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Archivio del Tag ‘competizione’

  • Global warning, Roma: Craig Roberts e lo stratega di Putin

    Scritto il 03/12/14 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Cos’hanno in comune il grande stratega economico di Vladimir Putin, assediato dall’Occidente, e il cervello finanziario di Ronald Reagan, il presidente che rottamò la guerra fredda insieme a Gorbaciov? Entrambi hanno paura, oggi, di uno scenario che Papa Francesco non esita a definire Terza Guerra Mondiale. E hanno deciso di discuterne, insieme, al meeting internazionale battezzato “Global warning”, promosso a Roma da “Pandora Tv”, la web-tv creata da Giulietto Chiesa in collaborazione con il network internazionale russo “Rt” per illuminare i retroscena della crisi mondiale, squarciando il velo delle reticenze quotidiane dei media. E così oggi si parlano direttamente l’economista del Cremlino, Sergej Glazev, e Paul Craig Roberts, già viceministro del Tesoro di Reagan e editorialista del “Wall Street Journal”, considerato uno degli opinion leader più influenti del mondo. Spaventato, come Glazyev, dall’aggressività della politica di Obama verso la Russia, che sta avvitando la crisi in una spirale pericolosissima: guerra economica e finanziaria, sullo sfondo della minaccia aeronavale e missilistica rappresentata dalla Nato nell’Est Europa.
    La formula del meeting, aperto al pubblico, è quella del panel internazionale: dopo l’introduzione di Pino Cabras (“Megachip”) e l’intervento di Giulietto Chiesa, il 12 dicembre a Roma (Palazzo Marini, Sala delle Colonne), prendono la parola grandi giornalisti come Marcello Foa (“Il Giornale”) e Pepe Escobar (“Asia Times”), il libanese Talat Khrais (Al Manar Tv”) e Piero Pagliani, analista geopolitico. Ospiti internazionali presenti a Roma o in collegamento video: da Mikhail Leontyev, vicepresidente del colosso energetico russo Rosneft, alla lettone Tatiana Zdanoka, europarlamentare dei Verdi e co-presidente del gruppo “Per i diritti umani in Lettonia”. Tra i politici italiani due “grilline” come le parlamentari Paola De Pin (Senato, commissione diritti umani) e Marta Grande (Camera, commissione esteri). E naturalmente, il punto di vista – incrociato e convergente – di due personaggi internazionali di primissima grandezza, l’americano Craig Roberts e il russo Glazyev, indicato come il super-tecnocrate che sta guidando il Cremlino verso la Cina, per resistere all’offensiva economica occidentale.
    «Il panel – spiegano gli organizzatori – include intellettuali provenienti da diverse parti del mondo, che condividono preoccupazioni simili riguardo lo scenario internazionale, nonostante background ed esperienze politiche e intellettuali differenti». L’incontro di Roma può diventare «fonte d’ispirazione per nuove connessioni tra personalità e networks, al fine di condividere idee e soluzioni alla crisi globale, in particolare alle situazioni che stanno ora vivendo Ucraina e Medio Oriente». Le voci che hanno accettato di confrontarsi con la platea di “Global warning” rivelano «visioni comuni in riguardo al declino del mondo unipolare, gravato dall’enorme debito, dal decadimento della democrazia e da una feroce competizione internazionale». La partecipazione è libera, con obbligo di accredito attraverso l’invio dei dati anagrafici, entro l’8 dicembre, all’indirizzo contatti@pandoratv.it.

    Cos’hanno in comune il grande stratega economico di Vladimir Putin, assediato dall’Occidente, e il cervello finanziario di Ronald Reagan, il presidente che rottamò la guerra fredda insieme a Gorbaciov? Entrambi hanno paura, oggi, di uno scenario che Papa Francesco non esita a definire Terza Guerra Mondiale. E hanno deciso di discuterne, insieme, al meeting internazionale battezzato “Global warning”, promosso a Roma da “Pandora Tv”, la web-tv creata da Giulietto Chiesa in collaborazione con il network internazionale russo “Rt” per illuminare i retroscena della crisi mondiale, squarciando il velo delle reticenze quotidiane dei media. E così oggi si parlano direttamente l’economista del Cremlino, Sergej Glazev, e Paul Craig Roberts, già viceministro del Tesoro di Reagan e editorialista del “Wall Street Journal”, considerato uno degli opinion leader più influenti del mondo. Spaventato, come Glazyev, dall’aggressività della politica di Obama verso la Russia, che sta avvitando la crisi in una spirale pericolosissima: guerra economica e finanziaria, sullo sfondo della minaccia aeronavale e missilistica rappresentata dalla Nato nell’Est Europa.

  • La gioia sinistra di chi vince da solo, rottamate le elezioni

    Scritto il 02/12/14 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    A me non stupisce che Matteo Renzi esalti il successo del Pd alle regionali ignorando, anzi persino valutando con un certo compiacimento, il fatto che in Emilia Romagna abbia votato un elettore su tre, quando solo poco tempo fa votavano in nove su dieci. Nella concezione autoritaria della governabilità e nel decisionismo di cui il segretario presidente è solo l’ultimo esponente, la partecipazione popolare è solo un incomodo o un fastidio. Se votano solo tre persone e si ha la sicurezza di ottenere il consenso di due di esse va bene, in meno si decide è meglio è. Gli altri dovranno solo ubbidire. Mussolini sosteneva che lui del fascismo non aveva inventato nulla, lo aveva semplicemente tirato fuori dagli italiani e organizzato. Per Renzi vale lo stesso. Sono anni che i programmi di governo sono vincolati ai diktat dei mercati, della Ue, della finanza, e anche a quelli del governo di un altro paese, la Germania. Sono anni che i cittadini di questo paese vengono educati alla impotenza e alla inutilità di una democrazia ove le decisioni di fondo son già prese altrove. E quando è lo stesso Presidente della Repubblica che si fa alfiere di questa sottomissione culturale e psicologica, oltre che politica, è evidente che tutto il sistema costituzionale ne risente.
    La democrazia a sovranità limitata si è congiunta con due spinte che da decenni agiscono nella società italiana. La prima è la banalizzazione e la spoliticizzazione del confronto politico, di cui è stata espressione la Seconda Repubblica berlusconiana. La seconda è lo spirito di vandea contro il lavoro e i suoi diritti che da più di trenta anni si scatena ad ogni difficoltà economica. Il governo Craxi negli anni ‘80 aveva già anticipato il linguaggio e i comportamenti di Matteo Renzi, ma perché il decisionismo liberista diventasse regime occorrevano tutte e tre le condizioni di fondo, e non solo una. Una democrazia ridotta a subire gli ordini esterni sui temi stessi per i quali è nata: il bilancio dello Stato. La distruzione della partecipazione e la riduzione del confronto politico a talk show. La guerra tra i poveri come unico sbocco della impotenza popolare verso le decisioni di fondo. È dalla miscela tra questi tre processi degenerativi della nostra società che nasce il successo di Matteo Renzi, e anche quello del suo omonimo Salvini.
    I due Matteo si dividono gran parte del consenso dei pochi elettori residui, perché meglio rappresentano l’autodistruzione della nostra democrazia. Essi sono molto simili nel modo di pensare e di proporsi, e forse persino intercambiabili. E questo non solo per il giovanilismo di palazzo, la carriera burocratica oscura trasformata in leadership grazie ai mass media mentre crollava il consenso delle vecchie direzioni, la formazione giovanile nei quiz delle Tv di Berlusconi. Il punto vero che hanno in comune è il trasversalismo reazionario. Renzi è partito volendo battere i pugni in Europa e contro i poteri forti e ora picchia solo contro sindacati, scioperi e diritti del lavoro. Che vengono indicati come i veri ostacoli, o in altre versioni come gli alibi, che fanno sì che le imprese non investano. Per Renzi la ruota della fortuna ha girato a lungo e alla fine si è fermata sul lavoro ancora sindacalizzato e tutelato da qualche diritto residuo. Quello è il nemico dei giovani, dei disoccupati, del merito, della crescita e naturalmente di quelle imprese che finanziano Renzi a 1000 euro a coperto.
    Anche Matteo Salvini lancia proclami contro banche, euro, finanza. Ma i mass media li buca indirizzando il rebus contro migranti e Rom e alleandosi con forze esplicitamente fasciste e razziste. Renzi e Salvini indicano all’italiano medio l’unico avversario a reale portata di mano, il vicino di casa metalmeccanico, o impiegato pubblico, o migrante. Loro vengono indicati come la causa dei guai e con loro sindacati e centri sociali. Renzi e Salvini alimentano le rispettive guerre dei poveri in competizione l’uno con l’altro, e così si presentano sempre di più come un’alternanza nell’ambito della stessa devastazione democratica. Che la gente non vada più a votare, a parte i loro sostenitori, ai due leader va benissimo. Entrambi sono figli della ideologia liberista, e la privatizzazione della democrazia è la madre di tutte le altre.
    Non c’è soluzione facile a tutto questo. Crisi economica e degrado democratico si alimentano reciprocamente, e per uscire da entrambi bisogna ricostruire il conflitto con avversari che non sono il vicino di casa. Per questo gli scioperi, i movimenti sociali, le lotte vere fanno così paura ad entrambi i Matteo. Perché se questi dovessero crescere e consolidarsi, loro perderebbero centralità e leadership. Il voto regionale colloca la maggioranza della popolazione italiana in una posizione extraparlamentare. Oggi è un successo per Renzi e Salvini, domani potrebbe essere la loro condanna. Ma perché questo avvenga, tutto ciò che si oppone al regime dei due Matteo deve trovare la stessa determinazione, la stessa dimensione culturale e volontà di vero cambiamento, della Resistenza e della liberazione dal fascismo.
    (Giorgio Cremaschi, “La resistenza contro il regime dei due Matteo”, da “Micromega” del 24 novembre 2014).

    A me non stupisce che Matteo Renzi esalti il successo del Pd alle regionali ignorando, anzi persino valutando con un certo compiacimento, il fatto che in Emilia Romagna abbia votato un elettore su tre, quando solo poco tempo fa votavano in nove su dieci. Nella concezione autoritaria della governabilità e nel decisionismo di cui il segretario presidente è solo l’ultimo esponente, la partecipazione popolare è solo un incomodo o un fastidio. Se votano solo tre persone e si ha la sicurezza di ottenere il consenso di due di esse va bene, in meno si decide è meglio è. Gli altri dovranno solo ubbidire. Mussolini sosteneva che lui del fascismo non aveva inventato nulla, lo aveva semplicemente tirato fuori dagli italiani e organizzato. Per Renzi vale lo stesso. Sono anni che i programmi di governo sono vincolati ai diktat dei mercati, della Ue, della finanza, e anche a quelli del governo di un altro paese, la Germania. Sono anni che i cittadini di questo paese vengono educati alla impotenza e alla inutilità di una democrazia ove le decisioni di fondo son già prese altrove. E quando è lo stesso Presidente della Repubblica che si fa alfiere di questa sottomissione culturale e psicologica, oltre che politica, è evidente che tutto il sistema costituzionale ne risente.

  • Un tedesco (di destra) nuovo presidente della Romania

    Scritto il 19/11/14 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Una volta Berlino si “limitava” a imporre ai paesi della periferia europea uomini di provata fiducia. A colpi di lettere segrete della Bce, di picchi dello spread e di minacce neanche tanto velate, negli ultimi anni a guidare i governi e i parlamenti di vari paesi “non in linea” con i parametri dettati dalla Troika sono stati paracadutati dei veri e propri commissari eterodiretti o fortemente condizionati da Berlino. Basti citare Mario Monti ed Enrico Letta, solo per rimanere in patria. Poi, quando si trattava di destabilizzare il governo ucraino per imporne uno più fedele, la signora Merkel non si è limitata a foraggiare e sostenere politicamente e diplomaticamente un vasto arco di forze nazionaliste e di destra che poi avrebbero dato vita ad EuroMaidan e partecipato al golpe. La Cdu tedesca, tramite la Fondazione Adenauer, si è addirittura inventata un partito politico ucraino, Udar, affidando la sua creatura a un ex campione di pugilato che aveva il doppio pregio di condividere “i valori europei” e di avere anche la cittadinanza tedesca e la residenza in una splendida villa in Germania.
    Ma a vedere i risultati delle recenti elezioni presidenziali in Romania, non si può notare un nuovo salto di qualità nell’intervento dei poteri forti tedeschi nella gestione dell’Unione Europea in quanto polo attivo della competizione globale e dei singoli paesi della periferia.
    E così, incredibilmente, a vincere il ballottaggio di domenica che vedeva favorito l’esponente di centrosinistra Victor Ponta è stato invece “il tedesco” Klaus Iohannis. Tedesco per due motivi: in quanto esponente della minoranza tedesca che vive nei territori della Transilvania – e su questo nulla da ridire, anzi – ma soprattutto perché di fatto Iohannis è un pupillo di Frau Merkel e un ammiratore delle politiche di rigore e conservatrici della Cdu tedesca. Se prima a Berlino bastava controllare il telecomando, oggi pare proprio che la classe dirigente tedesca si stia adoperando per manovrare direttamente il guinzaglio. Un particolare, l’identità etnica e politica del nuovo presidente romeno, così eclatante che non è sfuggito neanche alla normalmente distratta stampa italiana.
    L’esponente della minoranza tedesca ha fatto della lotta alla corruzione e dell’apertura del paese agli investitori stranieri (che naturalmente richiedono stabilità, agevolazioni fiscali, basso costo del lavoro e zero conflittualità sindacale) i suoi cavalli di battaglia, sbaragliando al ballottaggio un Victor Ponta che al primo turno lo aveva battutto con ben dieci punti di differenza, 40% contro 30%. Il suo piglio prussiano e la denuncia delle inefficienze del governo socialdemocratico che stavano impedendo a molti emigrati romeni di poter votare all’estero ha mobilitato un gran numero di elettori in patria (l’affluenza è passata dal 53% del primo turno al 63,5% del ballottaggio) permettendogli di ribaltare il risultato della prima tornata delle presidenziali. Ora il fisico 55enne, sindaco di Sibiu e protestante (in un paese in cui il 90% degli abitanti è cristiano ortodosso) dovrà tentare di portare ordine in un paese economicamente allo sbando, governato da un premier socialdemocratico debole, uscito dalla inaspettata sconfitta delle presidenziali e oggetto di forti contestazioni politiche e sociali. Soprattutto, Iohannis dovrà tentare di riportare Bucarest sotto il pieno controllo della Germania e dell’Unione Europea, sottraendo il paese alle fortissime influenze degli Stati Uniti.
    (Marco Santopadre, “Un tedesco, di destra, presidente della Romania”, da “Contropiano” del 19 novembre 2014).

    Una volta Berlino si “limitava” a imporre ai paesi della periferia europea uomini di provata fiducia. A colpi di lettere segrete della Bce, di picchi dello spread e di minacce neanche tanto velate, negli ultimi anni a guidare i governi e i parlamenti di vari paesi “non in linea” con i parametri dettati dalla Troika sono stati paracadutati dei veri e propri commissari eterodiretti o fortemente condizionati da Berlino. Basti citare Mario Monti ed Enrico Letta, solo per rimanere in patria. Poi, quando si trattava di destabilizzare il governo ucraino per imporne uno più fedele, la signora Merkel non si è limitata a foraggiare e sostenere politicamente e diplomaticamente un vasto arco di forze nazionaliste e di destra che poi avrebbero dato vita ad EuroMaidan e partecipato al golpe. La Cdu tedesca, tramite la Fondazione Adenauer, si è addirittura inventata un partito politico ucraino, Udar, affidando la sua creatura a un ex campione di pugilato che aveva il doppio pregio di condividere “i valori europei” e di avere anche la cittadinanza tedesca e la residenza in una splendida villa in Germania.

  • Gorbaciov: fame e ingiustizia non si curano con la guerra

    Scritto il 14/11/14 • nella Categoria: idee • (3)

    Il mondo ha mille problemi, causati da povertà e ingiustizia, e vengono affrontati con l’unico strumento incapace di risolverli: la guerra. Di riflesso, ne soffre anche l’Europa: strattonata dalla Nato e costretta a contrapporsi alla Russia, l’Ue sta diventando irrilevante. E di questo passo conterà sempre meno, sulla scena mondiale dove si sfferma il potere crescente dei Brics. Grande occasione sprecata, dunque, il crollo del Muro di Berlino: poteva, anzi doveva, aprire una stagione di pace e giustizia, anziché di guerre da esportare in tutto il pianeta. Lo sostiene Mikhail Gorbaciov, intervento a Berlino per il 25° anniversario della riunificazione tedesca. Dopo gli anni della “perestrojka” e l’esplosione della libertà nell’Est Europa, alla caduta dell’Urss la guerra è tornata a dianiare l’Europa, cominciando da Jugoslavia e Kosovo. «Lo spargimento di sangue in Europa e in Medio Oriente, sullo sfondo dell’interruzione del dialogo fra le grandi potenze, è motivo di enorme preoccupazione». Oggi, «il mondo si trova sul precipizio di una nuova guerra fredda». E per quanto drammatica sia la situazione, «non vediamo la più importante istituzione internazionale – il Consiglio di Sicurezza dell’Onu – svolgere alcun ruolo, né prendere alcuna iniziativa».
    Per Gorbaciov è venuta meno la fiducia reciproca, grazie alla quale fu possibile metter fine all’incubo nucleare della guerra fredda, «quella fiducia in assenza della quale le relazioni internazionali nel mondo globale risultano inconcepibili». Gli anni ‘90 dovevano portare a una nuova Europa e a un ordine mondiale più sicuro? «Ma invece di costruire nuovi meccanismi e nuove istituzioni a tutela della sicurezza europea, e di inseguire una decisiva smilitarizzazione della politica europea – cosa che per inciso era stata promessa nella Dichiarazione di Londra della Nato – alla fine della guerra fredda l’Occidente, e in particolar modo gli Stati Uniti, dichiararono vittoria». Peggio: «L’euforia e il trionfalismo diedero alla testa dei leader occidentali: approfittandosi dell’indebolimento della Russia, e dell’assenza di un contrappeso, proclamarono il proprio monopolio della leadership e del dominio del mondo, rifiutandosi di ascoltare gli inviti alla cautela». Alla crisi in Ucraina si è arrivati per gradi, attraverso l’allargamento della Nato, i nuovi piani missilistici, le guerre in Iraq, Libia e Siria. Chi paga più di tutti? «L’Europa, la nostra casa comune».
    «Invece di diventare un leader del cambiamento nel mondo globale – sostiene Gorbaciov – l’Europa si è trasformata in un’arena di sconvolgimenti politici, di competizione fra sfere d’influenza e, infine, di conflitto armato. Inevitabilmente, la conseguenza di tutto ciò è l’indebolimento europeo, proprio nel momento in cui altri centri di potere e d’influenza stanno crescendo. Se va avanti così, l’Europa perderà la possibilità di far sentire con forza la propria voce nelle questioni internazionali, finendo col diventare gradualmente sempre più irrilevante». Minaccioso e pericoloso il degradarsi della partnership russo-tedesca, senza la quale «in Europa non può esserci sicurezza». Come uscirne? «L’esperienza degli anni ‘80 dimostra che, anche in situazioni apparentemente disperate, ci dev’essere una via d’uscita», dal momento che «la situazione in cui il mondo si trovava allora non era né meno urgente né meno pericolosa di quella in cui si trova oggi». Quello che allora salvò il mondo fu il dialogo, oggi praticamente scomparso: persono Mitterrand e la Thatcher riuscirono ad accettare la riunificazione della Germania, che temevano.
    Prima regola: tornare a parlarsi, come sembrano suggerire gli accordi di Minsk sul cessate il fuoco e sul disimpegno militare in Ucraina, ma anche gli accordi trilaterali sul gas fra Russia, Ucraina e Ue, e la stessa sospensione dell’escalation delle sanzioni reciproche. «In questo contesto – aggiunge Gorbaciov – vi invito a prendere attentamente in considerazione le recenti dichiarazioni di Vladimir Putin durante il Forum di Valdai. Nonostante la durezza delle sue critiche nei confronti dell’Occidente, e in particolar modo degli Stati Uniti, nel suo discorso intravedo il desiderio di trovare il modo per abbassare il livello di tensione, e in ultima analisi di costruire delle nuove basi per una partnership». Due gli obiettivi: cooperazione nelle sfide globali e sicurezza paneuropea. «I problemi globali – terrorismo ed estremismo, incluso quello di natura settaria; la povertà e la disuguaglianza; l’ambiente, il problema delle risorse, e le migrazioni; le epidemie – stanno tutti peggiorando ogni giorno. Per quanto diversi essi siano fra loro, c’è un tratto che li accomuna tutti: nessuno di questi richiede una soluzione militare. Eppure i meccanismi politici necessari a risolverli mancano, o risultano disfunzionali. Le lezioni di una crisi globale continua dovrebbero convincerci della necessità di cercare un nuovo modello che garantisca sostenibilità politica, economica e ambientale. Questo è un problema che dev’essere affrontato adesso, senza ulteriori ritardi».

    Il mondo ha mille problemi, causati da povertà e ingiustizia, e vengono affrontati con l’unico strumento incapace di risolverli: la guerra. Di riflesso, ne soffre anche l’Europa: strattonata dalla Nato e costretta a contrapporsi alla Russia, l’Ue sta diventando irrilevante. E di questo passo conterà sempre meno, sulla scena mondiale dove si afferma il potere crescente dei Brics. Grande occasione sprecata, dunque, il crollo del Muro di Berlino: poteva, anzi doveva, aprire una stagione di pace e giustizia, anziché di guerre da esportare in tutto il pianeta. Lo sostiene Mikhail Gorbaciov, intervento a Berlino per il 25° anniversario della riunificazione tedesca. Dopo gli anni della “perestrojka” e l’esplosione della libertà nell’Est Europa, alla caduta dell’Urss la guerra è tornata a dianiare l’Europa, cominciando da Jugoslavia e Kosovo. «Lo spargimento di sangue in Europa e in Medio Oriente, sullo sfondo dell’interruzione del dialogo fra le grandi potenze, è motivo di enorme preoccupazione». Oggi, «il mondo si trova sul precipizio di una nuova guerra fredda». E per quanto drammatica sia la situazione, «non vediamo la più importante istituzione internazionale – il Consiglio di Sicurezza dell’Onu – svolgere alcun ruolo, né prendere alcuna iniziativa».

  • Bifo: noi e la barbarie dell’Ue, fabbrica di miseria e guerra

    Scritto il 08/11/14 • nella Categoria: idee • (1)

    Si può fermare l’offensiva liberista in Italia? La manifestazione nazionale indetta a Roma dalla Cgil il 25 ottobre può essere l’inizio di un’onda di rivolta dei lavoratori italiani contro il soffocante austeritarismo dell’Unione Europea, e contro il governo Renzi-Berlusconi, vassalli locali del potere finanziario. Speriamo che lo sia, facciamo tutto quel che possiamo perché lo sia, ma con poche illusioni. Non si può più fermare fermare l’offensiva padronale, la precarizzazione, l’impoverimento, lo smantellamento delle strutture sociali, perché tutto questo è già avvenuto, con la collaborazione dei sindacati. E’ meglio saperlo. Nel 1980, di fronte a 25.000 licenziamenti decisi da Agnelli, Berlinguer chiamò gli operai Fiat a occupare la fabbrica, ma il suo partito negli anni precedenti aveva lavorato a disgregare la forza operaia, e ne aveva isolato le avanguardie fino al punto di avallare il licenziamento di 62 lavoratori “estremisti”. Naturalmente fu una sconfitta dalla quale gli operai italiani non si sono ripresi più.
    Così oggi il sindacato si mobilita contro la precarizzazione che ormai dilaga, contro l’impoverimento e lo smantellamento del sistema economico italiano che ormai sono cosa fatta. Ancora una volta si chiude la stalla dopo che i buoi sono scappati. L’articolo 18 è un feticcio vuoto perché la precarietà è divenuta forma generale del rapporto di lavoro salariato, e a questo si aggiunge l’espansione continua del lavoro schiavistico, mascherato da lavoro volontario. La cancellazione dell’articolo 18 è il colpo di grazia, il sacrificio rituale che il dio della finanza chiede a Renzi per concedergli in cambio un po’ di flessibilità finanziaria. Nonostante tutto questo la mobilitazione contro la ferocia del ceto politico-finanziario può avere un effetto positivo nel lungo periodo, riaprendo una dinamica di solidarietà e organizzazione che negli ultimi anni si è progressivamente spenta. Ma qual è il contesto?
    L’Unione Europea è un morto che cammina. A che punto è la notte europea? Purtroppo la notte è appena cominciata, anzi quel che stiamo vivendo forse è solo il tramonto. Il tramonto della speranza di democrazia e di pace nel continente. La democrazia è parola svuotata dalla pratica austeritaria, mentre dovunque cresce il nazionalismo come hanno dimostrato le elezioni del maggio che il ceto finazista europeo non ha voluto neppure considerare. Al finazismo della Bce e al revanscismo tedesco risponde un nuovo nazionalismo nei paesi economicamente più impoveriti dall’offensiva finazista. Il disegno del finazismo globale è stato da sempre ed è oggi più che mai lo smantellamento definitivo dell’Unione Europea, e la sottomissione della popolazione europea alla condizione semi-schiavistica della precarietà. Il punto di precipitazione definitiva dell’Unione, e di inizio della nuova guerra civile europea si trova nel confronto franco-tedesco. La probabile vittoria del Front National è destinata a segnare la fine dell’Unione con conseguenze inimmaginabili, sullo sfondo della guerra russo-ucraina.
    Non occorre molta sapienza storica per capire che il nazionalismo francese non può tollerare che l’Europa sia unita sotto il dominio tedesco, anche se la Deutsche Bank ha preso il posto che nel 1941 aveva la Wehrmacht. La sceneggiatura è già scritta: crollo del partito di Hollande, affermazione dei nazionalisti, sgretolamento dell’Unione Europea. E dopo? Un articolo di George Soros uscito sulla “Repubblica” del 26 ottobre chiama l’Europa a prepararsi alla guerra con la Russia. Alcuni auspicano l’uscita dell’Italia dall’Unione come se questo fosse la soluzione di qualcosa. L’Italia è uno stato fallito, una società disgregata, depressa, corrotta, un’economia smantellata, un patrimonio industriale distrutto o svenduto come Alitalia. Parlare di Italia è idiota. Occorre parlare della classe operaia che da Torino a Napoli – per quanto decimata, tradita, sconfitta – può mettere in moto un processo che coinvolga il lavoro precario, e soprattutto il lavoro cognitivo disperso fuori dai confini nazionali. Non per la riscossa nazionale di un paese la cui unica azienda in attivo è la mafia, ma per aprire e guidare un processo di rivolta e di autonomia dei lavoratori europei.
    Siamo entrati in un’epoca oscura e non serve fingere di non vederlo: non si può restaurare la democrazia, l’occupazione non è destinata a crescere ma a diminuire, la pace civile si sta sgretolando, e la crescita non ha più senso economico né ecologico. Occorre prepararsi al pieno dispiegamento delle condizioni che stanno iscritte nella disgregazione sociale, e nella cultura della competizione e della paura: prepararsi alla miseria e alla guerra, per dirlo in chiaro. E’ in questa prospettiva che si devono creare le condizioni per l’autonomia sociale e il dispiegamento delle potenzialità contenute nell’alleanza possibile tra tecnologia e lavoro.
    Che caratteri avrà un nuovo movimento di emancipazione, dentro e oltre il disastro che liberismo e finazismo hanno preparato con l’aiuto servile della sinistra?
    Si uscirà dall’epoca buia solo quando la cultura sociale si orienterà verso la riduzione generale del tempo di lavoro. Metà dei posti di lavoro sono inutili, se si applica a pieno la potenza tecnologica. Nelle condizioni del capitalismo questo è un disastro senza rimedio. In condizioni libere dalla stretta del capitalismo questa potenza tecnica può diventare fattore di arricchimento egualitario e di rinascimento culturale. La potenza dell’intelletto generale in rete riduce il tempo di lavoro necessario. L’effetto di questa riduzione è stato finora riduzione del salario, aumento dello sfruttamento relativo e assoluto, aumento della disoccupazione e della miseria. Il sindacato ha testardamente e inutilmente difeso il posto di lavoro mentre si trattava (ormai dagli anni ’80) di scatenare la forza della società e l’immaginazione del lavoro cognitivo per la liberazione di tempo sociale dal lavoro salariato. La sconfitta politica e l’arretramento culturale di questi anni derivano direttamente dall’incapacità della sinistra e del sindacato di allearsi con la tecnologia e il lavoro cognitivo, e di battersi per la riduzione del tempo di lavoro generale.
    Ora siamo in un tunnel molto nero. La luce verrà soltanto dal rovesciamento della cultura lavorista. Non il produttivismo, non la difesa della composizione esistente del lavoro, non la partecipazione alla corsa del topo liberista. Ma la riduzione generale del tempo di lavoro, la redistribuzione della ricchezza, la liberazione delle energie affettive, educative, culturali dalla morsa imbecille della competizione. Occorre cominciare subito, mentre il tramonto volge verso il buio assoluto. Occorrerà continuare mentre nel buio l’uomo si farà lupo per l’uomo. I lavoratori italiani possono riprendere il ruolo di avanguardia che ebbero nel passato non per salvare il cadavere d’Europa che sta ammorbando l’atmosfera, ma per mettere in moto un processo di lotta europea e internazionalista, per la liberazione del tempo dal lavoro, per la liberazione dell’intelligenza dall’oscurantismo economicista.
    (Franco “Bifo” Berardi, “Al tramonto d’Europa”, da “Micromega” del 25 ottobre 2014).

    Si può fermare l’offensiva liberista in Italia? La manifestazione nazionale indetta a Roma dalla Cgil il 25 ottobre può essere l’inizio di un’onda di rivolta dei lavoratori italiani contro il soffocante austeritarismo dell’Unione Europea, e contro il governo Renzi-Berlusconi, vassalli locali del potere finanziario. Speriamo che lo sia, facciamo tutto quel che possiamo perché lo sia, ma con poche illusioni. Non si può più fermare fermare l’offensiva padronale, la precarizzazione, l’impoverimento, lo smantellamento delle strutture sociali, perché tutto questo è già avvenuto, con la collaborazione dei sindacati. E’ meglio saperlo. Nel 1980, di fronte a 25.000 licenziamenti decisi da Agnelli, Berlinguer chiamò gli operai Fiat a occupare la fabbrica, ma il suo partito negli anni precedenti aveva lavorato a disgregare la forza operaia, e ne aveva isolato le avanguardie fino al punto di avallare il licenziamento di 62 lavoratori “estremisti”. Naturalmente fu una sconfitta dalla quale gli operai italiani non si sono ripresi più.

  • La guerra dell’Ue contro la nostra civiltà democratica

    Scritto il 07/11/14 • nella Categoria: idee • (4)

    L’attuale guerra condotta con mezzi commerciali e finanziari sta trasformando l’Ue nel più grande esperimento di riduzione dei diritti umani. Il tema più dibattuto e complesso è quello sullo status dei diritti sociali nell’odierna Europa: si è passati lentamente dalla concezione che le esigenze di protezione sociale potessero costituire sviluppo e potenziamento delle libertà individuali, all’ideologia ultraliberista del “s’aiuti dunque chi può”, tipico pensiero spietato delle classi privilegiate nei riguardi delle classi povere. La polarizzazione della ricchezza e lo svuotamento della classe media ha portato con sé una guerra accanita nella quale i più forti schiacciano inesorabilmente i deboli e gl’inesperti. Gli uomini, senza unità di scopo, guidati dal solo dogma della legge di mercato, vengono manipolati verso il progetto europeo e parallelamente verso una progressiva degradazione strutturale del rango e dell’orgoglio delle nazioni aderenti ad esso.
    Il dissidio tra democrazia costituzionale italiana e trattati Ue è del tutto evidente, se si analizza il modello sociale ed economico che la Costituzione italiana ha indubbiamente abbracciato nel modello del 1948. Il dovere alla solidarietà, considerato come “base della convivenza democratica”, viene completamente disatteso dall’impianto europeo, in particolar modo in quella che è stata la gestione della crisi economica dal 2008 in poi: comunità nazionali deprivate delle conquiste economico-sociali di oltre un secolo di lotte, con una subdola gradualità che non deve consentirgli di accorgersene in tempo utile (attraverso meccanismi infernali di controllo totalizzante ed anti-democratico come la Troika). La competizione inevitabile e programmatica tra Stati aderenti all’Unione esclude la solidarietà tra i membri: economie di interi Stati si stanno completamente dissolvendo in nome dell’irrazionale equazione Ue = euro, rendendo schiave generazioni di popoli a cui si predicano “i diritti civili”, non consentendo loro di esercitare diritti politici e sociali.
    Allo sfaldamento della base economica dello Stato democratico italiano corrisponde dunque un’accelerazione della perdita di diritti in toto, che è pericolosamente derivante dall’originaria incompatibilità del disegno di Maastricht coi principi fondamentali della nostra democrazia costituzionale. Le “riforme” pretese dal “cammino di convergenza”, che si è ormai trasformato in un campo di macerie da Berlino ad Atene, non sono altro che il mezzo per accelerare irreversibilmente la caduta del modello socio-economico costituzionale per l’instaurazione dell’impianto ordoliberista, che esclude totalmente la solidarietà e la centralità della persona umana.
    (Martina Carletti, “L’Unione Europea e la distruzione della solidarietà sociale”, da “Appello al Popolo” del 22 settembre 2014).

    L’attuale guerra condotta con mezzi commerciali e finanziari sta trasformando l’Ue nel più grande esperimento di riduzione dei diritti umani. Il tema più dibattuto e complesso è quello sullo status dei diritti sociali nell’odierna Europa: si è passati lentamente dalla concezione che le esigenze di protezione sociale potessero costituire sviluppo e potenziamento delle libertà individuali, all’ideologia ultraliberista del “s’aiuti dunque chi può”, tipico pensiero spietato delle classi privilegiate nei riguardi delle classi povere. La polarizzazione della ricchezza e lo svuotamento della classe media ha portato con sé una guerra accanita nella quale i più forti schiacciano inesorabilmente i deboli e gl’inesperti. Gli uomini, senza unità di scopo, guidati dal solo dogma della legge di mercato, vengono manipolati verso il progetto europeo e parallelamente verso una progressiva degradazione strutturale del rango e dell’orgoglio delle nazioni aderenti ad esso.

  • Benvenuti nel Grande Caos, quello che ci farà a pezzi

    Scritto il 02/9/14 • nella Categoria: idee • (2)

    I tempi in cui ci tocca di vivere stanno diventando cupi e tetri. Pur senza concedere nulla al pessimismo della ragione, sentire un pontefice evocare la Terza Guerra Mondiale, il segretario della Nato non escluderla come scenario, e importanti giornali proporci quotidianamente una mappa dei conflitti che incendiano le regioni strategiche del mondo in cui viviamo, non è certo rassicurante. Soprattutto perchè la realtà incasella e aggiunge giorno dopo giorno le conferme che la pallina collocata sul piano inclinato continua a scivolare pericolosamente. Accelerando. Ma le guerre non sono una fatalità. Possono esplodere quando un incidente accelera i processi storici; ma si verificano perchè ci sono forze materiali che hanno spinto i processi verso la rottura, lo scontro, il “clash tra le potenze”, come scrissero in un ottimo libro Petras, Casadio e Vasapollo. La cosa che colpisce – che deve colpire anche gli ottusi “di sinistra” – è che il novanta per cento dei focolai di conflitto circonda l’Europa come un cerchio di fuoco.
    L’ovest appare pacifico solo perchè confina con l’Atlantico, un oceano che divide l’Europa dagli Stati Uniti, ovvero la sponda da cui arrivano le spinte più forti a coinvolgere l’Europa verso il “clash”. La linea intrapresa dai governi dell’Unione Europea sulla crisi e il conflitto in Ucraina è emblematica. Gli Usa spingono i paesi europei verso il conflitto con il più grande e armato di essi: la Russia. Il prossimo vertice Nato a Newport appare foriero di pessime decisioni che accentueranno e non depotenziaranno i pericoli di guerra sulla frontiera est. Resistenze e dubbi, se ancora esistono, abitano menti silenziose. Ma a sud non va meglio. La destabilizzazione creativa (una categoria rassicurante per descrivere le guerre asimmetriche di aggressione scatenate dal 2001 a oggi), ha creato una fascia di instabilità belligerante nella vicina Libia e in Iraq, Siria, Palestina ed Egitto dove, tra Gaza e Sinai, la normalizzazione militare imposta dal generale Al Sisi – diventato beniamino delle cancellerie occidentali – riesce a malapena a comprimere il fuoco sotto le braci.
    Insomma, la sponda sud dell’Europa è l’area di instabilità e guerra più infuocata del globo. Oggi appare evidente come nessuna delle potenze in campo abbia chiaro quali siano le prospettive, se non quella di ripetuti bagni di sangue e instabilità da gestire a distanza, attraverso la logica del bombardamento con i droni quando gli effetti rischiano di tracimare, mettendo in discussione parametri vitali come le forniture energetiche, idriche, o gli equilibri geopolitici. I ripetuti cambi di campo e di alleanze appaiono molto più che inevitabili cinismi della governance. Il doppio e triplo gioco di Stati Uniti e potenze europee ha entusiasmato e coinvolto anche altri soggetti, come le petromonarchie del Golfo o la Turchia, che usano gli ingenti introiti che vengono dalle rendite petroliferi o dalle royalties sui diritti di passaggio per finanziare milizie in guerra tra loro. Una disamina delle ingerenze di petromonarchie come Arabia Saudita, Qatar ed Emirati Arabi, dalla Bosnia del ‘93 passando per la Cecenia, l’Afghanistan fino a Libia, Iraq, Libano, Siria, Palestina e Sudan, ci consegna uno scenario di guerra di tutti contro tutti e una brusca rimessa in discussione dei confini coloniali definiti dalle potenze europee alla fine della Prima Guerra Mondiale.
    In realtà questo assetto era già stato sconvlto dall’entrata in campo degli Stati Uniti in Medio Oriente, fin dal colpo di Stato del 1953 contro Mossadeq in Iran e poi lo stop imposto a Francia e Gran Bretagna nel 1956 a Suez. Da quel momento, il Medio Oriente è diventato terreno di caccia privilegiato di Washington; un’enclave in cui le potenze europee, Italia inclusa, potevano al massimo ritagliarsi interstizi per i propri limitati interessi (vedi la Libia). Ma gli ultimi anni, quelli in cui gli Stati Uniti hanno visualizzato e cercato di contrastare con ogni mezzo il proprio lento declino, hanno assestato un nuovo scossone all’assetto precedente. Via l’Iraq di Saddam, la Libia di Gheddafi, la Siria di Assad, ma anche la Palestina dell’Olp; sostituendoli con il caos e la balcanizzazione, abolendo gli Stati. Senza mai dimenticarsi la disintegrazione della Jugoslavia e della ex Urss. Altri territori “vergini” che hanno visto nascere a est di Berlino ben 30 Stati dove prima ve ne erano otto; e solo la metà di questi hanno più di dieci milioni di abitanti. Staterelli, dunque, poco più che “granducati”. Facili da piegare, minacciare, ricattare, eventualmente cancellare o sovvertire.
    Fino a un certo punto.
    Ecco, è questo “certo punto” che indica la soglia di crisi che si va raggiungendo. E non solo perchè oggi la Russia di Putin punta i piedi nel proprio “cortile di casa”, ma perchè somiglia, assai più che l’Urss, ai suoi competitori; e perchè tra i paesi a capitalismo di Stato (usiamo una forzatura per semplificare una realtà complessa come i Brics) e quelli a capitalismo mercantilista che caratterizzano Stati Uniti ed Unione Europea (cioè potenze più compiutamente imperialiste), non ci sono più i margini per spartirsi in modo concertato come in passato il mondo. Dunque se la concertazione e le camere di compensazione – per quanto asimmetriche, rispetto al Washington Consensus – non hanno più la materia per realizzarsi, il mondo diventa oggetto di competizione. E la competizione avviene con ogni mezzo. Il caos e l’instabilità nel cortile di casa degli altri possibili competitori diventano la condizione preliminare e necessaria, anche se mai sufficiente. Che tutto questo abbia un costo umano sempre più alto non pare essere un problema. Un capitalismo in crisi distrugge i capitali in eccesso, è noto. E per un sistema che punta solo alle risorse, alla sopravvivenza competitiva, anche il “capitale umano” – definito anche e non a caso “capitale variabile” – può diventare un eccesso da dover distruggere.
    (Sergio Cararo, “Il caos che sfugge di mano”, da “Contropiano” del 27 agosto 2014).

    I tempi in cui ci tocca di vivere stanno diventando cupi e tetri. Pur senza concedere nulla al pessimismo della ragione, sentire un pontefice evocare la Terza Guerra Mondiale, il segretario della Nato non escluderla come scenario, e importanti giornali proporci quotidianamente una mappa dei conflitti che incendiano le regioni strategiche del mondo in cui viviamo, non è certo rassicurante. Soprattutto perchè la realtà incasella e aggiunge giorno dopo giorno le conferme che la pallina collocata sul piano inclinato continua a scivolare pericolosamente. Accelerando. Ma le guerre non sono una fatalità. Possono esplodere quando un incidente accelera i processi storici; ma si verificano perchè ci sono forze materiali che hanno spinto i processi verso la rottura, lo scontro, il “clash tra le potenze”, come scrissero in un ottimo libro Petras, Casadio e Vasapollo. La cosa che colpisce – che deve colpire anche gli ottusi “di sinistra” – è che il novanta per cento dei focolai di conflitto circonda l’Europa come un cerchio di fuoco.

  • Missione compiuta, l’Italia muore: la catastrofe in cifre

    Scritto il 31/7/14 • nella Categoria: segnalazioni • (9)

    Un paese in ginocchio, mutilato, raso al suolo dalla crisi inasprita dall’euro e dal regime di austerity imposto da Bruxelles per mantenere in vita la moneta unica. L’Italia sta letteralmente andando a pezzi: tutti se ne accorgono ogni giorno, mentre la disoccupazione dilaga, i consumi crollano, i negozi chiudono e le aziende licenziano. Ma il panorama si fa ancora più impressionante se si osservano, tutti insieme, i numeri della catastrofe. E’ quello che ha fatto il blog “Sollevazione”, pescando tutte le cifre ufficiali degli indicatori-chiave. Un bollettino di guerra, voce per voce. Produzione e ricchezza, industria e redditi, debito e risparmi. L’Italia in rosso, che sta precipando lontano dalla sua storia, senza neppure capire perché. Ognuno combatte, da solo, contro continui rovesci: non ci sono spiragli, non c’è alcuna “ripresa” nemmeno all’orizzonte. Ma nessuno racconta davvero l’assedio del panico, la paura sciorinata dai “crudi numeri”, che forse non fotograno «le dimensioni effettive del disastro economico e sociale che vive l’Italia», però «ci aiutano a comprenderlo».
    Secondo gli analisti di “Sollevazione”, la resa matematica dell’Italia rivelata dai conti – la lingua spietata del pallottoliere – permette anche di «capire come le politiche austeritarie per tenere in piedi l’euro, il sistema bancocratico e il capitalismo-casinò, abbiano affossato il nostro paese», il cui Pil ha perso 8,7 punti percentuali a partire dal 2007, inclusa la manipolazione dello spread che ha “armato” la gigantesca manomissione operata da Monti e Fornero, con la loro “spending review” e la riforma-suicidio delle pensioni. Un’agenda peraltro proseguita da Letta: tagliare la spesa, ben sapendo che il “risparmio” dello Stato manda in crisi il settore privato, facendo calare il gettito fiscale e quindi esplodere il debito pubblico. Matteo Renzi? Niente di nuovo: neoliberismo puro, a cominciare dal Jobs Act per precarizzare ulteriormente il lavoro. Aggravanti: la neutralizzazione delle ultime difese sociali garantite dalla Costituzione, come vuole l’élite finanziaria, e l’eliminazione fisica dell’opposizione attraverso una legge elettorale come l’Italicum, definita peggiore – per le sue restrizioni – di quella che permise a Mussolini di consolidare il neonato regime fascista.
    Tutto questo, mentre il paese soccombe ogni giorno: in sei anni, il Pil pro capite è calato di 9 punti (di 10, invece, il reddito reale disponibile per le famiglie). Stesse percentuali per la frana della ricchezza nazionale: -9% dal 2007 al 2013, pari a 843 miliardi di euro. C’era una volta l’Italia: nello stesso periodo, la produzione industriale è crollata addirittura del 25,5%. Sta andando in frantumi, grazie alla politica imposta da Berlino, il maggior competitore europeo della Germania. Tra il 2001 e in 2013, l’Italia ha perso 120.000 fabbriche. Sono cifre da scenario bellico, e non sono riguardano solo l’industria: ci sono anche le 75.000 imprese artigiane costrette a chiudere. Anno record per il fallimenti, l’infame 2013 delle “larghe intese”: qualcosa come 111.000 fallimenti, in appena dodici mesi. Contraccolpo catastrofico, la disoccupazione: dal 2001, con l’ingresso nell’Eurozona, l’industria italiana ha perso un milione e 160.000 posti di lavoro. Colpa anche dell’assenza di credito: nonostante ricevano denaro dalla Bce a tassi «prossimi allo zero», le banche continuano a finanziare le imprese con prestiti al 4,49%, mentre negli altri paesi dell’Eurozona l’interesse medio è al 3,8%.
    Anche così il lavoro si estingue alla velocità della luce. Dal 2007, la piaga della disoccupazione è più che raddoppiata: dal 6,1% al 12,7 attuale. «I disoccupati ufficiali sono 3 milioni e 300.000», rileva “Sollevazione”, ai quali vanno però aggiunti «altri 3 milioni di persone», che ormai non si rivolgono neppure più ai centri per l’impiego: i cosiddetti “sfiduciati” fanno salire a quasi 6 milioni e mezzo il totale dei disoccupati italiani, proprio mentre la Germania del super-export vede salire ai massimi storici la quota degli occupati. C’è anche il trucco, naturalmente: un tedesco su quattro accetta i mini-job da 450 euro al mese. E’ la strada aperta in Italia dal Jobs Act di Renzi, di fronte a una platea oceanica di giovani senza lavoro: il 43%, più del doppio dei ragazzi disoccupati nel 2007. Sta male, comunque, la stragrande maggioranza dei salari italiani: «Con uno stipendio netto di 21.374 dollari l’anno, l’Italia si colloca al 23esimo posto nella classifica Ocse: se la passano peggio solo i portoghesi e gli abitanti dei paesi dell’Europa orientale». A valanga, la mancanza di impiego si traduce in forte calo dei consumi familiari, tagliati di quasi il 10% solo negli ultimi due anni. A farne le spese è anche il risparmio, continuamente eroso per far fronte all’emergenza economica, mentre la super-tassazione disposta dall’Ue ha raggiunto per l’Italia il 44% del Pil.
    «Se si considera il periodo tra il 2011 e il 2012 – precisa “Sollevazione” – soltanto l’Ungheria, in Unione Europea, ha conosciuto un aumento delle tasse rispetto al Pil superiore a quello dell’Italia». E’ un circolo vizioso: imporre più tasse a chi già le paga, per tentare (inutilmente) di arginare il calo delle entrate, comunque – già oggi – superiori alla somma delle uscite: situazione che sarà ulteriormente aggravata dal Fiscal Compact e cronicizzata dall’inserimento del pareggio di bilancio nella Costituzione. In pratica, la fine dello Stato sociale e delle garanzie sui servizi vitali – scuola e sanità in primis, peraltro minacciate di privatizzazione forzata dal Ttip e dal Tisa, i trattati segreti euro-atlantici imposti dagli Usa, che Renzi preme per approvare in fretta. Cartina di tornasole di questa autentica catastrofe, il debito pubblico: era pari al 103,3% del Pil nel 2007, ma ha raggiunto il 132,9% nel 2013. «L’ultimo rilevamento di Bankitalia ci dice che il debito pubblico ha toccato a maggio 2014 un nuovo record storico: quota 2.166,3 miliardi, con un aumento di 20 miliardi sul mese precedente».
    Va in rosso il conto delle famiglie, nel paese che prima dell’avvento dell’euro era il più risparmiatore d’Europa: rispetto al Pil, dal 1998 al 2012 il debito privato delle imprese è passato dall’85 al 120%, quello delle banche dal 40 al 110%, quello delle famiglie dal 30 al 50%. Paradossalmente, osserva “Sollevazione”, «in questo periodo quello che è cresciuto meno è stato proprio il debito pubblico», mentre il debito aggregato – pubblico e privato – è letteralmente esploso, dal 275% ad oltre il 400%. Spaventose pure le sofferenze bancarie, cresciute di 100 miliardi dal 2007 al 2013, per un totale di 147,3 miliardi di euro. Ed ecco l’ultimo gradino della tragedia: la povertà. Un fantasma che mette paura: l’esercito dei nuovi poveri e il timore che crescano furti e rapine ha aumentato del 5,7% i denari lasciati in custodia alle banche, oltre 1,2 miliardi di euro. Secondo Eurostat, gli «individui a rischio povertà o esclusione sociale» nel 2008 erano in Italia il 25,3%, e sono diventati il 29,9% nel 2012. L’ Istat è ancora più preciso: «Un italiano su dieci è in povertà assoluta».
    Tra il 2012 e il 2013, spiega l’istituto di statistica, l’incidenza della povertà assoluta è aumentata dal 6,8 al 7,9%, coinvolgendo oltre 300.000 famiglie e 1 milione 206.000 persone in più rispetto all’anno precedente. «E’ povera, o quasi povera, una famiglia su cinque». Poi c’è la “povertà relativa”, quelle delle famiglie (sono quasi 3 milioni e mezzo) il cui portafoglio mensile è inferiore alla spesa media nazionale, 972 euro al mese. Sono famiglie che cercano di sopravvivere con meno di 800 euro al mese, che si riducono a meno di 750 nel Mezzogiorno, dove più evidenti sono le diseguaglianze che la “crisi” ha fatto esplodere. Nel 1992, l’Italia era un paese relativamente equilibrato: non c’era un abisso tra ricchi e poveri e la classe media era in ottima salute. Oggi, praticamente, è in via di estinzione e teme di sprofondare giorno per giorno verso la povertà. Nel 2013, l’Italia è risultato «il paese più diseguale dell’Unione Europea, dopo la Gran Bretagna». Solo che il Regno Unito non è ingabbiato dall’euro. Infatti, a Londra, economia e occupazione stanno decisamente meglio rispetto alla media dell’atroce Eurozona, di cui l’Italia – dopo la Grecia – è la vittima principale.

    Un paese in ginocchio, mutilato, raso al suolo dalla crisi inasprita dall’euro e dal regime di austerity imposto da Bruxelles per mantenere in vita la moneta unica. L’Italia sta letteralmente andando a pezzi: tutti se ne accorgono ogni giorno, mentre la disoccupazione dilaga, i consumi crollano, i negozi chiudono e le aziende licenziano. Ma il panorama si fa ancora più impressionante se si osservano, tutti insieme, i numeri della catastrofe. E’ quello che ha fatto il blog “Sollevazione”, pescando tutte le cifre ufficiali degli indicatori-chiave. Un bollettino di guerra, voce per voce. Produzione e ricchezza, industria e redditi, debito e risparmi. L’Italia in rosso, che sta precipando lontano dalla sua storia, senza neppure capire perché. Ognuno combatte, da solo, contro continui rovesci: non ci sono spiragli, non c’è alcuna “ripresa” nemmeno all’orizzonte. Ma nessuno racconta davvero l’assedio del panico, la paura sciorinata dai “crudi numeri”, che forse non fotografano «le dimensioni effettive del disastro economico e sociale che vive l’Italia», però «ci aiutano a comprenderlo».

  • Meno democrazia: Renzi, il tecno-populista dell’élite

    Scritto il 26/7/14 • nella Categoria: idee • (4)

    L’Italia, paese di populisti e di populismi. Ne ha conosciuti ben tre (e mezzo), negli ultimi vent’anni, un record mondiale. Populismo: che è concetto classico della politica e della sociologia ma che tuttavia è un processo culturale prima che politico. E oggi economico prima che culturale e politico, nel senso che è appunto l’economia capitalista ad essere oggi un processo culturale prima che economico, producendo – prima delle merci e del denaro – le mappe concettuali, cognitive, relazionali, affettive necessarie per la navigazione nel mercato; trasformando quello che era il cittadino dell’illuminismo in lavoratore, merce, capitale umano – ovvero in mero homo oeconomicus. Tre populismi interi: Berlusconi, Grillo e Renzi. E il mezzo populismo della Lega. Tre padri politici invocati dal popolo perché lo sorreggano, lo portino da qualche parte, gli dicano cosa deve fare, perché questo stesso popolo si ritiene incapace (o non più desideroso) di assumersi la responsabilità di essere sovrano di se stesso.
    Effetto culturale, questo, dell’antipolitica capitalista, che per essere sovrano assoluto e culturalmente monopolista deve rimuovere ogni sovrano concorrente. Berlusconi: il populista che prometteva la modernizzazione neoliberale del paese. In realtà, un populismo del cambiare tutto per non cambiare nulla (soprattutto i suoi interessi personali e aziendali).
    Un populismo aziendalista, con la figura del padre/leader sostituita da quella dell’imprenditore che si è fatto da solo (o quasi), perfetta nell’esprimere il modello culturale che tutti dovevano apprendere: l’edonismo, il godimento immediato, la deresponsabilizzazione egoistica ed egotistica. Per legittimare – questa l’azione appunto culturale, pedagogica prima che economica – le retoriche neoliberiste dell’essere imprenditori di se stessi e della competizione come unica forma di vita.
    Bossi e la Lega: il mezzo populismo (non solo perché limitato a una parte del territorio), apparentemente il più classico dei populismi con il richiamo alla tradizione, ai simboli di terra e di sangue. All’essere padroni a casa nostra: da intendere però non come sovrani sulla nostra terra ma come padroni nel senso antico del capitalismo. Populismo da piccola impresa, da capitalismo molecolare come versione localistica dell’ordoliberalismo tedesco e della sua pedagogia per imporre il modello impresa all’intera società. Grillo: il populista contestatore, il teorico del net-populismo come forma perfetta della democrazia. Grillo come l’uomo del cambiamento ma incapace di cambiare (dice solo no) e forse populista anche di se stesso. E Matteo Renzi. Un populismo di tipo nuovo ma evoluzione dei precedenti. Perché anch’egli cerca il rapporto diretto con il popolo e lo invoca come propria totalizzante legittimazione. Perché aspira ad essere insieme Partito di Renzi e Partito della Nazione. Un partito-non-partito, tuttavia, ormai anch’esso trasversale – e quasi un non-luogo nel senso di Marc Augé: come un aeroporto, un supermercato, un luogo di consumo di politica.
    Un populismo che invoca il popolo contro le caste e il sindacato, salvando invece le oligarchie che lo sostengono come un sol uomo; che ha grandi mass-media schierati dalla sua parte e che gli consentono ciò che mai avrebbero consentito a Berlusconi; un populismo fideistico e teologico-politico (noi contro loro, noi il tutto che non accetta il due e il tre e il molteplice e gli eretici; noi il nuovo, gli altri il vecchio). Un populismo che vuole rottamare appunto il vecchio, ma che non rottama, non corregge (una volta si chiamava autocritica, ma il nuovo che avanza travolge anche la memoria) i molti errori del passato: il sì all’austerità, all’articolo 81 della Costituzione sul pareggio di bilancio. Un populismo finalizzato alla modernizzazione dell’Italia – e ogni populismo è stato, storicamente, anche una via per la modernizzazione, facendo accettare al popolo, in nome del popolo, quelle trasformazioni che altrimenti non sarebbero state possibili per trasformare un paese e quel popolo. Per questo, quello di Renzi è un populismo tecnocratico: che produce quella modernizzazione neoliberista che Berlusconi non è riuscito a produrre e Grillo fatica a poter produrre.
    Un populismo nel nome della tecnocrazia, che la tecnocrazia ama; un populismo che trasforma (forse questa volta per davvero) il potere politico nel senso richiesto dalla tecnocrazia: meno democrazia (la riforma del Senato, le proposte di nuova legge elettorale); meno diritti sociali e quindi politici (diventati un costo); più decisionismo; meno partecipazione e più adattamento alla realtà immodificabile del mercato; meno cittadinanza attiva e più accettazione della ineluttabilità del reale. Perché le sue pratiche politiche – al di là delle apparenze e delle discussioni con Angela Merkel e di alcuni interventi comunque virtuosi – sono tutte dentro alla cultura della modernizzazione richiesta dall’ideologia neoliberista (flessibilità del lavoro, privatizzazioni, un nuovo modo di essere imprenditori di se stessi, riduzione ulteriore dello stato sociale, crescita invece di sviluppo, competizione invece di solidarietà); e la flessibilità sul Fiscal Compact (invece della sua abolizione, per evidente irrazionalità e surrealtà economica), pure invocata, è un pannicello caldo rispetto al nuovo new deal che sarebbe invece necessario (e urgente).
    Un populismo futurista, inoltre: nel nome della velocità, delle macchine, delle parole in libertà, dell’azione per l’azione. Il populismo di Renzi è dunque più di un classico neopopulismo, che ha dominato la scena per trent’anni coniugando populismo e neoliberismo, mercato e popolo, modernizzazione e impoverimento e disuguaglianze. E’ un neopopulismo tecnocratico – per altro discendenza diretta di quello neoliberista – che scardina ancor più di quello neoliberista le forme e le pratiche della democrazia; riduce a niente la società e la società civile; attacca il sindacato o lo rende inutile (in coerenza con le tecnocrazie globali); che spettacolarizza se stesso proponendosi come outsider, come rottura, come alternativa, in realtà portandoci nella società dello spettacolo della tecnocrazia. Una tecnocrazia che non si espone più direttamente con i noiosi e antipatici tecnici, ma con la fantasia e l’estro di un populismo mediatico e spettacolare, moderno e postmoderno insieme, dove twittare è più importante che ascoltare.
    (Lelio Demichelis, “Il populismo tecnocratico del rottamatore”, da “Sbilanciamoci” del 4 luglio 2014).

    L’Italia, paese di populisti e di populismi. Ne ha conosciuti ben tre (e mezzo), negli ultimi vent’anni, un record mondiale. Populismo: che è concetto classico della politica e della sociologia ma che tuttavia è un processo culturale prima che politico. E oggi economico prima che culturale e politico, nel senso che è appunto l’economia capitalista ad essere oggi un processo culturale prima che economico, producendo – prima delle merci e del denaro – le mappe concettuali, cognitive, relazionali, affettive necessarie per la navigazione nel mercato; trasformando quello che era il cittadino dell’illuminismo in lavoratore, merce, capitale umano – ovvero in mero homo oeconomicus. Tre populismi interi: Berlusconi, Grillo e Renzi. E il mezzo populismo della Lega. Tre padri politici invocati dal popolo perché lo sorreggano, lo portino da qualche parte, gli dicano cosa deve fare, perché questo stesso popolo si ritiene incapace (o non più desideroso) di assumersi la responsabilità di essere sovrano di se stesso.

  • Basta diktat dagli Usa, la Cina avrà la sua Banca Mondiale

    Scritto il 10/7/14 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Basta con l’egemonia di Wall Street, la Cina vuole una sua Banca Mondiale orientata da Pechino e non dal capitale finanziario occidentale. Mentre gli Stati Uniti premono sulla Russia con l’escalation in Ucraina e minacciano di accerchiare la Cina spostando nel Pacifico la loro flotta da guerra dopo aver imbrigliato l’Europa nella tela atlantica con il Ttip e il Tisa, i trattati segreti su merci e servizi per imporre l’american way of life a colpi di deregulation e privatizzazioni, il gigante asiatico aumenta il suo pressing per creare un’istituzione finanziaria globale in grado di fronteggiare e competere con la Banca Mondiale e l’Asian Development Bank, che Pechino ritiene troppo influenzate dagli Stati Uniti e dai loro alleati. Nelle ultime settimane, segnala “La Stampa”, la Cina ha proposto di raddoppiare il capitale per l’antagonista della Banca Mondiale a 100 miliardi di dollari. Al momento, secondo il “Financial Times”, sono già 22 i paesi che hanno mostrato interesse nell’iniziativa.
    «La banca allo studio dovrebbe chiamarsi Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib), e dovrebbe puntare inizialmente a costruire la nuova versione della Via della Seta, l’antica strada degli scambi commerciali fra Europa e Cina», scrive il quotidiano torinese. «Fra i progetti anche una ferrovia diretta da Pechino a Baghdad». Per il giornale di New York, «la Cina ritiene di non poter ottenere niente dalla Banca Mondiale o dal Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e così vuole una sua banca mondiale». E’ molto vasto l’interesse internazionale per l’iniziativa, ma in ogni caso «la Cina è pronta ad andare avanti anche se nessun altro vi prendesse parte». Se gli Stati Uniti arrivano a minacciare anche militarmente l’Eurasia, pretendendo di mantenere l’attuale controllo egemonico sui grandi capitali, la Cina – il maggior creditore dell’America – organizza un’evidente controffensiva, che (d’intesa con la Russia) potrebbe portare all’abbandono del dollaro come moneta internazionale, a favore dello yuan, per le forniture di gas e petrolio.
    L’Aiib, aggiunge “La Stampa”, sarebbe una sfida per l’Asian Development Bank, che i cinesi valutano troppo influenzata dal Giappone. «Se partisse con 100 miliardi di dollari, Aiib sarebbe già due terzi dell’Asian Development Bank, che può contare su 165 miliardi di dollari». Il Giappone e gli Stati Uniti sono i maggiori azionisti dell’Asian Development Bank, con rispettivamente il 15,7% e il 15,6%, e il presidente dell’istituto è giapponese da quando è stata fondata nel 1966, mentre la Cina controlla appena il 5,5% del colosso finanziario, anche se la sua economia è molto più grande di quella del Giappone. Pechino, che ha organizzato diversi incontri per promuovere l’iniziativa, avrebbe già firmato un apposito “memorandum of understanding” con 10 paesi. Il mondo si avvia ad essere sempre meno americano, a cominciare dal motore dell’economia globale.

    Basta con l’egemonia di Wall Street, la Cina vuole una sua Banca Mondiale orientata da Pechino e non dal capitale finanziario occidentale. Mentre gli Stati Uniti premono sulla Russia con l’escalation in Ucraina e minacciano di accerchiare la Cina spostando nel Pacifico la loro flotta da guerra dopo aver imbrigliato l’Europa nella tela atlantica con il Ttip e il Tisa, i trattati segreti su merci e servizi per imporre l’american way of life a colpi di deregulation e privatizzazioni, il gigante asiatico aumenta il suo pressing per creare un’istituzione finanziaria globale in grado di fronteggiare e competere con la Banca Mondiale e l’Asian Development Bank, che Pechino ritiene troppo influenzate dagli Stati Uniti e dai loro alleati. Nelle ultime settimane, segnala “La Stampa”, la Cina ha proposto di raddoppiare il capitale per l’antagonista della Banca Mondiale a 100 miliardi di dollari. Al momento, secondo il “Financial Times”, sono già 22 i paesi che hanno mostrato interesse nell’iniziativa.

  • Cremaschi: l’euro è stato creato per demolire la sinistra

    Scritto il 17/5/14 • nella Categoria: idee • (4)

    A trenta anni dalla scomparsa di Enrico Berlinguer vorrei ricordare, tra le sue scelte scomode allora come oggi, la decisione del 1979 di rompere con i governi di unità nazionale dicendo no all’adesione dell’Italia allo Sme. Il trattato che definiva allora il cosiddetto serpente monetario era il primo passo verso la moneta unica. Il Pci decise di opporsi a quel trattato anche per uscire dalla disastrosa politica di unità nazionale con la Dc, ma le motivazioni usate contro la rigidità della moneta (e allora il liberismo veniva chiamato non a caso monetarismo) valgono ancora oggi. Nella Banca d’Italia era stata appena liquidata la gestione del governatore Baffi, che era stato arrestato insieme al direttore Sarcinelli, su mandato del giudice neofascista Aliprandi. Successivamente furono entrambi completamente scagionati e l’inchiesta su di loro si rivelò completamente falsa. Ma intanto la Banca d’Italia era stata decapitata e aveva cambiato completamente politica monetaria.
    Infatti la scelta distintiva del governatorato di Baffi era stata proprio la manovra sulla moneta. La lira veniva rivalutata rispetto al dollaro, in modo da rendere meno pesante la bolletta energetica, e svalutata rispetto al marco, per sostenere la produzione industriale. Baffi motivò esplicitamente queste scelte con la necessità di non svalutare i salari e fu l’unico governatore a non demonizzare la scala mobile e il sistema di protezione sociale. Lo Sme invece mise al centro della politica economica la rigidità monetaria, adottando quel liberismo che andava al governo in Gran Bretagna con Thatcher e negli Usa con Reagan. I nostri primi interpreti di quella svolta furono il governatore Ciampi e il ministro del Tesoro Andreatta. Che assieme decisero nel 1981 la separazione del Tesoro dalla Banca d’Italia, con il conseguente obbligo di vendere sul mercato i Bot per finanziare la spesa pubblica. E con l’attacco alla indicizzazione dei salari che ebbe il suo apice in quel decreto Craxi di taglio della scala mobile, contro cui Enrico Berlinguer fece la sua ultima battaglia.
    In sintesi l’euro e la perdita formale della sovranità monetaria a favore della Bce sono il punto di arrivo, e non la partenza, di un sistema di accordi e decisioni che avevano un obiettivo dichiarato: rendere impossibili le politiche economiche keynesiane, imporre gli interessi della globalizzazione finanziaria e dei mercati come vincoli insuperabili per gli Stati. Il pareggio di bilancio in Costituzione, votato da noi anche dalla destra oggi anti-euro, è l’ultimo atto formale di tale politica trentennale. L’effetto euro sulle economie europee é stato duplice. Da un lato la moneta unica è stata lo strumento per istituzionalizzare ovunque le politiche liberiste. La Grecia é stata distrutta con il ricatto della sua espulsione dall’euro. Da noi lo slogan “lo vuole l’Europa” ha accompagnato ogni operazione di smantellamento dei diritti del lavoro e dello Stato sociale. Dall’altro lato la moneta unica forte ha finito per mettere alla pari economie che pari non erano, facendo della zona euro non un’area di crescita comune, bensì il campo di battaglia della competizione estrema.
    Di questo si è avvantaggiata profondamente l’economia tedesca, che con il governo socialdemocratico Schroeder all’inizio del duemila ha colpito duramente i diritti del lavoro, aprendo così la via all’era Merkel. La depressione salariale da sola non fa competitività, ma se si somma ad un sistema industriale forte che gode di una moneta particolarmente favorevole, allora la fa eccome. Perché l’euro desse risultati economici con un minimo di equilibrio ci sarebbe voluto un boom salariale in Germania. Invece sono nati a milioni i cosiddetti mini-job, lavori precari con paghe da pochi euro l’ora, per i quali dal Belgio son partite denunce alla Corte di Giustizia Europea a causa delle delocalizzazioni che hanno lì provocato. E questa politica continua oggi in primo luogo per opera della socialdemocrazia e della complicità sindacale. La legge sul salario minimo, vantata come un successo progressista, è in realtà una formalizzazione del dumping sociale. Stabilire che nel 2017 la paga minima in Germania sarà di 8,50 euro all’ora, quando ora in Francia è di 10, significa usare l’euro come arma di devastazione economica di massa.
    Ora i due partiti che guidano l’Unione Europea, la Germania e gli altri principali governi, Pse e Ppe, promettono un allentamento dei lacci delle politiche di austerità. Ma mentono sapendo di mentire perché in realtà il sistema euro, con i suoi trattati non rinegoziabili, da Maastricht al Fiscal Compact, non prevede alternative alle politiche liberiste. O salta o continua come sempre, e proprio di questa rigidità si fa forte la signora Merkel, che così ha spianato ogni debole ostacolo da parte della Spd. Tre anni fa una intervista di Giuliano Amato a Rossana Rossanda puntava sul ritorno al governo dei socialisti in Francia e Germania per farla finita con l’austerità. Non voglio infierire – certo il centrosinistra europeo è oramai una formazione social-liberale che ha ben poco della sinistra – ma la realtà è che il sistema europeo non è riformabile.
    Le tre misure più avanzate di cui si discute in campagna elettorale – condono di una parte del debito per i paesi del sud Europa, Eurobond, trasformazione della Bce in un istituto che dia i soldi direttamente agli Stati e non alle banche – non sono realizzabili senza cancellare, e non semplicemente aggiustare, i trattati che stanno a presidio dell’euro. E in ogni caso sarebbero impedite da qualsiasi governo tedesco. Chi sostiene queste misure dovrebbe aggiungere: o si fa questo, o salta la baracca perché così non si può andare avanti. Invece questo non viene detto, e così il sistema di potere economico finanziario che guida l’Europa capisce che non si fa sul serio. Il fondatore della Linke tedesca, Oskar Lafontaine, aveva proposto un piano europeo di smontaggio dell’euro, ma il suo stesso partito non ha avuto il coraggio di sostenerlo. E tutta la sinistra europea oggi esprime la stessa paura.
    È chiaro che dire no all’euro non basta se non si rimuove la politica economica liberista che ha portato alla sua costruzione, ma la fine della moneta unica è una condizione necessaria per poter ricostruire una politica economica e sociale fondata su eguaglianza e democrazia. È una condizione necessaria, ma non sufficiente; e proprio questa insufficienza avrebbe dovuto essere il campo d’azione di una vera sinistra. Come ho cercato di spiegare, l’euro non é tutto, ma è il simbolo monetario delle politiche liberiste e di austerità. La sinistra non doveva subire il ricatto psicologico di chi accusa di nazionalismo la rivendicazione della sovranità monetaria, mentre in realtà difende l’internazionalismo di banche e finanza. La sinistra non avrebbe dovuto avere il tabù dell’euro, ma anzi avrebbe dovuto fare della contestazione della moneta unica la leva per spingere in campo una critica popolare e di massa al liberismo.
    La sinistra doveva dire no all’euro dal suo punto di vista, e così questo punto di vista sarebbe tornato in campo nella crisi europea. Invece il campo è stato abbandonato e così il no all’euro è diventato vessillo delle destre autoritarie, xenofobe e neofasciste. Che ovviamente lo usano a loro modo e per i loro fini. Il risultato è che la politica europea è bloccata tra la continuazione delle politiche di austerità sotto le larghe intese Ppe-Pse e la contestazione degli euroscettici reazionari. E il sostegno Ue al governo ucraino infarcito di neonazisti, mostra che ci sono momenti e situazioni in cui questi due schieramenti possono trovare sintesi. Un’alternativa di sinistra a tutto questo si ricostruirà solo quando le sue forze sapranno proporre senza tabù la messa in discussione dei poteri e delle politiche dell’Europa reale, senza trastullarsi con una Europa ideale tanto ipocrita quanto inesistente.
    In Italia questo significa una sinistra che rompa davvero con il Pd e apra il confronto e il dialogo con il “Movimento 5 Stelle”, che avrà tanti limiti e contraddizioni, ma che finora ha anche il merito democratico di aver impedito un lepenismo di massa nel nostro paese. La prima cosa da proporre subito dopo le elezioni europee è un referendum costituzionale sui trattati e sull’euro, così come si fece già nel 1989. Lo chieda anche la sinistra che non vuol morire renziana. Aveva ragione Berlinguer a dire no allo Sme, e ha torto oggi la sinistra a non mettere in discussione quell’euro che è stato messo lì per distruggerla.
    (Giorgio Cremaschi, “Perché la sinistra deve dire no all’euro”, da “Micromega” del 14 maggio 2014).

    A trenta anni dalla scomparsa di Enrico Berlinguer vorrei ricordare, tra le sue scelte scomode allora come oggi, la decisione del 1979 di rompere con i governi di unità nazionale dicendo no all’adesione dell’Italia allo Sme. Il trattato che definiva allora il cosiddetto serpente monetario era il primo passo verso la moneta unica. Il Pci decise di opporsi a quel trattato anche per uscire dalla disastrosa politica di unità nazionale con la Dc, ma le motivazioni usate contro la rigidità della moneta (e allora il liberismo veniva chiamato non a caso monetarismo) valgono ancora oggi. Nella Banca d’Italia era stata appena liquidata la gestione del governatore Baffi, che era stato arrestato insieme al direttore Sarcinelli, su mandato del giudice neofascista Aliprandi. Successivamente furono entrambi completamente scagionati e l’inchiesta su di loro si rivelò completamente falsa. Ma intanto la Banca d’Italia era stata decapitata e aveva cambiato completamente politica monetaria.

  • Sorpasso cinese sugli Usa, cresce il pericolo di guerra

    Scritto il 06/5/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Mentre la francese Alstom sta per cedere alla General Electric il settore energia e la crisi ucraina si approfondisce, l’ambasciata statunitense a Roma invia una comunicazione ufficiale al governo italiano invitandolo a rispettare l’impegno a comprare tutti i 90 aerei F-35, come da accordi sottoscritti a suo tempo, perché «ulteriori riduzioni sul programma potrebbero incidere sugli investimenti e, dunque, sui benefici». Con tanti saluti all’ipotesi renziana di “risparmiare” i conti pubblici sotto stress, in vista del Fiscal Compact. Non solo: gli Stati Uniti, ricorda Claudio Conti, hanno riannodato i rapporti con le Filippine per aprire basi militari in esplicita funzione anti-cinese, mentre tentano di riprendere possesso dell’America Latina foraggiando le opposizioni in Venezuela, Bolivia, Ecuador. Gli Usa sono nervosi: stanno per perdere la loro secolare leadership economica mondiale in favore della Cina, e stanno col dito sul grilletto. In caso di guerra, una sola certezza: non ci saranno vincitori.
    Secondo l’ultimo studio della Banca Mondiale, citato dal “Financial Times”, gli Stati Uniti stanno per consegnare alla Cina lo scettro di prima economia al mondo: «Il sorpasso avverrà molto prima del previsto 2019, forse già quest’anno», scrive Conti su “Contropiano”. Gli Usa detengono il primo posto dal 1872, quando avevano superato la Gran Bretagna. E saranno presto incalzati anche dall’India, che sta per prendersi il terzo posto. «È la temuta crisi dell’egemonia statunitense, affermatasi pienamente con la Seconda Guerra Mondiale ma lungamente preparata nei decenni precedenti». Storia: «Non si è mai vista una potenza imperiale dominare sul mondo senza essere anche la prima economia del pianeta». Ma il “lungo addio” della Gran Bretagna all’egemonia globale è potuto maturare «solo grazie a un mondo assai più lento di oggi e allo “speciale rapporto” con l’ex colonia che stava diventando una superpotenza».
    Oggi, continua Conti, l’economia finanziaria viaggia in tempo reale: la competizione, a questo livello, si gioca sui centesimi di secondo. «E anche le forze militari sono mobilitabili in tempi infinitamente più rapidi». Peccato però che gli approvvigionamenti energetici stiano diventando sempre più problematici, tra risorse storiche in via di esaurimento e “risorse non convenzionali” appena sufficienti, per ora, a mantenere allo stesso livello i consumi planetari. «Gli Stati Uniti sanno meglio di tutti che il loro dominio sul mondo è a rischio, e hanno deciso di lottare per non farsi scalzare, nemmeno a favore di un “multipolarismo” in cui non potrebbero restare dei “primus inter pares”», perché non possono più sperare all’infinito di «affrontare i propri problemi stampando dollari e imponendo agli altri di accettarli in cambio di prodotti fisici».
    Così, gli Stati Uniti di Obama «attaccano in Europa cogliendo i due punti deboli dell’emergente imperialismo dell’Unione Europea: forniture energetiche e dotazione militare», e inoltre «attaccano in Asia tentando di “contenere” militarmente l’esplosiva influenza economica cinese». E’ un azzardo, un’offensiva inedita su tutti i fronti, dall’Atlantico al Pacifico. «È una dinamica antica e ripetitiva», sostiene Conti: «Una coazione a ripetere, ma estremamente pericolosa», perché «la crisi economica non passa», e quindi «la guerra inter-imperialista si affaccia di nuovo come possibile soluzione». Peccato, chiosa l’editorialista di “Contropiano”, che tutte quelle testate nucleari in giro per il mondo garantiscano – da 70 anni – una sola certezza: la Terza Guerra Mondiale non conoscerebbe vincitori, ma solo vittime.

    Mentre la francese Alstom sta per cedere alla General Electric il settore energia e la crisi ucraina si approfondisce, l’ambasciata statunitense a Roma invia una comunicazione ufficiale al governo italiano invitandolo a rispettare l’impegno a comprare tutti i 90 aerei F-35, come da accordi sottoscritti a suo tempo, perché «ulteriori riduzioni sul programma potrebbero incidere sugli investimenti e, dunque, sui benefici». Con tanti saluti all’ipotesi renziana di “risparmiare” i conti pubblici sotto stress, in vista del Fiscal Compact. Non solo: gli Stati Uniti, ricorda Claudio Conti, hanno riannodato i rapporti con le Filippine per aprire basi militari in esplicita funzione anti-cinese, mentre tentano di riprendere possesso dell’America Latina foraggiando le opposizioni in Venezuela, Bolivia, Ecuador. Gli Usa sono nervosi: stanno per perdere la loro secolare leadership economica mondiale in favore della Cina, e stanno col dito sul grilletto. In caso di guerra, una sola certezza: non ci saranno vincitori.

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