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Archivio del Tag ‘Comuni’

  • Fondi-fantasma, Ue: il bilanco del Sacro Romano Impero

    Scritto il 10/10/18 • nella Categoria: segnalazioni • (12)

    Tutti sappiamo che l’Europa ci frega, ma non immaginiamo fino a che punto la truffa è raffinata. Oh, certo, sì… paghiamo con un euro di debito una banca, per la quale, se quella moneta vale 10 centesimi, è già tutto grasso che cola. Anche una banconota da 500 euro costa pressappoco qualche centesimo, ma il guadagno è maggiore: se poi è denaro elettronico… puf! Non costa niente. E ti sei indebitato per il valore nominale. Un sistema come questo, però, richiede che la gente ci creda, che non possa farne a meno, che abbia paura se taglia i legami con la banca strozzina. Per fare questo, ci vogliono fior di politici e di giornalisti: e chi paga? Sempre noi, paghiamo anche le fruste dei nostri aguzzini. Mai dato uno sguardo ai bilanci dell’Ue? L’Ue è “prodiga e trasparente”, quando si tratta di mostrare quanto sono buoni e onesti con noi, salvo che – come in ogni gioco di un prestigiatore – il trucco c’è, ma non si vede. E non parlo d’ingegneria finanziaria: è più semplice, ma efficientissimo. Vediamo, anzitutto, quanto versano e ricevono i vari paesi, annualmente, all/dall’Ue, considerando che una parte viene restituita sotto forma di finanziamenti. Ogni anno (dati 2015) la “tassa” che l’Italia paga per rimanere nell’Ue è di circa 14-15 miliardi di euro, mentre quelli che ci ritornano sono circa 12-13.
    Così, adesso abbiamo ben cinque livelli di tassazione: Europa, Stato italiano, Regioni, Province (ora “Enti di vasta area”) e Comuni: una bella zuppa, non c’è che dire. Perché, se l’Italia è un paese “in gravi difficoltà” per quanto riguarda il debito pubblico, non riceve più di quanto dà? La Grecia, difatti è nel novero dei “riceventi”, come del resto l’Estonia, che non ha praticamente debito pubblico. Mistero. Chissà poi perché la Spagna riceve parecchio di più rispetto a quanto versa… Insomma, è un guazzabuglio senza senso, dove sembra che più dei dati oggettivi – di bilancio o di bisogno – contino di più appoggi ed alleanze con paesi potenti. Un altro aspetto è che – con un paio di eccezioni – tutti i paesi dell’area euro sono a saldo negativo, mentre i paesi fuori dall’euro sono a saldo positivo: la Polonia, ad esempio, riceve 9 miliardi in più di quanto versa, (l’ammontare del RdC tanto contestato all’Italia), che insieme alla Grecia non ha mai avuto un serio assegno di disoccupazione, quale il RdC è. Si vede che il detto “se lo conosci lo eviti”, riferito all’euro, si è fatto strada e… devono far vedere che sono prodighi! Ci piacerebbe anche sapere come mai il signor Juncker s’arrabbia così tanto per l’Italia quando il suo paese – che è un paradiso fiscale nel bel mezzo dell’Europa – versa pochissimo: eh già, i lussemburghesi sono pochi e il Pil è scarso… in compenso, i bilanci delle banche sono astronomici.
    Tutti i paesi a forte penetrazione economica tedesca (soprattutto industriale) sono a saldo positivo: così è anche per la Spagna, dove i capitali germanici hanno investito in lungo ed in largo. Ma… ciò che riceviamo? Sono pur sempre una dozzina di miliarduzzi… Vediamo come l’Ue li ripartisce per aree economiche. L’Ue riceve, complessivamente, circa 155 miliardi l’anno dagli Stati membri, però i bilanci sono settennali. Perché? Forse un “ricordo” dei piani quinquennali sovietici? Mistero. Ciò che più è importante è notare la ripartizione del bilancio di previsione 2014-2020, che supera la fantasmagorica cifra di 1.000 miliardi di euro e che aumenta ogni anno di 4 miliardi. Beati loro: lo sanciscono per editto, come gli imperatori del Sacro Romano Impero. Curiosità (ma non troppo): l’Ue spende – ogni anno – circa 4 miliardi in compensi, cioè stipendi. Riteniamo che, nella cifra, ci siano sia i politici che i burocrati… oppure i secondi sono pagati con i 10 miliardi annui dell’amministrazione? E Global Europe, cos’è? Sono più di 9 miliardi annui spesi per l’immagine dell’Ue nel mondo e per le spese conseguenti: un bel mistero, visto che l’Ue non ha un’unica politica estera e non è nemmeno un’entità statuale, federale o confederale. E allora?
    Rimangono pochi spiccioli – circa 2,5 miliardi l’anno – per sicurezza e cittadinanza e ben 20 miliardi l’anno per crescita e lavoro. Ma veniamo alle due ripartizioni principali, che sono, rispettivamente, la prima più legata agli aspetti industriali (Coesione, ecc) e la seconda all’agricoltura, che si “beccano” la prima circa 50 miliardi l’anno e la seconda addirittura circa 60 miliardi tondi tondi l’anno. Cosa ci fanno? Beh, se notate la sfilza di finanziamenti a fondo perduto, capite subito che si tratta di soldi dati a soggetti pubblici o altri grandi investitori privati. L’Europa, ai piccoli imprenditori o, comunque, a qualcuno che non abbia dietro “consistenti” appoggi politici, non dà una mazza. Due brevi esempi. Due ragazze avevano deciso d’avviare un’attività legata al loro territorio (Langa), ossia una stalla dove allevare capre per fare formaggi caprini: ci sono riuscite – e adesso vendono le loro formaggette – ma le hanno aiutate le loro famiglie. Pur bussando più volte a molte porte, non hanno ottenuto nulla dalla “grande” Europa. Nella seconda fui coinvolto personalmente.
    L’idea, partita da una parrocchia, era quella di creare una cooperativa fra ex carcerati che si occupasse di restauro ligneo: fui interpellato come esperto del settore (provengo da una famiglia d’antiquari) insieme ad un amico restauratore. Credevamo, essendo le uniche persone esperte, di dirigere la struttura ma non era così: la direzione generale della struttura era affidata ad un “diacono” che nessuno conosceva. Incontrai questo “diacono”, m’offrì una grappa e mi disse: «Tanto è inutile che voi pretendiate la direzione, perché “noi” riceveremo i fondi europei, voi mai». Bevvi d’un sorso la grappa e lo salutai. A mai più. Quella enorme massa di denaro che viene elargita per vari “progetti” non è altro che una colossale regalia al potere politico di una nazione, allo scopo di garantirsi la fedeltà assoluta ai dettami europei. I mille capannoni abbandonati, cosa furono? Altrettante tangenti o, comunque, “provvigioni” ottenute da “progetti” che erano inconsistenti, privi d’utilità economico-sociale, buoni solo per finanziare questo o quello, europeisti convinti, ovvio.
    Infine, c’è la bella favola del Fondo Sociale Europeo – il quale, per sua definizione, potrebbe essere usato anche per il RdC – ma no, non s’ha da fare. Perché? Perché la gestione del Fse era delle Regioni, poi delle Province… e adesso? Sono i famigerati “centri per l’impiego”, ossia posti dove una miriade di burocrati s’affannano per farti credere che il lavoro si troverà… a patto di fare quel certo corso d’aggiornamento, tenuto dal luminare universitario, pagato profumatamente, mediante il quale magari ti daranno anche un punteggio. E tu mangiaci, col punteggio. Mentre loro sono i veri destinatari del Fse: erano la base elettorale dei partiti che prima erano al governo e che temono un’affermazione dei sovranisti alle prossime elezioni europee. Finisce la pacchia? Vedremo. Un bilancio europeo siffatto serve soltanto a un trasferimento di denaro, che passa dai fondi pubblici alle tasche private: difatti, l’Europa è il continente che più esporta capitali nei paradisi fiscali (Isole Cayman, ecc). Ben 2.600 miliardi di dollari! Pronti, all’evenienza, ad acquistare stock di debito pubblico di un certo paese, oppure a venderli: così si ottiene il controllo di un continente, mediante lo spread ed il tipico atteggiamento dei cravattari.
    Del resto, cosa ci si può aspettare da un uomo (Juncker) che ha promosso l’elusione fiscale per le grandi aziende, nel suo paese e nel resto d’Europa, documentata da un’inchiesta di ben 80 giornalisti di 26 paesi, e un processo nel quale i giudici (lussemburghesi) hanno condannato…i giornalisti che avevano indagato?! Ora, torniamo a noi ed a quel famoso 2,4% che ha fatto infuriare Juncker: una nazione, pesantemente indebitata (come quasi tutti i grandi paesi europei), decide – dopo anni d’inconcludenti restrizioni economiche – di provare la via keynesiana, ossia di fornire risorse alle fasce più deboli della popolazione affinché, visto che quei soldi finiranno spesi per necessità (e non alle Cayman!), si possa innalzare la crescita e, in questo modo, ridurre il rapporto debito-Pil. E’ un tentativo plausibile? L’alternativa? Continuare in ristrettezze con il debito che sempre aumenta? Crediamo che Juncker sia arrabbiato, perché loro campano proprio sul debito altrui, come gli usurai: se qual debito non ci fosse, si dovrebbe inventarlo! Però, c’è un però.
    Per la prima volta sono giunti al potere partiti anti-europeisti: non tanto per principio, quanto per la miseria che è diventata questa Europa, che va sempre peggio, nella quale l’Indice di Gini (la disuguaglianza sociale) è sempre in aumento, nella quale in ogni paese s’avvertono solo “necessità di tagliare”, via welfare, via scuole, via ospedali… Il guaio è che è capitato in un grande paese: l’Italia. Al punto che, se si dovesse giungere ad uno scontro veramente duro, quel paese potrebbe sottoporre ai suoi elettori un referendum consultivo (come per il referendum consultivo per l’adesione, nel 1989) e decidere, vista l’impossibilità di rimanere insieme, d’andarsene. E sarebbe la fine dell’Unione Europea. Alcuni burocrati europei l’hanno capito (Moscovici, ad esempio, più “morbido”) mentre Juncker – che non è un gran politico, la sua formazione è prevalentemente economica – sembra non volerlo capire. Alle prossime elezioni europee lo capirà: coraggio, Juncker, non è mai troppo tardi!
    (Carlo Bertani, “I bilanci del Sacro Romano Impero”, dal blog di Bertani del 2 ottobre 2018).

    Tutti sappiamo che l’Europa ci frega, ma non immaginiamo fino a che punto la truffa è raffinata. Oh, certo, sì… paghiamo con un euro di debito una banca, per la quale, se quella moneta vale 10 centesimi, è già tutto grasso che cola. Anche una banconota da 500 euro costa pressappoco qualche centesimo, ma il guadagno è maggiore: se poi è denaro elettronico… puf! Non costa niente. E ti sei indebitato per il valore nominale. Un sistema come questo, però, richiede che la gente ci creda, che non possa farne a meno, che abbia paura se taglia i legami con la banca strozzina. Per fare questo, ci vogliono fior di politici e di giornalisti: e chi paga? Sempre noi, paghiamo anche le fruste dei nostri aguzzini. Mai dato uno sguardo ai bilanci dell’Ue? L’Ue è “prodiga e trasparente”, quando si tratta di mostrare quanto sono buoni e onesti con noi, salvo che – come in ogni gioco di un prestigiatore – il trucco c’è, ma non si vede. E non parlo d’ingegneria finanziaria: è più semplice, ma efficientissimo. Vediamo, anzitutto, quanto versano e ricevono i vari paesi, annualmente, all/dall’Ue, considerando che una parte viene restituita sotto forma di finanziamenti. Ogni anno (dati 2015) la “tassa” che l’Italia paga per rimanere nell’Ue è di circa 14-15 miliardi di euro, mentre quelli che ci ritornano sono circa 12-13.

  • Tumori: le città Usa contro il wireless 5G, in arrivo in Italia

    Scritto il 04/10/18 • nella Categoria: segnalazioni • (5)

    America dei controsensi: dal 1° ottobre il sistema 5G è regolarmente in funzione a Houston, Indianapolis, Los Angeles e Sacramento, ma c’è pure chi s’è sfilato e ha detto “no”. Se a Doylestown (Pennsylvania) da più d’un anno i funzionari rimbalzano tra le aule dei tribunali statali e federali per opporsi alla massiccia invasione di mini-antenne di quinta generazione, dopo le città di San Anselmo e Ross, anche il Comune di Mill Valley (sempre in California) ha deciso di fermare il 5G: «Troppo inquinamento elettromagnetico, esiste un fondato pericolo per la salute pubblica». Ricevute le protesta dei cittadini, scrive “Terra Nuova”, i municipi hanno infatti bloccato l’installazione del wireless del 5G per salvaguardare «la salute e la sicurezza della comunità». Lo stesso è accaduto a Palm Beach, in Florida, perché – sostengono i maligni – vi risiede nientemeno che il presidente Donald Trump, che pare non gradisca vivere in un groviglio di radiofrequenze. «Fatto sta che, numeri alla mano, solo in fase sperimentale oltre l’Atlantico sono già quattro le città che faranno (volentieri) a meno dei 20 Gigabit al secondo in download». Come ricorda anche l’Agcom, aderire al 5G significa garantire infrastrutture in grado di sostenere fino un milione di dispositivi connessi contemporaneamente per chilometro quadrato.
    Tradotto: irradiazioni di microonde millimetriche ovunque, non più solo dalle stazioni radio sui tetti dei palazzi (in Italia già 60.000) ma anche dai vecchi pali della luce «riconvertiti in ubiquitari Wi-Fi, uno ogni poche decine di metri, ovunque». Enel X, aggiunge “Terra Nuova”, ne ha annunciati poco meno di 2 milioni, distribuiti nei su 3.300 Comuni italiani. Con quali effetti per la salute? «Le prime evidenze che stanno venendo fuori dalla sperimentazione del 5G sono abbastanza preoccupanti», sostiene Agostino Di Ciaula, presidente di Isde-Italia (Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica, che ha già chiesto al governo Conte – inutilmente – una moratoria, per il nostro paese». Secondo Di Ciaula, «sono state segnalate alterazione dell’espressione genica, effetti sulla cute, effetti sulla proliferazione cellulare, sulla sintesi di proteine, sui processi infiammatori». Dati di fatto «ormai consolidati», secondo Di Ciaula: «Le onde elettromagnetiche ad alta frequenza causano effetti biologici soprattutto in termini di plesso ossidativo, che è alla base di numerose patologie croniche e dello stesso cancro». L’esposizione a onde come quelle fel 5G può danneggiare l’estensione del genoma e causare rischi in termini di fertilità, oltre che conseguenze neurologiche.
    «Ci sono numerosissime evidenze che documentano danni nello sviluppo, comportamentali, persino danni metabolici», aggiunge Di Ciaula. Sull’ipotesi di revisione da parte dell’Oms sulla “cancerogenesi da elettrosmog”, lo stesso Isde puntializza: «Il cancro è una evenienza che sembra molto probabile, ma è soltanto la vetta dell’iceberg». Secondo “Terra Nuova”, sono troppe le cose non dette, in materia: «Tra l’imbarazzante silenzio di amministratori locali, istituzioni regionali, politica e governo nazionale – non a caso anche mainstream e stampa faticano a informare l’opinione pubblica sullo scontro (titanico) in atto tra i massimi organismi di controllo sanitari del mondo – l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro dovrà esprimersi sulla richiesta di revisione nella classificazione della radiofrequenze tra gli agenti cancerogeni». Secondo il newsmagazine ecologista, sarà un “terremoto” per il business 5G se la connessione elettrosmog-salute passerà dall’attuale livello (Classe 2B) alla Classe 2A o addirittura alla Classe 1, venendo cioè elevata da “possibile” a “probabile”, se non addirittura “certo” agente cancerogeno.
    La partita, aggiunge “Terra Nuova”, s’è riaperta proprio in questi giorni, con i risultati degli studi americani del National Toxicology Program e dell’Istituto Ramazzini di Bologna, bollati però come «non convincenti» dalla Commissione Internazionale per la Tutela dalle Radiazioni non Ionizzanti (Icnirp), che li ha definiti «studi che non forniscono un corpus di prove coerenti, attendibili e generalizzabili che possano essere utilizzate come base per la revisione delle attuali linee guida sull’esposizione umana». Sono davvero necessarie ulteriori ricerche? Non s’è fatta attendere la risposta degli scienziati chiamati in causa, «spartiacque in un’invisibile lotta tra negazionisti e precauzionisti che già in passato s’è macchiata di anomalie, scandali e conflitti d’interesse». Un’ombra che, secondo “Terra Nuova”, ancora oggi grava sulla tesi di quanti – anche davanti l’evidenza negli aggiornamenti e del numero degli “elettrosensibili” in crescita – si ostinano a considerare solo gli effetti termici (escludendo danni biologici da elettrosmog).
    «I nostri studi sono stati ben eseguiti e senza pregiudizi sui risultati», assicura Fiorella Belpoggi, direttrice della ricerca condotta per il Ramazzini: si tratta dell’indagine attualmente più importante al mondo, non finanziata dalle lobby del wireless né da privati, ma da enti pubblici. Dieci lunghi anni di studi e test, condotti su cavie “uomo-equivalenti”, che hanno permesso di riscontrare «gravi tumori maligni al cervello», oltre che l’insorgenza di infarti cardiaci. Ora, certo, la sanità pubblica dovrà valutare lo studio e trarne le conclusioni: il ruolo degli scienziati “finisce” nel momento in cui alle autorità si forniscono i dati accertati, che in questo caso rivelano la presenza di un rischio concreto e allarmante. «La sottostima delle prove dei biotest sui cancerogeni e i ritardi nella regolamentazione – osserva la dottoressa Belpoggi – hanno già dimostrato molte volte di avere gravi conseguenze, come nel caso dell’amianto, del fumo e del cloruro di vinile». La posizione ultra-prudente dell’Icnirp? Per Fiorella Belpoggi si commenta da sé, visto che sottovaluta gli evidentissimi rischi per la salute dei cittadini.

    America dei controsensi: dal 1° ottobre il sistema 5G è regolarmente in funzione a Houston, Indianapolis, Los Angeles e Sacramento, ma c’è pure chi s’è sfilato e ha detto “no”. Se a Doylestown (Pennsylvania) da più d’un anno i funzionari rimbalzano tra le aule dei tribunali statali e federali per opporsi alla massiccia invasione di mini-antenne di quinta generazione, dopo le città di San Anselmo e Ross, anche il Comune di Mill Valley (sempre in California) ha deciso di fermare il 5G: «Troppo inquinamento elettromagnetico, esiste un fondato pericolo per la salute pubblica». Ricevute le protesta dei cittadini, scrive “Terra Nuova”, i municipi hanno infatti bloccato l’installazione del wireless del 5G per salvaguardare «la salute e la sicurezza della comunità». Lo stesso è accaduto a Palm Beach, in Florida, perché – sostengono i maligni – vi risiede nientemeno che il presidente Donald Trump, che pare non gradisca vivere in un groviglio di radiofrequenze. «Fatto sta che, numeri alla mano, solo in fase sperimentale oltre l’Atlantico sono già quattro le città che faranno (volentieri) a meno dei 20 Gigabit al secondo in download». Come ricorda anche l’Agcom, aderire al 5G significa garantire infrastrutture in grado di sostenere fino un milione di dispositivi connessi contemporaneamente per chilometro quadrato.

  • Meno e meglio: Piemonte, nascono le comunità energetiche

    Scritto il 26/8/18 • nella Categoria: segnalazioni • (16)

    Autoproduzione e condivisione dell’energia prodotta da fonti rinnovabili. Sono questi i princìpi alla base della legge sulle comunità energetiche approvata all’unanimità dalla terza Commissione del Consiglio regionale del Piemonte e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. La nuova norma, che pone il Piemonte come regione all’avanguardia a livello nazionale, permetterà a comunità di persone, enti e imprese di scambiare tra loro l’energia prodotta da fonti alternative. L’obiettivo delle comunità energetiche sarà quello di agevolare la produzione e lo scambio di energie generate principalmente da fonti rinnovabili, nonché l’efficientamento e la riduzione dei consumi energetici. Con la legge regionale numero 12 del 3 agosto 2018, il Piemonte ha dunque stabilito che i Comuni che intendono proporre la costituzione di una nuova comunità energetica, oppure aderire a una comunità energetica esistente, dovranno adottare uno specifico protocollo d’intesa, redatto sulla base di criteri che dovranno essere indicati da un futuro provvedimento regionale.
    Le comunità energetiche, alle quali possono partecipare soggetti sia pubblici che privati, possono acquisire e mantenere la qualifica di soggetti produttori di energia se annualmente la quota dell’energia prodotta destinata all’autoconsumo da parte dei membri non è inferiore al 70% del totale. La Regione, attraverso futuri incentivi ad hoc, si impegna a sostenere finanziariamente la fase di costituzione delle comunità energetiche, le quali potranno anche  stipulare delle convenzioni con Arera (autorità di regolazione per energia, reti e ambiente), al fine di ottimizzare la gestione e l’utilizzo delle reti di energia. «Il Piemonte, prima Regione italiana a dotarsi di una legge di questo tipo, fa un passo importante nella direzione dell’autosufficienza energetica e della costruzione di un nuovo modello di cooperazione territoriale virtuosa», commenta Fabio Dovana, presidente di Legambiente Piemonte e Valle d’Aosta: «Una scelta importante che speriamo sia seguita da altre Regioni ma soprattutto dal governo nazionale, che invitiamo a recepire subito la direttiva europea che verrà approvata ad ottobre su “prosumer” e comunità dell’energia, per evitare di perdere due anni e aprire subito opportunità nei territori e dar così forza all’autoproduzione e alla distribuzione locale di energia da fonti rinnovabili».
    «La generazione diffusa di energia e un’autonoma efficienza energetica – prosegue Dovana – contribuiscono infatti alla riduzione del consumo di fonti fossili, delle emissioni inquinanti e climalteranti, ad un miglior utilizzo delle infrastrutture, alla riduzione della dipendenza energetica, alla riduzione delle perdite di rete e ad un’economia di scala». Il tema dell’autoproduzione e della distribuzione locale di energia da fonti rinnovabili è al centro dell’interesse generale per le opportunità che si stanno aprendo con l’innovazione nella gestione energetica, grazie all’efficienza e alla riduzione dei costi delle tecnologie e delle reti. Anche in Italia questa prospettiva avrebbe grandi potenzialità perché, in questa forma, le fonti rinnovabili anche senza incentivi diretti, potrebbero offrire un’adeguata risposta alla domanda di elettricità e calore negli edifici e nei territori, creando valore e nuova occupazione.
    Il Piemonte dunque, prima Regione italiana, cerca di intercettare questa opportunità su ampia scala dopo anni in cui sul territorio, in forma sperimentale, è stato portato avanti ad esempio il progetto di Comunità Energetiche del Pinerolese promosso come capofila dal Comune di Cantalupa, con un piano di azione orientato all’autosufficienza energetica e volto alla costruzione di una comunità energetica locale. Ora questo tipo di esperienze potrà uscire dalla fase sperimentale e avere un’ampia diffusione. «La nuova legge regionale va nella direzione da noi auspicata – aggiunge Dovana – anche se avremmo preferito che gli obiettivi e le azioni che vengono previsti per le future comunità energetiche fossero meno generici e prevedessero inscindibilmente la riduzione del consumo di fonti fossili associata con la riduzione delle emissioni inquinanti e climalteranti. Chiediamo quindi alla giunta regionale, nella predisposizione dei provvedimenti attuativi della legge appena approvata, di stabilire regole per evitare che l’incentivo alle comunità energetiche diventi un sussidio acritico alla realizzazione di qualsiasi tipo di centrale a biomassa».
    (“In Piemonte nascono le comunità energetiche”, da “Il Cambiamento” del 17 agosto 2018).

    Autoproduzione e condivisione dell’energia prodotta da fonti rinnovabili. Sono questi i princìpi alla base della legge sulle comunità energetiche approvata all’unanimità dalla terza Commissione del Consiglio regionale del Piemonte e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale. La nuova norma, che pone il Piemonte come regione all’avanguardia a livello nazionale, permetterà a comunità di persone, enti e imprese di scambiare tra loro l’energia prodotta da fonti alternative. L’obiettivo delle comunità energetiche sarà quello di agevolare la produzione e lo scambio di energie generate principalmente da fonti rinnovabili, nonché l’efficientamento e la riduzione dei consumi energetici. Con la legge regionale numero 12 del 3 agosto 2018, il Piemonte ha dunque stabilito che i Comuni che intendono proporre la costituzione di una nuova comunità energetica, oppure aderire a una comunità energetica esistente, dovranno adottare uno specifico protocollo d’intesa, redatto sulla base di criteri che dovranno essere indicati da un futuro provvedimento regionale.

  • Democrazia diretta: la chiave del benessere della Svizzera

    Scritto il 02/8/18 • nella Categoria: segnalazioni • (42)

    La Svizzera è uno fra i paesi al mondo in cui si gode di maggiore benessere economico. Certamente questo livello di benessere è anche dovuto alle “ricadute” delle importanti attività bancarie nel paese, ma è anche vero che la Svizzera è un paese mediamente ben governato, che garantisce stabilità agli investitori. Il buon governo del paese è quindi una delle condizioni per cui, nonostante l’alto costo del lavoro, molti investitori da tutto il mondo si rivolgono a questo paese. Se la Svizzera non fosse ben governata, non sarebbe mai diventata il paese di riferimento per investitori e multinazionali. Il segreto del successo svizzero deve quindi essere cercato nei fattori che garantiscono a quel paese di avere mediamente delle buone leggi e dei buoni governanti. La prima chiave del successo sta nella democrazia diretta. Ovvero: il popolo svizzero è il primo organo legislativo, a livello federale, cantonale e comunale. Così come in Italia il Parlamento ha diritto di legiferare su qualsiasi materia, in Svizzera il popolo ha diritto di dire la sua su qualsiasi materia. Le proposte di legge referendarie possono essere di qualsiasi tipo: abrogazione totale o parziale di una legge esistente (consentita in Italia); un nuovo testo di legge (non consentito in Italia); su questioni fiscali (non consentito in Italia); recessione da una ratifica di un trattato internazionale (non consentita in Italia).
    Il popolo può opporsi legittimamente a qualsiasi atto governativo o amministrativo. Ad esempio si può opporre al permesso di costruire di un edificio concesso dall’ufficio tecnico del proprio Comune. Per presentare un quesito referendario è necessario raccogliere 50.000 firme nell’arco di 100 giorni. Avendo la Svizzera 8,4 milioni di abitanti, facendo una proporzione è come se in Italia si dovessero raccogliere 357.000 firme. In Svizzera, quindi, serve un numero minore di firme. Le firme possono essere raccolte da chiunque, su dei modelli messi a disposizione dalla Cancelleria Federale. Non è necessaria la validazione delle firme da parte di una persona abilitata, come invece avviene in Italia. Questo fatto facilita enormemente la raccolta di firme a sostegno di un quesito referendario. Naturalmente le firme raccolte vengono sottoposte a controllo di verifica di validità da parte della Cancelleria Federale, analogamente a quanto avviene in Italia da parte della Corte di Cassazione. La conseguenza di queste premesse è che in Svizzera si formano molti comitati, con e senza il supporto dei partiti, per promuovere quesiti referendari di ogni tipo, che nessun organismo pubblico ha il potere di impedire che vengano sottoposti a votazione, se il numero di firme valide necessario è stato raccolto e depositato.
    Il popolo svizzero viene chiamato a votare 3-4 volte l’anno. Il materiale informativo con le posizioni a favore o contro il quesito viene distribuito gratuitamente a tutti i cittadini. La televisione pubblica, senza influenze dei partiti, tratta a fondo i temi referendari, dando ampio spazio alle parti contrapposte, affinché ciascuno presenti le proprie ragioni agli elettori. Votare è facile: oltre al voto classico nei seggi elettorali, moltissimi svizzeri votano per corrispondenza. E’ allo studio anche la possibilità di votare tramite Internet, ma al momento non sono ancora stati trovati degli standard di sicurezza ritenuti sufficienti per evitare manipolazioni del voto da parte di hacker informatici. Non esiste un quorum da raggiungere che possa invalidare il voto: chi vuole votare, vota. Chi non vuole votare, accetta il responso delle votazioni. Anche se il popolo svizzero si ritrova a votare 3-4 volte l’anno per dei referendum, la grandissima maggioranza dei provvedimenti legislativi viene comunque votata dal Parlamento ovvero tramite la democrazia rappresentativa, come avviene in tutti i paesi democratici. Tuttavia tutti i politici eletti devono “fare i conti” con il primo organo legislativo, ovvero con il popolo, il quale potrebbe votare in un referendum contro quanto deciso in Parlamento.
    In sostanza: un politico eletto svizzero ci pensa 1000 volte prima di votare a favore di un provvedimento legislativo che sa che non sarebbe accettato dal popolo. Nel caso in cui si arrivasse ad una bocciatura referendaria del provvedimento (cosa storicamente avvenuta centinaia di volte) la fine della carriera di quel politico sarebbe cosa certa e senza appello. L’esistenza di un robusto sistema di democrazia diretta, quindi, incentiva la produzione di provvedimenti legislativi il più possibili vicini al volere del popolo. Questo non significa che il popolo non si possa sbagliare, ma significa che è il popolo a decidere. Nei casi storici in cui il popolo si rese conto di essersi sbagliato, ritornarono a votare e il referendum consentì di modificare il precedente provvedimento legislativo. Siccome la prima preoccupazione dei parlamentari eletti è quella di ascoltare le richieste del popolo, le richieste del partito di appartenenza cadono in secondo piano. Naturalmente esiste una “coerenza ideologica” con le posizioni del partito di appartenenza, ma non è mai tale da diventare una “disciplina di partito”, in quanto i deputati sono liberi e si sentono responsabili delle proprie scelte innanzitutto di fronte agli elettori.
    Questa “debolezza” dei partiti ha creato nel tempo una “consuetudine” all’interno del Parlamento. Il Consiglio Federale, ovvero il governo della Confederazione, non è mai l’espressione di una maggioranza politica “blindata”. I 7 membri del Consiglio Federale (i ministri) vengono nominati applicando una sorta di “manuale Cencelli” in modo da rappresentare le principali forze politiche. Tutti i consiglieri federali raccolgono la fiducia della maggioranza del Parlamento. Di conseguenza, se un partito “di destra” intende proporre un suo esponente come membro del governo, proporrà una personalità stimata per le sue competenze e capace di dialogare con “la sinistra”. E viceversa. Il Consiglio Federale che viene a formarsi, quindi, è un “governo debole”, in quanto è chiamato a dare attuazione ai provvedimenti legislativi presi dal popolo (tramite referendum) e dal Parlamento. Non esiste il concetto di “governabilità”. Il governo esegue la volontà del Parlamento, il quale vota le leggi formando maggioranze variabili, caso per caso.
    Pochi di voi sapranno che l’attuale presidente del Consiglio Federale svizzero si chiama Alain Berset. I nomi non sono importanti. Importanti sono le competenze dei ministri e la loro capacità di saper rappresentare non una parte politica, ma l’intero Parlamento e l’intero popolo svizzero. L’alternanza di governo tanto evocata in Italia come una “conquista di democrazia” in realtà porta una forte instabilità del sistema, in quanto ogni 5 anni sono possibili dei drastici cambiamenti nelle politiche economiche. In Svizzera, invece, i cambiamenti di fondo avvengono molto lentamente, in quanto nessuna “maggioranza di governo” può imporsi sulla minoranza. Questa stabilità politica è la condizione fondamentale affinché imprese multinazionali ed investitori finanziari scelgano di insediarsi nel paese, potendo fare una programmazione a medio-lungo termine delle loro attività. Le stesse condizioni di stabilità politica favoriscono la crescita delle piccole e medie imprese, che sono certe di non doversi attendere improvvise e spiacevoli sorprese da parte del governo del paese.
    Non è tutto rose e fiori. Anche nel sistema svizzero esistono delle zone grigie. Prima di tutto le leggi non prevedono che i partiti dichiarino la provenienza dei propri finanziamenti. La conseguenza è che ci sono alcuni partiti, in particolari quelli “borghesi”, che dispongono di ingenti capitali per fare propaganda più di altri partiti, sia per le elezioni politiche, sia nelle campagne referendarie. Il consenso ottenuto viene utilizzato per votare dei provvedimenti legislativi in favore delle principali lobbies del paese: le banche, le assicurazioni (specie del settore sanitario), le multinazionali. In occasione delle votazioni referendarie, coloro che dispongono di più capitali hanno la possibilità di condizionare maggiormente la popolazione puntando su ragioni “di pancia” e utilizzando al meglio le moderne tecniche del consenso. Un’idea latente e persistente nei mass media italiani è che l’esercizio della democrazia sia “un costo” per il paese. Sarebbe un costo in quanto il popolo non sa decidere, mentre i politici e i “tecnici” (alla Mario Monti o alla Carlo Cottarelli, per intenderci) sanno decidere molto meglio del popolo su cosa sia bene per gli italiani. Le stesse votazioni sono ritenute “un costo” che sarebbe meglio evitare al paese, magari “per ridurre il debito pubblico”. Ma chiediamoci: quanto ci costa “non votare” in termini di decisioni politiche prese negli interessi di poteri privati e ai danni del popolo italiano? Gli svizzeri, proprio votando con frequenza e senza impedimenti (come invece avviene in Italia), ottengono una migliore qualità delle leggi e dell’azione di governo. Oggi la Svizzera ha un tasso di disoccupazione al 2,4%. Possiamo concludere dicendo che gli investimenti in democrazia diretta hanno portato dei buoni frutti.
    (Davide Gionco, “La democrazia diretta e il successo economico della Svizzera”, dal blog “Attivismo.info” del 20 luglio 2018).

    La Svizzera è uno fra i paesi al mondo in cui si gode di maggiore benessere economico. Certamente questo livello di benessere è anche dovuto alle “ricadute” delle importanti attività bancarie nel paese, ma è anche vero che la Svizzera è un paese mediamente ben governato, che garantisce stabilità agli investitori. Il buon governo del paese è quindi una delle condizioni per cui, nonostante l’alto costo del lavoro, molti investitori da tutto il mondo si rivolgono a questo paese. Se la Svizzera non fosse ben governata, non sarebbe mai diventata il paese di riferimento per investitori e multinazionali. Il segreto del successo svizzero deve quindi essere cercato nei fattori che garantiscono a quel paese di avere mediamente delle buone leggi e dei buoni governanti. La prima chiave del successo sta nella democrazia diretta. Ovvero: il popolo svizzero è il primo organo legislativo, a livello federale, cantonale e comunale. Così come in Italia il Parlamento ha diritto di legiferare su qualsiasi materia, in Svizzera il popolo ha diritto di dire la sua su qualsiasi materia. Le proposte di legge referendarie possono essere di qualsiasi tipo: abrogazione totale o parziale di una legge esistente (consentita in Italia); un nuovo testo di legge (non consentito in Italia); su questioni fiscali (non consentito in Italia); recessione da una ratifica di un trattato internazionale (non consentita in Italia).

  • Le cryptovalute? Sono solo materie prime, possono crollare

    Scritto il 03/1/18 • nella Categoria: segnalazioni • (18)

    Tocca alla nonna capire questa cosa fondamentale, e che nessuno vi dice. Ma è già incazzata… Lei parte dall’Abc, fa domande. Cos’è una valuta? E’ una moneta emessa da uno Stato, e regolata dalla banca centrale di quello Stato. Essendo emessa da uno Stato, la valuta ha valore legale. Ah! E cos’è una cryptovaluta? E’ una fantasia che può essere inventata da chiunque abbia un computer e una connessione Internet. Non ha nessun valore di per sé, né ha valore legale. E da quando le fantasie costano delle fortune? Da quando due categorie di umani hanno deciso che le frittelle d’aria (le cryptovalute) avevano un valore X. Sono gente disposta a pagare per le frittelle d’aria, letteralmente, e si dividono in furbi speculatori e in coglioni del condominio. E più questi comprano le frittelle d’aria, più quelle aumentano di prezzo, come tutte le cose. Ma sono scemi, ’sti qui? Sì. Ma bada bene, nonna: i furbi speculatori sanno come cavare oro dalle rape, i coglioni del condominio no, e questi nel complesso alla fine ci smeneranno il sedere. Non sono valute, ma le chiamano lo stesso cryptovalute: perché? Perché i furbi speculatori usando il termine ‘valute’ infinocchiano i coglioni del condominio. Se le chiamavano cryptofrittelle nessuno le comprava, e il prezzo non aumentava.
    “Ma non è che sei tu lo scemo? Tutti le chiamano valute”. No. Una valuta è solo quella emessa da uno Stato, regolata dalla banca centrale, e con valore legale. Le cryptovalute sono come le materie prime, cioè sono cose che hanno un dato valore sul mercato, come il grano, il ferro, il carbone, ecc. Ma non sono valute. “Non ho capito un cazzo”. Nonna, cazzo non si dice. “Fanculo, Barnard, non ho capito un cazzo!”. Ok, ok, oh, calma! Spiego: quello che succede oggi con ’ste cryptovalute – cioè frittelle d’aria con un valore inventato, ma non riconosciute dagli Stati – è che vengono scambiate sui mercati esattamente come, ad esempio, il ferro, che è una materia prima. Più c’è richiesta, più il valore del ferro aumenta, chiaro? Lo stesso per le cryptovalute, anche se sono frittelle d’aria. Ma nonna, dimmi, tu puoi pagare le tasse allo Stato, alla Regione e al Comune con il ferro? No. Brava, con il ferro o col grano ad esempio, che sono materie prime, non ci puoi pagare le tasse a Stato, Regione e Comune. Questo è il preciso motivo per cui oggi il ferro o il grano non sono valute (lo furono in passato), sono materie prime.
    Se con una cosa non ci puoi pagare le tasse al tuo Stato, Regione, Comune, quella cosa non è una valuta valida per te. Punto. E siccome con le cryptovalute non ci puoi pagare nessuna tassa, e in nessuno Stato al mondo, le cryptovalute non sono valute, ma sono come il ferro o il grano: sono cioè materie prime che vengono scambiate sui mercati a un prezzo. Nulla di più. “E adesso che so ’ste cose, mio bel giovane, cosa mi cambia?”. Ti cambia questo: 1) Sai che se i maggiori Stati del mondo dichiareranno che non accettano le cryptovalute come pagamento delle tasse, le cryptovalute sopravviveranno solo fino a che qualcuno le vuole, a capriccio. Mentre invece una vera valuta di Stato sopravviverà finché lo vorrà, ed esisterà, quello Stato. Ben altra sicurezza per chi la possiede. 2) Sai che le cryptovalute sono materie prime come il ferro. Allora, immagina il giorno in cui scoprono un metallo migliore del ferro, là dove oggi lo impiegano. Che succede? Nessuno vuole più il ferro e non vale più un cazzo, nonna…
    “Non si dice cazzo, maleducato!”. Va bè nonna… per finire il punto 2), volevo dire che il giorno in cui qualcuno s’inventerà delle altre frittelle d’aria che faranno fare più soldi delle cryptovalute, queste andranno al cesso, e assieme a loro tutti i coglioni del condominio che in quel momento le hanno nel portafoglio. Nonna, tu fai come ti pare, ma ricorda sempre questo: fino al giorno in cui il tuo Stato accetterà le cryptovalute come pagamento delle tue tasse, fino a quel giorno le cryptovalute sono solo materie prime, e basta, e come tali vanno trattate. Quindi se ti metti in tasca delle cryptovalute è come se comprassi ferro, grano o carbone. Per farci su dei soldi, devi conoscere benissimo i mercati. Magari ti va bene perché di colpo il valore del grano va alle stelle, o ti va da cani perché invece crolla. E queste cose non le sanno i coglioni di condominio. Ripeti con me: le cryptovalute sono materie prime, non valute. Le cryptovalute sono materie prime, non valute.  Le cryptovalute… Nonna?
    (Paolo Barnard, “Le cryptovalute sono materie prime, non valute – spiegate alla nonna incazzatissima”, dal blog di Barnard del 27 dicembre 2017).
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    Tocca alla nonna capire questa cosa fondamentale, e che nessuno vi dice. Ma è già incazzata… Lei parte dall’Abc, fa domande. Cos’è una valuta? E’ una moneta emessa da uno Stato, e regolata dalla banca centrale di quello Stato. Essendo emessa da uno Stato, la valuta ha valore legale. Ah! E cos’è una cryptovaluta? E’ una fantasia che può essere inventata da chiunque abbia un computer e una connessione Internet. Non ha nessun valore di per sé, né ha valore legale. E da quando le fantasie costano delle fortune? Da quando due categorie di umani hanno deciso che le frittelle d’aria (le cryptovalute) avevano un valore X. Sono gente disposta a pagare per le frittelle d’aria, letteralmente, e si dividono in furbi speculatori e in coglioni del condominio. E più questi comprano le frittelle d’aria, più quelle aumentano di prezzo, come tutte le cose. Ma sono scemi, ’sti qui? Sì. Ma bada bene, nonna: i furbi speculatori sanno come cavare oro dalle rape, i coglioni del condominio no, e questi nel complesso alla fine ci smeneranno il sedere. Non sono valute, ma le chiamano lo stesso cryptovalute: perché? Perché i furbi speculatori usando il termine ‘valute’ infinocchiano i coglioni del condominio. Se le chiamavano cryptofrittelle nessuno le comprava, e il prezzo non aumentava.

  • L’Italia è il paese Ue con più poveri: sono oltre 10 milioni

    Scritto il 15/12/17 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    L’Italia è il paese europeo in cui vivono più poveri. Sono 10,5 milioni, su un totale a livello Ue di 75 milioni, i cittadini che hanno – per esempio – difficoltà a fare un pasto proteico ogni due giorni, sostenere spese impreviste, riscaldare a sufficienza la casa, pagare in tempo l’affitto e comprarsi un paio di scarpe per stagione e abiti decorosi. Gli italiani in questa condizione rappresentano il 14% del totale europeo e sono più dei 9,8 milioni di abitanti della Romania nella stessa situazione, anche se in termini percentuali la Penisola è undicesima tra i 28 Stati membri con un 17,2% di indigenti sul totale. A rendere ufficiale la classifica è stata l’Eurostat, secondo cui dietro Roma e Bucarest c’è Parigi: i francesi in stato di deprivazione sociale sono 8,4 milioni. Il poco invidiabile primato non stupisce se si pensa che, stando ai dati Istat, negli ultimi dieci anni i “poveri assoluti” – chi non è in grado di acquistare nemmeno beni e servizi essenziali – sono triplicati. Nel 2006 erano 1,66 milioni, l’anno scorso l’istituto di statistica ne ha contati 4,7 milioni. Tra cui 1,3 milioni di bambini. Gli indicatori Ue: possibilità di fare un pasto proteico, possesso di due paia di scarpe. La cifra diffusa martedì dall’istituto europeo è più del doppio rispetto a quella relativa ai poveri assoluti perché la visuale si allarga a tutti i residenti “in stato di deprivazione”.
    Sono considerate tali le persone che non si possono permettere almeno cinque cose ritenute necessarie, come un pasto proteico ogni due giorni, vestiti nuovi per sostituire quelli inutilizzabili, un’auto, due paia di scarpe, una settimana di vacanze all’anno, una connessione a internet, un‘uscita al mese con gli amici. Se invece dei numeri assoluti si guardano le percentuali, la classifica cambia. I Paesi europei con le maggiori quote di cittadini deprivati sono Romania, con il 49,7%, Bulgaria (48%), Grecia (36%), Ungheria (32%) e Lituania (29%). I paesi nordici sono quelli che stanno meglio. La percentuale di indigenti sulla popolazione è solo del 3% in Svezia, del 4% in Finlandia e del 5% in Lussemburgo e del 6% in Danimarca. In tutta la Ue la deprivazione colpisce di più le persone con livelli di istruzione bassi. Il 25% dei cittadini con bassi livelli di istruzione ne soffre, mentre il tasso è solo del 14% tra chi ha un’istruzione secondaria e del 5% per i laureati. Povertà triplicata in dieci anni. La povertà in Italia è aumentata esponenzialmente dopo la crisi finanziaria: tra 2007 e 2008 i poveri assoluti sono saliti di 400mila unità, a 2,1 milioni, e i poveri relativi sono aumentati altrettanto, a 6,5 milioni.
    Di lì al 2012 l’incremento è stato lento e costante: i poveri assoluti sono diventati 2,3 milioni nel 2009, 2,47 milioni nel 2010, 2,65 nel 2011, addirittura 3,5 nel 2012 (la crisi ha iniziato a falcidiare i posti di lavoro), 4,4 nel 2013. L’incidenza della povertà assoluta sulla popolazione italiana è passata di conseguenza dal 2,9% del 2006 al 7,9% del 2016. Il nuovo Reddito di inclusione, un assegno variabile tra 187 e 485 euro che può essere richiesto ai Comuni dai nuclei in difficoltà, è un passo avanti ma non basta: i fondi stanziati dal governo bastano per circa 1,8 milioni di persone, un terzo di chi ne avrebbe bisogno. Nel frattempo, sempre stando ai dati Istat, ben 18 milioni di italiani si sono ritrovati “a rischio povertà o esclusione”. Si tratta del 30% della popolazione, in salita rispetto al 2015 mentre a livello Ue la percentuale è diminuita dal 23,8 al 23,5%. E’ l’effetto, secondo l’istituto di statistica, di un aumento della disuguaglianza: il quinto più ricco della popolazione ha visto crescere i propri redditi molto più di quelli della parte più povera. Il rischio povertà in Italia è “molto superiore”, ha segnalato l’Istat, “a quelli registrati in Francia (18,2%), Germania (19,7%) e Gran Bretagna (22,2%) e di poco più alto rispetto a quello della Spagna (27,9%)”.
    (“Povertà, Italia primo paese europeo per numero di cittadini in condizioni di deprivazione: sono 10,5 milioni”, dal “Fatto Quotidiano” del 13 dicembre 2017).

    L’Italia è il paese europeo in cui vivono più poveri. Sono 10,5 milioni, su un totale a livello Ue di 75 milioni, i cittadini che hanno – per esempio – difficoltà a fare un pasto proteico ogni due giorni, sostenere spese impreviste, riscaldare a sufficienza la casa, pagare in tempo l’affitto e comprarsi un paio di scarpe per stagione e abiti decorosi. Gli italiani in questa condizione rappresentano il 14% del totale europeo e sono più dei 9,8 milioni di abitanti della Romania nella stessa situazione, anche se in termini percentuali la Penisola è undicesima tra i 28 Stati membri con un 17,2% di indigenti sul totale. A rendere ufficiale la classifica è stata l’Eurostat, secondo cui dietro Roma e Bucarest c’è Parigi: i francesi in stato di deprivazione sociale sono 8,4 milioni. Il poco invidiabile primato non stupisce se si pensa che, stando ai dati Istat, negli ultimi dieci anni i “poveri assoluti” – chi non è in grado di acquistare nemmeno beni e servizi essenziali – sono triplicati. Nel 2006 erano 1,66 milioni, l’anno scorso l’istituto di statistica ne ha contati 4,7 milioni. Tra cui 1,3 milioni di bambini. Gli indicatori Ue: possibilità di fare un pasto proteico, possesso di due paia di scarpe. La cifra diffusa martedì dall’istituto europeo è più del doppio rispetto a quella relativa ai poveri assoluti perché la visuale si allarga a tutti i residenti “in stato di deprivazione”.

  • Rubinetti anche alle fontane: se vuoi l’acqua devi pagare

    Scritto il 21/11/17 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Bere l’acqua della fontana? Bei tempi, quando l’acqua corrente era libera e gratuita. Ora siamo in regime di arrembante privatizzazione: se vuoi un sorso d’acqua potabile, anche in aperta campagna, la devi pagare. A chi? A chi se n’è appropriato, alla multi-utility di turno che, con il pieno consenso della politica, gliel’ha consegnata (nonostante il referendum del 2011 contro la privatizzazione dell’acqua pubblica). Lo ricorda il “Secolo XIX”, in un articolo che fotografa la situazione 2017 in val d’Aveto, nell’entroterra di Chiavari. «Fontanelle e trogoli di campagna e montagna, ovvero acqua che arriva in molti casi direttamente dalla fonte. E che è considerata pubblica nella sua accezione di libera, gratuita. Forse era così una volta. Ora quel concetto sta per andare in pensione», scrive Italo Vallebella sul quotidiano ligure. «Nell’area metropolitana di Genova sono solo due i Comuni rimasti con quello che a oggi potrebbe essere definito un benefit: Rezzoaglio e Santo Stefano d’Aveto». Ma i contatori per trogoli e lavatoi stanno per arrivare anche qui, dove sinora i Comuni pagavano a forfait.
    In molti paesi i contatori sono già arrivati, continua il “Secolo”, e «l’acqua che una volta era considerata pubblica, nel senso di libera, diventerà a pagamento a consumo e non più a tariffazione forfettaria». Chi pagherà? «I rispettivi Comuni che, per difendersi da eventuali bollette “pazze”, avranno a disposizione tre opzioni: sostituire i rubinetti con sistemi a pulsante (in modo che non possano esserci sprechi di acqua), confidare nel buon senso delle persone oppure chiudere trogoli e fontanelle, perdendo un altro pezzo di cultura rurale». Ma al di là dell’aspetto romantico, prosegue il giornale, la preoccupazione in val d’Aveto è alta, soprattutto in chi ha attività agricole o di allevamento: «Tra alcuni mesi (i tempi non sono ancora chiari, ma è solo questione di tempo) anche nelle varie frazioni l’acqua sarà pagata in base ai consumi e non più in virtù di un forfait». Un aspetto che non può che deprimere gli abitanti: è un altro pezzo di mondo (di vita) che sparisce, nell’asta universale della privatizzazione di qualsuasi bene monetizzabile.
    Precisazione doverosa: Iren, la società che sta piazzando i rubinetti anche nei più sperduti borghi dell’entroterra ligure, è regolarmente autorizzata: per legge, può benissimo mettere i contatori anche ai trogoli, ai lavatoi. «C’è solo una via per evitare il contatore: essere allacciati ad un acquedotto consortile, come accade per esempio a Sopralacroce, nel Comune di Borzonasca», scrive Vallebella. «In tutti gli altri casi, Iren è autorizzata a intervenire anche dove ci sono acquedotti che un tempo erano privati, ma che sono passati in seguito alla gestione comunale. E allacciati a questi acquedotti ci sono anche fontane, lavatoi e trogoli, simboli di un tempo che rischia di essere sempre più lontano e di una cultura che, complici le varie difficoltà, ha sempre meno custodi». Il grande problema? Quando veniva presa la decisione di sottoporre a gestione privata l’erogazione dell’acqua, qualcuno ha alzato la mano per votare e altri hanno firmato deocumenti, ma la popolazione era disinformata o distratta. Se accorge adesso, di fronte alle fontane asciutte.

    Bere l’acqua della fontana? Bei tempi, quando l’acqua corrente era libera e gratuita. Ora siamo in regime di arrembante privatizzazione: se vuoi un sorso d’acqua potabile, anche in aperta campagna, la devi pagare. A chi? A chi se n’è appropriato, alla multi-utility di turno che, con il pieno consenso della politica, gliel’ha consegnata (nonostante il referendum del 2011 contro la privatizzazione dell’acqua pubblica). Lo ricorda il “Secolo XIX”, in un articolo che fotografa la situazione 2017 in val d’Aveto, nell’entroterra di Chiavari. «Fontanelle e trogoli di campagna e montagna, ovvero acqua che arriva in molti casi direttamente dalla fonte. E che è considerata pubblica nella sua accezione di libera, gratuita. Forse era così una volta. Ora quel concetto sta per andare in pensione», scrive Italo Vallebella sul quotidiano ligure. «Nell’area metropolitana di Genova sono solo due i Comuni rimasti con quello che a oggi potrebbe essere definito un benefit: Rezzoaglio e Santo Stefano d’Aveto». Ma i contatori per trogoli e lavatoi stanno per arrivare anche qui, dove sinora i Comuni pagavano a forfait.

  • Realacci e 5 Stelle: salvi i piccoli Comuni, non chiuderanno

    Scritto il 03/10/17 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Se i piccoli Comuni italiani sopravviveranno come tali, forse sarà anche merito della legge caldeggiata e firmata anche dal Movimento 5 Stelle, approvata dal Senato in via definitiva a fine settembre dopo quattro anni dall’inizio dell’iter, avviato in modo congiunto dalla grillina Patrizia Terzoni dall’ambientalista Ermete Realacci, deputato Pd. «È una notizia di quelle storiche, perché da anni il Parlamento prova ad approvare una legge che tuteli gli oltre 5.500 piccoli Comuni», esultano i 5 Stelle sul blog di Grillo. Si tratta di una legge, ricordano, in ballo da ben 15 anni, ogni volta arenatasi su un binario morto. «Quando parliamo di piccoli Comuni non li consideriamo aree marginali», precisano i 5 Stelle: «Ci riferiamo al 70% dei Comuni italiani, che hanno una popolazione pari o inferiore ai 5 mila abitanti». Piccoli centri, che però occupano qualcosa come il 54,4% per cento del territorio italiano, e ospitano il 16,6% della popolazione nazionale: «Si tratta di oltre 10 milioni di persone», per le quali proprio il municipio rappresenta un baluardo irrinunciabile di autogoverno democratico: sono gli abitanti a eleggere (e controllare) i propri amministratori.
    «Tra i principali risultati ottenuti dai parlamentari – spiegano i 5 Stelle – ci sono i finanziamenti per il ripristino dei cammini storici che collegano i piccoli Comuni, il recupero dei borghi con interventi antisismici e diverse misure a sostegno dei prodotti tipici locali, come ad esempio la vendita diretta all’interno di punti commerciali, l’incentivo della filiera corta e la valorizzazione delle attività pastorali di montagna finalizzate alla produzione di formaggi di qualità». I grillini spiegano che, nell’ultimo passaggio al Senato, hanno accettato la trasformazione degli emendamenti che avevano preparato, «e questo per non rischiare che la legge, modificata, dovesse tornare alla Camera e lì insabbiarsi». Come esempio citano l’impegno per la riduzione degli imballaggi, anche attraverso progetti sperimentali nelle mense di enti pubblici e privati. «Il testo non è perfetto e di certo poteva essere migliorato – ammettono – ma rappresenta comunque un piccolo ma importante passo verso la ricostruzione e la valorizzazione dei piccoli Comuni».
    Attraverso la difesa dell’Italia dei campanili, il Movimento 5 Stelle sostiene di lavorare «per promuovere un cambiamento di paradigma che permetta ai borghi di ripopolarsi, anche per esempio attraverso la concessione di terreni abbandonati a realtà imprenditoriali giovanili». Difficile quantificare un risultato sicuramente simbolico e positivo, in una situazione come quella di oggi, in cui il potere decisionale è drasticamente centralizzato, a partire dall’imposizione delle tariffe per i servizi vitali, con i Comuni costretti ad aumentare le imposte per compensare i drammatici tagli dei trasferimenti statali imposti dalla “legge di stabilità” e dalle altre disposizioni-capestro, improntate all’austerity e originate in primo luogo dalla politica di rigore determinata dall’euro. Se non altro, la sopravvivenza dei piccoli Comuni contente ai cittadini di sentirsi democraticamente rappresentati e di provare a farsi sentire, attraverso portavoce in fascia tricolore – come i sindaci della valle di Susa che, dal 2005, affiancando i militanti NoTav, riuscirono a fermare (per anni) il progetto Tav Torino-Lione “in nome del popolo italiano”.

    Se i piccoli Comuni italiani sopravviveranno come tali, forse sarà anche merito della legge caldeggiata e firmata anche dal Movimento 5 Stelle, approvata dal Senato in via definitiva a fine settembre dopo quattro anni dall’inizio dell’iter, avviato in modo congiunto dalla grillina Patrizia Terzoni dall’ambientalista Ermete Realacci, deputato Pd. «È una notizia di quelle storiche, perché da anni il Parlamento prova ad approvare una legge che tuteli gli oltre 5.500 piccoli Comuni», esultano i 5 Stelle sul blog di Grillo. Si tratta di una legge, ricordano, in ballo da ben 15 anni, ogni volta arenatasi su un binario morto. «Quando parliamo di piccoli Comuni non li consideriamo aree marginali», precisano i 5 Stelle: «Ci riferiamo al 70% dei Comuni italiani, che hanno una popolazione pari o inferiore ai 5 mila abitanti». Piccoli centri, che però occupano qualcosa come il 54,4% per cento del territorio italiano, e ospitano il 16,6% della popolazione nazionale: «Si tratta di oltre 10 milioni di persone», per le quali proprio il municipio rappresenta un baluardo irrinunciabile di autogoverno democratico: sono gli abitanti a eleggere (e controllare) i propri amministratori.

  • Quando Barcellona sfidò i carnefici, in nome della libertà

    Scritto il 01/10/17 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Fatale Catalogna: ci provò già nel medioevo, a smarcarsi dal potere centrale – che allora non sedeva a Madrid, ma a Roma. Era il 12 settembre del lontano 1213. La battaglia decisiva si svolse a Muret, alle porte di Tolosa, lungo le rive della Garonna. Quella, per Simone Weil, fu l’ultima vera occasione persa dall’Europa: si era reincarnato lo spirito democratico dell’Atene di Pericle, patria di una civiltà devota alla bellezza della conoscenza. Finì nel peggiore dei modi, in un massacro spaventoso. Da allora, scrive la Weil nel saggio “I Catari e la civiltà mediterranea”, si impose – per secoli – l’altra legge, quella della forza: il modello delle legioni imperiali romane, replicato all’infinito fino alle SS di Hitler. Suggestioni intellettuali? Nella sua monumentale autobiografia, “Confesso che ho vissuto”, il comunista Pablo Neruda rievoca l’assedio di Barcellona sotto le artiglierie franchiste, sottolineando l’indomita vocazione libertaria della capitale catalana, visceralmente antifascista, da sempre ostile all’altrui dominio. Un pericolo, Barcellona, per il potere europeo? Se nel 1213 avesse vinto, ipotizzano storici e analisti, forse il volto dell’Europa sarebbe cambiato.
    All’inizio del ‘200, Barcellona era la capitale del vasto Regno d’Aragona: oltre alla Catalogna includeva la valle dell’Ebro, Saragozza, i Pirenei. Scese in campo per difendere la città alleata, Tolosa, che aveva osato sfidare l’autorità del Papa nell’ostinarsi a non perseguitare l’eresia dei Catari, diffusasi in Linguadoca. All’epoca, insieme alla Catalogna e all’Italia dei Comuni e delle Repubbliche Marinare, la Languedoc era fra i territori più avanzati d’Europa, sul piano economico e sociale. Fioriva nelle corti la rivoluzione letteraria dei trovatori provenzali, che per la prima volta cantavano la libertà dell’amore laico. La contea estendeva il suo controllo dal Mediterraneo all’Atlantico; tollerava i villaggi musulmani, faceva gestire i conti pubblici dagli ebrei sefarditi provenienti dall’Andalusia. Ma peggio: accettava che, nelle chiese, i predicatori catari disputassero apertamente di religione con i sacerdoti cattolici. La misura fu colma, per Roma, quando l’aristocrazia occitanica cominciò a prendere i voti, entrando a far parte della comunità dei “buoni cristiani”, bollati di eresia.
    Il conte di Tolosa, Raimondo VI, rifiutò di consegnare i religiosi eretici. E quando il pontefice Innocenzo III bandì contro di lui la Crociata Albigese, si preparò a resistere. Il giovane re aragonese Pietro II, celebrato campione della cristianità e sovrano di Barcellona, si decise a soccorrere Tolosa, marciando alla testa dell’armata iberica, dopo il massacro di Béziers, la cittadina rivierasca che si era rifiutata di tradire i Catari, cedendoli ai crociati che li avrebbero arsi vivi. «Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi», è la celebre frase che si racconta sia stata pronunciata dall’abate Arnaud Amaury, capo spirituale della guerra di religione, per esortare i crociati a sterminare gli abitanti di Béziers. Tanto bastò a Barcellona per rompere gli indugi e scendere in campo a Muret, al fianco di Tolosa. Ma persero, i catalani: “Combattevano uno a uno, come in un torneo”, racconta la Canzone della Crociata Albigese. Il poema cavalleresco, pur composto da cattolici, riconosce la nobiltà degli sconfitti, decisi a ingaggiare un combattimento leale, secondo l’antica regola del “paratge”, il codice d’onore dell’antica cavalleria occitano-catalana.
    Morì in battaglia anche Pietro II, eroicamente. Quella, dice la Weil, fu l’ultima apparizione del “paratge”, in Europa. Un caso? Forse no: Barcellona e Tolosa (cioè mezza Francia più mezza Spagna) avrebbero potuto dare vita allo Stato europeo di gran lunga più evoluto, liberale e avanzato, il più ricco e prospero, quello con più avvenire davanti a sé. E forse, si interrogano alcuni storici, non è un caso neppure la strana, rigidissima “damnatio memorie” imposta alla stessa eresia cristiano-dualistica del Catarismo, impugnata come pretesto per radere al suolo il Sud-Ovest della futura Francia: una devastazione catastrofica, nel corso di vent’anni di guerra, seguita da settant’anni di spietate persecuzioni a tappeto affidate all’Inquisizione. Faceva paura, l’aristocrazia pirenaica: aveva sposato, con mezzo millennio di anticipo, il motto “libera Chiesa in libero Stato”. L’incendio libertario era partito da Tolosa, ma si era estreso a Barcellona. E quando il conte tolosano fu ridotto al silenzio, e la sua contea declassata a succursale di Parigi mentre la popolazione inerme fuggiva atterrita di fronte ai roghi degli inquisitori, Barcellona ebbe la forza di imporre che, in Catalogna, il tribunale ecclesiastico non potesse emettere condanne a morte.

    Fatale Catalogna: ci provò già nel medioevo, a smarcarsi dal potere centrale – che allora non sedeva a Madrid, ma a Roma. Era il 12 settembre del lontano 1213. La battaglia decisiva si svolse a Muret, alle porte di Tolosa, lungo le rive della Garonna. Quella, per Simone Weil, fu l’ultima vera occasione persa dall’Europa: si era reincarnato lo spirito democratico dell’Atene di Pericle, patria di una civiltà devota alla bellezza della conoscenza. Finì nel peggiore dei modi, in un massacro spaventoso. Da allora, scrive la Weil nel saggio “I Catari e la civiltà mediterranea”, si impose – per secoli – l’altra legge, quella della forza: il modello delle legioni imperiali romane, replicato all’infinito fino alle SS di Hitler. Suggestioni intellettuali? Nella sua monumentale autobiografia, “Confesso che ho vissuto”, il comunista Pablo Neruda rievoca l’assedio di Barcellona sotto le artiglierie franchiste, sottolineando l’indomita vocazione libertaria della capitale catalana, visceralmente antifascista, da sempre ostile all’altrui dominio. Un pericolo, Barcellona, per il potere europeo? Se nel 1213 avesse vinto, ipotizzano storici e analisti, forse il volto dell’Europa sarebbe cambiato.

  • Scordatevi i parchi italiani: fanno gola, vogliono mangiarseli

    Scritto il 04/9/17 • nella Categoria: segnalazioni • (5)

    Di fronte a un aumento galoppante dell’effetto serra, alla minaccia di estinzione di migliaia di specie animali e vegetali importantissime sia per l’equilibrio di interi habitat sia per il sostentamento umano, quale obiettivo si dovrebbe prefiggere un governo? Il buon senso direbbe un obiettivo di salvaguardia e incremento delle aree protette, di incentivi politici ed economici per la protezione del territorio e degli esseri viventi che lo abitano. E infine un obiettivo culturale per sviluppare nella popolazione e soprattutto nei giovani amore, rispetto e conoscenza della natura. Ma nel nostro paese sta succedendo esattamente il contrario. Con 249 voti a favore, 115 contrari e 2 astenuti, la Camera dei Deputati ha approvato la nuova legge in materia di parchi ed aree protette. E chi ne è stato informato, se ha a cuore l’ambiente, ha fatto davvero fatica a non cadere nello sconforto. La nuova legge è un’accozzaglia di concessioni e favoritismi nei confronti dei privati, di lobbies potenti come i cacciatori, di categorie come gli agricoltori. La politica entra a gamba tesa nella gestione dei parchi e lo fa come una ruspa in una foresta vergine, con protervia e ignoranza e con l’unico obiettivo di favorire interessi economici e speculazioni.
    Ma vediamo nel dettaglio cosa comporta questa legge e perché ha fatto levare un coro di proteste da parte di tutte le associazioni ambientaliste. In primo luogo, a chi governerà i parchi, ovvero i presidenti e i direttori, non sarà più richiesta alcuna competenza scientifica e i presidenti saranno nominati dal ministro e dalle Regioni, cioè dai politici; nei consigli direttivi dei parchi la metà dei membri sarà scelta dalle amministrazioni comunali, un quarto sarà composto di sindaci, ma ci sarà posto anche per gli agricoltori. Si apre la strada a interessi economici privati, interessi politici e clientelistici (d’altra parte si dichiara che questa riforma è fatta per lo sviluppo economico), alle ditte del legname e all’industria del turismo. Viene scardinata l’idea che un’area naturale protetta sia prima di tutto necessaria alla salvaguardia dell’ambiente, a preservare il futuro di un territorio, oltre che il presente. Passa l’idea che l’economia e il profitto siano l’unico obiettivo e metro di giudizio nei riguardi della natura. Il mondo scientifico viene emarginato nella gestione dei parchi, e anche il mondo ambientalista è messo in un angolo, a favore di categorie politiche ed economiche.
    Si apre la strada a possibili trivellazioni ed estrazioni petrolifere, si potrà inquinare pagando delle royalties, si apre alle attività di caccia col pretesto del controllo degli ungulati, con le conseguenze di disturbo, danneggiamento e migrazione di altre specie anche rare e protette. Una serie di vergognose scelte difese con assoluta facciatosta da voltagabbana dell’ambientalismo come Ermete Realacci, che da presidente di Legambiente è passato armi e bagagli al carrozzone politico e riesce a elogiare con accanimento una legge “mostro” inqualificabile. Tale legge, tra l’altro, considera marginali le aree marine protette, privandole dei fondi e delle organizzazioni che spettano ai parchi naturali. C’è poi la questione del delta del Po, da anni tema di proteste e proposte per realizzare un parco nazionale. Un’area che l’Unesco ha dichiarato area prioritaria, che rientra nella Convenzione di Ramsar sugli uccelli migratori, e che ora è spezzettata in tre provincie con diverse concezioni e gestioni.
    Questa legge-pastrocchio indecente ha fatto infuriare il Wwf Italia, che parla di aree naturali protette «usate come merce di scambio da mettere in mano ai poteri di parte e locali, invece che un bene comune che appartiene ai cittadini», e rincara la dose dichiarando: «La Camera ha portato indietro di 40 anni la legislazione di salvaguardia della natura». Anche la Lipu parla di «mortificazione di una legge storica fondamentale per la conservazione della natura in Italia, e una delle pagine più grigie della legislazione ambientale italiana». Ecco dunque le disastrose decisioni prese dal nostro governo e avvallate da una parte dell’opposizione. Le ricadute ambientali, sociali e anche economiche potrebbero essere devastanti ma, per avvantaggiare interessi economici privati, si buttano alle ortiche i nostri beni più preziosi. Beni che non appartengono solo a noi ma anche alle generazioni future e che con questa legge saranno invece compromessi. Ancora una volta una decisione politica antipopolare e che distrugge il patrimonio e l’immagine dell’Italia.
    (Martino Danielli, “Addio parchi italiani”, da “Il Cambiamento” dell’11 agosto 2017).

    Di fronte a un aumento galoppante dell’effetto serra, alla minaccia di estinzione di migliaia di specie animali e vegetali importantissime sia per l’equilibrio di interi habitat sia per il sostentamento umano, quale obiettivo si dovrebbe prefiggere un governo? Il buon senso direbbe un obiettivo di salvaguardia e incremento delle aree protette, di incentivi politici ed economici per la protezione del territorio e degli esseri viventi che lo abitano. E infine un obiettivo culturale per sviluppare nella popolazione e soprattutto nei giovani amore, rispetto e conoscenza della natura. Ma nel nostro paese sta succedendo esattamente il contrario. Con 249 voti a favore, 115 contrari e 2 astenuti, la Camera dei Deputati ha approvato la nuova legge in materia di parchi ed aree protette. E chi ne è stato informato, se ha a cuore l’ambiente, ha fatto davvero fatica a non cadere nello sconforto. La nuova legge è un’accozzaglia di concessioni e favoritismi nei confronti dei privati, di lobbies potenti come i cacciatori, di categorie come gli agricoltori. La politica entra a gamba tesa nella gestione dei parchi e lo fa come una ruspa in una foresta vergine, con protervia e ignoranza e con l’unico obiettivo di favorire interessi economici e speculazioni.

  • Rivoluzione colorata: l’imbroglio Macron seppellirà i francesi

    Scritto il 28/8/17 • nella Categoria: idee • (9)

    Dal lontano 2005, la Francia non ha più un vero presidente: all’Eliseo si sono succeduti soltanto dei pallidi figuranti. Compreso l’ultimo arrivato, Emmanuel Macron, “fabbricato” dal supemassone reazionario Jacques Attali e inizialmente scambiato, dagli elettori, per salvatore della patria. Lo afferma Thierry Meyssan, analizzando le prime mosse del nuovo presidente. «Dopo l’incidente cerebrale di Jacques Chirac, la Francia è rimasta senza un presidente», scrive, su “Megachip”. «Durante gli ultimi due anni in cui ha ricoperto la carica, Chirac ha lasciato che i suoi ministri Villepin e Sarkozy si sbranassero a vicenda. In seguito: il popolo francese ha scelto due personalità che non sono riuscite a essere all’altezza dell’ufficio presidenziale: Nicolas Sarkozy e François Hollande». Alla fine hanno scelto di portare Macron all’Eliseo, «ritenendo così che questo giovane impetuoso fosse capace di riprendere il timone». Errore. Una spia evidente è l’atteggiamento verso la Ue, apertamente sostenuta dai grandi candidati, che anziché Bruxelles hanno attaccato genericamente “la corruzione”, colpendo in particolare François Fillon. «Una narrazione tipica delle “rivoluzioni colorate”».
    L’opinione pubblica, senza eccezioni, «reagisce sostenendo la “rottamazione”: tutto quel che è vecchio è corrotto, mentre tutto quel che è nuovo è giusto e buono», scrive Meyssan. «Tuttavia, non c’erano basi per dimostrare nessuno dei crimini di cui tutti stavano parlando». E’ uno schema, che funziona sempre: «Nelle rivoluzioni colorate precedenti, l’opinione pubblica ci metteva tra i tre mesi (la Rivoluzione dei Cedri in Libano) e i due anni (la Rivoluzione delle Rose in Georgia) prima di svegliarsi e scoprire di essere stata manipolata». L’arte di coloro che organizzano le “rivoluzioni colorate” consiste «nel realizzare senza aspettare un istante tutti i cambiamenti che i loro sponsor intendevano operare nelle istituzioni». Emmanuel Macron, già dirigente della Banca Rothschild, ha annunciato in anticipo le sue intenzoni: riforma d’urgenza del Codice del Lavoro, modifica del Consiglio economico e sociale, dimezzamento del numero degli eletti a tutti i livelli, nonché “moralizzazione” della vita politica. Tutti questi progetti, osserva Meyssan, ricalcano il solco tracciato dalla relazione pubblicata dalla Commissione per la liberalizzazione della crescita francese del 2008, di cui era presidente Jacques Attali, mentre Emmanuel Macron era il vice segretario generale.
    Il rapporto della Commissione Attali (creata dal presidente Sarkozy) inizia con queste parole: «Questo non è un rapporto, né uno studio, ma un manuale per le riforme urgenti e fondanti. Non è né partisan né bi-partisan: è non partisan». Per quanto riguarda il codice del lavoro, scrive Meyssan, «si punta ad abbandonare il sistema giuridico romano e alla sua sostituzione con il sistema attualmente in vigore negli Stati Uniti: un dipendente e il suo padrone potrebbero così entrare in negoziati bilaterali e concludere un contratto in contrasto con la legge». E il sistema educativo «dovrà produrre studenti bilingui (francese/inglese) già alla fine della scuola primaria». Eppure, aggiunge l’analista, questo cambiamento di paradigma non è mai stato discusso in Francia: «Tutt’al più, è stato evocato durante i dibattiti parlamentari sulla legge El-Khomri/Macron del 2016», detta anche “Loi Travail”, che di fatto “americanizza” la situazione, come il Jobs Act renziano in Italia. E le riforme istituzionali annunciate da Macron? «Nessuna di esse era attesa dai francesi», nonostante una certa insofferenza per «la stratificazione amministrativa (Comuni, Comunità di Comuni, Dipartimenti, Regioni, Stato) e la proliferazione di commissioni inconcludenti».
    In realtà, sostiene Meyssan, «il presidente Macron avanza indossando una maschera». E spiega: «Il suo obiettivo a medio termine, ampiamente annunciato nel 2008, è quello di abolire Comuni e Dipartimenti. Si tratta di omogeneizzare le collettività locali francesi con il modello già imposto ovunque in altri paesi dall’Unione Europea. L’Eliseo, nel rifiutare l’esperienza storica del popolo francese, considera che possa essere governato come tutti gli altri europei». La riforma del Consiglio economico e sociale, invece, «rimane vaga». Tuttalpiù, «sappiamo che si tratterebbe sia di sciogliere le innumerevoli commissioni inutili, sia di affidargli il dialogo sociale». Aggiunge Meyssan: «Il fallimento di Charles de Gaulle nel raggiungere questo obiettivo nel 1969 ci fa pensare che, qualora questa riforma venisse realizzata, non sarebbe per risolvere un problema, ma per seppellirlo una volta per tutte». In realtà, la proposta di riforma del Codice del Lavoro «priverà questo dialogo del suo oggetto concreto». Nel 1969, ricorda Meyssan, il presidente de Gaulle «si era rassegnato ad abbandonare ancora una volta il suo vecchio progetto di “partecipazione”, cioè di ridistribuzione della crescita del capitale delle imprese tra i loro proprietari e i loro lavoratori», e in cambio aveva proposto «di far partecipare il mondo del lavoro al processo legislativo».
    Per farlo, de Gaulle aveva pensato di fondere il Consiglio economico e sociale con il Senato, in modo che la Camera Alta riunisse sia i rappresentanti regionali sia quelli del mondo professionale. In particolare, aveva proposto che questa Camera non potesse più redigere essa stessa le leggi, ma che emettesse un parere su ogni testo prima che questo fosse discusso dall’Assemblea Nazionale. «Si trattava dunque di concedere un potere che consisteva in un parere legislativo alle organizzazioni rurali e cittadine, ai sindacati degli operai e del padronato, alle università, alle associazioni familiari, sociali e culturali». Macron si sta muovendo in direzione opposta. Le due priorità che il neopresidente intende perseguire «prima che i suoi elettori si risveglino» possono essere riassunte come segue: «Reggere il mercato del lavoro secondo i principi dell’ordinamento giuridico statunitense; conformare gli enti locali alle norme europee e incistare le organizzazioni rappresentative del mondo del lavoro in un assemblea puramente onorifica. Oltre a cancellare (a vantaggio dei soli capitalisti) qualsiasi traccia proveniente da diversi secoli di lotte sociali, Emmanuel Macron dovrebbe quindi allontanare gli eletti dai loro elettori e scoraggiare questi ultimi dall’impegnarsi nella cosa pubblica».

    Dal lontano 2005, la Francia non ha più un vero presidente: all’Eliseo si sono succeduti soltanto dei pallidi figuranti. Compreso l’ultimo arrivato, Emmanuel Macron, “fabbricato” dal supemassone reazionario Jacques Attali e inizialmente scambiato, dagli elettori, per salvatore della patria. Lo afferma Thierry Meyssan, analizzando le prime mosse del nuovo presidente. «Dopo l’incidente cerebrale di Jacques Chirac, la Francia è rimasta senza un presidente», scrive, su “Megachip”. «Durante gli ultimi due anni in cui ha ricoperto la carica, Chirac ha lasciato che i suoi ministri Villepin e Sarkozy si sbranassero a vicenda. In seguito: il popolo francese ha scelto due personalità che non sono riuscite a essere all’altezza dell’ufficio presidenziale: Nicolas Sarkozy e François Hollande». Alla fine hanno scelto di portare Macron all’Eliseo, «ritenendo così che questo giovane impetuoso fosse capace di riprendere il timone». Errore. Una spia evidente è l’atteggiamento verso la Ue, apertamente sostenuta dai grandi candidati, che anziché Bruxelles hanno attaccato genericamente “la corruzione”, colpendo in particolare François Fillon. «Una narrazione tipica delle “rivoluzioni colorate”».

  • Costituzione, la più bella del mondo? Quella di D’Annunzio

    Scritto il 29/7/17 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Liberi tutti: senza distinzioni di classe, sesso, lingua, razza, religione. Democrazia diretta, suffragio universale, referendum, leggi di iniziativa popolare. Cariche pubbliche provvisorie, risarcimenti tempestivi da parte dello Stato. Sarebbe bello se esistesse, oggi, una Costituzione così. Esisteva: cent’anni fa. La promosse il poeta-soldato Gabriele D’Annunzio, dopo la “riconquista” di Fiume, in Istria, alla testa dei suoi “legionari”, esponenti della corrente socialista del primo fascismo. La Carta del Carnaro, varata nel 1920 nella città croata (oggi Rijeka), è un manuale che traduce in pratica, in modo spettacolare, l’utopia libertaria: garantisce «la sovranità collettiva di tutti i cittadini», a partire dai lavoratori. Scritta dal sindacalista rivoluzionario Alceste de Ambris e modificata in parte da D’Annunzio stesso, ricorda “Wikipedia”, la Carta del Carnaro prevedeva «numerosi diritti per i lavoratori, le pensioni di invalidità, l’habeas corpus, il suffragio universale maschile e femminile, la libertà di opinione, di religione e di orientamento sessuale», e persino «la depenalizzazione dell’omosessualità, del nudismo e dell’uso di droga». E poi «la funzione sociale della proprietà privata, il corporativismo, le autonomie locali e il risarcimento degli errori giudiziari, il tutto molto tempo prima di altre carte costituzionali dell’epoca».
    La Costituzione, è scritto nella Carta, «garantisce a tutti i cittadini l’esercizio delle fondamentali libertà di pensiero, di parola, di stampa, di riunione e di associazione. Tutti i culti religiosi sono ammessi». Per legge, inoltre, il lavoro deve essere «compensato con un minimo di salario sufficiente alla vita». Lo Stato offre «l’assistenza in caso di malattia o d’involontaria disoccupazione, la pensione per la vecchiaia, l’uso dei beni legittimamente acquistati, l’inviolabilità del domicilio, l’habeas corpus, il risarcimento dei danni in caso di errore giudiziario o di abuso di potere». E attenzione: «La Repubblica considera la proprietà come una funzione sociale, non come un assoluto diritto o privilegio individuale». Nazionalizzazioni: «Il porto e le ferrovie comprese nel territorio della Repubblica sono proprietà perpetua ed inalienabile dello Stato». Banca centrale pubblica: «Una Banca della Repubblica controllata dallo Stato avrà l’incarico dell’emissione della carta-moneta e di tutte le altre operazioni bancarie».
    Oggi più che mai, scrive il blog “L’Intellettuale Dissidente”, vale la pena di rileggere – in controluce – quella carta costituzionale voluta da D’Annunzio, dopo l’impresa di Fiume progettata per scuotere le potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale, che non intendevano assegnare all’Italia la città istriana. Promulgato l’8 settembre del 1920, quel modello costituzionale «rappresentò un’avanguardia storica, legislativa, culturale e sociale all’interno del XX secolo». Fondata su basi sociali e nazionali, la Carta del Carnaro esprime «la prima forma compiuta di sintesi tra capitale e lavoro all’interno di un ordinamento giuridico». Modella una forma repubblicana di Stato, per tutelare libertà e indipendenza, sovranità, prosperità, giustizia e dignità morale. «Garantiva l’uguaglianza dei cittadini senza distinzione di razza, religione, lingua o classe; differenza fondamentale rispetto ai principi del socialismo pubblicati nel 1848 da Marx e alle derive della seconda parte del ventennio fascista». Era ispirata dai leader del sansepolcrismo, il proto-fascismo “di sinistra”: oltre allo stesso D’Annunzio e a de Ambris, personalità come quelle di Filippo Corridoni e Vittorio Picelli, esponenti del sindacalismo rivoluzionario dell’epoca.
    «Di fondamentale importanza la concezione dello Stato e dell’istruzione pubblica», aggiunge “L’Intellettuale Dissidente”, «per non parlare di quella della proprietà privata espressa nell’articolo 6, nel quale trova risalto la funzione sociale della stessa in opposizione al privilegio individuale o al diritto assoluto di liberale memoria». L’ispirazione viene dal filosofo inglese John Locke, da cui il «ruolo concessorio del lavoro, considerato l’unico mezzo atto a garantire titolo legittimo di proprietà su qualsiasi mezzo di produzione e di scambio». In altre parole, la Carta configura «una sintesi superba delle due vie, innovativa e rivoluzionaria al tempo stesso». Rivoluzionaria anche sul piano della teoria economica quando istituisce una banca centrale nazionale controllata dallo Stato, alla quale è demandato in via esclusiva l’incarico dell’emissione della carta-moneta: «Stiamo parlando dunque di ciò che oggi manca in Italia e in Europa dopo la sciagurata scelta dei nostri governi di aderire al progetto della moneta unica europea e di utilizzare fino al limite estremo l’articolo 11 con le limitazioni alla sovranità nazionale».
    Scelte che oggi appaiono immutabili per il popolo, ma che allora – a Fiume – erano ciclicamente rinnovabili, per diritto e per legge. «La Costituzione veniva infatti riformata ogni dieci anni o su iniziativa degli organi competenti in qualsiasi momento». Di fatto, «una scelta saggia, effettuata secondo la eraclitea concezione del divenire: un divenire storico, al quale la legge deve inevitabilmente adeguarsi per perseguire il bene comune ma mantenendo intatta la stella polare dell’identità di un popolo come guida nei cambiamenti». Aggiunge il blog: «Ritroviamo questo concetto nel convinto e fiero risalto del ruolo dei Comuni. Dalla lega dei Comuni contro il Barbarossa, alla nascita del capitalismo come modo di produzione nelle città autocefale dell’Italia medievale, l’identità più viva di un popolo veniva riconosciuta e sublimata con un’apposita parte della Costituzione dedicata a questa forma di governo locale. Il tessuto capillare dei Comuni e il loro virtuosismo comunitario in contrapposizione agli attuali mostri burocratici partoriti negli anni 70: le Regioni».
    Che dire poi della concezione democratica e legislativa nata a Fiume. «La riproposizione dell’antico strumento corporativo, come superamento della dicotomia liberalismo-socialismo», aggiunge “L’Intellettuale Dissidente”, «sarà l’incubatore delle svolte mussoliniane, ma l’intero capitolo dedicato alle corporazioni assieme a quello dedicato al potere legislativo rappresentano un alveo futurista all’interno del quale proiettare un’idea rivoluzionaria di Stato». In altre parole, «si tratta della fusione dei concetti di democrazia, capitale e lavoro». La creazione di una doppia camera con potere legislativo, quella dei Rappresentanti e il Consiglio Economico, costituiscono un moderno superamento della stasi democratica dell’epoca e un fiero nemico del bolscevismo sovietico, anche se molti “legionari fiumani” non nascondevano, allora, la loro simpatia per la neonata Urss. La Carta di D’Annunzio dichiarava guerra all’immobilismo e alla corruzione. Gli amministratori “voraci”, nel 1920 «sarebbero stati perseguiti dall’articolo 12 con la revoca dei diritti politici», misura destinata a punire i colpevoli di reati «infamanti» e quelli «che vivono parassitariamente a carico della collettività».

    Liberi tutti: senza distinzioni di classe, sesso, lingua, razza, religione. Democrazia diretta, suffragio universale, referendum, leggi di iniziativa popolare. Cariche pubbliche provvisorie, risarcimenti tempestivi da parte dello Stato. Sarebbe bello se esistesse, oggi, una Costituzione così. Esisteva: cent’anni fa. La promosse il poeta-soldato Gabriele D’Annunzio, dopo la “riconquista” di Fiume, in Istria, alla testa dei suoi “legionari”, esponenti della corrente socialista del primo fascismo. La Carta del Carnaro, varata nel 1920 nella città croata (oggi Rijeka), è un manuale che traduce in pratica, in modo spettacolare, l’utopia libertaria: garantisce «la sovranità collettiva di tutti i cittadini», a partire dai lavoratori. Scritta dal sindacalista rivoluzionario Alceste de Ambris e modificata in parte da D’Annunzio stesso, ricorda “Wikipedia”, la Carta del Carnaro prevedeva «numerosi diritti per i lavoratori, le pensioni di invalidità, l’habeas corpus, il suffragio universale maschile e femminile, la libertà di opinione, di religione e di orientamento sessuale», e persino «la depenalizzazione dell’omosessualità, del nudismo e dell’uso di droga». E poi «la funzione sociale della proprietà privata, il corporativismo, le autonomie locali e il risarcimento degli errori giudiziari, il tutto molto tempo prima di altre carte costituzionali dell’epoca».

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