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Archivio del Tag ‘Carlo De Benedetti’

  • Friedman affonda Napolitano, dopo di lui Prodi o Draghi

    Scritto il 12/2/14 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    I super-poteri stranieri che ordinarono a Napolitano di silurare Berlusconi nel 2011 – alibi: lo spread e l’intimazione della Bce – sono gli stessi che oggi vogliono cacciare l’uomo del Colle. Sono i retroscena che ormai circolano liberamente, sui media, dopo lo scoop di Alan Friedman, a cui Romano Prodi, Carlo De Benedetti e lo stesso Monti hanno confermato ufficialmente – questa la notizia – quello che già si sapeva: e cioè che Berlusconi a fine 2011 “doveva” cadere, perché così volevano i poteri forti, da Washington a Bruxelles. Mentre non manca chi indica in Draghi l’imminente successore di Napolitano, c’è chi evoca interessi Usa per una staffetta Napolitano-Prodi. Il professore di Bologna, scrive “Dagospia”, è infatti ritenuto il personaggio perfetto per controllare e frenare l’inarrestabile Renzi. A tifare per Prodi sarebbero «i poteri marci della nazione, quelli devoti più al codice iban che alla Costituzione».
    Colpisce, scrive Paolo Bracalini sul “Giornale”, che Napolitano e Monti siano messi in imbarazzo dal “Corriere della Sera”, che ha pubblicato lo scoop di Friedman in anteprima mondiale, in tandem col “Financial Times”. Il quotidiano milanese è «lo stesso giornale che ai primi di luglio 2011, nei giorni dei colloqui “segreti” con De Benedetti e Prodi, pubblica due articoli di Monti che sembrano un manifesto della sua prossima premiership. Titoli: “Troppo timidi per crescere” e “Quello che serve davvero al Paese” (sottinteso: un governo Monti)». Ancora più pesante, Friedman, sul giornale finanziario londinese: il giornalista,già collaborare di Jimmy Carter e considerato non ostile all’establishment nonostante la denuncia dello scandalo Iraq-Contras (la vendita sottobanco di armi a Saddam Hussein da parte della Cia) ora parla di «seri dubbi costituzionali» rispetto alle manovre del Colle ed evocando «l’impeachment».
    Secondo Francesco Verderami, del “Corriere”, Berlusconi resta convinto che la manovra per scalzarlo tre anni fa da Palazzo Chigi fu ordita in alcune «precise cancellerie dell’Occidente». Non fa i nomi di Obama, Merkel e Sarkozy, ma c’è un motivo se ripete che gli hanno «voluto far pagare tutto», a partire dalla sua «amicizia con la Russia» e i legami con lo stesso Gheddafi. Sempre secondo Verderami, Berlusconi eviterà comunque di affiancare Grillo nell’offensiva per l’impeachment, nel timore che al Quirinale possa salire Prodi. Aggiunge il “Corriere”: «Che il re fosse “nudo”, che l’ex commissario europeo fosse il designato in pectore, era noto agli esponenti del governo di centrodestra». Tanto che l’allora ministro Altero Matteoli disse ben prima dell’evento: «Ci siamo accorti tardi di quanto sta accadendo attorno a noi. Il piano per portare Monti a Palazzo Chigi è in fase avanzata più di quello che potessimo credere». Infatti, «già in settembre, a Cernobbio, dopo l’intervento del capo dello Stato, in molti davano una pacca sulla spalla a Monti che stava lì in platea».
    Sui “mandanti”, Berlusconi non ha dubbi: non ha dimenticato quando Giulio Tremonti – di ritorno dall’ennesimo vertice a Bruxelles – gli disse: «Il problema sei tu». D’altronde, aggiunge Verderami, «l’offensiva sul debito italiano, le ineffabili risatine in pubblico tra Merkel e Sarkozy, e ancora prima quella visita lampo di Napolitano a Washington per incontrare Obama, rappresentano per il Cavaliere elementi a sostegno della sua tesi». Non solo: a Monti, ricorda Berlusconi, il Quirinale consentì di fare quel decreto sull’economia che non era stato consentito al suo governo. «Silvio, devi capire. È cambiato tutto», lo aveva avvisato Gianni Letta. L’ultimo avvertimento era stato l’attacco ai titoli Mediaset. Tre giorni dopo, la sera del 12 novembre 2011, capitolò. Nel suo libro “Il dilemma”, l’ex premier spagnolo José Luis Rodríguez Zapatero conferma che al tesissimo vertice del G20 di Cannes, il 3-4 novembre 2011, sotto l’infuriare dello sprad Berlusconi «resisteva a tutti gli inviti che riceveva» ad accettare gli aiuti. Inviti provienti da Ue e Fmi. «Nei corridoi già si parlava di Mario Monti».
    Dopo Berlusconi, ora è il turno di Napolitano: per Marcello Foa, Alan Friedman è «il sicario» scelto dal super-potere per liquidare l’uomo del Colle. L’anziano ex comunista convertitosi all’europeismo ultra-atlantista ha deluso i suoi “azionisti”? Loro, i veri grandi manovratori: sono gli uomini del «vero potere», cioè «l’establishment europeista, transnazionale e finanziario», che ricatta interi popoli confiscando loro la moneta, speculando sul debito pubblico e imponendo leggi che esautorano i Parlamenti. Addio sovranità popolare: il nostro ormai è «un mondo in cui i governi non hanno quasi più poteri, i Parlamenti non riescono a legiferare e in cui la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e naturalmente l’Unione europea hanno poteri soverchianti». La vicenda Napolitano? Sembra “cosa loro”. Il presidente «pensava di appartenere a pieno titolo alla super-élite transnazionale», fino a sentirsi intoccabile? Errore: secondo le implacabili leggi non scritte di quell’establishment, c’è chi conta parecchio (come Draghi) e chi un po’ meno (come Napolitano). C’è «chi sa e chi non sa, chi viene cooptato nel girone divino e chi, pur partecipando, resta ai margini».
    «Napolitano – aggiunge Foa – apparteneva alla seconda categoria. E ora che non serve più o forse semplicemente perché ha deluso, viene abbandonato a se stesso. Con modalità che sono proprie di quegli ambienti, usando come sicario un giornalista americano, che di nome fa Alan e di cognome Friedman». A Mario Draghi allude un altro analista, Aldo Giannuli: non ci vuole Sherlock Holmes, scrive, per capire che la testa di Napolitano «è proprio l’obbiettivo della manovra», che vede coinvolti De Benedetti, Prodi e Monti, il “Corriere della Sera” e il “Financial Times”. Domanda: cui prodest? Certo, molti italiani – da Berlusconi a Grillo, da Salvini a Renzi – hanno probabilmente gioito per la rivelazione conclamata della “congiura”, «ma nessuno di loro aveva la possibilità di convincere il “Financial” ad assecondarli». Secondo Giannuli, per il dopo-Napolitano il Pd sarà costretto a cercare l’appoggio di Forza Italia, e potrebbe puntare sul nome di Draghi. Che, date le recenti difficoltà con la Germania – l’aperta ostilità della Corte Costituzionale tedesca sulle misure Bce in tema di acquisto di debiti sovrani dei paesi dell’Eurozona – potrebbe essere “giubilato” alla presidenza della repubblica italiana.

    I super-poteri stranieri che ordinarono a Napolitano di silurare Berlusconi nel 2011 – alibi: lo spread e l’intimazione della Bce – sono gli stessi che oggi vogliono cacciare l’uomo del Colle. Sono i retroscena che ormai circolano liberamente, sui media, dopo lo scoop di Alan Friedman, a cui Romano Prodi, Carlo De Benedetti e lo stesso Monti hanno confermato ufficialmente – questa la notizia – quello che già si sapeva: e cioè che Berlusconi a fine 2011 “doveva” cadere, perché così volevano i poteri forti, da Washington a Bruxelles. Mentre non manca chi indica in Draghi l’imminente successore di Napolitano, c’è chi evoca interessi Usa per una staffetta Napolitano-Prodi. Il professore di Bologna, scrive “Dagospia”, è infatti ritenuto il personaggio perfetto per controllare e frenare l’inarrestabile Renzi. A tifare per Prodi sarebbero «i poteri marci della nazione, quelli devoti più al codice iban che alla Costituzione».

  • Seguite i soldi, e capirete perché Repubblica è pro-Tav

    Scritto il 27/12/13 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    “Follow the money”, come dicono gli americani. Fatelo, e scoprirete tante cose. Per esempio, perché il quotidiano “La Repubblica”, fondato da Eugenio Scalfari e edito dal finanziere Carlo De Benedetti, è così graniticamente pro-Tav. Convinzione ideologica? Forse. Ma come spiegarsi tanta sistematica “disattenzione” verso le inoppugnabili motivazioni dei No-Tav, supportate dai migliori tecnici? Seguite i soldi, dice John Siccardi, e vedrete che gli azionisti del grande quotidiano italiano tutto l’interesse – solido, materiale – perché l’opera pubblica più devastante, assurda e inutile d’Italia, la linea Tav Torino-Lione, si faccia comunque. Anche se il Consiglio d’Europa definisce «incompatibili con il corretto giornalismo investigativo» le campagne giornalistiche realizzate sulla base di prese di posizioni “al servizio di interessi particolari”, è un dato di fatto che proprio gli interessi particolari riescano a farsi strada, eccome, nel mondo della cosiddetta informazione. L’unica domanda che conta è: chi comanda, davvero, in redazione?
    «Individuati i proprietari, cioè gli azionisti – scrive Siccardi sul sito “NoTav.info” – bisognerà poi cercare i loro settori di attività e chiedersi, ad esempio nel caso delle opere pubbliche, se abbiano o potranno avere in futuro un interesse economico all’espansione delle infrastrutture». Se si scopre «un potenziale o concreto beneficio per i proprietari del media», ad esempio nell’alta velocità ferroviaria, «allora non si potrà dire che quel media sia neutro ed equidistante, né il suo messaggio affidabile, perché non disinteressato». Conflitto d’interessi? Siccardi esamina la posizione di “Repubblica”, schieratissima a favore della Torino-Lione. Il giornale è editato dal Gruppo Espresso, società per azioni di cui a detenere la maggioranza (53,8%) è la finanziaria Cir di De Benedetti. Il secondo più importante proprietario del gruppo è Bestinver Gestion, azionista di Cofide (gruppo Cir). A sua volta, Bestinver «è controllata al 100% dal gruppo spagnolo Acciona, che fa molte cose tra cui costruire linee ferroviarie ad alta velocità e fornire corrente elettrica a linee ferroviarie».
    Ricapitolando: attraverso Bestinver, la spagnola Acciona (alta velocità ferroviaria) «controlla più del 20% del principale azionista di “Gruppo L’Espresso S.p.A.” e del suo prodotto editoriale, “La Repubblica”». Ma non solo. La Cir è anche l’azionista di maggioranza di Sorgenia, società italiana che si definisce il secondo fornitore elettrico delle aziende italiane ed il primo operatore privato nel mercato italiano dell’energia elettrica e del gas naturale. «Come tutti sanno, i treni ad alta velocità vanno a corrente elettrica acquistata da fornitori, e così nel 2013 Acciona (azionista di Cir e quindi di Sorgenia) si è aggiudicata un appalto da 200 milioni di euro dal governo spagnolo per alimentare le reti ferroviarie spagnole tradizionali e ad alta velocità». Per Siccardi, l’interesse degli editori di “Repubblica” nello sviluppo dell’alta velocità è palesemente dimostrato dalla composizione azionaria e dal business degli azionisti: cantieri ferroviari Tav e forniture di energia elettrica. Pur senza escludere il legittimo esercizio di libere opinioni, anche in redazione, «si può dire con sicurezza che la linea editoriale complessiva, che da anni fa opinione e pressione su lettori e politici, è nettamente in salsa Sì Tav e che sulla carta ci sono elementi che la possono spiegare». Seguite i soldi, appunto. E le idee vi si chiariranno.

    “Follow the money”, come dicono gli americani. Fatelo, e scoprirete tante cose. Per esempio, perché il quotidiano “La Repubblica”, fondato da Eugenio Scalfari e edito dal finanziere Carlo De Benedetti, è così graniticamente pro-Tav. Convinzione ideologica? Forse. Ma come spiegarsi tanta sistematica “disattenzione” verso le inoppugnabili motivazioni dei No-Tav, supportate dai migliori tecnici? Seguite i soldi, dice John Siccardi, e vedrete che gli azionisti del grande quotidiano italiano potrebbero avere tutto l’interesse – solido, materiale – perché l’opera pubblica più devastante, assurda e inutile d’Italia, la linea Tav Torino-Lione, si faccia comunque. Anche se il Consiglio d’Europa definisce «incompatibili con il corretto giornalismo investigativo» le campagne giornalistiche realizzate sulla base di prese di posizione “al servizio di interessi particolari”, è un dato di fatto che proprio gli interessi particolari riescano a farsi strada, eccome, nel mondo della cosiddetta informazione. L’unica domanda che conta è: chi comanda, davvero, in redazione?

  • L’ultimo neoliberista: Renzi è solo l’avanzo del nuovo

    Scritto il 27/12/13 • nella Categoria: idee • (1)

    Il peggior lascito del ventennio berlusconiano si chiama Matteo Renzi. Nonostante il colpo di fulmine che ha provocato in Maurizio Landini, penso che il segretario del Pd rappresenti l’ennesima riverniciatura delle politiche liberiste che ci han portato a questa crisi e che ora la stanno aggravando. Lo dimostrano i primi suoi atti di governo. Il suo staff sta preparando un altro attacco all’articolo 18, quello che nell’Italia garantista solo verso i potenti suscita scandalo perché stabilisce che chi è licenziato ingiustamente, se il giudice gli dà ragione, deve tornare al suo posto di lavoro. Questo principio di civiltà ha già molte limitazioni, non si applica sotto i quindici dipendenti ed è reso nullo dalla marea di contratti precari. Inoltre, con un accordo con il governo Monti, Cgil Cisl e Uil hanno accettato di liberalizzare i licenziamenti cosiddetti economici, che in una crisi come questa significa via libera alla cacciata di tante e tanti. Ma nonostante questo ultimo atto di autolesionismo sindacale Renzi vuole di più.
    Il progetto per il lavoro annunciato dal suo staff prevede la cancellazione dell’articolo 18 per tutti i nuovi assunti. In cambio verrebbero diminuiti i contratti formalmente precari. Questo per la ovvia ragione che essendo possibile il licenziamento a discrezione, il contratto precario perderebbe ragione d’essere. Se posso cacciarti quando voglio perché devo scervellarmi a trovare il contratto capestro più adeguato, semplicissimo no? È ovvio che questo è solo un passaggio intermedio verso l’abolizione totale della tutela contro i licenziamenti ingiusti. Infatti se tutti i nuovi assunti saranno privi di quella tutela per un bel po’ di tempo, le aziende saranno interessate a chiudere e licenziare per riassumere senza diritti. E chi li dovesse mantenere sarebbe considerato un privilegiato da combattere. Il renziano Pietro Ichino sostiene da anni che nel mondo del lavoro vige l’apartheid come nel Sudafrica prima della vittoria di Mandela. Peccato che così si faccia l’eguaglianza a rovescio. Come se in quel paese, invece che estendere ai neri i diritti dei bianchi, si fosse deciso di rendere tutti eguali togliendo quei diritti a tutti.
    La soppressione dell’articolo 18 non è certo una novità. Da sempre in Italia è rivendicata dalle organizzazioni delle imprese quando non sanno che dire e fu tentata dal governo Berlusconi nel 2002. La Cgil di allora però riuscì a impedirla. In Spagna i governi hanno da tempo liberalizzato i licenziamenti, e quel paese oggi è l’unico grande Stato europeo con un tasso di disoccupazione superiore al nostro. In Francia ci provò il presidente Sarkozy a introdurre una misura simile a quella che piace oggi a Renzi. Fu fermato da una gigantesca protesta giovanile e popolare. La seconda iniziativa del neoeletto leader è stata quella di mettersi di traverso rispetto a quella che è stata chiamata la Google Tax. Cioè un tenuissimo provvedimento di tassazione sugli affari delle grandi multinazionali che operano nella rete e che hanno sede legale in paradisi fiscali.
    Queste società guadagnano miliardi da noi e non pagano un centesimo, come ha ricordato quel comunista di Carlo De Benedetti. E come soprattutto ricorda la Corte dei Conti, che da tempo afferma che la quota più rilevante dei tanti miliardi che mancano al fisco viene dalla elusione fiscale delle grandi società che giocano con le sedi legali all’estero. Il progressista Renzi ha subito detto a Letta che questa tassa non s’ha da fare, e così è stato. Viene da chiedersi, ma dove sta il nuovo in tutto questo? Sviluppare l’economia con la flessibilità del lavoro e la detassazione dei ricchi e delle multinazionali, è il principio guida delle politiche liberiste che hanno dominato negli ultimi trenta anni. Siamo ancora qui, sono queste le “riforme”? Se è così, il progetto di Matteo Renzi più che essere il nuovo che avanza, è l’avanzo di quel nuovo che ci ha portato al disastro attuale.

    Il peggior lascito del ventennio berlusconiano si chiama Matteo Renzi. Nonostante il colpo di fulmine che ha provocato in Maurizio Landini, penso che il segretario del Pd rappresenti l’ennesima riverniciatura delle politiche liberiste che ci han portato a questa crisi e che ora la stanno aggravando. Lo dimostrano i primi suoi atti di governo. Il suo staff sta preparando un altro attacco all’articolo 18, quello che nell’Italia garantista solo verso i potenti suscita scandalo perché stabilisce che chi è licenziato ingiustamente, se il giudice gli dà ragione, deve tornare al suo posto di lavoro. Questo principio di civiltà ha già molte limitazioni, non si applica sotto i quindici dipendenti ed è reso nullo dalla marea di contratti precari. Inoltre, con un accordo con il governo Monti, Cgil Cisl e Uil hanno accettato di liberalizzare i licenziamenti cosiddetti economici, che in una crisi come questa significa via libera alla cacciata di tante e tanti. Ma nonostante questo ultimo atto di autolesionismo sindacale Renzi vuole di più.

  • La verità su Ert, il super-clan che domina i nostri politici

    Scritto il 15/11/13 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Accanto all’oscuro Carlo Bozotti, re della micro-elettronica che controlla l’infrastruttura web, siedono Paolo Scaroni dell’Eni e rampolli delle più importanti dinastie dell’élite italiana, da John Elkann del gruppo Fiat a Rodolfo De Benedetti della Cir. Sono gli onnipotenti signori della Ert, European Round Table, la super-lobby più potente della Terra. Fondata trent’anni fa su iniziativa di Reagan per controllare l’Europa, con la partecipazione di italiani come Umberto Agnelli e Carlo De Benedetti, la Ert è oggi la vera struttura di comando dell’Unione Europea, quella che “detta” le direttive ai vari Barroso e Van Rompuy, le quali poi – a catena – le passano agli ultimi esecutori periferici, che in Italia si chiamano Berlusconi e D’Alema, Letta e Monti. La notizia? «Ormai, convinti di aver vinto, si sono aperti il loro bravo sito dove si presentano per ciò che sono, suddivisi per settori di competenze e segmenti di mercato». Prova a smascherarli un documentario dirompente, “The Brussels Business”, diretto da Friedrich Moser e Mathieu Lieuthert, che verrà proiettato nelle principali città europee.
    Sono la vera cupola che sovrintende al destino degli europei, scrive il blogger Sergio Di Cori Modigliani: «Decidono chi governa e chi non lo fa, stabiliscono se l’Italia avrà le larghe intese, se la Germania avrà la grosse koalition e se è il caso che il Belgio abbia o non abbia un governo. Decidono quali leggi far passare in Italia e nel resto d’Europa. Decidono quanti disoccupati ci devono essere o non essere, e se le imprese italiane devono o non devono essere pagate. Sono tutti membri del più potente club del pianeta Terra. In confronto, il Bilderberg è folklore per nuovi ricchi a caccia di status sociale da esibire». La foto di gruppo dei fondatori parla chiaro: sul ponte di comando figurano i signori Thyssen, Siemens, Shell, Philips, Nestlé, Volvo, Renault. Oggi sono ancora più potenti, da quando Bruxelles ha centralizzato ogni decisione sul nostro futuro. Bce, Fmi, Commissione Europea, Eurozona. Siamo nelle loro mani. Hanno migliaia di funzionari, miliardi di budget. «Controllano il 75% della produzione mediatica europea», e inoltre presidiano «le borse, i mercati, gli investimenti industriali». Stabiliscono tutto: «Le assunzioni nelle corporation e nelle aziende statali strategiche, le commesse militari, chi deve andare su e chi giù, chi andrà a dirigere i canali televisivi, i giornali, le banche». Leggi, capitali, leader. Decidono tutto loro: «Parlare di Berlusconi o di Letta è inutile, sono persone che non contano nulla».
    Il documentario di Moser e Lieuthert li mette a nudo: «Loro sono i monarchi, noi siamo i loro sudditi. Per queste persone noi non esistiamo come esseri umani, siamo – come ha ben sintetizzato il grande sociologo Zygmunt Bauman – un danno collaterale». Il loro obiettivo, in questa fase? «Distruggere ogni tentativo di costruire modelli di cittadinanza attiva e di opposizione ai partiti che loro controllano e finanziano in Europa». E’ intorno a questo club che si gioca la partita d’Europa, continua Modigliani: è fondamentale quindi conoscerne la genesi, le modalità di comportamento e la strategia di impiego. Solo così potremo «cominciare a parlare delle questioni vere, sapendo chi sono gli interlocutori veri, di cui in televisione e sul cartaceo non sentirete mai neppure una parola al riguardo». Chiaro: «Sapere chi sono e cosa fanno è fondamentale per aumentare le possibilità statistiche di poter vincere la battaglia europea per fermare questo massacro e avviare un processo di rifondazione dell’Europa dei diritti civili, della cultura, della civiltà: se non sappiamo neppure chi sono, come possiamo minimamente pensare di essere in grado di poterli contrastare?».

    Accanto all’oscuro Carlo Bozotti, re della micro-elettronica che controlla l’infrastruttura web, siedono Paolo Scaroni dell’Eni e rampolli delle più importanti dinastie dell’élite italiana, da John Elkann del gruppo Fiat a Rodolfo De Benedetti della Cir. Sono gli onnipotenti signori della Ert, European Round Table of Industrialists, la super-lobby più potente della Terra. Fondata trent’anni fa su iniziativa di Reagan per controllare l’Europa, con la partecipazione di italiani come Umberto Agnelli e Carlo De Benedetti, la Ert è oggi la vera struttura di comando dell’Unione Europea, quella che “detta” le direttive ai vari Barroso e Van Rompuy, i quali poi – a catena – le passano agli ultimi esecutori periferici, che in Italia si chiamano Berlusconi e D’Alema, Letta e Monti. La notizia? «Ormai, convinti di aver vinto, si sono aperti il loro bravo sito dove si presentano per ciò che sono, suddivisi per settori di competenze e segmenti di mercato». Ora prova a smascherarli un documentario dirompente, “The Brussels Business”, diretto da Friedrich Moser e Mathieu Lieuthert, che verrà proiettato nelle principali città europee.

  • Achtung Grillo, i nemici dell’Europa e quelli dell’Italia

    Scritto il 05/11/13 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Nell’Europa che ha in testa l’establishment, sintetizza Claudio Messora, «l’Italia diventa la Calabria e Helsinki la Lombardia». Ma per Eugenio Scalfari il problema non è questo, bensì Beppe Grillo: se vince, sostiene il fondatore di “Repubblica”, l’Italia «va a rotoli». Perché, ora dove sta andando? «In Grecia, a nuoto», per dirla con Giulietto Chiesa. Ma il mainstream tiene duro: in televisione, il solo Gianluigi Paragone dà fiato all’alternativa, ospitando economisti democratici e “guastatori” come Paolo Barnard, mentre la stessa Milena Gabanelli, su “Report”, continua a imputare alla sola “casta” italiana le colpe della crisi, senza “vedere” il disegno che da Bruxelles sta piegando il paese. La stessa grande paura accomuna tutti gli operatori che presidiano la comunicazione: guai se alle prossime elezioni europee – maggio 2014 – dovesse svegliarsi l’Europa, quella vera, incarnata dai popoli che si stanno ribellando alla crisi imposta dall’élite finanziaria globalizzatrice.
    A dare l’allarme è lo stesso Enrico Letta, uomo Bilderberg: «Se i populisti in Europa superassero una percentuale del 25% questo sarebbe molto preoccupante», dichiara il premier a “La Stampa”. «Il rischio che il Cinque Stelle risulti il primo partito alle europee è molto forte: non possiamo limitarci ad essere timidi con Grillo». Timore condiviso da un euro-oligarca come il tedesco Martin Schulz, secondo cui «la possibilità che nel prossimo Europarlamento ci sia tra un quarto e un quinto di deputati euroscettici o populisti è ormai più che probabile». Mai nessuno che si pronunci sulle cause del terremoto elettorale in arrivo. Eppure, aggiunge lo stesso Messora, basta ascoltare quello che Mario Monti (Bilderberg, Trilaterale, Goldman Sachs) ha appena detto alla Cnn: «Stiamo effettivamente distruggendo la domanda interna attraverso il consolidamento fiscale.  Quindi, ci deve essere una operazione di domanda attraverso l’Europa, un’espansione della domanda». Mai stato così chiaro, Monti. «Come si distrugge la domanda interna? Alzi le tasse e svaluti i salari», dice Messora, «così la gente non ha più soldi e compra di meno».
    Ma non basta: lo Stato potrebbe sempre alzare la spesa a deficit, cioè investire sui cittadini, mediante politiche sociali (reddito di cittadinanza) o creando lavoro. «E allora cosa facciamo? Semplice: inventiamo il pareggio di bilancio e lo mettiamo addirittura nella Costituzione, così da rendere impossibile qualunque ripensamento. Era l’equazione che ci avrebbe matematicamente reso più poveri: se costringi la somma delle entrate e delle uscite di uno Stato ad annullarsi a vicenda, allora se punti sulle esportazioni devi per forza massacrare i portafogli». E’ quello che ha fatto Monti. Più “domanda attraverso l’Europa” significa «diventare un centro di produzione a basso costo per i ricchi paesi del nord (Germania in testa), una specie di Cina europea, così da non essere costretti a comprare dai trafficanti di diritti di Pechino, per togliere il mercato all’oriente spregiudicato». A quel punto, la strada è obbligata: tagliare i costi di produzione. «E siccome le materie prime le paghiamo sempre uguale, bisogna pagare di meno gli stipendi e diminuire i diritti (vi dice niente la battaglia per la modifica dell’articolo 18?)».
    E come li costringi, i lavoratori, ad accettare uno standard di vita meno dignitoso? Ci si arriva per gradi: «Li getti nella crisi più nera, svendi tutto il patrimonio di economia nazionale e permetti ai nuovi padroni di delocalizzare all’estero. Gli togli le case con Equitalia. Costringi le fabbriche a chiudere: meno offerta di lavoro uguale più domanda, cioè milioni di persone senza reddito disposte a qualunque cosa pur di avere un tozzo di pane». Il paradiso dei tedeschi, affamati di aziende da comprare in saldo e di lavoro a basso costo per il loro export. «Venire a fare shopping in Italia è come andare all’outlet nel periodo dei saldi». Per Messora, non è irrilevante il risvolto geopolitico: un’Europa germanizzata può «limitare lo strapotere commerciale dei Brics, e magari togliere potere a quella Cina che detiene la maggior parte del debito americano».
    Funziona così: «Prendi un paese massacrato dal debito pubblico, ricattabile, ma anche industrializzato, dunque con le possibilità e le competenze produttive per soddisfare la tua domanda, e lo trasformi in una miniera a basso costo. Un piano iniziato negli anni ’80, ai tempi di Kohl e Mitterrand». Per Messora, non è altro che «un disegno criminoso, deciso sulla testa dei popoli, senza consultarli». Una strategia complessiva che fonda tutte le sue possibilità sull’onnipotenza di una élite che domina incontrastata, attraverso il controllo della meta-finanza europea la costruzione di un’unica, enorme, sovra-nazione «dove il controllo democratico è inesistente (e dove i think-tank sostituiscono i parlamenti)». A questo progetto oligarchico, «i socialismi europei hanno venduto l’anima». Certo, resta ancora «un’opinione pubblica da condizionare, da convincere che non esistono altre strade». E allora, bisogna «monitorare le comunicazioni nei paesi euroscettici, per identificare i temi più rilevanti e per assoldare una squadra di piccoli Goebbels in grado di reagire prontamente e fare una propaganda mirata», accusando di “populismo” chi contrasta l’oligarchia dominante.
    E’ il tema della crociata alle porte: «Bisogna combattere i “populismi”, cioè chiunque insista nel coltivare la convinzione che le élite non abbiano un mandato divino a governare sul cielo e sulla terra (né le loro soluzioni siano le migliori a prescindere), ma la sovranità appartenga al popolo». E’ quello che fa l’anziano Scalfari, tra una cena e l’altra con Napolitano e Draghi: l’importante è demonizzare Grillo, evitando accuratamente di spiegare le ragioni del suo successo, cioè il fallimento catastrofico della resa italiana agli euro-diktat. Nella sua replica, Grillo sfotte Scalfari: mi ha paragonato, dice, agli invasori marziani evocati da Orson Welles nel 1938. «Alla bufala di Welles credettero sei milioni di persone, a Scalfari non crede neppure più De Benedetti», scrive Grillo. «E’ il tempo della panchina lunga, caro Eugenio, magari al Pincio. Tu, l’Ingegnere e Napolitano a ricordare i vecchi tempi. Quando gli elettori, il cosiddetto popolo così tanto disprezzato non contava nulla. Bei tempi quelli, ma non torneranno più». Da Palazzo Chigi, Enrico Letta strepita: «Fermiamo i nemici dell’Europa». A partire dalle prossime europee, milioni di cittadini cercheranno invece di fermare, innanzitutto, i nemici dell’Italia.

    Nell’Europa che ha in testa l’establishment, sintetizza Claudio Messora, «l’Italia diventa la Calabria e Helsinki la Lombardia». Ma per Eugenio Scalfari il problema non è questo, bensì Beppe Grillo: se vince, sostiene il fondatore di “Repubblica”, l’Italia «va a rotoli». Perché, ora dove sta andando? «In Grecia, a nuoto», per dirla con Giulietto Chiesa. Ma il mainstream tiene duro: in televisione, il solo Gianluigi Paragone dà fiato all’alternativa, ospitando economisti democratici e “guastatori” come Paolo Barnard, mentre la stessa Milena Gabanelli, su “Report”, continua a imputare alla sola “casta” italiana le colpe della crisi, senza “vedere” il disegno che da Bruxelles sta piegando il paese. La stessa grande paura accomuna tutti gli operatori che presidiano la comunicazione: guai se alle prossime elezioni europee – maggio 2014 – dovesse svegliarsi l’Europa, quella vera, incarnata dai popoli che si stanno ribellando alla crisi imposta dall’élite finanziaria globalizzatrice.

  • Il patto: Renzi a capo di un’Italia svenduta alla Germania

    Scritto il 07/8/13 • nella Categoria: idee • (7)

    Stanno cercando di vendere l’Italia: Renzi e De Benedetti alla Germania, Prodi alla Cina. In cambio, dai futuri padroni puntano a ereditare il controllo su un paese che, grazie a loro, sarebbe ridotto a un semplice protettorato. Pur nei suoi aspetti sgradevoli e controversi, la battaglia che Napolitano ha affidato a Letta e Alfano mira a scongiurare la svendita rovinosa del paese, mantenendo un rapporto strategico con gli Usa proprio per evitare la capitolazione definitiva di fronte a Francia e Germania, interessate a “smontare” il loro competitore più scomodo: l’Italia è ancora la seconda potenza manifatturiera d’Europa. E’ la tesi del professor Giulio Sapelli, secondo cui persino il governo Monti fu un tentativo di limitare i danni. Sapelli denuncia un vero e proprio complotto contro l’Italia, organizzato da un establishment che include “Repubblica”, settori di Bankitalia e dirigenti di Confindustria che fanno capo a Luca Cordero di Montezemolo. L’uomo su cui punterebbero? E’ Matteo Renzi.

  • Exit Ligresti, l’uomo che ebbe in pugno politica e finanza

    Scritto il 30/7/13 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Facile prendersela con il vecchio don Salvatore, ora che sembra davvero finito, dopo tante cadute e tante resurrezioni. L’hanno abbandonato tutti. Dove sono, oggi, quelli che l’hanno creato, usato e sostenuto per almeno tre decenni? Alcuni sono usciti di scena, altri no. Senza i suoi molti e potenti amici nella politica e nella finanza, da Bettino Craxi a Silvio Berlusconi, da Enrico Cuccia a Cesare Geronzi, Salvatore Ligresti non sarebbe mai diventato Salvatore Ligresti. Mediobanca lo ha scaricato, certo: ma dopo averlo nutrito, dal 2003 al 2012, con l’incredibile cifra di 1 miliardo e 200 milioni per sostenere Fonsai. Unicredit ha chiuso i rubinetti, d’accordo: ma dopo aver assistito ai magheggi con cui gestiva le società a monte di Fonsai, Inco e Sinergia.

  • Vergogna Ilva: quanti morti, ancora, per salvare lo spread?

    Scritto il 06/12/12 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Il decreto del governo salva-Riva ha ottenuto un consenso di unità nazionale, compresi Camusso e Landini. Vediamo prima di tutto il fatto. All’Ilva è in corso d’opera un grave reato contro la salute dei cittadini e dei lavoratori: la magistratura interviene per fermarlo e il governo interviene per fermare la magistratura. Questa la sostanza giuridica del decreto di cui speriamo la Corte Costituzionale rilevi la palese incostituzionalità: in un paese in cui tutta la classe politica si riempie la bocca delle parole “regole” e “legalità”, un decreto come questo si iscrive alla più pura tradizione berlusconiana di cambiare la legge per fermarne l’applicazione quando sono colpiti interessi potenti. In questo caso si giustifica l’atto affermando che gli interessi in campo non sono quelli del padrone, ma dei lavoratori che rischiano il posto e del paese che rischia di perdere una azienda strategica. Naturalmente si afferma che la salute viene comunque salvaguardata e che quindi conflitto non c’è con l’iniziativa della magistratura, che viene invitata a “capire”.

  • “Israele peggio di Hitler”, e Repubblica oscura Odifreddi

    Scritto il 21/11/12 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Piergiorgio Odifreddi getta la spugna: “Repubblica” gli ha oscurato il blog. Motivo: di fronte all’ennesima strage di innocenti a Gaza, ha osato paragonare il potere militare israeliano a quello di Hitler. “Dieci volte peggio dei nazisti”, era il titolo del post firmato il 19 novembre, che il quotidiano di Ezio Mauro, Eugenio Scalfari e Carlo De Benedetti ha censurato. «Sul quotidiano israeliano “Haaretz” – protesta Pino Cabras su “Megachip” – possiamo trovare articoli estremamente critici verso i crimini della classe dirigente di Israele», mentre su “Repubblica” «non si può». Questo, aggiunge Cabras, perché «“Repubblica” non è la nostra “Haaretz”, ma la nostra “Pravda”». Cancellare un post non è di per sé un grande problema, ironizza Odifreddi, soprattutto se poi il web mette in piazza il suo scomodo contenuto. Per di più, aggiunge l’insigne matematico italiano, a criticare Israele sono personalità autorevolissime, da José Saramago e Noam Chomsky, nonché «molti cittadini israeliani democratici che non approvano la politica del loro governo».

  • Elezioni ad personam per Monti, e noi che facciamo?

    Scritto il 04/10/12 • nella Categoria: idee • (2)

    È presto per dire “ormai è fatta”, ma le premesse sono state poste tutte. La sortita newyorkese del “Professore” ha tolto il velo di incertezza che circondava la prossima legislatura: il “governo tecnico” proseguirà anche dopo le elezioni, qualsiasi sia il loro risultato, perché così voglio, pretendono e impongono “i mercati”, Wall Street, la Casa Bianca, la Germania e l’Europa. «Non penso ci sarà una seconda occasione, ma se dovesse servire io ci sarò». La decodifica diventa quasi inutile, ma per quel poco che serve va fatta. La crisi è lunga (l’ha detto lui stesso all’Assemblea dell’Onu), non ci sono soluzioni alle viste, la barca italiana è tra le più fragili nel mare in tempesta; i partiti “locali” esprimono una classe politica inadeguata e rissosa, non hanno ancora ben compreso il mutamento di realtà che la crisi economica sta producendo. Ma bisogna rispettare le scadenze formali della democrazia, anche se è chiaro quanto questa sia per “il potere” ormai un impiccio, più che uno strumento di costruzione del consenso.

  • Ecco chi sono i “rentiers” che campano sulla nostra rovina

    Scritto il 01/10/12 • nella Categoria: segnalazioni • (8)

    Crisi epocale, indotta con la “politica della carenza” dalle élites che intendono restaurare l’antico potere feudale su masse sterminate di sudditi, anziché di cittadini. La brutta notizia? Ci stanno riuscendo, truccando le carte: l’austerity diventa una virtù, che tutti accettano. Paolo Barnard, giornalista e saggista, denuncia senza mezzi termini i “rentiers” che sono all’origine della crisi, culminata col disastro dell’Eurozona e la fine delle sovranità finanziarie, a scapito di milioni di cittadini. I nobili di ieri, i latifondisti, gli oligarchi, e ora gli speculatori finanziari. «Scomparsi duchi e baroni, e i latifondisti delle corti borboniche, i “rentiers” hanno dovuto modernizzarsi, cioè apprendere un mestiere almeno di facciata, pur sempre ricavando le loro fortune dal sudore e dalle abilità di altri». Per Barnard, «la famiglia Agnelli in Italia è un esempio». Gli Agnelli, «forse i più inetti produttori di auto del mondo occidentale per quasi un secolo», sono sopravvissuti e hanno goduto di immensi privilegi «grazie allo sfruttamento di generazioni di immigrati meridionali e a sussidi di denaro pubblico in quantità grottesca».

  • De Michelis e Pomicino: c’era la Cia dietro Mani Pulite

    Scritto il 12/9/12 • nella Categoria: segnalazioni • (13)

    «La Cia coprì l’apertura del Conto Protezione per il finanziamento illecito al Psi. Sapeva tutto. Il giorno dopo il disfacimento dell’impero comunista, la Cia ha preso e se n’è andata lasciandoci con il cerino in mano. Se ne andò perché l’Italia non aveva più un ruolo geopolitico e non c’era più da garantire l’equilibrio di Yalta. Da noi prevalse l’Fbi, interessata ad evitare che la mafia prendesse troppa forza». L’ex ministro craxiano Gianni De Michelis non ha dubbi, e cita un’intervista al console americano Peter Semler: «Dice che Di Pietro lo avvertì nel ’91 che presto il Psi e la Dc sarebbero stati spazzati via». Dichiarazioni consonanti con quelle di un altro ex ministro socialista, Rino Formica: sotto il ciclone Tangentopoli, gli Usa puntarono tutto su leader “zoppi” e quindi condizionabili: D’Alema e Fini, con alle spalle legami con un passato totalitario, e Berlusconi, imprenditore dai trascorsi controversi.

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