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  • Se la Cina ci ripensa: Via Polare della Seta, e addio Italia

    Scritto il 01/4/19 • nella Categoria: idee • (6)

    E se la Cina ci ripensa, dopo aver costretto l’Italia a convivere con i maxi-investimenti per i porti di Genova e Trieste? Paolo Barnard teme che l’accordo commerciale con Pechino possa rivelarsi un fardello insostenibile, per il nostro paese: lavoro “schiavistico” e inquinamento pesantissimo. Ma forse la prospettiva peggiore è un’altra: fra dieci anni, perdurando il “climate change”, la Cina potrebbe trascurare il Mediterraneo scegliere l’Artico, come direttrice mercantile, accorciando molto il tragitto verso Rotterdam. E questo senza contare la via ferroviaria eurasiatica, in pieno sviluppo. Tradotto: sicuri che scelta portuale italiana sia davvero strategica, capace di dare lavoro per più di un decennio? Giornalista e studioso di economia, Barnard rispolvera innanzitutto Keynes e poi la teoria monetaria moderna: la carta vincente non è mai il mercantilismo, il cui campione europeo è la Germania, ma il mercato interno. La chiave: produzione e consumi a chilometri zero, o quasi, valgono assai più dell’export. L’Italia è alle corde, come molti altri paesi dell’Eurozona, proprio perché non riesce più a emettere moneta sufficiente (deficit positivo) per supportare le aziende e i consumi interni. Legarsi mani e piedi a una potenza come quella asiatica, però, secondo Barnard potrebbe non essere una soluzione: specie se si considera che lo stile cinese non è esattamente ecologico, né amico dei diritti del lavoro.
    In un’analisi publicata sul suo blog, Barnard fa notare che il gigante logistico cinese Cccc (China Communications Construction Co.) esporrebbe gli scali italiani a pericoli considerevoli. Il primo: «Trieste e Genova possono trasformarsi in cloache d’inquinanti cinesi, avvelenando i cittadini e costringendo le amministrazioni a costi per danni di centinaia di milioni». Il secondo: «Gli investitori cinesi sono spietati: un solo sciopero di lavoratori portuali italiani, una sola vertenza ambientale italiana, e ci possono far causa per milioni o anche miliardi». Motivo: nel 1985, l’Italia ha firmato un trattato bilaterale con la Cina, ancora valido, dove il nostro paese s’impegna a rispettare la micidiale “Risoluzione delle dispute tra investitore e Stato” (Isds), dove «qualsiasi investitore cinese può far causa all’Italia se ritiene che le sue leggi gli danneggino il business, e i termini dei processi sono scandalosamente sbilanciati verso le mega-aziende». Poi c’è l’insidia degli eventuali lavoratori a contratto: non per forza italiani, magari cinesi. E nel caso, pesantemente sfruttati. Ma se i rischi connessi al lavoro riguardano le sole maestranze, l’inquinamento investirebbe le intere aree urbane.
    I quattro porti più inquinanti al mondo, avverte Barnard, sono ad alta intensità di navi cargo cinesi. «Singapore, Hong Kong, Tianjin e Port Klang. E’ un caso che nessuno di essi sia in Usa o in Europa?». Gli scali commerciali “vomitano” oltre 20 milioni di tonnellate all’anno di CO2, ossidi di azoto e di zolfo, metano e particolato Pm10. «E’ noto che i cargo di containers sputano veleni anche se fermi in porto, e si calcola che queste emissioni terribilmente nocive per gli abitanti delle città portuali si quadruplicheranno entro il 2050, secondo dati Unctad-Ocse del 2015». Emissioni, calcola Barnard, che in termini di danni collaterali (salute) costeranno 12 miliardi di euro all’anno, secondo le stime dell’Ocse sugli abitanti delle 50 principali città portuali (e questo già oggi, senza ancora la mega-espansione del traffico a Genova e Trieste). Nel porto greco del Pireo, ingigantito e gestito dal colosso cinese Cosco, gli operai hanno scioperato per ottenere almeno «il triste titolo di “lavoratori di mansioni usuranti e insalubri”». Qualcuno ci ha pensato, firmando il Memorandum Italia-Cina? Quanto al business, per Genova e Trieste «si parla più di un aumento di traffico di cargo che di partecipazioni societarie cinesi».
    Innanzitutto, continua Barnard, non è affatto chiaro chi pagherà per gli enormi ampliamenti strutturali dei due porti. La Cina? «Pechino ci presterà milioni, a patto che gli appalti vadano alle sue aziende? O ci presterà soldi e basta? O ce li metteremo noi? C’è caos, su questi punti». E poi: cosa significa mettere lavoratori sotto il controllo dei colossi cinesi? Gli esperti del Global Human Rights Lawyers (Ius Laboris, diritti del lavoro) scrivono quest’anno che «per gli Stati Uniti le scelte sono chiare in tema di Via della Seta: o si chiudono a riccio sul mercato interno con alto protezionismo, oppure accettano di abbassare il costo del lavoro e le protezioni sindacali dei propri lavoratori per competere coi cinesi». Chiaro il concetto? Washington ha già provato cosa significhi aprire ai colossi cinesi: a Saipan, territorio off-shore degli Stati Uniti, pochi anni fa gli americani concessero appalti a tre mega-aziende cinesi per la costruzione di un enorme sito turistico. Ebbene, il 91% dei posti di lavoro fu importato dalla Cina. Scaduti i visti, scrive Barnard, «i cinesi piuttosto che pagare di più per impiegare operai americani locali truffarono le autorità Usa importando lavoratori cinesi illegali con finti visti turistici». Li facevano lavorare 13 ore al giorno, con salari illegali negli Usa. «La sicurezza sul lavoro fu definita “atroce”, con montagne di feriti e persino di morti, come denunciato da Aaron Halegue della New York University Law School. Washington dovette intervenire, e fu una strage di cause e litigi, con una ridda di manager cinesi in galera».
    Stessa storia ad Atene, se non peggio: al Pireo, il colosso cinese Cosco s’è inventato «un sindacato cinese fittizio che vigilava su diritti fittizi», dopo aver preteso «la quasi totale esclusione del sindacato portuale ellenico». Anche in Grecia c’erano molti operai cinesi. Dopo le proteste furono rispediti a casa, «ma al loro posto non furono assunti i portuali greci, bensì operai a contratto dall’Est Europa». Così, Atene è rimasta senza lavoro. Nel 2014 i portuali greci organizzarono uno sciopero per denunciare l’alto tasso d’infortuni sul lavoro, sotto il management di Cosco. «Il premier Samaras gli mandò immediatamente la polizia in assetto antisommossa, e perché? Perché all’istante – scrive ancora Barnard – l’ambasciata cinese ad Atene aveva chiamato il governo, minacciando ritorsioni milionarie per danni al loro business secondo il sopraccitato infame sistema Isds». Conclusione: visto che le imponenti espansioni di Trieste e Genova coinvolgeranno manodopera cinese, il governo ha pensato a come affrontare l’eventuale ricatto, se Pechino dovesse imporre le sue maestranze, come condizione per onorare i suoi impegni finanziari? Sempre secondo Barnard, questi aspetti – piuttosto decisivi – non emergono mai, nelle dichiarazioni rilasciate dai presidenti delle autorità portuali Zeno D’Agostino (Trieste) e Paolo Signorini (Genova), nonché dal sottosegretario “gialloverde” Michele Geraci: cauti e garantisti sui media italiani, ma assai più filo-cinesi (business puro, senza tutele) se intervistati da giornali stranieri.
    Barnard sottolinea l’enorme asimmetria fra Italia e Cina: «L’economia cinese ha una potenza di fuoco da circa 14.000 miliardi di dollari; quella italiana è circa 1.900 miliardi di dollari, 7 volte di meno». Per i cinesi, investire in Italia per far profitti per appena 10 anni e poi tirarsi indietro, lasciando “arrugginire” le banchine di Genova e Trieste una volta spremuto il Belpaese, «è un rischio da spiccioli del caffè». Per noi, invece, sarebbe un disastro. «Ma attenti: le chance che questo accada si stanno materializzando già oggi», avverte Barnard, paventando la peggiore delle ipotesi: quella che vede la Cina in fuga dall’Italia, bypassando Suez e il Mediterraneo grazie alle due vere vie commerciali del futuro, l’Artico e l’Eurasia. Tutti oggi parlano della Via della Seta (marittima), ma Pechino sta già lavorando alla “Via Polare della Seta”. Ovvero: i ghiacci del Polo Nord si stanno sciogliendo a un ritmo vertiginoso, con estati a 30 gradi simili a quelle dell’Adriatico. Come i giganti occidentali dei cargo (ed esempio la Maersk), anche i cinesi stanno scommettendo sulle rotte marittime del Grande Nord liberato dai ghiacci.
    Per ora, riassume Barnard, i cargo seguono ancora la rotta del Sud, dalla Cina al Mediterraneo, attaverso Malesia, India, Golfo di Aden e Canale di Suez. Da qui l’interesse per Genova e Trieste. Tragitto: 13.000 miglia marittime. Ma se le navi fanno invece rotta verso Nord (Siberia, Russia, Norvegia), arrivano a Rotterdam dopo sole 8.000 miglia, tagliando i tempi di due settimane, con risparmi colossali. Ad oggi la direttrice artica è ancora poco battuta, ma la Copenhagen Business School – spiega Barnard – ha calcolato che, dati gli sforzi sia russi che cinesi, la Via Polare della Seta (già oggi percorribile anche d’inverno) diventerà frequentatissima in meno di 20 anni. Altro motivo per cui Pechino potrebbe preferirla: «La rotta tradizionale, a Sud, costringe i cinesi a passare per infinite “gogne” imposte dal dominio americano di ogni miglio di quella tratta, un fatto che strategicamente è intollerabile per la Cina». E non è tutto: a peggiorare le prospettive di Genova e Trieste c’è anche la rotta ferroviaria, sempre per le merci cinesi. Attraversa tutta l’Asia Centrale, la Turchia e i Balcani, arrivando in Europa occidentale attraverso la Grecia. «Anche su questa rotta il presidente Xi Jinping sta investendo cifre e soprattutto tecnologie forsennate, perché per questa via le merci arrivano da noi in meno di 14 giorni, un record».
    Le nuove tratte a scorrimento veloce «ridurranno i tempi ad addirittura 10 giorni», cioè record «imbattibili da qualsiasi rotta marittima». Questo poterebbe i costi ferroviari – oggi superiori a quelli marittimi – entro i limiti della convenienza. «E allora diventa fin banale arrivarci: noi italiani – conclude Barnard – adesso partiremo come pazzi a ingigantire Genova e Trieste, con investimenti “mega” che ancora nessuno sa da chi veramente saranno pagati. Stiamo facendo una scommessa senza precedenti, con pericoli ambientali e lavorativi alti o altissimi». Ma qualcuno, dalle parti di Di Maio, ha pensato a cosa potrebbe accadere fra una decina d’anni, con il boom della rotta marittima del Nord e l’esplosione ferroviaria eurasiatica? Il traffico verso l’Italia potrebbe crollare del 30%, con effetti devastanti sul nostro Pil entro il 2030. «Avete un’idea di che razza di voragine significherà, per le due città e per l’Italia che hanno investito e/o si sono indebitate?». Prima di firmare, il goveno ha affidato serie previsioni ai massimi esperti mondiali? «Bella roba, ritrovarci con Trieste e Genova fra pochi anni trasformate in ipertrofie di cemento e acciaio, inquinate come fogne, con disoccupazione, e ad arrugginirsi al sole. Debiti, buchi di bilancio, titoli da ripagare… Non sarebbe il primo, né l’ultimo, dei soliti dilettanteschi “Italian Jobs”».

    E se la Cina ci ripensa, dopo aver costretto l’Italia a convivere con i maxi-investimenti per i porti di Genova e Trieste? Paolo Barnard teme che l’accordo commerciale con Pechino possa rivelarsi un fardello insostenibile, per il nostro paese: lavoro “schiavistico” e inquinamento pesantissimo. Ma forse la prospettiva peggiore è un’altra: fra dieci anni, perdurando il “climate change”, la Cina potrebbe trascurare il Mediterraneo scegliere l’Artico, come direttrice mercantile, accorciando molto il tragitto verso Rotterdam. E questo senza contare la via ferroviaria eurasiatica, in pieno sviluppo. Tradotto: sicuri che scelta portuale italiana sia davvero strategica, capace di dare lavoro per più di un decennio? Giornalista e studioso di economia, Barnard rispolvera innanzitutto Keynes e poi la teoria monetaria moderna: la carta vincente non è mai il mercantilismo, il cui campione europeo è la Germania, ma il mercato interno. La chiave: produzione e consumi a chilometri zero, o quasi, valgono assai più dell’export. L’Italia è alle corde, come molti altri paesi dell’Eurozona, proprio perché non riesce più a emettere moneta sufficiente (deficit positivo) per supportare le aziende e i consumi interni. Legarsi mani e piedi a una potenza come quella asiatica, però, secondo Barnard potrebbe non essere una soluzione: specie se si considera che lo stile cinese non è esattamente ecologico, né amico dei diritti del lavoro.

  • I fotografi: sono un falso le immagini dell’uomo sulla Luna

    Scritto il 19/1/18 • nella Categoria: segnalazioni • (12)

    «Se le avessero chieste a me, quelle immagini da studio le avrei fatte molto meglio», cioè con le ombre “giuste”, simulando bene l’effetto del sole. Parola di Oliviero Toscani. Il film del presunto allunaggio? La madre di tutte le fake news: «Un falso al 200%». A dirlo è un altro principe della fotografia mondiale, Peter Lindbergh, il numero uno nel campo della moda, “inventore” delle top-model degli anni ‘90, da Cindy Crawford a Naomi Campbell. La domanda: da dove arrivano quelle luci (artificiali) che rischiarano gli astronauti? Proiettori, spot da cinema, pannelli riflettenti: attrezzature di cui l’equipaggio di Apollo 11 non disponeva. L’esame dei fotografi è la prova regina del test condotto da Massimo Mazzucco, autore del documentario “American Moon”. Oltre tre ore di film, che inchiodano lo spettatore di fronte a una verità incontrovertibile: a prescindere dal fatto che ci siamo stati o meno, sulla Luna, le immagini dell’allunaggio – trasmesse dalla Nasa in mondovisione nel 1969 – sono un falso, palese e grossolano. I sospetti crescono ulteriormente, scoprendo che l’ente aerospaziale ha dichiarato di aver “smarrito” i film originali di un evento che, se fosse reale, sarebbe una pietra miliare nella storia dell’umanità. Per non parlare degli astronauti: anziché essere celebrati a vita come eroi, hanno trascorso il resto dei loro giorni a nascondersi.

  • Sycamore, Usa-Siria: il più grande traffico d’armi della storia

    Scritto il 21/7/17 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Migliaia di tonnellate di armi, per miliardi di dollari. Si chiama “Timber Sycamore” e, secondo il giornalista Thierry Meyssan, è stato il più grosso traffico di armi della storia, grazie alla complicità di ben 17 paesi. E’ stato organizzato dalla Cia, sotto Obama, insieme al Pentagono, a servizi Nato e agli alleati mediorientali. Obiettivo: armare l’Isis contro il governo siriano di Bashar Assad. Traffico scoperto e svelato, a suo rischio e pericolo, da una coraggiosa giornalista bulgara, Dilyana Gaytandzhieva, autrice di un clamoroso scoop sul suo giornale di Sofia, “Trud”. Tutto comincia a fine 2016, quando la reporter – durante la liberazione di Aleppo da parte dell’esercito siriano appoggiato dall’aviazione russa – scopre armi di origine bulgara in 9 diversi arsenali abbandonati dai jihadisti. La Bulgaria, ricorda Meyssan, è governata da Boyko Borisov, da tempo identificato come “capomafia” dai servizi internazionali di polizia, che lo ritengono espressione diretta della Sic, uno dei maggiori cartelli criminali europei. Ma né la Nato né l’Ue, organizzazioni in cui la Bulgaria milita, hanno mai contestato l’ascesa al potere da parte di Borisov.
    E se la Bulgaria è stata uno dei principali esportatori di armi in Siria, aggiunge Meyssan, ha beneficiato di una “triangolazione segreta” con l’Azerbaigian, sempre sotto copertura Cia: per esportare armi destinate al terrorismo non solo in Siria, ma anche in Libia, in Afghanistan e persino in India. «Dall’inizio delle primavere arabe – premette Meyssan in un report su “Megachip” – la Cia e il Pentagono hanno organizzato un gigantesco traffico di armi in violazione di numerose risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu». Si badi: anche quando società private fanno da paravento, è impossibile esportare “attrezzature sensibili” senza l’autorizzazione dei governi interessati. Qui si tratta di un traffico gigantesco e particolarmente elusivo: gli armamenti trasportati erano infatti di tipo sovietico, per distinguerli da quelli (di fabbricazione Nato) in dotazione alle poche unità non-Isis, ufficialmente inquadrate dal Pentagono. Le altre armi, quelle per i tagliagole dello Stato Islamico, dovevano sembrare sottratte alle truppe di Assad.
    Forse, in questa ricostruzione, è di aiuto il nome stesso dell’operazione, “Sycamore”, che designa in inglese l’albero di sicomoro. Ancora una volta, le vicende dell’intelligence militare Nato in Medio Oriente sembrano dimostrare l’adozione di nomi tratti da testi antichi e sacre scritture: il sicomoro è l’albero sul quale, secondo il Vangelo, si arrampicò il gabelliere Zaccheo (inviso al popolo) per poter osservare Gesù senza essere visto. Non che fossero tutti ignari, comunque, delle manovre degli “amici del sicomoro”: già si sapeva, dice Meyssan, che la Cia avesse fatto appello proprio alla famigerata Sic di Borisov per produrre urgentemente il Captagon, la nuova “droga dei soldati” destinata agli jihadisti, distribuita in Libia prima ancora che in Siria. Una inchiesta di Maria Petkova, pubblicata dalla rete di segnalazione investigativa balcanica “Brin”, ha rivelato che tra il 2011 e il 2014 la Cia e il Socom (Pentagon Special Operations Command) avevano acquistato armi per 500 milioni di dollari dalla Bulgaria per conto dell’Isis. «Poi, in seguito, abbiamo appreso che altre armi erano state pagate dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti e trasportate da Saudi Arabian Cargo e Etihad Cargo».
    Secondo Krešimir Žabec, del quotidiano di Zagabria “Jutarnji List”, alla fine del 2012 la Croazia ha consegnato 230 tonnellate di armi a jihadisti siriani per un valore di 6,5 milioni di dollari. «Il trasferimento in Turchia è stato gestito da tre Ilyushin della compagnia Jordan International Air Cargo, e le armi sono state poi paracadute dall’esercito del Qatar». Secondo Eric Schmitt del “New York Times”, l’intero sistema era stato creato dal generale David Petraeus, allora direttore della Cia, agli ordini di Barack Obama. Nel 2012, continua Meyssan, quando la milizia libanese filo-siriana Hezbollah era sulle tracce del traffico Cia-Socom, venne commesso in Bulgaria un attentato contro turisti israeliani all’aeroporto di Burgas, centro nevralgico di quel traffico. «Ignorando l’inchiesta della polizia bulgara e la relazione del medico legale, il governo di Borisov accusò del crimine Hezbollah mentre l’Unione Europea classificò la resistenza libanese come un’organizzazione terroristica». Posizione poi smentita dal nuovo ministro degli esteri, Kristian Vigenin, dopo la caduta provvisoria di Borisov. E non è tutto. Secondo una fonte curda vicina al Pkk, nel maggio-giugno 2014 i servizi segreti turchi hanno noleggiato treni speciali per consegnare armi ucraine a Raqqa, la “capitale” di Daesh. «Le armi ucraine sono state pagate dall’Arabia Saudita, così come un migliaio di veicoli Hilux (pick-up a doppia cabina) appositamente modificati per resistere alle sabbie del deserto».
    Secondo un’altra fonte, belga, l’acquisto dei veicoli era stato negoziato con la ditta giapponese Toyota dalla società saudita Abdul Latif Jameel. E Andrey Fomin della “Oriental Review” aggiunge che il Qatar, «che non voleva essere tagliato fuori, ha acquistato per i jihadisti la versione più recente del complesso di difesa missilistica Air “Pechora-2D” presso la società statale ucraina UkrOboronProm. La consegna è stata effettuata dalla società cipriota Blessway Ltd». Ancora: secondo Jeremy Binnie e Neil Gibson, della rivista professionale di armamenti “Jane’s”, il comando militare Sealift della Us Navy ha pubblicato due bandi nel 2015 per il trasporto delle armi dal porto rumeno di Costanza fino al porto giordano di Aqaba. Il contratto è stato vinto dalla Transatlantic Lines. Trasporto poi «eseguito il 12 febbraio 2016, subito dopo la firma del cessate il fuoco da parte di Washington, in violazione del suo impegno». Pierre Balanian, di “Asia News”, dichiara che questo sistema è stato esteso nel marzo 2017 con l’apertura di una linea marittima regolare della compagnia statunitense Liberty Global Logistics, che collega il porto italiano di Livorno a quello di Aqaba in Giordania, nonché allo scalo marittimo di Gedda in Arabia Saudita.
    Secondo il geografo Manlio Dinucci, notista del “Manifesto”, questa linea-fantasma era destinata principalmente alla consegna di blindati in Siria e in Yemen. Stando a due giornalisti turchi, Yörük Işık e Alper Beler, gli ultimi contratti dell’era Obama sono stati eseguiti da Orbital Atk, che ha organizzato, attraverso Chemring e Danish H. Folmer & Co, una linea regolare tra Burgas (Bulgaria) e Gedda. Per la prima volta – precisa Meyssan – stiamo parlando non solo di armi prodotte dalla bulgara Vmz (Vazovski Machine Building Factory), ma anche da Tatra Defense Industrial Ltd, della Repubblica Ceca. «Molte altre operazioni si sono svolte in segreto, come dimostrano gli affari del carico Lutfallah II, ispezionato dalla marina militare libanese il 27 aprile 2012, o il cargo Trader, battente bandiera del Togo, ispezionato dalla Grecia il 1° maggio 2016», aggiunge sempre Meyssan. «Il totale di queste operazioni rappresenta centinaia di tonnellate di armi e munizioni, forse anche migliaia, prevalentemente pagate dalle monarchie assolute del Golfo, con il pretesto di sostenere una “rivoluzione democratica”. In realtà, le petro-dittature intervenivano solo per dispensare l’amministrazione Obama dal rendere conto al Congresso statunitense».
    In altre parole, il Parlamento Usa doveva restare all’oscuro dell’operazione “Sycamore”. «Tutto questo traffico era sotto il controllo personale del generale Petraeus, dapprima attraverso la Cia, di cui era direttore, poi tramite la società di investimenti finanziari Kkr, per la quale ha lavorato successivamente». Petraeus ovviamente «ha beneficiato dell’assistenza di alti funzionari, occasionalmente sotto la presidenza di Barack Obama e poi – massicciamente – sotto quella di Donald Trump». Gli Usa in cabina di regia, più alleati europei (Belgio, Croazia), nazioni Nato come la Turchia, paesi mediorientali (Giordania) e petro-monarchie del Golfo. E non solo: Meyssan rivela anche il ruolo, fin qui segreto, di uno Stato ex-sovietico come l’Azerbaigian, grande produttore di petrolio attraverso le piattaforme di Baku sul Mar Caspio. Secondo Sibel Edmonds, agente “pentita” dell’Fbi, poi fondatrice della National Security Whistleblowers Coalition (associazione che diffonde notizie riservate e imbarazzanti) l’Azerbaigian vanta un passato estremamente collaborativo, nei confronti del terrorismo Cia: sotto il presidente Heydar Aliyev, dal 1997 al 2001 ha ospitato a Baku nientemeno che la primula rossa di Al-Qaeda, il medico egiziano Ayman Al-Zawahiri, già braccio destro di Osama Bin Laden.
    Al-Zawahiri sarebbe stato nascosto a Baku «su richiesta della Cia». Sebbene fosse ufficialmente ricercato dall’Fbi, aggiunge Meyssan, il super-terrorista «viaggiò regolarmente su aerei della Nato in Afghanistan, Albania, Egitto e Turchia». Di più: avrebbe anche «ricevuto frequenti visite dal principe Bandar Bin Sultan dell’Arabia Saudita». Per i suoi rapporti in materia di sicurezza con Washington e Riad, aggiunge Meyssan, l’Azerbaigian – la cui popolazione è in prevalenza sciita – si è unito alla sunnita Ankara, «che lo sostiene nel suo conflitto con l’Armenia per la secessione della Repubblica di Artsakh (Nagorno-Karabakh)». L’anziano, storico presidente Heydar Aliyev è morto negli Stati Uniti nel 2003, lasciando il posto al figlio Ilham Aliyev. Dopo la fine dell’Urss, la Camera di Commercio Usa-Azerbaigian è diventata «il retrobottega di Washington», esibendo accanto al presidente Aliyev personaggi del calibro di Richard Armitage, James Baker, Zbigniew Brzezinski, Dick Cheney, Henry Kissinger, Richard Perle, Brent Scowcroft e John Sununu.
    Secondo la giornalista bulgara Dilyana Gaytandzhieva, nel 2015 il ministro per i trasporti Ziya Mammadov ha messo la compagnia statale Silk Way Airlines a disposizione della Cia, con spese a carico dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi, sotto la copertura di “voli diplomatici”, al riparo dalle ispezioni previste dalla Convenzione di Vienna. «In meno di tre anni – sottolinea Meyssan – oltre 350 voli hanno beneficiato di questo straordinario privilegio». Naturalmente, aggiunge, il “voli diplomatici” non sono autorizzati a trasportare materiale bellico. Ma a chiudere un occhio – oltre agli Stati coinvolti direttamente nel traffico – furono paesi come Germania, Serbia, Polonia, Romania, Slovacchia, Repubblica Ceca e Gran Bretagna, più Turchia e Israele. Risultato: «In meno di tre anni, la Silk Way Airlines ha trasportato armamenti per un valore di almeno un miliardo di dollari». Secondo Dilyana Gaytandzhieva, l’organizzazione clandestina ha trafficato armi anche in Pakistan e Congo, sempre a carico di sauditi ed Emirati. Alcune delle armi consegnate in Arabia Saudita sarebbero state “reindirizzate” in Sudafrica e quelle arrivate in Pakistan sarebbero servite a commettere attentati “islamisti” in India, mentre quelle trasportate in Afghanistan «sarebbero pervenute ai Talebani, sotto il controllo degli Stati Uniti, che fingono di combatterli».
    In questi anni, conclude Meyssan, tra i principali mercanti d’armi figurano le aziende statunitensi Chemring, Culmen International, Orbital Atk e Purple Shovel. Poi i caucasici: «Oltre alle armi di tipo sovietico prodotte dalla Bulgaria, l’Azerbaigian, sotto la responsabilità del ministro dell’industria della difesa Yavar Jamalov, acquistò delle scorte in Serbia, Repubblica Ceca e anche in altri Stati, dichiarando ogni volta che l’Azerbaigian era il destinatario finale di questi acquisti». Per quanto riguarda il materiale elettronico di intelligence, «Israele ha messo a disposizione la ditta Elbit Systems, che ha finto di essere il destinatario finale, in quanto l’Azerbaigian non ha il diritto di acquistare questo tipo di apparecchiature». Israele, che ha finto di essere neutrale lungo tutto il conflitto siriano, ha comunque bombardato più volte l’esercito di Damasco. Ogni volta, Tel Aviv ha accampato «il pretesto di aver distrutto armi destinate agli Hezbollah libanesi». In realtà, oggi sappiamo che Israele ha supervisionato le consegne di armi agli jihadisti, rivestendo quindi un ruolo centrale nella guerra sporca contro la Siria. Per l’Onu, falsificare certificati di consegna per la fornitura di armi a mercenari e terroristi è un crimine internazionale. L’operazione Timber Sycamore, nei suoi vari aspetti, è il caso criminale più importante di traffico di armi nella storia: «Coinvolge almeno 17 Stati e rappresenta diverse decine di migliaia di tonnellate di armi per svariati miliardi di dollari».

    Migliaia di tonnellate di armi, per miliardi di dollari. Si chiama “Timber Sycamore” e, secondo il giornalista Thierry Meyssan, è stato il più grosso traffico di armi della storia, grazie alla complicità di ben 17 paesi. E’ stato organizzato dalla Cia, sotto Obama, insieme al Pentagono, a servizi Nato e agli alleati mediorientali. Obiettivo: armare l’Isis contro il governo siriano di Bashar Assad. Traffico scoperto e svelato, a suo rischio e pericolo, da una coraggiosa giornalista bulgara, Dilyana Gaytandzhieva, autrice di un clamoroso scoop sul suo giornale di Sofia, “Trud”. Tutto comincia a fine 2016, quando la reporter – durante la liberazione di Aleppo da parte dell’esercito siriano appoggiato dall’aviazione russa – scopre armi di origine bulgara in 9 diversi arsenali abbandonati dai jihadisti. La Bulgaria, ricorda Meyssan, è governata da Boyko Borisov, da tempo identificato come “capomafia” dai servizi internazionali di polizia, che lo ritengono espressione diretta della Sic, uno dei maggiori cartelli criminali europei. Ma né la Nato né l’Ue, organizzazioni in cui la Bulgaria milita, hanno mai contestato l’ascesa al potere da parte di Borisov.

  • Strage Moby Prince, mistero Nato con troppe navi-fantasma

    Scritto il 09/7/14 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Non “adrift”, alla deriva, ma “Agrippa”, nome proprio di una nave. Che, in teoria, non esisteva. Eppure era al largo di Livorno la sera del 10 aprile 1991, nelle acque in cui il traghetto Moby Prince diretto in Sardegna si scontrò con la Agip Abruzzo, petroliera dell’Eni. Il più grande disastro marittimo italiano: 140 morti, un solo sopravvissuto. E, dopo 23 anni, ancora troppi misteri. Per esempio, troppe navi – anche militari, Nato – la cui presenza non chiara autorizza i peggiori sospetti, come quello del traffico di armi verso la Somalia denunciato da Ilaria Alpi, poi assassinata tre anni dopo alla periferia di Modagiscio.  Un incidente causato da accidentali interferenze elettroniche di origine militare? Soccorsi tardivi, e depistaggi radio, per dare tempo a una nave-fantasma di dileguarsi? Sono molti gli interrogativi che il “Fatto Quotidiano” rilancia, destinati alla commissione parlamentare d’inchiesta voluta da Movimento 5 Stelle insieme a Sel e Pd per far luce, finalmente, sulla tragedia navale della Moby Prince.
    Navi-fantasma: il riascolto incrociato delle tracce radio, sostiene Francesco Sanna nel suo reportage, realizzato col contributo dello studio di ingegneria forense Bardazza di Milano, rivela la presenza di almeno tre natanti inzialmente non identificati, sfuggiti alle prime indagini sul disastro. Il nome del primo vascello-fantasma, l’Agrippa, viene fatto – via radio – dalla nave militarizzata americana Cape Breton, che incrocia a un miglio dall’Agip Abruzzo. Alla Cape Breton si sono rivolti i piloti di Livorno per ricostruire l’accaduto e organizzare i soccorsi. La nave Usa, carica di armamenti destinati alla base di Camp Darby tra Livorno e Pisa, rivela che “Agrippa” è a fuoco, ma l’incendio è sotto controllo. Nella prima inchiesta giudiziaria, la parola “Agrippa” viene male intepretata e tradotta in “adrift”, alla deriva. Nell’inchiesta-bis, aperta nel 2006 e chiusa con l’archiviazione nel 2010, i periti della Procura di Livorno distinguono invece nettamente il nome “Agrippa”. Problema: «Nell’area del porto di Livorno, quella sera del 10 aprile 1991, non c’è nessuna imbarcazione con quel nome», osserva Sanna. «Per giunta l’unica nave interessata da un incendio, oltre al Moby Prince avvolto dal greggio incendiato ma che nessuno vede per ore, è l’Agip Abruzzo».
    Quella notte, continua il giornalista del “Fatto”, un’altra nave-fantasma girava per il porto di Livorno: si chiamava Theresa e si mise in comunicazione radio con un terzo natante non identificato, “ship one”. Chi era Teresa, e chi era la “nave uno”? Secondo gli ingegneri dello studio Bardazza di Milano, che sta lavorando su mandato dei familiari delle vittime, «si trattava della Gallant II, un’altra nave militarizzata americana all’ancora quella sera davanti a Livorno». Benché il quesito cardine alla riapertura dell’inchiesta nel 2006 fosse proprio la tesi del presunto traffico illecito di armi che avrebbe coinvolto gli Stati Uniti, i pm di Livorno «non decisero alcun approfondimento su quell’Agrippa», precisa Sanna. Oggi, a distanza di 23 anni dalla strage, si può ipotizzare che “Agrippa” fosse la Agip Abruzzo, ma non si capisce come mai – parlando con la capitaneria di porto – la nave americana Cape Breton non menzionò la Moby Prince né l’incendio a bordo del traghetto.
    «Di navi fantasma la vicenda della tragedia del Moby Prince ha fatto la collezione», riassume Sanna, menzionando «un peschereccio bianco che qualche testimone ha visto allontanarsi dal punto della collisione», quella sera, subito dopo l’impatto. Per contro, c’è la sicurezza che il natante, “21 Oktobar II” (secondo Ilaria Alpi coinvolto in traffici di armi) era «ormeggiato e inservibile a una banchina del porto». Oltre a Theresa, «l’imbarcazione che usa dei nomi in codice per allontanarsi dalle navi incendiate», c’è quindi l’americana Cape Breton che, mentre parla con la capitaneria, chiama col nome in codice “Agrippa” una nave incendiata, quasi certamente la petroliera dell’Agip. «Ma basta scorrere con attenzione i nastri dei canali radio attivi, e registrati per un caso e senza che quasi nessuno lo sapesse – continua Sanna – per trovare almeno altre due imbarcazioni “fantasma” che quella sera erano nella rada del porto di Livorno». “Fantasma”, ovvero non registrate dall’Avvisatore Marittimo e mai identificate nelle inchieste giudiziarie. «Navi che hanno nome e carta d’identità tutt’altro che irrilevanti per le indagini ricostruttive: la fonte è certa e a portata degli inquirenti, benché trascurata finora da tutte le inchieste».
    Le comunicazioni finora “sfuggite” alle inchieste sono tutte in codice Nato. Una di queste proviene dalla Ntv Alliance, «una nave militare da ricerca, principalmente di tipo sottomarino», tuttora in forza alla Nato in acque italiane. «Cosa ci faceva questa nave nella rada di Livorno a mezz’ora dalla collisione tra Moby Prince e Agip Abruzzo?», si domanda Sanna. «E soprattutto: era ancora in prossimità del luogo dell’evento durante le operazioni di soccorso? Se così fosse, decadrebbe definitivamente il “pilastro” dell’irreperibilità del Moby Prince fino ad un’ora dopo l’incidente». Interrogativi inquietanti: «Può forse una nave come la Alliance perdere di vista per tutto quel tempo il secondo natante in una collisione?». Ma non è finita, perché quella notte «nella rada del porto toscano c’era anche almeno un’altra imbarcazione “fantasma”. Si chiama Amer Ved, nave cargo battente bandiera americana, le cui dimensioni (13.000 tonnellate di stazza lorda) suggerirebbero uno stazionamento in rada». La prova è la registrazione di una comunicazione radio. Ma neppure la Amer Ved era stata regolarmente registrata dall’Avvisatore Marittimo, né è mai stata presa in considerazione dalle inchieste.
    Eppure, aggiunge il “Fatto”, un collegamento con la scena della collisione la Amer Ved l’avrebbe anche: alle 22.50 del 10 aprile 1991 compare sul canale 16 una chiamata della nave militarizzata americana Gallant 2. «Siamo a 25 minuti dalla collisione (avvenuta alle 22.25 circa) e nessuno ha ancora identificato la nave che ha speronato l’Agip Abruzzo». Il comandante della Gallant, Theodossiou, «chiede l’attenzione di “America Cargo” – quindi non segnala un nome preciso ma una qualità dell’imbarcazione – e da “America Cargo” gli rispondono in un inglese masticato chiedendo “dov’è la posizione della nave”, senza specificare quale essa sia». Theodossiou chiuderà con un lapidario: «Me ne sto andando, abbi tu cura della cosa». La conversazione è alquanto enigmatica, sottolinea Sanna. Tuttavia emerge inequivocabilmente la presenza in rada di questa “America Cargo” e il suo domandare circa la posizione di un’altra nave. “America Cargo” potrebbe essere la Amer Ved? «Se sì, cosa stava facendo nella rada di Livorno e perché non è stata identificata durante le indagini? E di cosa si doveva curare, come consigliato dal capitano greco della Gallant 2 che ha tanta premura di “andarsene”?».

    Non “adrift”, alla deriva, ma “Agrippa”, nome proprio di una nave. Che, in teoria, non esisteva. Eppure era al largo di Livorno la sera del 10 aprile 1991, nelle acque in cui il traghetto Moby Prince diretto in Sardegna si scontrò con la Agip Abruzzo, petroliera dell’Eni. Il più grande disastro marittimo italiano: 140 morti, un solo sopravvissuto. E, dopo 23 anni, ancora troppi misteri. Per esempio, troppe navi – anche militari, Nato – la cui presenza non chiara autorizza i peggiori sospetti, come quello del traffico di armi verso la Somalia denunciato da Ilaria Alpi, poi assassinata tre anni dopo alla periferia di Modagiscio.  Un incidente causato da accidentali interferenze elettroniche di origine militare? Soccorsi tardivi, e depistaggi radio, per dare tempo a una nave-fantasma di dileguarsi? Sono molti gli interrogativi che il “Fatto Quotidiano” rilancia, destinati alla commissione parlamentare d’inchiesta voluta da Movimento 5 Stelle insieme a Sel e Pd per far luce, finalmente, sulla tragedia navale della Moby Prince.

  • Arctic Sea, il Mossad e i missili russi per l’Iran

    Scritto il 13/9/09 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Sarebbe stato sequestrato dal Mossad, e non dai pirati, perché carico di missili destinati all’Iran, il cargo russo “Arctic Sea”, scomparso a luglio al largo della Manica e ritrovato a metà agosto a Capo Verde. Lo hanno sostenuto diverse fonti, rivelando che il premier israeliano Netanyahu avrebbe compiuto un viaggio-lampo a Mosca il 7 settembre per chiedere al Cremlino di rinunciare a dotare Teheran di avanzati sistemi di difesa missilistica, destinati alla protezione delle installazioni nucleari iraniane da eventuali raid aerei da parte dei jet di Tel Aviv. Ne dà notizia in Italia il network “PeaceReporter”, che rileva «gli ingredienti per la sceneggiatura di un film o per un libro noir».

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