Assoluta. Analisi logica della Rivelazione” (Edizioni Il Grappolo). Dieci anni dopo, ecco il sorprendente “Alchimia Selvatica” (Macroedizioni), seguito a ruota da “La Messa è finita” (2017) e “Impara a parlare con gli Alberi” (2018). Perplessi, di fronte al rischio di consolatorie vaghezze di sapore new age? Peccato, perché Giovagnoli è innanzitutto uno scienziato degli alberi: li studia, li cerca e li scova in tutta Italia, sulle tracce delle piante secolari che popolano i nostri versanti. Gli alberi millenari, invece – con l’eccezione di qualche olivastro pugliese e sardo – li fece abbattere la Chiesa medievale dopo il Concilio Namnetense, come ad eliminare dei pericolosi “concorrenti”, oggetto di devozione popolare.In questo svolge anche la funzione dello storico, l’alchimista “selvatico” Giovagnoli: prima del suo libro-denuncia “La messa è finita”, quell’oscuro concilio vaticano – vero e proprio atto di guerra contro la tenace resistenza del panteismo pagano – era praticamente irrintracciabile su Google. Si dirà che nel frattempo l’umanità si è evoluta, per fortuna. Punti di vista: da quando abbiamo smesso di “parlare con gli alberi”, sono sparite le foreste vergini europee, mentre le altre (in Amazzonia, in Congo, nel Sud-Est Asiatico) sono ormai al lumicino, assediate da ruspe e motoseghe. Dove sarebbe, allora, quest’umanità improvvisamente pronta a tornare a guardare al bosco con altri occhi? Teorie: quelle dell’astrofisica Giuliana Conforto parlano di eventi cosmici in pieno corso, vento solare in rapidissima evoluzione – con pioggia notturna di microparticelle sul nostro cervello in apparenza dormiente. Ieri, nessun lettore scolastico avrebbe potuto prenderli sul serio, i tipi come Giovagnoli. Da qualche anno – lo dice la crescita vertiginosa di nicchie di consumo culturale – si sta invece diffondendo una nuova forma di curiosità collettiva, la stessa che affolla seminari e conferenze, gonfiando gli scaffali di libri semplicemente impensabili nei decenni precedenti.Quelli di Giovagnoli hanno il passo incantato dell’infanzia che sopravvive, adulta, nella maturità della poesia. Il bosco come preesistenza individuale e collettiva, fisica e metafisica, alla quale fare finalmente ritorno. Tornare là è indispensabile, scrive, in “Alchimia selvatica”: «La crescita è un viaggio in profondità, uno scavare e penetrare, ed è quindi indispensabile tornare indietro, tornare nel bosco». Sappiamo che esiste, ma restiamo sempre a distanza di sicurezza, perché «guardarlo significa sfidarsi». Tra gli alberi, «sentiamo di aver lasciato qualcosa in sospeso, come il vuoto di un tassello staccato da un mosaico. E guardando il bosco – scrive l’autore – si attiva un ingranaggio strano che recupera una corda da un abisso». C’è qualcosa di vivo, legato a quella corda. «Il bosco incute paura, una paura talmente forte da essere attrazione. Tentazione. Ci riguarda, ecco il punto!». Sembra “solo” una foresta, ma è anche uno specchio: «Ci piace parlarne come fosse un’entità esterna, ma intimamente sappiamo che parliamo di noi stessi». Il bosco è misterioso, intricato, buio: un reticolo di forze incontrollabili. «Tutto ciò che è scomodo e minaccioso racchiude in sé una forza propulsiva e creativa immane, e l’atto di affrontare il bosco è quindi il gesto coraggioso di chi affronta la propria immensità occulta, consapevole che dentro agli aspetti più ombrosi e inquietanti troverà un nutrimento essenziale per la propria crescita».Ciò che ci spaventa va quindi cercato, sostiene Giovagnoli: occorre chiamarlo per nome e raggiungerlo. «La crescita si compie attraverso un contatto, un abbraccio, e un riconoscere nel lato oscuro uno strumento di congiunzione con l’assoluto». E così, assicura l’autore, «ci si avvolge anche di innocenza e di stupore, rendendo lecita e obbligata ogni meraviglia». Si intenerisce, Giovagnoli: «Nel suo farsi specchio dell’animo del visitatore, il mondo selvatico risponde con un gesto protettivo fatto di ineguagliabile bellezza e armonia». A modo suo, lo scrittore-alchimista si sbarazza di qualsiasi residuo antropocentrico: niente ci appartiene davvero, siamo noi – semmai – ad appartenere al tutto, di cui il bosco è un simbolo-madre, potentemente archetipitico. L’albero, scrive Giovagnoli nel suo ultimo libro, è un essere senziente in grado di comunicare anche con l’essere umano. Lo stesso bosco «è un organismo dotato di una intelligenza superiore, capace di interagire con l’essere umano e indurre processi evolutivi sani». Parlare con gli alberi? E’ un gesto antico, quasi sovrumano. Aiuta a scoprire sensibilità inimmaginabili. «C’è una potenza smisurata in te: va risvegliata, accolta e poi protetta», si legge, nel manuale “Impara a parlare con gli alberi”, dedicato al nostro «patto ancestrale col Cosmo Natura».Facile declinarla in poesia, la filosofia alchemica di Giovagnoli. «Quando eri poco più che una cellula – scrive – nell’ossigeno che assorbivi ruotava già il ciclo delle stagioni selvatiche. Dagli stomi ti giungeva il fresco della primavera, l’indaco dei crochi e la caduta infinita di ogni foglia d’autunno. Era lì con te la neve, la luce dell’alba e anche l’influsso di Orione. Il mondo vegetale si faceva liquido e aria per diventare animale. Fedele a un accordo incomprensibile, diventavi Bosco in una forma nuova. Cellula dopo cellula, atomo dopo atomo. E su di un punto invisibile chiamato Anima si addensava il canto di un cosmo intero: la Natura!». L’albero quindi è con noi da sempre, aggiunge il poeta, e continua a “nutrirci” di ossigeno a ogni respiro. Un’antenna potente, capace di «trasmette al cuore le informazioni del cielo». Aggiunge Giovagnoli, rivolto al lettore: «Tu sei un albero, un albero che cammina. Quindi sai già tutto del Bosco, del pianeta Terra e del concilio infinito degli astri. Di ciò che è stato e di ciò che è pronto a venire. Ti occorre solo ricordare. Ed è proprio questo “ricordare” che significa saper parlare con gli alberi».In fondo, basta considerare il bosco come «l’archivio vivente, per eccellenza, di tutto l’universo emozionale umano». Per questo, assicura Giovagnoli, a chi lo “consulta” offre «infinite possibilità per il risveglio interiore». Seguendo le ciclicità delle stagioni «in accordo con le fasi alchemiche», l’autore di “Alchimia selvatica” guida un percorso pratico di interazione con gli elementi selvatici, mantenendo una posizione intermedia tra il narratore poetico e il “life coach”. Gli attrezzi da usare sono svariati tipi di comunicazione: quella dell’incanto e quella dell’osmosi, la comunicazione estetica e quella onirica. Teoria e pratica, dalla “comunicazione epidermica” alla “comunicazione invocativa”. Quasi giocoso l’approccio dell’ultima fatica, “Impara a parlare con gli alberi”: istruzioni per “ricordare” dov’è sepolta la sorgente misteriosa della nostra ancestrale parentela originaria con il bosco, la foresta di esseri “fatti di mente e cuore”, fieramente immobili sul terreno, incapaci di menzogna e portatori di una verità che ci sfugge: il sentimento della Terra, non più vista come oggetto di conquista ma finalmente dall’interno, come universo orbitante cui si deve, semplicemente, la vita.(I libri: Michele Giovagnoli, “Alchimia selvatica. La via del risveglio attraverso le arti magiche del bosco”, MacroEdizioni, 135 pagine, euro 10,20; “Impara a parlare con gli alberi”, UnoEditori, 109 pagine, euro 13,90. Giovagnoli li presenterà entrambi in valle di Susa domenica 26 agosto 2018 all’ombra degli alberi nel Parco Scholzel Manfrino in borgata Cresto a Sant’Antonino di Susa, ore 19. Nel pomeriggio, dalle ore 14 alle 19, animerà il seminario “Il mondo magico degli alberi, come interagire con loro ed attingere ad una conoscenza superiore”. Prenotazioni per il seminario: AncheAncora, più la pagina Facebook di Giovagnoli).«Parlare con gli alberi è un gesto antichissimo, meraviglioso e potente: quasi una danza, erotica e delicata, che vivifica l’intelligenza emotiva e armonizza gli emisferi celebrali». Maghi, streghe e alchimisti l’hanno compiuta per millenni, «celebrando la connessione sacra fra la nostra intimità e il pianeta Terra». Oggi, secondo Michele Giovagnoli, «l’umanità è pronta per tornare a parlare con gli alberi». Magari anche con l’aiuto di un testo «rivoluzionario, semplice e poetico, preciso e sorprendente», come appunto “Impara a parlare con gli alberi”, che Uno Editori presenta come “manuale pratico per comunicare, evolvere e guarire col bosco”. Missione: «Ricordarci chi siamo davvero e da dove veniamo», fino ad «ampliare il fronte del possibile», alla ricerca del proprio essere. E’ verdissima e decisamente fuori ordinanza la bussola che orienta Giovagnoli, laureato in scienze naturali e a lungo impegnato nello studio dei boschi. Poi, una notte, la rivelazione: il contatto ancestrale con la foresta può essere illuminante e persino radicalmente terapeutico. Ricerca, a metà strada tra il visibile scientifico e l’invisibile, che solo gli ingenui chiamano ancora soprannaturale. Niente di occulto, nella sapienza (naturale) dell’ultrapiccolo: piuttosto una sorta di misteriosa, antichissima saggezza, dove a “parlare” è l’immanenza di una dimensione percettiva sospesa a mezz’aria fra terra e cielo – come, appunto, quella degli alberi.
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Mare d’erba: dalla Mongolia all’Europa, a cavallo. Da sola
Mare d’erba. Qualcosa su cui il vento distende le sue onde, rimescolando epoche e leggende, condottieri barbarici e luminose civiltà come quelle che eressero il palazzo blu di Tamerlano a Samarcanda. Se ce l’hai dentro da sempre, il mare d’erba, potrebbe venirti voglia di andarlo a cercare fuori, lontanissimo da te, nelle steppe asiatiche dei cavalli preistorici che sopravvivono ai millenni, agli inverni, alle temperature più crudeli dell’emisfero boreale. Non è uno sport per signorine, il mare d’erba, e Paola Giacomini è l’eccezione che conferma la regola: partirà da Harahorin, antica capitale mongola dello sterminato impero di Gengis Khan, per raggiungere la Polonia dopo qualcosa come 500 giorni, in sella. Meta intensamente simbolica, Cracovia: dove la melodia bruscamente interrotta di una tromba ricorda ancora, ogni giorno alla stessa ora, la drammatica irruzione dei cavalieri tartari, nel 1241. «Donerò alla città una freccia mongola come quella che fece tacere per sempre il trombettiere polacco, di guardia sul campanile della cattedrale: quella freccia avrà fatto con me tutta la strada dei cavalieri di allora». Più di diecimila chilometri – una trentina al giorno, per 350 giornate di marcia – attraverso Mongolia e Siberia, Kazakhstan e Russia, Bielorussia e Polonia. Dalla primavera 2018 all’estate-autunno 2019. Unico orizzonte: l’eternità del mare d’erba, superando le acque dell’Irtys, dell’Ural, dell’immenso Volga.Fa impressione, tanto amore per il mare d’erba, in un’Italia mediocre e stagnante, incagliata tra elezioni sbilenche e declino sociale inesorabile, palazzi europei abitati da banchieri alieni. Fa impressione, tanta ostinazione nel voler naufragare per un anno e mezzo, in solitudine, nell’infinita memoria ventosa dell’Eurasia: ogni fiato vale secoli, nella vertiginosa perdizione delle latitudini orizzontali. Un universo quasi inaccessibile al passo corto del nostro dimesso quotidiano digitale, fatto di “like” su Facebook, in un pianeta dove è in vendita ogni politico, è in offerta qualsiasi sogno, si compra a rate ogni centimetro di terra. Il mare d’erba, invece, vive di solo cielo: è primordiale, ci parla di qualcosa che non ricordiamo più. Risale all’infanzia dell’umanità, precede la civilizzazione agricola. Lo ricorda il grande intellettuale triestino Francesco Saba Sardi: il potere che ci sovrasta, in forma di dominio, nacque a partire dal neolitico, con la scoperta delle coltivazioni. L’improvvisa importanza del territorio, i primi villaggi. Sorse allora l’inedita necessità di esseri umani non più liberi, trasformati in lavoratori docili. L’invenzione della religione come strumento per ottenere l’obbedienza degli schiavi, contadini e soldati: guerra, frontiere. Il cavaliere tartaro, nella sua arcaica fierezza già intaccata dal morbo sanguinoso della conquista, resta forse il più diretto discendente dell’uomo paleolitico, innocuo per i suoi simili, pronto a usare l’arco solo per la caccia, in un mondo senza confini da difendere.Libertà nomade, grazie all’antica alleanza col cavallo. Quello di Paola – valsusina, laureata in agraria, esperta di equitazione alpina – si chiama Isotta Raminga. Una creatura straordinaria, rimasta senza un occhio. Con Paola ha percorso migliaia di chilometri, in solitaria: dalla Sacra di San Michele alle onde dell’Atlantico, nel vasto tramonto di Capo Finisterre, alla fine del Camino de Santiago, da cui lo struggente diario “Campo di Stelle”. E poi, nell’estate 2017, l’intera catena alpina, da Lubiana a Cuneo, lungo i “Sentieri da lupi” che sono diventati un libro (Blu edizioni). Questa volta, Isotta dovrà restare a casa: non reggerebbe al volo Roma-Pechino, né alle temperature del deserto bianco che ricopre il mare d’erba nell’inverno russo. La missione è affidata ad altri equini, cavalli mongoli temprati dal vento dell’oriente estremo. Saranno loro a attraversare il mare d’erba, insieme a Paola, che ogni sera monterà un bivacco e dormirà sotto le stelle. Popoli e lingue, foreste di betulle, laghi e paludi. I fiumi dei cosacchi, il canto sovrumano (diplofonico) degli ultimi pastori-sciamani nei loro accampamenti mobili, tra mandrie di renne ruminanti. Bambini e cani, falconieri alati con l’aquila a cavallo per cacciare i lupi. Sapore di latte appena munto, birre in lattina con l’effigie del Gran Khan.Il mare d’erba come sfida: per chi ha globalizzato tutto, tranne la sincerità. L’incedere a cavallo, il passo lento di chi fiuta e guarda, fotografa il frasario universale di una fraternità fatta di gesti: il codice del dono, un piatto di minestra, il benvenuto sacro che si deve allo straniero errante. Cielo e stelle in ascolto, per migliaia di chilometri. Parole forestiere, monosillabi, il fuoco di un saluto prima della notte. Prendere il largo in mezzo al mare d’erba: vuol dire perdere di vista ogni orizzonte conosciuto, nel dubbio che niente ci appartenga veramente, qui, dove la massima fortuna starebbe proprio nel contrario: nello scoprire un giorno che forse siamo noi, semmai, che apparteniamo al tutto. C’è chi lo sa da sempre, come i Sufi, che si tengono ai margini del tempo. C’è chi lo va cercando, l’infinito, là dove il mondo fa perdere le tracce, riuscendoci benissimo.(Paola Giacomini è sul web, sia su Facebook che sul sito “Sellarepartire”. E’ possibile contribuire concretamente alla sua onerosa missione partecipando al crowdfunding del progetto “Mare di Erba” sulla piattaforma Eppela. Tra le ricompense, anche l’opportunità di condividere con Paola, al suo ritorno, una giornata speciale attorno alla Gher, la tenda mongola – Yurta, per i russi – che ha già montato in valle di Susa, nel prato dove pascola l’inseparabile cavalla Isotta).Mare d’erba. Qualcosa su cui il vento distende le sue onde, rimescolando epoche e leggende, condottieri barbarici e luminose civiltà come quella che eresse il palazzo blu di Tamerlano a Samarcanda. Se ce l’hai dentro da sempre, il mare d’erba, potrebbe venirti voglia di andarlo a cercare fuori, lontanissimo da te, nelle steppe asiatiche dei cavalli preistorici che sopravvivono ai millenni, agli inverni, alle temperature più crudeli dell’emisfero boreale. Non è uno sport per signorine, il mare d’erba, e Paola Giacomini è l’eccezione che conferma la regola: partirà da Harahorin, antica capitale mongola dello sterminato impero di Gengis Khan, per raggiungere la Polonia dopo qualcosa come 500 giorni, in sella. Meta intensamente simbolica, Cracovia: dove la melodia bruscamente interrotta di una tromba ricorda ancora, ogni giorno alla stessa ora, la drammatica irruzione dei cavalieri tartari, nel 1241. «Donerò alla città una freccia mongola come quella che fece tacere per sempre il trombettiere polacco, di guardia sul campanile della cattedrale: quella freccia avrà fatto con me tutta la strada dei cavalieri di allora». Più di diecimila chilometri – una trentina al giorno, per 350 giornate di marcia – attraverso Mongolia e Siberia, Kazakhstan e Russia, Bielorussia e Polonia. Dalla primavera 2018 all’estate-autunno 2019. Unico orizzonte: l’eternità del mare d’erba, superando le acque dell’Irtys, dell’Ural, dell’immenso Volga.
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L’astrofisica è cieca, vede solo il 5% di ciò che ci circonda
La notizia che la sonda Kepler della Nasa ha scoperto una Terra simile a 1.400 anni luce di distanza ha eccitato molti, contenti di non essere soli nell’universo e convinti che la vita emerga solo in pianeti abitabili, cioè vicini a una stella gialla come il nostro sole. La Nasa li sta scoprendo e non sono pochi, per ora 2.326, riportano esperti e media, “dimenticando” di chiedersi cos’è la vita. Incredibile ma vero, nessuno lo sa. Dopo lunghe discussioni i biologi hanno raggiungo il seguente accordo: la vita è tutto ciò che si riproduce e mantiene il suo ordine. Una tale definizione include cristalli, pianeti, stelle e sistemi solari, oltre tutti gli organismi sulla superficie terrestre; dimostra che le origini della vita non risalgono a un passato remoto, ma si rinnovano in ogni concepimento. Il nostro sistema solare nasce con l’esplosione di una supernova, 4-5 miliardi di anni fa. L’universo osservato nasce con un Big Bang circa 14 miliardi di anni fa, ma è appena il 5% della massa totale e potrebbe essere la riproduzione di universi simili, “oscuri” ma calcolati, sempre sognati e illustrati dagli artisti. L’universo è un organismo intelligente, dicono saggi e poeti sin dall’antichità.Cercando pianeti abitabili, la Nasa fa credere che l’universo osservato (5%) sia un meccanismo su cui questo ente misterioso, la vita, alligna solo se ci sono certe condizioni. Pochi sanno dell’immane energia oscura che pullula dal “vuoto” ed è niente di meno il 70% della massa, secondo dati ufficiali. Non solo; si “dimentica” anche che il “vuoto” permea tutto, persino gli atomi dei nostri corpi, ed è legato al restante 25% che è materia oscura. Così grazie alla pubblicità, quasi tutti “ignorano” che le sonde spaziali non osservano la realtà, ma solo le “ombre”, direbbe Platone, i suoi effetti sul 5%. La notizia strepitosa è che il 95% oscuro è indipendente dalle tre forze universali che consideriamo naturali (gravità, elettromagnetismo e nucleare forte). Allora il 95% è sovrannaturale?! Sì, e può essere organizzato in infiniti mondi intelligenti e avere effetti sul 5% “naturale”. Di fronte a una cecità scientifica così grande, riconosciuta peraltro all’unanimità, di fronte a misteri insoluti quali il concepimento e la morte, a che ci serve sapere che ci sono 2.326 pianeti abitatili a distanza di migliaia di anni luce? A coltivare il grande inganno: l’isolamento della Terra e la solitudine dell’umanità – che nasce, soffre e muore senza sapere perché, è costretta a lottare ogni giorno per un pugno di dollari, euro o yen.Milioni di esperienze di pre-morte, memorie di vite passate, auto-guarigioni ed eventi repentini che chiese e accademie non spiegano, sono indizi che le due porzioni – naturale (5%) e sovrannaturale (95%) – sono legate tra loro. «Un’unica Forza, l’Amore, rende vivi infiniti mondi intelligenti», affermava Giordano Bruno, e potremmo confermare oggi, riconoscendo che l’unica “forza” può coincidere con quella che i fisici chiamano “debole”. Le neuroscienze hanno riconosciuto l’opera attiva dell’energia oscura nei cervelli umani. L’energia oscura sfida anche il principio copernicano in base al quale l’astronomia calcola le distanze. Ebbene, questo principio è falsificato da varie osservazioni, tra cui quelle compiute in microonde. Elaborando i dati in queste frequenze, astrofisici francesi hanno dimostrato che il “vuoto” può avere una struttura geometrica che si comporta come una sala di specchi. «Siamo in una realtà umbratile», scriveva Giordano Bruno, bruciato nel 1600 come eretico. «Siamo dentro un videogame», affermano oggi molti astronomi seri, sfidando il principio copernicano ovvero il credo, mai provato, che ciò che ci appare “vuoto” sia davvero tale; può essere pieno non solo di strutture speculari, ma anche di universi intelligenti nascosti “dietro” le stesse strutture.Allora gli infiniti mondi intelligenti non sono distanti come crede, o meglio, fa credere la Nasa: sono universi distinti, qui presenti, invisibili perché composti di generi di materia che non riflettono la luce elettromagnetica, universi nascosti dalla nostra stessa credulità nelle “certezze” accademiche. Se l’unica “forza” che li unisce tutti è l’Amore, possiamo capire che sì, siamo dentro un videogame, ma abbiamo anche la sensibilità necessaria per uscirne, superare l’illusione e comprendere che siamo partecipi di un “universo organico” eterno, e che finora abbiamo osservato le “ombre” cioè solo le immagini di un video. Possiamo ascoltare l’audio che è Musica e Canto, dice Bruno, forse il Coro della grande Opera che si sta svelando e ci può liberare dagli inganni. “Lasciate le ombre e abbracciate il vero, non scambiate il presente con il futuro. Tu sei il vaso entro cui il Fiume trabocca, mentre le ombre desiderano solo ciò che divorano” (Parte di una poesia di Giordano Bruno, riportata nel libro “L’eresia di Giordano Bruno e l’eternità del genere umano”).(Giuliana Conforto, “Illusioni astronomiche”, dal blog della Conforto, autrice del saggio su Giordano Bruno edito da Noesis, 126 pagine, 15 euro).La notizia che la sonda Kepler della Nasa ha scoperto una Terra simile a 1.400 anni luce di distanza ha eccitato molti, contenti di non essere soli nell’universo e convinti che la vita emerga solo in pianeti abitabili, cioè vicini a una stella gialla come il nostro sole. La Nasa li sta scoprendo e non sono pochi, per ora 2.326, riportano esperti e media, “dimenticando” di chiedersi cos’è la vita. Incredibile ma vero, nessuno lo sa. Dopo lunghe discussioni i biologi hanno raggiungo il seguente accordo: la vita è tutto ciò che si riproduce e mantiene il suo ordine. Una tale definizione include cristalli, pianeti, stelle e sistemi solari, oltre tutti gli organismi sulla superficie terrestre; dimostra che le origini della vita non risalgono a un passato remoto, ma si rinnovano in ogni concepimento. Il nostro sistema solare nasce con l’esplosione di una supernova, 4-5 miliardi di anni fa. L’universo osservato nasce con un Big Bang circa 14 miliardi di anni fa, ma è appena il 5% della massa totale e potrebbe essere la riproduzione di universi simili, “oscuri” ma calcolati, sempre sognati e illustrati dagli artisti. L’universo è un organismo intelligente, dicono saggi e poeti sin dall’antichità.
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L’eresia di Giordano Bruno: siamo eterni, come l’universo
Con la sua “eresia” Giordano Bruno svela il “tiranno” che ci ha reso schiavi per millenni, indica i modi per riconoscerla e per liberarcene senza lottare. E’ il nostro stesso credo in una “conoscenza” meccanicista che ignora il ruolo cruciale della Vita, promuove una concezione artefatta di “dio” e usa concetti, privi di significato. Uno è il tempo lineare, su cui si basa tutto il “sapere” funzionale al potere. Cos’è il tempo? Nessuno lo sa, ma tutti credono che proceda in modo inesorabile con un unico ritmo immutabile, lo stesso che vale per l’universo, le stelle in cielo, i salari e i debiti sulla terra. Non è il “tiranno” che fa gli schiavi; sono i credenti nella “tirannia” che conservano il mondo in uno stato di schiavitù. Non c’è un unico tempo in Natura. Ci sono infiniti tempi e c’è un’unica Forza che li dirige tutti, rispettando sogni e bisogni di organismi quali quelli umani. L’eresia di Bruno è in fondo una proposta semplice: quella di dire “pane al pane e vino al vino”, riconoscere il reale significato delle parole e il ruolo importante del linguaggio.“La lingua degli astri è musica e canto”, non è solo scienza, fatta di concetti difficili e di conti riservati a pochi; è musica che tutti possono amare, suscita emozioni e sensazioni, stimola creatività e innovazione, musica di cui ognuno di noi può essere co-autore. Considerando la terra una palla di roccia che vaga sola soletta in uno spazio “vuoto” e credendosi vincolati a un pianeta con risorse limitate, gli uomini tuttora ignorano scoperte, anticipate da saggi come Bruno e confermate da ricerche molto serie e poco diffuse. Una è la scoperta, o meglio “riscoperta”, della caverna platonica. La Terra non è palla rigida, ma composta di sfere cave concentriche che si muovono in modo indipendente le une dalle altre. Al centro comune c’è il Motore Primo che svela il “segreto” di un’energia illimitata, “segreto” svelato da Bruno che non a caso è stato messo a tacere. Il “segreto” è il doppio movimento, orario e antiorario, movimento che si autoalimenta, senza bisogno di combustibili. E poi c’è un altro “segreto” svelato: le Scienze dello Spazio non osservano la realtà reale, bensì un film proiettato sulle pareti di una caverna, riconoscibile nella magnetosfera terrestre; osservano un canale di una Tv olografica che si sta spegnendo a ritmi accelerati. Non è la fine del mondo, ma la fine dell’illusione e dell’ignoranza che hanno accompagnato tutta la storia conosciuta.La realtà reale è la comunione di ogni essere con la Forza che anima e co-muove, rende vivo ogni corpo. L’eresia di Bruno è “segreta” perché la sua rivelazione implica il crollo del potere temporale che ha dominato la storia conosciuta, svela l’arbitrio dei confini stabiliti dai vincitori e la cinica indifferenza verso i vinti. Alla base di questa storia c’è un inganno colossale. E’ il credo nello spazio e nel tempo – “stupidità manifesta”, afferma Bruno – e confermano scoperte quali quella in copertina. L’unione è la Forza – la Vita Cosmica – che genera il seme, non solo il Dna ma anche l’Rna. Il sistema Dna e Rna dimostra che ogni essere umano vive in almeno due mondi, ovvero due tempi che si compongono in reciproca armonia. Non esiste in Natura un unico tempo sul quale calcolare tutto, in particolare, gli interessi dei debiti, contratti dai governi e scaricati sulle spalle dei popoli. “C’è un sol Governo, una sola Legge, l’Amore”, afferma Bruno, e possiamo infine riconoscere, entrando in contatto con la Memoria vera, quella Genetica. C’è un solo Essere Eterno, un infinito Universo Organico, nascosto da qualsiasi potere. Oggi abbiamo dati e scoperte che ci consentono di ritrovare la nostra umana potenza, la coscienza.(Giuliana Conforto, “L’eresia di Giordano Bruno e l’eternità dell’essere umano”, dal blog della professoressa Conforto, astrofisica. Il libro: Giuliana Conforto, “L’eresia di Giordano Bruno e l’eternità dell’essere umano”, Noesis Edizioni, 126 pagine, 15 euro).Con la sua “eresia” Giordano Bruno svela il “tiranno” che ci ha reso schiavi per millenni, indica i modi per riconoscerlo e per liberarcene senza lottare. E’ il nostro stesso credo in una “conoscenza” meccanicista che ignora il ruolo cruciale della Vita, promuove una concezione artefatta di “dio” e usa concetti, privi di significato. Uno è il tempo lineare, su cui si basa tutto il “sapere” funzionale al potere. Cos’è il tempo? Nessuno lo sa, ma tutti credono che proceda in modo inesorabile con un unico ritmo immutabile, lo stesso che vale per l’universo, le stelle in cielo, i salari e i debiti sulla terra. Non è il “tiranno” che fa gli schiavi; sono i credenti nella “tirannia” che conservano il mondo in uno stato di schiavitù. Non c’è un unico tempo in Natura. Ci sono infiniti tempi e c’è un’unica Forza che li dirige tutti, rispettando sogni e bisogni di organismi quali quelli umani. L’eresia di Bruno è in fondo una proposta semplice: quella di dire “pane al pane e vino al vino”, riconoscere il reale significato delle parole e il ruolo importante del linguaggio.
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Allegri e Boso, workshop: l’eterna commedia dell’arte
Eugenio Allegri, l’indimenticato mattatore di “Novecento”, monologo scritto per lui da Alessandro Baricco, propone uno stage di commedia dell’arte dal 7 al 9 agosto ad Avigliana (Torino): introduzione storico-teorica, training e tecnica del movimento, attitudini e maschere, entrées d’improvvisazione e contrasti di maschera affidati alle principali incarnazioni della commedia dell’arte: dallo Zanni ad Arlecchino, da Brighella al Capitano, passando per il Dottore, Pantalone e la Strega.