LIBRE

associazione di idee
  • idee
  • LIBRE friends
  • LIBRE news
  • Recensioni
  • segnalazioni

Archivio del Tag ‘consumi’

  • Scie chimiche: “A Malpensa tutti lo sanno ma nessuno parla”

    Scritto il 26/2/18 • nella Categoria: segnalazioni • (21)

    Aerei fantasma che spengono il Transponder e spariscono dai radar passivi delle torri di controllo. Voli civili che di colpo, varcato lo spazio aereo italiano, vengono configurati come voli militari. E ancora: velivoli che da qualche anno vengono caricati in modo anomalo, con i bagagli non più nelle stive di coda. Ma soprattutto: aerei che, una volta a terra, perdono liquidi strani, da misteriosi tubicini, appena il loro contenuto si scongela. Scie chimiche? Ebbene sì. Ne parla, in una clamorosa video-denuncia, un operatore aeroportuale di Milano-Malpensa. Si chiama Enrico Gianini, e sa che le sue dichiarazioni potrebbero costargli il posto di lavoro. E’ addetto al carico e scarico dei bagagli sugli aerei di linea. Si è convinto che i jet emettano scie chimiche, probabilmente miscelando acqua “addizionata” con cristalli minerali. Accusa: tutti sanno, a Malpensa. «Piloti, controllori di volo, meccanici. Persino la polizia aeroportuale». Tutti sanno, ma nessuno parla. Dice: ci sono di mezzo i servizi segreti, si rischia grosso. Premette: «Voglio fare un appunto a chi vedrà questo video e vorrà portarmi in tribunale. Noi lavoriamo 8 ore al giorno sotto quegli aerei. Siamo immersi in un bagno chimico, non sappiamo neanche di che cosa si tratta». Avverte: «Se qualcuno viene fuori con qualsiasi minaccia giuridica, io vi metterò in condizioni di dover spiegare, a tutti gli aeroportuali e al popolo italiano, come mai i vostri aerei sversano sostanze chimiche sul piazzale senza permesso. Non mi interessa il cielo: basta solo il piazzale».

  • Hai un’opinione? Errore: ti è stata venduta, a tua insaputa

    Scritto il 21/2/18 • nella Categoria: segnalazioni • (7)

    La colazione “egg and bacon”: una tradizione americana? No: fu una creazione a tavolino, inventata dai produttori di pancetta. Idem il fumo esteso alle donne: non una conquista femminista, ma solo l’ennesima operazione pianificata, in questo caso pagata dai produttori di tabacco. Grazie a chi? Al padre della propaganda moderna, Edward Bernays. Piaccia o no, i nostri pensieri sono quasi sempre condizionati, come le nostre azioni, da una manipolazione incessante, di cui non ci accorgiamo. La propaganda non è qualcosa di vago e indefinito, ma una vera e propria scienza, con leggi e regole precise: un manuale di istruzioni, che subiamo alla lettera. E Bernays, l’autore di quel manuale che oggi viene scientificamente applicato in modo sistematico, è considerato uno dei 100 uomini più influenti del XX secolo. Pochissimi lo conoscono? Ovvio: ogni scienziato della manipolaziome ama la penombra e scansa i riflettori. A maggior ragione se, come in questo caso, è il nipotino di Sigmund Freud, padre della psicanalisi e indagatore dei segreti più profondi del nostro inconscio. Lo zio li ha studiati, mentre il nipote è andato oltre: ha pensato a come sfruttarle, le nostre debolezze, per venderle al mercato e comprare noi, a milioni, come polli d’allevamento.
    Di origine ebraica, emigrato a New York verso la fine del 1800, Bernays fu amico di Franklin Delano Roosevelt e della First Lady, Eleanor Roosevelt, nonostante Felix Frankfurter, giudice della Corte Suprema – anch’egli di origine austro-ebraica – lo accusasse di essere «un avvelenatore professionista dei cervelli della gente», ricorda Federico Povoleri in una ricostruzione proposta dal blog “La Crepa nel Muro”. Consulente dell’ufficio propaganda durante la Prima Guerra Mondiale, Bernays ha dominato a lungo la scena della comunicazione in America. Un maestro, nel manipolare l’opinione pubblica anche nei periodi di crisi come la Grande Depressione del ‘29. Definito «il patriarca della persuasione occulta», aveva compreso «l’importanza dell’uso massiccio e spregiudicato dei media, che utilizzava per lanciare un prodotto, un candidato politico o una causa sociale». Nel 1933, Joseph Goebbels rivelò a un giornalista americano che il libro “Crystallizing Public Opinion”, pubblicato da Bernays nel 1923, fu utilizzato dai nazisti per le loro campagne. Una Bibbia per ogni politico, da Hitler a George Bush, fino a Obama. Primo comandamento: “Controlla le masse senza che esse lo sappiano”.
    Inizialmente, continua Povoleri, Bernays studiò l’opera di Gustav Le Bon, “Psicologia delle folle”, pubblicata nel 1895. Opera di riferimento per molti uomini politici, fu meticolosamnete studiata anche da Lenin, Stalin, Hitler, e Mussolini. Quest’ultimo commentò: «Ho letto tutta l’opera di Le Bon e non so quante volte abbia riletto la sua “Psicologia delle Folle”. E’ un’opera capitale, alla quale ancora oggi spesso ritorno». Migliaia di individui separati, spiega Le Bon, «in un dato momento, sotto l’influenza di violente emozioni – un grande avvenimento nazionale, per esempio – possono acquistare i caratteri di una folla psicologica». Un qualunque caso che li riunisca «basterà allora perché la loro condotta subito rivesta la forma particolare agli atti delle folle». Infatti, «in certe ore della storia, una mezza dozzina di uomini possono costituire una folla psicologica», cosa che invece non riuscirà a «centinaia di individui riuniti accidentalmente». Per le folle, secondo Le Bon, «l’illusione risulta essere più importante della realtà». E’ decisiva l’apparenza: «Le folle non si lasciano influenzare dai ragionamenti», scrive Le Bon. «Sono colpite soprattutto da ciò che vi è di meraviglioso nelle cose. Esse pensano per immagini, e queste immagini si succedono senza alcun legame».
    Per la folla, l’inverosimile non esiste: preferisce nutrirsi di suggestioni. E la prima suggestione formulata «s’impone, per contagio, a tutti i cervelli», stabilendo subito l’orientamento generale. Secondo Le Bon, non c’è differenza tra un celebre matematico e l’ultimo calzolaio: «Può esserci un abisso in termini intellettuali, ma quando essi facciano parte di una folla (una folla può essere composta anche da cinque persone, non è il numero che conta), agiranno nello stesso modo e reagiranno emotivamente e non più con la ragione». Si verifica cioè un appiattimento verso il basso, «perché la ragione e il raziocinio vengono totalmente eliminati». Bernays mise insieme le idee di Le Bon (e di altri studiosi come Wilfred Trotter) con le teorie sulla psicologia elaborate dal celebre zio Freud, «intuendo che la gente sarebbe stata sensibile a una manipolazione inconscia, basata sia sull’emotività, sia sull’uso massiccio di immagini simboliche».
    Bernays intuì con grande anticipo la potenza delle nuove tecnologie della comunicazione di massa, aggiunge Povoleri. E concluse che una manipolazione consapevole e intelligente delle opinioni e delle abitudini delle masse potesse svolgere un ruolo importante in una società democratica. Chi fosse stato in grado di padroneggiare questo dispositivo sociale – pensava Bernays – avrebbe costituito un potere invisibile capace di dirigere una nazione:  «Quelli che manipolano il meccanismo nascosto della società costituiscono un governo invisibile che è il vero potere che controlla», scrive Bernays nel libro “Propaganda”, uscito nel ‘29. «Noi siamo governati, le nostre menti vengono plasmate, i nostri gusti vengono formati, le nostre idee sono quasi totalmente influenzate da uomini di cui non abbiamo mai nemmeno sentito parlare». E’ indispensabile, sostiene, per gestire un regime sociale democratico, una società politicamente “tranquilla”. «In quasi tutte le azioni della nostra vita, sia in ambito politico o negli affari o nella nostra condotta sociale o nel nostro pensiero morale – agiunge – siamo dominati da un relativamente piccolo numero di persone che comprendono i processi mentali e i modelli di comportamento delle masse. Sono loro che tirano i fili che controllano la mente delle persone. Coloro che hanno in mano questo meccanismo, costituiscono il vero potere esecutivo del paese».
    Bernays applicò con implacabile successo le sue leggi. Inventore delle relazioni pubbliche, diede anche origine alla figura professionale dello spin-doctor: le regole da lui scritte vengono oggi applicate in ogni ambito sociale e di comunicazione mediatica, dalla politica alla pubblicità. Sua l’invenzione – sempre nel 1929 – delle “brigate della libertà”, fiaccolata di donne con sigaretta tra le labbra. Un atto di sfida e di indipendenza, in una società che non riconosceva alla donna la parità dei diritti? Forse, ma non solo: «Ben poche femministe sanno che quella del “diritto al fumo”, fino ad allora riservato ai soli uomini, non fu affatto una ribellione spontanea delle donne, ma il risultato di un’operazione mediatica su larga scala, concepita orchestrata da Edward Bernays, che aveva ricevuto l’incarico dalla “American Tobacco Company”», ricorda Povoleri. Va da sé che la “brigata della libertà” conquistò le prime pagine, facendo esplodere il fatturato del tabacco. «Migliaia di donne iniziarono a emulare le ragazze newyorchesi della sfilata; il messaggio era stato recepito chiaramente: chi era anticonformista e indipendente non poteva non fumare». In pochi mesi, annota Povoleri, la Chesterfield triplicò le vendite. «E molti anni dopo la Philip Morris, memore di quell’evento, sfruttò lo stesso concetto inventando il cowboy della Marlboro per pubblicizzare le sue sigarette».
    Anche nel nuovo millennio, nei paesi in via di sviluppo, la sigaretta continua ad essere l’emblema dell’emancipazione femminile. Ma Bernays non si fermò qui: collaborò con l’Ama (Associazione Medici Americani) per produrre ricerche scientifiche che dimostrassero che il fumo “fa bene alla salute”. «Da allora – scrive Povoleri – è diventata prassi, per le multinazionali, finanziare ricerche scientifiche al fine di confermare la bontà dei prodotti che progettano di vendere». E l’ineffabile Bernays «suggeriva che vi fosse sempre una terza parte, indipendente, che garantisse la credibilità del prodotto o dell’immagine da promuovere». Esempio: chi mai crederebbe alla General Motors se fosse lei a a dire che il riscaldamento globale è “una bufala inventata dagli ambientalisti”? Ben altro impatto avrebbe, invece, un istituto di ricerca indipendente, chiamato ad esempio “Alleanza per il clima globale”. «Ecco perché Bernays mise in piedi una quantità impressionante di istituti e fondazioni, finanziati in segreto dalle stesse industrie i cui prodotti dovevano venirne valutati, per garantirne la qualità. Fu così che questi istituti sfornarono una moltitudine di rapporti scientifici, che poi la stampa rendeva pubblici, aiutando a creare l’immagine positiva del prodotto da lanciare».
    Lasciando un segno permanente, continua Povoleri, Bernays stupì il mondo degli affari statunitense per la sua capacità di controllare l’opinione pubblica su larga scala quando, assieme a Walter Lippman e su commissione del presidente Woodrow Wilson, fece una campagna tesa a spingere l’opinione pubblica ad accettare l’entrata nella Prima Guerra Mondiale, a fianco della Gran Bretagna, in un momento in cui la stragrande maggioranza del popolo americano era pacifista e isolazionista. «In soli sei mesi Bernays sovvertì completamente l’idea avversa della gente verso l’entrata in guerra, provocando una mastodontica ondata di isteria anti-tedesca, che impressionò profondamente (tra gli altri) anche Adolf Hitler, che sarebbe diventato un profondo conoscitore della sua opera». Nel ‘28, tra le pagine del saggio “L’ingegneria del consenso”, aveva scritto: «Se capisci i meccanismi e le logiche che regolano il comportamento di un gruppo, puoi controllare e irreggimentare le masse a tuo piacimento e a loro insaputa». Le idee di Bernays cambiarono il vecchio concetto che prevedeva che i bisogni venissero soddisfatti da politica, industria e finanza. Capovolse la gerarchia: prima di tutto, la creazione dei bisogni attraverso la manipolazione dell’opinione pubblica. Politica, industria e finanza non servono più a soddisfare bisogni, ma a controllare la società.
    Nascono così i luoghi comuni creati dalla persuasione occulta operata dalla rivoluzione di Bernays. Per lo scrittore americano Russ Kick, la lista è infinita. Esempio: i medicinali ridanno la salute, i vaccini rendono immuni. Gli americani scoppiano di salute, sono quellio che stanno meglio al mondo. Il virsu Hiv è la causa dell’Aids, il fluoro nell’acqua potabile protegge i nostri denti, la vaccinazione anti-influenzale previene l’influenza. Ancora: i dolori cronici sono una naturale conseguenza dell’età. La soia? E’ la più salutare fonte di proteine. «Per costruire queste illusioni sono stati spesi miliardi di dollari, grazie ai quali oggi milioni e milioni di persone la pensano allo stesso modo», sottolinea Povoleri. In “Trust Us, We’re Experts” i sociologi John Stauber e Sheldon Rampton hanno raccolto una serie di dati che descrivono la scienza della creazione dell’opinione pubblica in America. Sono assiomi, scaturiti dalla nuova scienza delle “pierre”. Tipo: la tecnologia è in se stessa una religione. Oppure: se la gente è incapace di formulare un pensiero razionale, la vera democrazia è pericolosa. Quindi: le decisioni importanti dovrebbero essere lasciate agli esperti. Consigli per il manipolatore: stai lontano dalla sostanza, limitati a creare delle immagini. E non affermare mai chiaramente un bugia dimostrabile.
    «Le parole stesse vengono selezionate in base al loro impatto emozionale: nelle nuove scienze delle pubbliche relazioni sono entrate prepotentemente le tecniche di controllo mentale, che sfruttano le basi della psicologia e le linee guida di Bernays con le tecniche dell’illusionismo». Immagine, simbologia, parole e perfino musica e suoni. «Cinema e televisione hanno un potere enorme (esteso ora a tutta l’industria dell’intrattenimento, compreso i moderni videogiochi) in quanto hanno la capacità di ricombinare tra loro tutti questi elementi», agiunge Povoleri. «Sono molti gli esempi di uso politico del potere della musica, utilizzata come strumento psicologico di persuasione di massa. Non è un caso che durante la Seconda Guerra Mondiale la “Bbc” proibisse la messa in onda della musica di Wagner, utilizzata invece in modo mirato e massiccio dal nazismo, o che la sigla di apertura della nota emittente fossero le note basse che richiamavano la celebre apertura della Quinta di Beethoven». Secondo il filosofo Theodor Adorno, la musica crea “riflessi condizionati” che riguardano l’inconscio. Lo ricorda il consulente psicologico Matteo Rampin nel saggio “Tecniche di controllo mentale”. Nel suo filone tedesco, la musica da camera (legata alla “Sonata”, «tipica creazione della società normativa aristocratica e poi borghese») ha una componente “agonistica” che «deriva dalla struttura concorrenziale della società borghese». E così, chi ascolta quella musica «assimila inconsciamente queste strutture fondanti».
    Per Rampin, «si codifica un modo di ascoltare musica classica disciplinato, senza battere i piedi, in silenzio assoluto, che è parte di una educazione alla “staticità”». Se la musica produce un’educazione alla postura dei corpi, c’è da chiedersi «quali effetti avrà nel tempo l’abitudine contemporanea di ascoltare la musica in maniera autistica, mentre si lavora, si cammina, si studia, attraverso cuffie individuali e dispositivi portatili». Sempre Rampin sottolinea come l’utilizzo del sistema “Sensorround” nel film “Terremoto” (di Mark Robson, 1974) abbia proposto frequenze inferiori a quelle percepibili dall’orecchio umano (16 Hertz), in modo da traumatizzare profondamente molti spettatori, senza che questi ne sapessero il motivo. «Una delle tecniche più utilizzate nella guerra psicologica e nel lavaggio del cervello era arrivata in aiuto al filone dei film catastrofici», spiega David Annan nel saggio “Catastrophe, The end of the cinema”, del ‘75. Fu Eisenstein a sostenere che gli elementi di una singola ripresa possono essere pensati in modo matematico, al fine di produrre uno shock emozionale: il cinema ha trasformato la cultura, la percezione e forse anche la struttura mentale di miliardi di individui. Poi è arrivata la televisione, il trionfo definitivo del non-pensiero di Bernays: «Non ci sintonizziamo per scoprire cosa succede (perché in generale succedono sempre le stesse cose) ma per passare del tempo in compagnia dei personaggi». Non si cerca un programma specifico: si accende il televisore. La tv distrugge il tempo, rimpiazza la famiglia. «Per molti di noi, vive al nostro posto».

    La colazione “egg and bacon”: una tradizione americana? No: fu una creazione a tavolino, inventata dai produttori di pancetta. Idem il fumo esteso alle donne: non una conquista femminista, ma solo l’ennesima operazione pianificata, in questo caso pagata dai produttori di tabacco. Grazie a chi? Al padre della propaganda moderna, Edward Bernays. Piaccia o no, i nostri pensieri sono quasi sempre condizionati, come le nostre azioni, da una manipolazione incessante, di cui non ci accorgiamo. La propaganda non è qualcosa di vago e indefinito, ma una vera e propria scienza, con leggi e regole precise: un manuale di istruzioni, che subiamo alla lettera. E Bernays, l’autore di quel manuale che oggi viene scientificamente applicato in modo sistematico, è considerato uno dei 100 uomini più influenti del XX secolo. Pochissimi lo conoscono? Ovvio: ogni scienziato della manipolaziome ama la penombra e scansa i riflettori. A maggior ragione se, come in questo caso, è il nipotino di Sigmund Freud, padre della psicanalisi e indagatore dei segreti più profondi del nostro inconscio. Lo zio li ha studiati, mentre il nipote è andato oltre: ha pensato a come sfruttarle, le nostre debolezze, per venderle al mercato e comprare noi, a milioni, come polli d’allevamento.

  • Crisi, colpa nostra? Bifarini: dai media, soltanto fake news

    Scritto il 16/2/18 • nella Categoria: idee • (22)

    Se tutti pagassero le tasse in 18 anni si potrebbe sanare il debito pubblico? Ridicolo. A parte il fatto che il debito pubblico non va “sanato”, perché lo Stato non è una famiglia né un’azienda, in realtà non esiste nessuna relazione significativa tra il livello di evasione e il debito di un paese. Anzi, al contrario: se osserviamo Giappone e Stati Uniti, che hanno il più alto debito pubblico al mondo, notiamo che in questi paesi il livello di evasione è bassissimo. Parola di Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta” intervistata dal “Giornale” sulle più ricorrenti “bufale”, spacciate di media, in materia di economia. E’ la solita strumentalizzazione: giornali e televisioni «puntano il dito sull’evasione, sui piccoli evasori, attribuendogli la colpa della crisi economica», magari denunciando «gli affitti in nero e ai piccoli imprenditori», ma senza mai fare alcun riferimento «alla grande evasione fiscale da parte delle banche e delle grandi corporation». Motivo: «Si vuole scatenare la solita guerra tra poveri, strumentale poi alla preservazione dello status quo». La “flat tax”? Non è vero che “aiuta solo i ricchi”, anche se «rimane non progressiva verso l’alto, quindi sarebbero avvantaggiate le fasce di reddito più alte». Comunque sia, «è urgente e improcrastinabile una semplificazione e una riduzione significativa della tassazione delle nostre imprese, che si trovano schiacciate dalla competizione internazionale anche in ambito fiscale».
    Le privatizzazioni come soluzione? Giammai: «Privatizzare vuol dire svendere il nostro bene pubblico senza risolvere il problema della crisi e del debito attuale, mettendolo per lo più in mano ad investitori stranieri», spiega Ilaria Bifarini. «Questo ha ripercussioni notevoli sul livello dei salari (che entrano nel sistema perverso della concorrenza sfrenata, propria del modello neoliberista) e sull’abbassamento ulteriore della qualità dei prodotti e dei servizi». Privatizzando, «si vuole estromettere il ruolo dello Stato dalla politica economica: questo è quanto suggerisce l’Unione Europea per risanare il debito pubblico». In realtà, nonostante le devastanti privatizzazioni degli ultimi anni, il debito pubblico continua a crescere. «Quindi, privare il proprio paese di asset pubblici fondamentali per il proprio sviluppo e per la fruibilità e la qualità dei servizi non è altro che controproducente per l’economia di un paese». Cosa rispondere a chi afferma anche che gli aiuti pubblici uccidono la concorrenza e il Pil? «In realtà è proprio vero il contrario: infatti esiste una relazione diretta tra le dimensioni del governo e il reddito pro capite dei cittadini. Perché un’economia aperta, sviluppata e competitiva possa prosperare, è necessario che ci sia un intervento da parte dello Stato. E che quindi uno Stato offra tutele alle fasce di popolazione più debole in modo che possa funzionare la dinamica del libero mercato».
    Attualmente, la “teologia” neoliberista imposta dall’Ue fa in modo che avvega l’esatto opposto: i soli aiuti pubblici «sono rivolti ai salvataggi delle banche». Per l’economista, «siamo di fronte a un sistema bancario ipertrofico che non produce ricchezza reale ma soltanto speculazione, evade ed elude i propri profitti». E i cittadini «si trovano a dover finanziare un simile sistema che è deleterio per la crescita e per lo sviluppo». E se la globalizzazione «ha portato indiscutibili miglioramenti nell’ambito dello sviluppo economico e del progresso industriale», oggi ci troviamo in una fase successiva, la cosiddetta “iperglobalizzazione”, «dove a rischio sono la sopravvivenza della democrazia e degli Stati nazionali». Secondo quello che il “trilemma di Rodrik”, dal nome dell’economista turco Danil Rodrik, esiste una relazione diretta di incompatibilità tra democrazia, Stato nazionale e globalizzazione: «Quindi, se spingiamo oltre la globalizzazione, come è già avvenuto, dobbiamo rinunciare o allo Stato nazionale o alla democrazia». Di fatto, aggiunge Bifarini, alla democrazia stiamo già rinunciando: «Ci troviamo di fronte a quella formale, ma completamente svuotata del suo contenuto sostanziale, la cosiddetta “democrazia apatica”». Ora, attraverso l’Ue e l’Eurozona, «ci dicono di rinunciare anche allo Stato nazionale in nome di una governance internazionale inefficace e carente».
    Altro tragico dogma in auge: limitare la spesa pubblica al 3% del Pil. «Il limite del 3% del rapporto deficit-Pil non è assolutamente salutare per l’economia», sottolinea Ilaria Bifarini. «La prova è che l’Italia si trova a generare un avanzo primario da ben 24 anni con una sola eccezione nel 2009, quindi in realtà paghiamo più di quanto riceviamo e questo non può essere salutare per l’economia e il suo sviluppo». Attenzione: «Non si può riuscire a pareggiare il bilancio attraverso politiche di riduzione del reddito nazionale senza occuparsi del problema della disoccupazione, come insegnava Keynes». Il più falso dei “refrain” impugnati dai profeti del rigore? Avremmo “vissuto al di sopra le nostre possibilità”. Ridicolo: il boom del debito italiano risale al 1981, anno del divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro. Nulla a che vedere coi consumi italiani. La crisi finanziaria mondiale del 2008? «Non è una crisi da debito pubblico, ma una crisi generata da un fattore di debito privato». Propaganda: «Si vuole alimentare questa concezione per la quale ci sono paesi come il nostro, spendaccioni (i cosiddetti Pigs, che hanno “vissuto oltre le proprie possibilità”) e che quindi le misure dure, inefficaci e deleterie dell’austerity imposte dalla Troika e dalle istituzioni finanziarie internazionali siano la giusta pena da espiare per i peccati commessi». In altre parole, barando, «si è creata una questione morale su un argomento prettamente economico». Se ne sono accorti, gli italiani?

    Se tutti pagassero le tasse in 18 anni si potrebbe sanare il debito pubblico? Ridicolo. A parte il fatto che il debito pubblico non va “sanato”, perché lo Stato non è una famiglia né un’azienda, in realtà non esiste nessuna relazione significativa tra il livello di evasione e il debito di un paese. Anzi, al contrario: se osserviamo Giappone e Stati Uniti, che hanno il più alto debito pubblico al mondo, notiamo che in questi paesi il livello di evasione è bassissimo. Parola di Ilaria Bifarini, “bocconiana redenta” intervistata dal “Giornale” sulle più ricorrenti “bufale”, spacciate di media, in materia di economia. E’ la solita strumentalizzazione: giornali e televisioni «puntano il dito sull’evasione, sui piccoli evasori, attribuendogli la colpa della crisi economica», magari denunciando «gli affitti in nero e ai piccoli imprenditori», ma senza mai fare alcun riferimento «alla grande evasione fiscale da parte delle banche e delle grandi corporation». Motivo: «Si vuole scatenare la solita guerra tra poveri, strumentale poi alla preservazione dello status quo». La “flat tax”? Non è vero che “aiuta solo i ricchi”, anche se «rimane non progressiva verso l’alto, quindi sarebbero avvantaggiate le fasce di reddito più alte». Comunque sia, «è urgente e improcrastinabile una semplificazione e una riduzione significativa della tassazione delle nostre imprese, che si trovano schiacciate dalla competizione internazionale anche in ambito fiscale».

  • Moiso: partiti da buttare, candidati no. Ripartiamo da loro

    Scritto il 16/2/18 • nella Categoria: idee • (1)

    All’incontro con i candidati della circoscrizione Estero, ripartizione Europa, sapevamo che ci sarebbero stati molti giovani e volevamo parlare con loro di lavoro e futuro; volevamo parlare della differenza tra liberalismo sociale e neoliberismo e di come i dogmi economici di quest’ultimo stiano lacerando la società. Volevamo parlare dell’urgenza e della necessità di ristabilire la primazia della politica sull’economia, e di concetti come sovranità politica e monetaria- concetti che in passato sono stati declinati a livello nazionale, ma che oggi vanno abbracciati e declinati ad un livello federativo. Volevamo parlare di molte cose, ma ci siamo resi conto di quanto la narrativa dei partiti, articolata spesso intorno a questioni “minori”, tenga lontano le coscienze dai veri problemi del paese e dell’Europa, e quindi da una proposta politica articolata che li possa risolvere. Nessun partito al momento riesce a conciliare l’idea di una Europa forte, con il bisogno di sovranità politica e monetaria. Programmi di controllo dell’immigrazione, con piani per la sua legalizzazione ed un vero Piano Marshall per l’Africa, che non punti a “conquistarla” ma ad aiutarla. Proposte di assistenza sociale alle classi più deboli, come il reddito garantito, con politiche volte a raggiungere la piena occupazione e a valorizzare il lavoro come attività nobilitante dell’uomo.
    Ancora: la riduzione delle tasse, e la lotta all’evasione, sopratutto delle multinazionali, con la redifinizione del ruolo delle tasse. Il diritto all’autodeterminazione dei popoli, con il bisogno di intervenire a tutela dei più deboli, ogni laddove non vengono rispettati i diritti umani. Il riconoscimento del valore e del ruolo del mondo della finanza, con il bisogno che questo sia giustamente tassato e comunque subordinato all’economia reale. La lotta agli sprechi, all’inquinamento e alla distruzione del pianeta, con investimenti strategici nella ricerca che consentano, sia ai paesi sviluppati che a quelli in via di sviluppo, di godere dei frutti dell’ingegno umano, anche tramite il consumo. Insomma, ci siamo resi conto che nessun partito oggi si fa portavoce della proposta politica organica e complessiva che questo momento storico richiede. Eppure, ci siamo anche accorti che molte persone, ed anche alcuni candidati che per varie sensibilità e percorsi di vita possono oggi ritrovarsi in partiti diversi, condividono i nostri stessi valori e le nostre stesse aspirazioni.
    Molte persone oggi credono che l’economia debba essere subordinata alla politica e agli interessi delle persone; che le istituzioni debbano garantire la sovranità del popolo; e che é tempo di abbracciare e comprendere proposte politiche che oggi vengono presentate come in antitesi, ma che debbono necessariamente coesistere. Sono molti coloro che credono che gli ideali e le idee socialiste possano solo realizzarsi in una società libera e aperta; e sono molti coloro che credono che si possa essere liberi solo in una società socialmente giusta.  Sarà bene allora non combattere i partiti, e tutti coloro che vi aderiscono, ma invece trovare in essi persone che credono in queste idee, affinché si cominci a lavorare insieme per il bene della collettività: per una società libera, democratica e socialmente giusta, in cui il popolo sia sovrano tramite l’attività politica, sovraordinata agli interessi economici di specifici gruppi di interesse privato. A tale proposito, come Movimento Roosevelt, siamo pronti a lavorare con tutti coloro che condividono questi valori, a prescindere, e nel rispetto, della loro appartenenza partitica.
    (Marco Moiso, “Ripartiamo dalle persone”, dal blog del Movimento Roosevelt del 14 febbraio 2018. Temi ripresi da Moiso, coordinatore generale del movimento e supervisore per il Regno Unito, in un collegamento web-streaming su You Tube con Gioele Magaldi).

    All’incontro con i candidati della circoscrizione Estero, ripartizione Europa, sapevamo che ci sarebbero stati molti giovani e volevamo parlare con loro di lavoro e futuro; volevamo parlare della differenza tra liberalismo sociale e neoliberismo e di come i dogmi economici di quest’ultimo stiano lacerando la società. Volevamo parlare dell’urgenza e della necessità di ristabilire la primazia della politica sull’economia, e di concetti come sovranità politica e monetaria- concetti che in passato sono stati declinati a livello nazionale, ma che oggi vanno abbracciati e declinati ad un livello federativo. Volevamo parlare di molte cose, ma ci siamo resi conto di quanto la narrativa dei partiti, articolata spesso intorno a questioni “minori”, tenga lontano le coscienze dai veri problemi del paese e dell’Europa, e quindi da una proposta politica articolata che li possa risolvere. Nessun partito al momento riesce a conciliare l’idea di una Europa forte, con il bisogno di sovranità politica e monetaria. Programmi di controllo dell’immigrazione, con piani per la sua legalizzazione ed un vero Piano Marshall per l’Africa, che non punti a “conquistarla” ma ad aiutarla. Proposte di assistenza sociale alle classi più deboli, come il reddito garantito, con politiche volte a raggiungere la piena occupazione e a valorizzare il lavoro come attività nobilitante dell’uomo.

  • Giannini: lo spettro del Britannia e il reddito di cittadinanza

    Scritto il 14/2/18 • nella Categoria: idee • (6)

    Una importante novità nell’anno 2018 compare di fronte agli elettori: l’analisi dei principali aspetti riguardanti i programmi dei partiti, soprattutto sul piano dei costi. Tra le ricette che sono state presentate, quella del Movimento 5 Stelle ha destato subito interesse quando ci si è resi conto che conteneva passi copiati da Wikipedia o addirittura dal programma Pd. Per quanto la vicenda possa apparire come un indice di scarsa competenza e conoscenza e quindi suscitare inquietudine, l’attenzione andrebbe focalizzata piuttosto sui concetti di fondo della proposta pentastellata. Secondo gli economisti di stampo keynesiano, per uscire dalle situazioni di crisi economica si deve “fare deficit” per attuare politiche di espansione (di crescita) dando lavoro, investendo in infrastrutture, detassando, conferendo nuovi diritti sociali, ecc. In questo modo la disoccupazione si dovrebbe ridurre, i contribuenti dovrebbero aumentare e con essi le entrate andrebbero a ripianare non solo il nuovo deficit ma anche a ridurre lo stock del debito pregresso. Di Maio, apparentemente in linea con questo approccio, ha insistito sullo sforamento del parametro di bilancio del 3%, un parametro di scarsissima scientificità ma concordato con gli altri soggetti europei: «Prenderemo un po’ di debito e lo investiremo per lo sviluppo», è stato lo slogan in diverse conferenze elettorali.

  • Tagliare le tasse non basta: la concorrenza globale è sleale

    Scritto il 14/2/18 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    «Dopo cinquant’anni di attività redistributiva del reddito, l’Italia si ritrova con una pressione fiscale pari al doppio e un debito pubblico quintuplicato, senza che la distribuzione del reddito sia migliorata, anzi con prospettive di un suo peggioramento che va oltre gli effetti della recente crisi internazionale depressiva del Pil e dell’occupazione». Lo afferma l’economista Paolo Savona, già ministro con Ciampi e con alle spalle incarichi all’Ocse. Tutti a sparare sulle tasse, scrive Savona in un articolo su “Milano Finanza”, come se il taglio del carico fiscale migliorasse di per sé il benessere di tutti. «Non c’è leader di partito che non prometta una specifica o più generale riduzione della pressione fiscale, a prescindere dalla coerenza delle rispettive posizioni», premette Savona. Ad esempio: come si fa a dire che sono stati incassati 20 miliardi di euro dalla lotta all’evasione (un dato che equivale a un aumento della pressione fiscale) – e affermare che le tasse sono diminuite e in futuro ancora lo saranno? E poi, come conciliare le promesse di riduzione con gli impegni di spesa già in atto e i vincoli di bilancio europei?

  • Non c’è posto per tutti, il sistema è progettato per escludere

    Scritto il 29/1/18 • nella Categoria: idee • (3)

    Un famoso sociologo americano fece il ragionamento della nave da crociera. Dice: mettiamo che sia una grande nave, con a bordo 100 crocieristi. Ma chi ha fabbricato la nave l’ha progettata in modo che ci fossero solo 50 sedie sdraio. A quel punto, è assolutamente automatico che 50 crocieristi prendono il sole seduti e 50 no. E’ irrilevante, il modo in cui si crea la divisione tra le due classi: se sia la forza, se sia l’autorità, se sia l’autorevolezza, se siano i soldi pagati. Si creano due classi, cioè una prima gerarchia: 50 hanno la sedia sdraio e 50 non ce l’hanno. Il problema è che, i 50 che non ce l’hanno, la prima cosa che pensano è: come fottere la sedia sdraio a chi ce l’ha. E allora succede che questa gerarchia, chi le sedie le ha, decide di dividerla: e 20 li convince, con una serie di concessioni (magari cedendo loro le sdraio per un determinato giorno alla settimana) a diventare custodi delle sedie sdraio di quelli che ce l’hanno. Quindi si creano tre classi: quelli che hanno la sedia sdraio, quelli che custodiscono la sdraio per quelli che ce l’hanno, e quelli che la sedia continuano a non averla. Nel frattempo, qualche sedia sdraio si rompe, quindi variano anche le dimensioni quantitative tra quelli che hanno la sedia sdraio e quelli che non ce l’hanno.
    Apparentemente,  quelli che ce l’hanno diventano la maggioranza, rispetto a quelli che non ce l’hanno, ma invece poi diventano minoranza: le sedie si rompono, il numero di quelli che non ce l’hanno rimane invariato e il numero di quelli che ce l”hanno diminuisce – anzi, qualcuno viene degradato a non averla. Questo avviene soprattutto per la famosa crisi delle sedie sdraio: se c’è la crisi, quelli che hanno la sdraio diminuiscono e quelli che non ce l’hanno aumentano. I custodi delle sedie sdraio a loro volta si dividono, tra quelli che decidono di usare lo spirito e quelli che decidono di usare la spada. Nascono i sacerdoti e i cavalieri, per difendere i possessori di sedie straio: la classe sacerdotale e la classe militare hanno stessa funzione (custodire le sedie sdraio) ma usano strumenti diversi, la religione o la guerra. A questo punto, nella classe di quelli che non hanno la sedia sdraio, invitabilmente, qualcuno – magari degradato perché prima la sedia l’aveva, magari perché ha strumenti intellettuali in più – decide di racimolare materiale presente sulla nave per costruire delle nuove sedie sdraio.
    Ma quelli che la sedia sdraio ce l’hanno si sono ormai abituati ad avere un certo spazio attorno a sé, a godersi in esclusiva i servizi del bar. E allora cosa fanno? Attivano i custodi delle sedie sdraio – in particolare i militari – per impedire che si costruiscano nuove sedie sdraio. A questo punto il sistema, che prima aveva delle aparture, fabbrica solo delle chiusure, perché quelli che hanno la sedia sdraio decidono di non rinunciare a niente di quello che hanno, in termini di spazio, di servizi, di agevolazioni. Non vogliono cedere nulla, nonostante il fatto che altri potrebbero avere una sedia sdraio senza rubargli la loro. Ecco, questo della crociera è lo schema della società dei consumi: è uno schema che mostra, nitidamente, il degrado della società dei consumi – la sua degenerazione, perché teoricamente la società dei consumi potrebbe anche funzionare un po’ meglio, ma è inesorabilmente destinata a questo tipo di degenerazione. Vie d’uscita? Una sola: non fare le crociere.
    (Gianfranco Carpeoro, dichiarazioni rilasciate a Fabio Frabetti di “Border Nights” nella diretta web-streaming “Carpeoro Racconta”, su YouTube il 28 gennaio 2018).

    Vengo anch’io? No, tu no. Ma perché? «Perché no», è la non-risposta più famosa della canzone italiana, resa immortale dal grande Enzo Jannacci. Il concetto? Ferocemente chiarissimo: qualcuno non vuole che, a bordo, ci sia posto per tutti. Il posto ci sarebbe, beninteso, ma il sistema non lo prevede: chi si è accaparrato le migliori poltrone non le molla. E anzi, arruola guardiani per farsele difendere. «E’ lo schema del degrado inevitabile della società dei consumi», spiega Gianfranco Carpeoro, citando un caso di scuola della sociologia made in Usa: la parabola della nave da crociera. «Mettiamo che sia una grande nave: i crocieristi a bordo sono 100, ma chi ha fabbricato la nave l’ha progettata in modo che ci fossero solo 50 sedie sdraio». A quel punto, è assolutamente automatico che 50 crocieristi prendano il sole seduti e 50 no. «E’ irrilevante, il modo in cui si crea la divisione tra le due classi: se sia la forza, se sia l’autorità, se sia l’autorevolezza, se siano i soldi pagati. Si creano due classi, cioè una prima gerarchia: 50 hanno la sedia sdraio e 50 non ce l’hanno». Ovviamente, chi è rimasto senza sedia, la prima cosa a cui pensa è: come rubarla a chi la sdraio ce l’ha. E allora scatta la manipolazione: in cambio di qualche concessione (l’uso temporaneo della loro sdraio) i 50 possessori convincono 20 non-possessori a diventare custodi di quelle benedette sedie sdraio.

  • Sudditi: la verità che nessuno vuole. E buone elezioni a tutti

    Scritto il 17/1/18 • nella Categoria: segnalazioni • (16)

    Gli slogan elettorali nell’Italia del 2018? Piccoli corvi, che banchettano sui resti di un cadavere. «Voi ora vivete in uno Stato che non esiste più, avete delle leggi che non contano più niente: la vostra sovranità economica non esiste più». La voce sembra quella del vecchio marinaio di Coleridge, che insiste nel raccontare una storia atroce, che nessuno vuole ascoltare: la storia di un naufragio che si trasforma in catastrofe, dove ciascuno tenta disperatamente di sopravvivere a spese degli altri. E’ inaccettabile, il racconto del superstite. Troppo duro da digerire: «Nell’arco di pochi decenni, sono riusciti ad ammazzare la cittadinanza occidentale: eravamo persone capaci di cambiare la propria storia. L’Italia, con un solo partito e una sola televisione, ha fatto divorzio e aborto: eravamo figli del Vaticano ma siamo riusciti a ribaltare il paese». Dov’è finita quell’Italia? Davanti al televisore, ad ascoltare le amenità di Renzi e Grasso, Berlusconi e Di Maio. Di loro si occupano i giornalisti, gli stessi che ignorano l’altro giornalista, quello vero. Il vecchio marinaio. Il folle, l’eretico. L’ostinato reduce che insiste nel raccontare la verità che nessuno vuole sentire. Verità semplice e drammatica: c’è solo una politica in campo, quella del vero potere. E’ il potere antico, quello dei Re. E si è ripreso tutto. Distruggendo cittadini, leggi e Stati.

  • Bezos l’uomo più ricco della storia, 105 miliardi in 25 anni

    Scritto il 16/1/18 • nella Categoria: segnalazioni • (9)

    Di lui, persino i super-squali della finanza come Lloyd Blankfein della Goldman Sachs parlano con un misto di ammirazione e timore reverenziale: il boom di Amazon ha infatti distrutto interi comparti industriali, lasciando a casa decine di migliaia di lavoratori. E oggi, sostiene “Bloomberg”, Jeff Bezos è l’uomo più ricco della storia, avendo accumulato 105 miliardi di dollari in venticinque anni. Non è isolato, Bezos: gli analisti indipendenti ricordano il super-contratto da 600 milioni con la Cia (forniture elettroniche) e l’acquisizione nel 2013 del “Washington Post”, da allora punta di lancia della politica estera Usa contro i nemici della Cia e del Pentagono, mentre i lavoratori di Amazon – spesso lasciati senza tutele – guadagnano appena 233 dollari al mese in India, e in media solo 12,40 dollari l’ora negli Stati Uniti. Uno sfruttamento piramidale, che cambia i connotati antropologici dei consumatori e ammassa miliardi al vertice. Bezos ha scavalcato Bill Gates: il patron della Microsoft è fermo a 93,3 miliardi di dollari, a cui però andrebbero aggiunti i 63 miliardi di dollari donati alla sua fondazione. Ricchezza e immaginazione: certamente Bezos è uno dei personaggi-chiave del nostro tempo. Libri e poi dvd, videogiochi, macchine fotografiche, elettrodomestici. L’espansione di Amazon è stata fulminea, inarrestabile e mondiale.
    Cresciuto a Seattle come Bill Gates e lo stesso Steve Jobs della Apple, nel 1994 Jeff Bezos era già un trentenne brillante, ricorda il “Corriere della Sera”. «Laurea in ingegneria a Princeton, un passaggio a Wall Street, una prima esperienza nel commercio internazionale con la Fitel, l’approdo all’hedge fund di New York, De Shaw & Co. Qui, nel 1992, aveva conosciuto MacKenzie Tuttle, che sposò l’anno dopo: la compagna della vita con cui ha avuto quattro figli. Jeff veniva da un’infanzia non semplice: sua madre, Jacklyn Gise, lo ebbe nel 1964 quando era ancora adolescente da Ted Jorgensen, da cui divorziò l’anno dopo. Nel 1968 Jacklyn si trasferì a Houston con Miguel Bezos, un immigrato cubano che prestò diventò ingegnere della Exxon». In quel 1994, dunque, Jeff aveva soldi, posizione sociale, un impiego d’élite: quanto bastava per soddisfare anche le ambizioni più esigenti. «Niente rispetto a quello che sarebbe accaduto in quell’anno: Jeff inventa un nuovo formato commerciale, una libreria online che chiama Cadabra e poi Amazon, come il Rio delle Amazzoni. «Nel 1999 è già sulla copertina di “Time”, come persona dell’anno. Il decollo è stato verticale, un po’ come quello del razzo New Glenn, l’ultimo progetto di Blue Origin, una delle società dell’imprenditore».
    Se si vuole provare a definire la “dottrina Bezos”, scrive Giuseppe Sarcina sul “Corriere”, si deve partire da questa voracità insaziabile, questa spinta a debordare. «Jeff è un onnivoro che ama raccontarsi come un uomo di grandi curiosità e passioni». A cinque anni, dice, rimase «folgorato» dallo sbarco sulla Luna. Per questo nel 2009 fondò Blue Origin, che ora pianifica i primi voli di turismo spaziale per il 2019. «Ma anche sulla Terra l’orizzonte è ampio. Nel 2013 il businessman rivolge lo sguardo all’editoria, uno dei settori più maturi del mercato. Compra, per 250 milioni di dollari, il “Washington Post”, uno de quotidiani più importanti, a quel tempo piuttosto sofferente». Un giornale con 800 reporter, in utile per il secondo anno consecutivo: guadagna con gli abbonamenti, raddoppiati dal gennaio scorso. «Il dato più sorprendente è che l’azienda ha aumentato i ricavi anche con la pubblicità digitale, nonostante la concorrenza micidiale di Facebook e di Google». C’è un po’ di “effetto Trump” in tutto questo. Sotto la testata si legge: «Democray dies in darkness».
    Il core business, però, ruota sempre intorno ad Amazon, cui ha affiancato, nell’agosto del 2017, Whole Foods, la grande catena di supermercati di qualità negli Stati Uniti: un’acquisizione record da 13,7 miliardi di dollari. «Il progetto prevede: riduzione dei prezzi, distribuzione a domicilio ancora più capillare». Ma non mancano le contraddizioni, aggiunge il “Corriere” L’editore del “Post” litiga spesso con i sindacati e con i “maratoneti”, cioè i dipendenti dei magazzini Amazon, che percorrono chilometri al giorno tra le linee di distribuzione. La Commissione Europea lo accusa di non pagare il dovuto al fisco. «Intanto però tutti continuano a cercarlo. Bezos ha aperto un’asta per la nuova sede di Amazon negli Stati Uniti. Le più importanti città americane, a cominciare da New York, si sono messe in coda».

    Di lui, persino i super-squali della finanza come Lloyd Blankfein della Goldman Sachs parlano con un misto di ammirazione e timore reverenziale: il boom di Amazon ha infatti distrutto interi comparti industriali, lasciando a casa decine di migliaia di lavoratori. E oggi, sostiene “Bloomberg”, Jeff Bezos è l’uomo più ricco della storia, avendo accumulato 105 miliardi di dollari in venticinque anni. Non è isolato, Bezos: gli analisti indipendenti ricordano il super-contratto da 600 milioni con la Cia (forniture elettroniche) e l’acquisizione nel 2013 del “Washington Post”, da allora punta di lancia della politica estera Usa contro i nemici della Cia e del Pentagono, mentre i lavoratori di Amazon – spesso lasciati senza tutele – guadagnano appena 233 dollari al mese in India, e in media solo 12,40 dollari l’ora negli Stati Uniti. Uno sfruttamento piramidale, che cambia i connotati antropologici dei consumatori e ammassa miliardi al vertice. Bezos ha scavalcato Bill Gates: il patron della Microsoft è fermo a 93,3 miliardi di dollari, a cui però andrebbero aggiunti i 63 miliardi di dollari donati alla sua fondazione. Ricchezza e immaginazione: certamente Bezos è uno dei personaggi-chiave del nostro tempo. Libri e poi dvd, videogiochi, macchine fotografiche, elettrodomestici. L’espansione di Amazon è stata fulminea, inarrestabile e mondiale.

  • Giannuli: spiegate alla sinistra che le tasse vanno tagliate

    Scritto il 12/1/18 • nella Categoria: idee • (53)

    Da circa venti anni assistiamo ad una sceneggiata per cui la sinistra (o quel che si definisce tale) è il partito delle tasse che, appena ha il governo, si affretta golosamente ad aumentare, e la destra è quella che protesta e strepita contro questi aumenti (“Stanno mettendo le mani in tasca agli italiani!”), ma che poi, andata al governo, non solo non toglie nessuno di quegli aumenti, ma ne aggiunge di suoi. Per la sinistra si tratta di un riflesso condizionato che la induce a pensare che le tasse siano un bene in sé, perché servono a finanziare la spesa sociale e come meccanismo di redistribuzione della ricchezza. Ma le cose sono molto più complicate. In primo luogo, si pone un problema di quantità: quale è la soglia di un prelievo fiscale sopportabile? Non poniamo la questione in termini etici, ma in termini economici: è evidente che più alto è il prelievo fiscale e meno soldi hanno i cittadini per i consumi e, se i consumi calano, ne soffrono le imprese che, oltre certi livelli di guardia, potrebbero crollare una dopo l’altra, provocando un crollo occupazionale. Si innesca così in circolo vizioso, per cui l’aumento delle disoccupazione riduce ulteriormente il monte salari e, quindi i consumi; questo produce nuovi fallimenti, e così via.
    Peraltro la flessione occupazionale, in termini lineari, produce anche una contrazione del gettito fiscale, con il risultato di spingere ad una nuova stretta per mantenere costante il gettito. E di questo passo si fa bancarotta. Naturalmente ci sono una serie di soglie per cui il risultato finale può prodursi più o meno lentamente. Ed esistono anche controtendenze che limitano gli effetti negativi di un’eccessiva pressione fiscale: ad esempio, evasione fiscale e lavoro nero, per quanto condannabili sul piano morale e indesiderabili su quello politico, però hanno l’effetto di sottrarre una parte della ricchezza all’appropriazione statale, mantenendo quindi, almeno in parte, il potere d’acquisto dei cittadini. Con il risultato che più è elevata la pressione fiscale, più aumenta la propensione a pratiche illegali o condannabili come evasione e lavoro nero, il che poi sposta il carico del gettito inevaso sulle spalle dei contribuenti onesti o che non possono sottrarsi agli obblighi fiscali, il che moltiplica tanto le ingiustizie sociali quanto gli effetti antieconomici dell’eccessivo carico fiscale.
    Dunque occorre capire quale possa essere una soglia accettabile di pressione, e qui dobbiamo constatare che da 6 anni in qua, la pressione (grazie ai governi del Pd o magari sostenuti dall’esterno dal Pd, come il governo Monti) è salita a circa il 55% del Pil, tenendo conto, oltre che della tassazione diretta, di quella indiretta, dei ticket, delle tariffe dei servizi pubblici, eccetera. Un prelievo di quelle dimensioni sarebbe eccessivo anche per un breve periodo, ma qui ormai siamo entrati nell’ordine di idee che questo è un livello “normale” destinato a durare a tempo indeterminato. Il secondo ordine di problemi è chi sia il soggetto tassato, in che misura e con quali meccanismi. Una delle grandi falsità del neoliberismo è quella per la quale, siccome i ricchi sono quelli che hanno più potenziale di spesa, più detassiamo i ricchi (secondo le politiche di tassazione regressiva sul reddito inaugurate dalla Reaganomics negli Usa degli anni Ottanta), più aumentano i consumi e, quindi, si spinge verso una dinamica virtuosa.
    Chiunque sappia qualcosa di economia e non sia un venduto sa che la propensione all’accumulazione è direttamente proporzionale al reddito: il “ricco” (usiamo questo termine vago) spende una parte minima del proprio reddito in consumi, poi spende una quota più alta di esso in investimenti nell’economia reale, ma la parte più consistente la accumula come riserva di valore in impieghi finanziari che, in quanto tali, sono improduttivi se non nella parte (più o meno minoritaria) destinata all’economia reale. Più denaro resta immobilizzato nella riserva finanziaria, meno risorse ci sono a disposizione. In terzo luogo è decisivo come si spende il gettito fiscale. La sinistra immagina (o fa finta di crederci) che la voce più consistente sia quella della spesa sociale (pensioni, sanità, istruzione, ammortizzatori sociali) il che non è vero, se non in parte. Sicuramente le voci che abbiamo indicato sono consistenti, ma ci sono anche capitoli di spesa tutt’altro che irrilevanti come la spesa militare, quella per i lavori pubblici e, soprattutto, quella per il personale della Pa (per cui, dando lo stipendio a un fannullone, si fa una spesa improduttiva, ma si sostengono i consumi).
    In ciascuno di questi capitoli di spesa ci sono sprechi e diseconomie che si potrebbero rivedere facendo dimagrire la spesa complessiva, senza per questo danneggiare la spesa sociale. Ma, soprattutto, ci sono spese assolutamente negative come i compensi eccessivi ai dirigenti, l’eccessivo numero di enti che neppure alimentano i consumi ma finiscono in rendita finanziaria, ed è qui che occorre andare col machete (ma ne riparleremo). Poi c’è una spesa direttamente finanziaria: gli interessi per il debito che crescono costantemente (siamo a 84 miliardi l’anno, destinati a crescere perché in 4 anni di governo Pd il debito è cresciuto di altri 200 miliardi). Ma se la spesa rimane questa, il gettito fiscale non ce la fa e si produce nuovo debito, nonostante l’aumento delle tasse. Ma con questo livello di pressione fiscale non c’è ripresa immaginabile e, prima o poi, lo sbocco è il default. Dunque, per una vera ripresa, occorre tagliare il prelievo fiscale con una cura drastica: diciamo almeno 7-8 punti in un anno. E per far questo occorre una vera spending review (non l’attuale pagliacciata) e ricontrattare le condizioni di debito. Ma questo nella sinistra chi lo dice? Chi si preoccupa del fatto che il prelievo fiscale è diventato un moltiplicatore di ingiustizie sociali?
    (Aldo Giannuli, “Perché la sinistra non capisce niente della questione fiscale”, dal blog di Giannuli del 2 gennaio 2018).

    Da circa venti anni assistiamo ad una sceneggiata per cui la sinistra (o quel che si definisce tale) è il partito delle tasse che, appena ha il governo, si affretta golosamente ad aumentare, e la destra è quella che protesta e strepita contro questi aumenti (“Stanno mettendo le mani in tasca agli italiani!”), ma che poi, andata al governo, non solo non toglie nessuno di quegli aumenti, ma ne aggiunge di suoi. Per la sinistra si tratta di un riflesso condizionato che la induce a pensare che le tasse siano un bene in sé, perché servono a finanziare la spesa sociale e come meccanismo di redistribuzione della ricchezza. Ma le cose sono molto più complicate. In primo luogo, si pone un problema di quantità: quale è la soglia di un prelievo fiscale sopportabile? Non poniamo la questione in termini etici, ma in termini economici: è evidente che più alto è il prelievo fiscale e meno soldi hanno i cittadini per i consumi e, se i consumi calano, ne soffrono le imprese che, oltre certi livelli di guardia, potrebbero crollare una dopo l’altra, provocando un crollo occupazionale. Si innesca così in circolo vizioso, per cui l’aumento delle disoccupazione riduce ulteriormente il monte salari e, quindi i consumi; questo produce nuovi fallimenti, e così via.

  • Razziare l’Africa: un Piano Marshall la indebiterà per sempre

    Scritto il 09/1/18 • nella Categoria: segnalazioni • (9)

    Aiutiamoli a casa loro (a indebitarsi per l’eternità), con un maxi-prestito da 500 miliardi. «Senza un grande Piano Marshall per l’Africa – dice Berlusconi – l’Europa corre il rischio di essere invasa dai sei miliardi di persone che vivono nella miseria». Dove trovare i soldi? A finanziare sarebbe la Bei (Banca Europea degli Investimenti). Poi potrebbero intervenire il Trust Fund di La Valletta e il Consiglio Europeo con il Migration Framework, scrive “Rischio Calcolato”. «A Bruxelles si discute, ma il progetto è partito. Alla fine anche il vecchio Piano Marshall stesso sapeva che si sarebbero generate delle perdite, ma l’Italia e la Germania sono dell’idea di mettere in piedi un piano di sviluppo, una politica di investimenti che possa funzionare per contenere il flusso migratorio». Il piano, aggiunge il blog, prevede di coinvolgere investimenti privati e aiuto pubblico per lo sviluppo: un External Investment Plan che attrae i privati e fornisce a questi ultimi le garanzie sulle eventuali perdite. L’Africa non è solo una priorità strategica per economia e sicurezza: il piano è ottimo per “salvarci” da migranti economici, estremismo e terrorismo. «Per ironia della sorte è necessario allargare la platea, creare nuovi potenziali da sfruttare a cui sottrarremo il futuro».
    Se in una società non esiste più una classe da indebitare “a vita” per beni e necessità che consumiamo “adesso”, scrive “Rischio Calcolato”, si può intuire che il nuovo Piano Marshall, puro «colonialismo velato», è destinato a indebitare milioni di africani. «La politica – sostiene il blog – ha capito che non ci sono più abbastanza dominati a cui sottrarre il futuro, in Italia non ci sono rimasti giovani per produrre “domani” la ricchezza che noi abbiamo bisogno/voglia di consumare “oggi”». Dunque sarebbe un piano dove investire e imporre uno sviluppo, almeno per arginare la crisi. «Per trattare la questione dei flussi bisogna investire, spesso la cooperazione è inutile se le rimesse degli immigrati superano quest’ultima». Grazie all’economia dei paesi Ocse ad alto reddito, spiega la Banca Mondiale, le rimesse verso l’Africa subsahariana dovrebbero aumentare di un robusto 10% fino a 38 miliardi di dollari quest’anno. «I maggiori paesi riceventi le rimesse della regione, Nigeria, Senegal e Ghana, sono pronti per la crescita. La regione ospita anche una serie di paesi in cui le rimesse rappresentano una quota significativa del Pil, tra cui la Liberia (26%), le Comore (21%) e il Gambia (20%). Le rimesse cresceranno da un moderato 3,8% a 39 miliardi di dollari nel 2018».
    Il 29 e 30 novembre 2017 si è svolto in Costa d’Avorio il vertice Ue-Unione Africana per decidere il futuro dei rapporti tra i due continenti e porre le basi del nuovo partenariato tra Europa e Africa. I promotori del nuovo Piano Marshall hanno capito che bisogna investire perché «i problemi dell’Africa sono, anche, i problemi dell’Europa». Quindi, tramite le varie leve e sinergie con la Bei, si possono investire circa 500 miliardi. Dove guadagnarci? «Alle multinazionali – anche italiane – si offre l’occasione di fare affari con i sieropositivi, con le persone che muoiono di malaria, con le carenze di vitamina A e proteine che provocano circa 500mila casi di cecità ogni anno», scrive ancora “Rischio Calcolato”, che teme che «ci verrà concesso di scatenarci maggiormente con il land-grabbing, seguendo le nuove regole del neo-colonialismo», puntando a saccheggiare i suoi fertili. «Il bello di questo Piano Marshall proposto è che si può finanziare semplicemente stampando simpatici “foglietti di carta”». In compenso, l’Africa «ci ripagherà fornendoci materie prime come: neodimio, cobalto, nichel, manganese», che verranno rivendute alle industrie europee dei semiconduttori. «Con il vecchio sistema geniale di indebitarli massicciamente “direttamente a casa loro” ci si guadagna due volte», osserva “Rischio Calcolato”: «Le classi agiate che emergeranno – da questa operazione – manderanno i figli a studiare in Europa, nel frattempo il piano provvede all’interruzione di esportazione di migranti economici, e incrementa una massa elevata di nuovi debitori freschi freschi».

    Aiutiamoli a casa loro (a indebitarsi per l’eternità), con un maxi-prestito da 500 miliardi. «Senza un grande Piano Marshall per l’Africa – dice Berlusconi – l’Europa corre il rischio di essere invasa dai sei miliardi di persone che vivono nella miseria». Dove trovare i soldi? A finanziare sarebbe la Bei (Banca Europea degli Investimenti). Poi potrebbero intervenire il Trust Fund di La Valletta e il Consiglio Europeo con il Migration Framework, scrive “Rischio Calcolato”. «A Bruxelles si discute, ma il progetto è partito. Alla fine anche il vecchio Piano Marshall stesso sapeva che si sarebbero generate delle perdite, ma l’Italia e la Germania sono dell’idea di mettere in piedi un piano di sviluppo, una politica di investimenti che possa funzionare per contenere il flusso migratorio». Il piano, aggiunge il blog, prevede di coinvolgere investimenti privati e aiuto pubblico per lo sviluppo: un External Investment Plan che attrae i privati e fornisce a questi ultimi le garanzie sulle eventuali perdite. L’Africa non è solo una priorità strategica per economia e sicurezza: il piano è ottimo per “salvarci” da migranti economici, estremismo e terrorismo. «Per ironia della sorte è necessario allargare la platea, creare nuovi potenziali da sfruttare a cui sottrarremo il futuro».

  • Tolstoj: se paghi le tasse, finanzi il sistema che ti domina

    Scritto il 06/1/18 • nella Categoria: Recensioni • (9)

    C’è un bel saggio di Tolstoj – il Tolstoj vecchio, quello più pericoloso – che in Italia è stato tradotto solo nel 1989, pensate: un terzo della produzione di Tolstoj non tradotta in Italia fino all’89 perché troppo pericolosa. Impressionante. Quindi, le biografie italiane di Tolstoj – compresa quella, famosa, di Citati, ancora nelle librerie – sono fatte su due terzi dell’opera di Tolstoj: manca un terzo, che sono i suoi saggi terribili, popolarissimi prima della Prima Guerra Mondiale, che hanno determinato un sacco di guai, per i regimi del tempo. C’era una vignetta interessante su “Le Figaro”, dove si vedeva lo Zar Nicola II piccolino così, spaventato, che scappava, e Tolstoj (enorme) che voleva dargli una pacca sulla testa, per punirlo – pensate che fama aveva. Ecco, è un saggio del 1908, che si intitola “Di chi è la colpa”. Era un periodo brutto, per la Russia: Nicola II era quasi impazzito, a quel tempo, e permetteva ai cosacchi di fare di tutto – dai pogrom alle sciabolate durante le manifestazioni, esecuzioni capitali ogni giorno. E Tolstoj fa un brevissimo elenco di 7-8 righe su quello che è terribile, in Russia, in quel periodo, e dice: quante pene di morte ci sono al giorno? Nove, dieci. Quanta gente viene deportata?
    Proprio Nicola II aveva cominciato a fare le deportazioni forzate. Tutta la popolazione di una regione viene presa e viene messa in fondo alla Siberia, in un posto che ha sempre l’isobara di gennaio totalmente negativa. Capitava alle sètte religiose. C’era quella dei Molochany, quella dei Duchobory – Molochany vuol dire “bevitori di latte”, perché erano ultra-vegetariani, mentre i Duchobory aborrivano le armi: si rifiutavano di usare persino i coltelli. Gruppi ritenuti pericolosi per la società russa, quindi deportati in massa. E Tolstoj, arrabbiato contro questo, scrive un libro, “Resurrezione”. Gli fanno dei contratti pazzeschi, in tutto il mondo. Tutti i soldi che prende da “Resurrezione”, Tolstoj li usa per comprare una nave e un pezzo di Canada. Dopodiché manda i suoi figli a raccogliere tutti i Duchobory lungo la strada della deportazione, li carica sulla nave nel Mar Nero e li porta in Canada, dove vivono ancora adesso i loro discendenti, che tuttora parlano russo. Tutto ciò, con “Resurrezione”: una cosa grandiosa. Era un pericolo vivente, Tolstoj: non potevano ammazzarlo, né arrestarlo, perché troppo famoso. E in Italia di questo s’è saputo pochissimo, tra l’altro, fino agli anni ‘90.
    Il saggio “Di chi è la colpa” dice: le cose in Russia vanno male. Di chi è la colpa? Tutti quanti dicono: dello Zar. Ma lo Zar – dice Tolstoj, che era un nobile russo dell’alta società – è un ometto piccolo così, che gioca a tennis e a cricket tutto il tempo. Lui scrive diari, la Zarina segue Rasputin. Come fa, uno così, a dominare 180 milioni di russi? Non può essere tutta colpa sua, la colpa sarà della corte. Ci sono tremila persone, a corte, che fanno i loro maneggi – allora non c’erano le multinazionali, c’erano le corti. Colpa loro, quindi? Ma io, dice Tolstoj, sono vissuto in mezzo a questi fin da bambino: è gente che si fa gli affari suoi, che cerca vantaggi personali anche piccoli; sono tutti indebitati, si sono rovinati con il gioco tutti quanti, bevono come spugne. Come volete che facciano, queste duemilacinquecento persone, a dominare 180 milioni di russi? Allora la colpa è del governo, della Duma, del Parlamento. Inclusi sottosegretari e uscieri, sono settemila persone. Può darsi che sia colpa loro, dice Tolstoj. Però, aggiunge, sono settemila, mentre i russi sono 180 milioni. Come fanno, ’sti settemila, a imporre il loro dominio su 180 milioni di persone?
    Dicono che esiste il potere, ragiona Tolstoj, che ha sempre odiato questa parola. Cos’è il potere? Nessuno l’ha mai definito. Napoleone sposta cinquecentomila uomini, dalla Francia alla Russia, e ne muoiono 480.000. Napoleone, si dice, aveva un grande potere. Ma era un turacciolo, spinto da una marea di francesi che – chissà perché – volevano andare in Russia e sono morti tutti lì. Il potere? Io non ci credo, dice Tolstoj. E poi questi parlamentari, fisicamente, cosa fanno? Vanno dal russo e gli dicono “tu mi obbedisci”? Se vanno dal Mugik, quello li uccide: li mangia, se non c’è nessuno che guarda. Quindi il problema non sono quei tremila. Chi può essere, allora? L’esercito. Qui ragioniamo, dice: sono quattro milioni di persone. E quello russo era l’esercito più potente del mondo. Ma cos’è un esercito? E’ un insieme di soldati. Va bene, e cos’è un soldato? Questa era il modo di ragionare di Tolstoj, affascinante: sembra un bambino, che fa domande su domande. Dunque, che differenza c’è tra un soldato e un normale cittadino? Le armi: il soldato ha le armi. Le ha comprate lui? No. Gliele ha pagate lo Zar? No. Il governo? No. La corte? Nemmeno. Le armi gliele hanno pagate le tasse. E quindi: chi ha pagato le armi, che fanno diventare un uomo un soldato? E’ chiaro che sei stato tu, perché le tasse le hai pagate tu. E allora: tu perché le paghi, le tasse?
    E’ chiaro che questo libro qui non poteva uscire negli anni Trenta, non poteva uscire negli anni Settanta e non può uscire oggi. Io l’ho fatto nell’89, questo librone (“Perché la gente si droga”, sono 800 pagine di saggio di Tolstoj). Era un periodo buono, quello. L’Ottantanove, poco prima di Berlusconi. Lì è uscito, il libro. E’ andato molto bene, poi è sparito. E non lo ripubblicano più, perché è troppo pericoloso. Se tu metti una pagina di quel libro lì su Internet, su Facebook, il giorno dopo ricevi una comunicazione della questura, perché è un reato. Oggi, fare questo discorso è un reato: perché è un’esortazione a non rispettare una legge della nazione. Non pagare le tasse? Grave: ti trovi subito nei guai. Tolstoj poteva, a quel tempo. E l’idea è questa: se tu paghi le tasse, perché le paghi? Cosa ti spinge a pagarle? La psicologia del dominio, in realtà, è tutta qua. E’ vero: il dominio non è l’esercizio di un potente, è l’esercizio di un potente condizionato all’approvazione del suddito. Anche la multinazionale può manipolarti, ma si regge sugli acquisti: e tu puoi smettere, di comprare. Sartre diceva: l’uomo è condannato a essere libero; se è servo, è perché ha scelto lui di esserlo.
    (Igor Sibaldi, estratto della conferenza nell’ambito del seminario “Psicologia del dominio”, svoltosi il 3 dicembre 2017 con Salvatore Brizzi, Giorgio Galli e Calogero Falcone, ripreso su YouTube).

    C’è un bel saggio di Tolstoj – il Tolstoj vecchio, quello più pericoloso – che in Italia è stato tradotto solo nel 1989, pensate: un terzo della produzione di Tolstoj non tradotta in Italia fino all’89 perché troppo pericolosa. Impressionante. Quindi, le biografie italiane di Tolstoj – compresa quella, famosa, di Citati, ancora nelle librerie – sono fatte su due terzi dell’opera di Tolstoj: manca un terzo, che sono i suoi saggi terribili, popolarissimi prima della Prima Guerra Mondiale, che hanno determinato un sacco di guai, per i regimi del tempo. C’era una vignetta interessante su “Le Figaro”, dove si vedeva lo Zar Nicola II piccolino così, spaventato, che scappava, e Tolstoj (enorme) che voleva dargli una pacca sulla testa, per punirlo – pensate che fama aveva. Ecco, è un saggio del 1908, che si intitola “Di chi è la colpa”. Era un periodo brutto, per la Russia: Nicola II era quasi impazzito, a quel tempo, e permetteva ai cosacchi di fare di tutto – dai pogrom alle sciabolate durante le manifestazioni, esecuzioni capitali ogni giorno. E Tolstoj fa un brevissimo elenco di 7-8 righe su quello che è terribile, in Russia, in quel periodo, e dice: quante pene di morte ci sono al giorno? Nove, dieci. Quanta gente viene deportata?

  • Page 13 of 51
  • <
  • 1
  • ...
  • 8
  • 9
  • 10
  • 11
  • 12
  • 13
  • 14
  • 15
  • 16
  • 17
  • ...
  • 51
  • >

Libri

UNA VALLE IN FONDO AL VENTO

Pagine

  • Libreidee, redazione
  • Pubblicità su Libreidee.org

Archivi

Link

  • Border Nights
  • ByoBlu
  • Casa del Sole Tv
  • ControTv
  • Edizioni Aurora Boreale
  • Forme d'Onda
  • Luogocomune
  • Mazzoni News
  • Visione Tv

Tag Cloud

politica Europa finanza crisi potere storia democrazia Unione Europea media disinformazione Ue Germania Francia élite diritti elezioni mainstream banche rigore sovranità libertà lavoro tagli euro welfare Italia sistema Pd Gran Bretagna oligarchia debito pubblico Bce terrorismo tasse giustizia paura Russia neoliberismo industria Occidente pericolo Cina umanità globalizzazione disoccupazione sinistra movimento 5 stelle futuro verità diktat sicurezza cultura Stato popolo Costituzione televisione Bruxelles sanità austerity mondo