LIBRE

associazione di idee
  • idee
  • LIBRE friends
  • LIBRE news
  • Recensioni
  • segnalazioni

Archivio del Tag ‘coraggio’

  • Orrore indicibile: la polizia ritrova 123 bambini scomparsi

    Scritto il 16/10/18 • nella Categoria: segnalazioni • (17)

    Rapiti e poi “parcheggiati”, in attesa di essere massacrati. La polizia di Detroit li ha ritrovati tutti insieme: 123 bambini. Erano «in un grave stato di denutrizione e di sofferenza psicologica», scrive l’“Huffington Post”. Tuttavia, «dagli accertamenti svolti non sembrerebbe che siano stati vittime di violenze sessuali». Gli agenti hanno impiegato molte ore per rintracciare le loro famiglie e riconsegnare i piccoli, sequestrati nei giorni precedenti. Secondo il “New York Post”, gli inquitenti stavano indagando «su una rete di rapimenti di minori che poi venivano coinvolti in traffici sessuali». Quello che sorprende, di queste notizie – osserva Paolo Franceschetti – è che vengono date di sfuggita: «Poche righe, liquidate come se si trattasse di una notizia del tipo “Belen ha un nuovo fidanzato”. Il sindaco di Riace, reo di aver favorito (non si sa poi se vero o no) l’immigrazione clandestina, ce lo rifilano su tutti i giornali e in tutte le salse». E i bambini scomparsi, invece? E i nomi delle persone arrestate o coinvolte nella vicenda? In America, aggiunge Franceschetti, scompare un numero incredibile di minori. «Le pareti di autogrill e supermercati sono spesso tappezzate dalle foto e di persone scomparse nel nulla, da un momento all’altro, come se niente fosse».
    I piccoli appena ritrovati a Detroit? «Destinati ad essere impiegati nel mercato del sesso, ma anche degli organi e dei riti satanici». Se da noi scompaiono ogni anno senza essere ritrovati centinaia di minori, in altri paesi europei la situazione è ancora peggiore: solo in Francia, quest’anno, i bambini spariti sono 1.238. Che fine fanno? Sul blog “Petali di Loto”, Franceschetti – avvocato, indagatore dei misteri italiani come quello del Mostro di Firenze – punta il dito contro il satanismo e le potentissime organizzazioni pedofile: nel mondo di calcola che ogni anno scompaiano circa 100.000 bambini. Un caso particolarmente doloroso riguarda i bambini figli di extracomunitari non registrati ufficialmente, e quelli che vengono “comprati” già da prima della nascita: «Si paga una coppia in difficoltà affinché faccia nascere un bambino e lo consegni all’organizzazione che lo richiede; è il modo più sicuro; non lascia alcuna traccia del delitto commesso e il bimbo scompare nel nulla e mai comparirà neanche nelle statistiche». Il loro destino? «Molti finiscono nel traffico di organi». Alcuni vengono utilizzati per i “giochi di morte” filmati negli abominevoli “snuff movies”, altri ancora diventeranno super-soldati, psicologicamente “riprogrammati”.
    Ma il posto d’onore, nella strage silenziosa dei piccoli, è occupato proprio dalle reti pedofile: «Sono organizzate a livello internazionale e coperte da capi di Stato», sostiene Franceschetti: in alcuni casi, a tirare le fila di questa realtà sono proprio i soggetti istituzionali che dovrebbero invece tutelare la sicurezza dei bambini. Franceschetti allude a magistrati, autorità di polizia, funzionari dell’Onu. «Molte delle organizzazioni antipedofilia e dei centri che accolgono i bambini abbandonati, poi, non sono altro che trappole ben congegnate per accalappiare i malcapitati che cercano aiuto». Le prove? «Ce ne sono a bizzeffe, ma il quadro – sostiene Franceschetti – va ricostruito come un immenso puzzle». Fece epoca il caso del serial killer belga Marc Dutroux, ribattezzato “il mostro di Marcinelle”. Una storia dell’orrore, rievocata nel libro “Tutti manipolati”, pubblicato da “Stampa Alternativa” e scritto da un coraggioso gendarme belga, Marc Toussaint, che aveva partecipato alle indagini per poi esserne estromesso perché “troppo ligio al dovere”. Tentarono anche di farlo fuori, provocandogli un incidente in moto. Il libro, documentato e basato sugli atti dell’inchiesta, racconta di come nel caso Dutroux furono coinvolti cardinali, ministri, e addirittura il Re del Belgio, Alberto II.
    Nel 1996 scomparve una bambina belga, Laetitia. Le indagini individuarono il rapitore: Dutroux. Il pedofilo aveva ucciso almeno sei bambine, ma ci vollero otto anni prima di giungere al processo. Nel frattempo, due bambine erano state rinchiuse in casa Dutroux, «ma i depistaggi della gendarmeria e della magistratura fecero sì che le bambine non venissero trovate durante le perquisizioni». La scoperta avvenne fuori tempo massimo: le piccole erano già morte. L’inchiesta, ricorda Franceschetti, portò ad individuare come mandanti personaggi di altissimo livello, che arrivavano fino al coinvolgimento personale del sovrano belga. L’organizzazione era dedita a “snuff movies” e ad attività come «il gioco del gatto e del topo, che a quanto pare è una costante di queste organizzazioni». Ma giornalisti e inquirenti che seguivano il caso persero la vita: «Incidenti e suicidi, ovviamente». E così, «tutto venne messo a tacere dalla magistratura e dalla gendermeria».
    Dall’Europa agli Usa: un ex agente segreto ha salvato dagli abusi e dal controllo mentale una delle vittime di queste organizzazioni, Cathy O’Brien. Dopo essere sfuggiti più volte alla morte, lo 007 e la ragazza sono riusciti a scrivere due libri: “Accesso negato alla verità” (Macro edizioni) e “Trance-formation of America”. In quest’ultimo, spiega Franceschetti, si narra di come l’organizzazione che abusava la donna facesse capo addirittura al presidente degli Stati Uniti, George W. Bush. «Si narra dei legami di Bush e Clinton con i signori della droga, si narra dei legami con le organizzazioni pedofile e con quelle sataniche». In particolare si evidenziano i legami di Bush e Clinton con il “Tempio di Seth”, che è «la più potente organizzazione satanista ramificata a livello internazionale». La fondò Michael Aquino, un ex ufficiale dell’esercito statunitense molto amico di Bush. «Stupri, omicidi, pedofilia, droga, satanismo… tutto narrato nero su bianco, con nomi e cognomi».
    Stati Uniti, Europa e anche Africa: tempo fa, aggiunge Franceschetti, in Ciad vennero arrestate per pedofilia e commercio di esseri umani alcune persone – appartenenenti all’organizzazione “L’Arca di Zoe” – che stavano portando in Francia 103 bambini. «Che fine dovessero fare quei bambini non si sa», ma l’allora presidente Sarkozy andò personalmente a trattare la liberazione degli arrestati per riportarli in patria. Gli operatori fermati avevano dichiarato che i bambini erano orfani provenienti dal Darfur. «Poi si è scoperto che erano figli di famiglie del Ciad, e i genitori erano ancora viventi». Da notare che “L’Arca di Zoe” «era sotto inchiesta anche in Francia, sospettata di trafficare in bambini per scopi tutt’altro che leciti». Non che da noi non esistano, retroscena analoghi: anzi, «in Italia inchieste così eclatanti non sono neanche mai iniziate». O meglio: quelle avviate «non sono state divulgate», sostiene Franceschetti: «Nel 2006 venne arrestato un avvocato romano, Alberto Gallo, per pedofilia. I giornali riporteranno la notizia come se si trattasse di un pedofilo isolato, ma in realtà faceva parte di un’organizzazione internazionale». Lo stesso Dutroux, in Belgio, era solo una pedina di queste potenti reti senza frontiere.
    Nel suo romanzo “La Loggia degli Innocenti”, il commisario Michele Giuttari – fermato a un passo dall’aver risolto il giallo del Mostro di Firenze – descrive un’organizzazione pedofila che fa capo al procuratore fiorentino, a cui (nella fiction) dà un nome non casuale: Alberto Gallo. «In altre parole, Giuttari lega chiaramente l’ex procuratore di Firenze Piero Luigi Vigna alla rete pedofila che era sotto inchiesta in quel periodo». E il nome della “loggia” allude chiaramente all’Ospedale degli Innocenti, «storico palazzo fiorentino dove da secoli è ospitato un centro che tutela i minori abbandonati». Un puzzle infinito, che coinvolgerebbe capi di Stato e ministri, teste coronate, ma anche «militari, magistratura e forze dell’ordine», senza contare i cardinali che negli Usa sono oggi al centro di un clamoroso scandalo, con migliaia di minori abusati. Il guaio, dice Franceschetti, è che il fenomeno “pedofilia internazionale” (con la variante del satanismo) è costantemente negato da quelli che sono «i massimi garanti del sistema in cui viviamo», alcuni dei quali poi finiscono in televisione, consultati come “esperti”. Franceschetti ricorda le parole che gli rivolse il figlio di un boss della ’ndrangheta: «Da noi c’è più legalità e giustizia. In Calabria e in Sicilia i bambini non si toccano; da voi al Nord, invece sì».
    Quella che può sembrare una follia oggi può assumere un terribile significato. La gente comune, dice Franceschetti, non si stupisce più di tanto se scopre che i vertici della politica hanno contatti organici con la mafia, ma non potrebbe tollerare lo spettacolo dell’altro orrore – quello perpetrato ai danni dei minori scomparsi. «Siamo disposti ad accettare che si scatenino guerre da milioni di morti in Iraq, Afghanistan, in Africa. In fondo, quelli sono negri. Che ce ne importa? Basta che non ci tolgano la partita di calcio della domenica. Ma probabilmente – aggiunge Franceschetti – se si venisse a sapere la verità sui bambini scomparsi, nessuno potrebbe reggere ad un simile shock. E allora sì, forse qualcuno comincerebbe a capire che il mondo in cui viviamo non funziona esattamente come i giornali e i mass media in genere ce lo descrivono». Ecco perché, probabilmente, quella realtà resta avvolta in tanta, misteriosa segretezza. E se la polizia ritrova 123 bambini in un colpo solo, i media archiviano la notizia “en passant”, senza scavare per capire cosa si nasconde dietro quell’enormità.

    Rapiti e poi “parcheggiati”, in attesa di essere massacrati. La polizia di Detroit li ha ritrovati tutti insieme: 123 bambini. Erano «in un grave stato di denutrizione e di sofferenza psicologica», scrive l’“Huffington Post”. Tuttavia, «dagli accertamenti svolti non sembrerebbe che siano stati vittime di violenze sessuali». Gli agenti hanno impiegato molte ore per rintracciare le loro famiglie e riconsegnare i piccoli, sequestrati nei giorni precedenti. Secondo il “New York Post”, gli inquirenti stavano indagando «su una rete di rapimenti di minori che poi venivano coinvolti in traffici sessuali». Quello che sorprende, di queste notizie – osserva Paolo Franceschetti – è che vengono date di sfuggita: «Poche righe, liquidate come se si trattasse di una notizia del tipo “Belen ha un nuovo fidanzato”. Il sindaco di Riace, reo di aver favorito (non si sa poi se vero o no) l’immigrazione clandestina, ce lo rifilano su tutti i giornali e in tutte le salse». E i bambini scomparsi, invece? E i nomi delle persone arrestate o coinvolte nella vicenda? In America, aggiunge Franceschetti, scompare un numero incredibile di minori. «Le pareti di autogrill e supermercati sono spesso tappezzate dalle foto e di persone scomparse nel nulla, da un momento all’altro, come se niente fosse».

  • Onfray: Besson, evasori e lacchè. L’oscena corte di Macron

    Scritto il 11/10/18 • nella Categoria: idee • (5)

    Vostra Altezza, Vostra Eccellenza, Vostra Serenità, Mio caro Manu, Mio Re, la stampa ha da poco riferito che tu hai nominato un mascalzone per rappresentare la nazione a Los Angeles. E, unico titolo di nobiltà diplomatica, dicono le malelingue, i gelosi e gli invidiosi, sarebbe un libro agiografico sulla tua campagna presidenziale. Al di fuori di questo fatto d’armi, tanto poco noto che nessuno ne conosce il titolo, la tua penna è una di quelle che si trovano nelle parti meno nobili della professione: il coccige, poiché è quella che manifesta più sovente il carattere inerente alla comunicazione istituzionale: la prosternazione. Da Sartre a BHL presso Sarko (dopo Mao), da Aragon a André Glucskmann presso lo stesso Sarko (anche lui dopo Mao), da Drieu de La Rochelle a Sollers presso Balladur (parimenti dopo Mao), da Brasillach a Kristeva presso il Bulgaro Jivkov (anche lei dopo Mao), gli ultimi cento anni ne hanno visti di scrivani dotati… per la genuflessione politica! Philippe Besson rientra in questa vecchia categoria dei valletti di penna, ma sappiamo ormai in che tipo di piumaggio risulti rilevante questo giovane uomo. Questo tipo di penna non è quello dei più talentuosi ma quello dei più venduti – io parlo dell’uomo, non dell’autore.

  • Magaldi: all’Ue serve Keynes (e a Martina uno psichiatra)

    Scritto il 10/10/18 • nella Categoria: idee • (19)

    Cercasi psichiatra per Maurizio Martina e i suoi colleghi del Pd. Un vero fenomeno, il successore di Renzi: «Si lamenta della rapacità del neo-capitalismo che ha impoverito gli italiani, ma poi contesta il governo gialloverde se appena prova a uscire dalle regole di ferro del “pilota automatico” che vieta il ricorso al deficit». E’ esterrefatto, Gioele Magaldi, di fronte alle ultime esternazioni di Martina: «Sembra psichicamente dissociato. Capisce quello che dice?». Ben diverse le posizioni espresse da esponenti della sinistra come Fausto Bertinotti, favorevole al reddito di cittadinanza così come Stefano Fassina e lo stesso Michele Emiliano, «che almeno ha avuto il coraggio di dissentire dal suo partito». Il centrosinistra? Nebbia: «Protesta contro il rigore, ma al tempo stesso vorrebbe che il governo Conte cedesse alle pressioni anti-italiane continuamente esercitate da Draghi, Mattarella, Visco, Juncker e Moscovici, proprio per impedire all’esecutivo di invertire la rotta e investire finalmente sul benessere del paese». Quanto ai “gialloverdi”, il presidente del Movimento Roosevelt è prudente: «Li sosteniamo, perché vanno nella giusta direzione pur avendo contro l’establishment e i media. Però devono avere più coraggio: guai, ad esempio, se pensano di compensare il deficit aumentando l’Irpef».
    Tra i peggiori in campo, come al solito, i media mainstream: ultimamente, dice Magaldi in collegamento web-streaming su YouTube con Marco Moiso, c’è chi arriva a citare Keynes come cattivo esempio (sprechi, assistenzialismo) dopo averlo letteralmente rimosso, lo stesso Keynes, padre dell’economia democratica moderna, propinando al pubblico la narrazione tragicamente ridicola del pensiero unico neoliberista, basata sulla favola dell’austerity espansiva: più si fanno tagli, più cresce “miracolosamente” il Pil. E’ indispensabile, sottolinea Magaldi, che l’anima keynesiana del governo Conte emerga in modo più deciso: e non mancano, specie nella Lega, gli economisti post-keynesiani come Alberto Bagnai. Se non bastasse, aggiunge il presidente del Movimento Roosevelt, bisognerà dare corpo a un nuovo partito ultra-keynesiano, che si batta per ripristinare la democrazia sociale in tutta Europa, con una governance democratica dell’economia, sancita da una vera Costituzione Europea. «Rifiutiamo la narrazione che vorrebbe contrapposti sovranisti-nazionalisti da una parte ed europeisti dall’altra: sono fasulli, i sedicenti europeisti che si contrappongono ai sovranisti, ed è un errore madornale lasciarsi incasellare nella categoria di comodo del “sovranismo”». Il nazionalismo? Un binario morto: «Non ha mai prodotto democrazia diffusa, ma solo inimicizia tra popoli».
    Per Magaldi, massone progressista, «abbiamo bisogno di un cosmopolitismo democratico, che contrasti la “politìa” post-democratica e neo-aristocratica che questi decenni di globalizzazione sbagliata hanno prodotto». Molto meglio una “glocalizzazione”, «che metta al primo posto la dignità del cittadino: ovunque, sotto ogni cielo del pianeta». Tra i soggetti che “remano contro” la svolta liberal-progressista di cui l’Italia avrebbe bisogno, Magaldi indica il capo dello Stato: «Io credo che Mattarella goda di credibilità soltanto presso chi non abbia riflettuto abbastanza su quello che dovrebbe essere il ruolo del presidente della Repubblica, e su come i suoi predecessori in questi anni abbiano avallato questa sorta di svendita della sovranità politica ed economica italiana a potentati privati». Perché di questo si tratta: «Dietro le maschere evanescenti e cialtronesche di diversi burocrati europei – aggiunge – si nascondo interessi privati: interessi apolidi, che predano la ricchezza di popoli, nazioni e interi continenti». Mattarella, continua Magaldi, viene esaltato da chi s’è ubriacato dall’idea che siano i mercati a doverci governare, e pensa che in fondo la linea dell’Europa è responsabile, e che si sono irresponsabili populisti i politici al governo, che osano proporre un rapporto deficit-Pil del 2,4% (inferiore al tetto stabilito a Maastricht).
    «Personalmente – insiste Magaldi – non ho alcuna stima politica nei confronti di Mattarella, che è un modestissimo personaggio, “pescato” da Renzi (altro modestissimo personaggio) su suggerimento di Draghi». Oggi il capo dello Stato incontra il presidente della Bce «come un maggiordomo che va a prendere gli ordini dal suo dante causa». Sicuri che sia ferrato, in materia economica, il capo dello Stato? «Probabilmente, Mattarella nulla capisce di economia: esegue degli ordini, per quanto riguarda la sua posizione sulla manovra economica del governo, ma ha anche un problema di insispienza, di limiti cognitivi». In definitiva, «è amato da gente che non capisce nulla di economia né di politica, e oltretutto spreca la propria devozione verso un personaggio che sicuramente non la merita – sottolinea Magaldi – anche perché ha attentato alla Costituzione già in occasione della mancata ratifica della nomina di Paolo Savona al ministero dell’economia». Una pagina estremanente controversa della cronaca politica recente: molti i giuristi che contestarono l’operato del Quirinale, in quella occasione, che spinse Di Maio – a caldo – a ventilare la richiesta di impeachment del presidente.
    «Continueremo a difendere la bontà del tentativo del governo Conte, che è comunque impegnato a fare qualcosa a conforto di una società italiana in difficoltà, fatta di famiglie e imprese», ribadisce Magaldi, che però non è soddisfatto del bilancio gialloverde. «Finora non c’è stata una narrazione netta, limpida, forte e lungimirante, del tipo: noi non siamo qui per discutere del 2,4 o 2,8%». Persino Salvini s’è abbassato, con fare rassicurante, a sottolineare che il deficit previsto dal Def è comunque inferiore a quello imposto dai parametri di Maastricht. Non ci siamo, protesta il presidente del Movimento Roosevelt: «Qui serve qualcos’altro, serve di più. Servirebbe qualcuno che dicesse: signori, guardate che quei parametri sono arbitrari. Dobbiamo fare grandi investimenti in infrastrutture, lo si è visto a Genova, e questo comporta che all’inizio il rapporto deficit-Pil sarà da aumentare di molte cifre, rispetto al 2,4%. E questo proprio nella prospettiva di rigenerare l’economia italiana, quindi anche di ridurre lo stesso debito pubblico (ma solo in prospettiva, perché il debito di uno Stato non è il debito di una famiglia)». E in più: «Eliminiamo alla radice il problema dello spread mediante l’emissione di eurobond».
    Una proposta forte dal governo Conte? «Potrebbe dire, come Italia: facciamo una Costituzione Europea. Facciamo dell’Italia il propulsore, in senso democratico, delle istituzioni europee». Sono questi, sottolinea Magadi, i temi che andrebbero affrontati sui tavoli di Bruxelles e Francoforte, «mettendo in scacco gli apparati tecnocratici e anche tutta l’opposizione al governo Conte». In altre parole, la maggioranza gialloverde si decida a evolvere «in una prospettiva che non sia sovranista, nazionalista, populista, mercanteggiatrice di pochi punti percentuali». O si abbandona questa narrativa di basso profilo, o non se ne esce. «E allora sarà inevitabile la costruzione di un partito politico che invece assuma su di sé l’onere di dire con chiarezza quello che va fatto, in termini radicali, e anche di aiutare Lega e Movimento 5 Stelle, e non solo: magari si sposasse davvero un’ottica keynesiana anche dalle parti del centrosinistra e del centrodestra, ne sarei contentissimo». Invece, Martina raccomanda l’eterno rigore europeo – esattamente come Tajani, portavoce del Cavaliere. «E allora – chiosa Magaldi – si mettano ufficialmente insieme e se lo facciano, il loro Partito della Nazione: prendano il 5% dei voti e “si levino dai cabbasìsi” come direbbe il Montalbano di Camilleri».

    Cercasi psichiatra per Maurizio Martina e i suoi colleghi del Pd. Un vero fenomeno, il successore di Renzi: «Si lamenta della rapacità del neo-capitalismo che ha impoverito gli italiani, ma poi contesta il governo gialloverde se appena prova a uscire dalle regole di ferro del “pilota automatico” che vieta il ricorso al deficit». E’ esterrefatto, Gioele Magaldi, di fronte alle ultime esternazioni di Martina: «Sembra psichicamente dissociato. Capisce quello che dice?». Ben diverse le posizioni espresse da esponenti della sinistra come Fausto Bertinotti, favorevole al reddito di cittadinanza così come Stefano Fassina e lo stesso Michele Emiliano, «che almeno ha avuto il coraggio di dissentire dal suo partito». Il centrosinistra? Nebbia: «Protesta contro il rigore, ma al tempo stesso vorrebbe che il governo Conte cedesse alle pressioni anti-italiane continuamente esercitate da Draghi, Mattarella, Visco, Juncker e Moscovici, proprio per impedire all’esecutivo di invertire la rotta e investire finalmente sul benessere del paese». Quanto ai “gialloverdi”, il presidente del Movimento Roosevelt è prudente: «Li sosteniamo, perché vanno nella giusta direzione pur avendo contro l’establishment e i media. Però devono avere più coraggio: guai, ad esempio, se pensano di compensare il deficit aumentando l’Irpef».

  • Magaldi: Draghi e Mattarella, il padrone e il maggiordomo

    Scritto il 09/10/18 • nella Categoria: idee • (8)

    Come va letta, la visita di Draghi a Mattarella? «Be’, come dire: il padrone è venuto a visitare il maggiordomo». Indovinato: è Gioele Magaldi a esprimersi in questi termini, per commentare l’insolita “capatina” al Quirinale, da parte del presidente della Bce, proprio mentre l’establihment finanziario, politico e mediatico spara sul governo Conte, che si è permesso di alzare il deficit al 2,4% del Pil – nella previsione 2019 del Def – sperando di cominciare a finanziare reddito di cittadinanza, taglio delle tasse e pensioni più decorose. La novità è che, dall’8 ottobre, Magaldi “esterna” – sempre di lunedì, alle 12 – sul canale YouTube di “Border Nights”, dopo l’improvvisa chiusura di “Massoneria On Air” da parte di “Colors Radio”, che ha licenziato il conduttore, David Gramiccioli. «L’editore, che in tre anni mi aveva lasciato la massima libertà – spiega lo stesso Gramiccioli, durante il collegamento con Fabio Frabetti – mi ha contestato il crollo del fatturato pubblicitario, legato anche a strutture sanitarie». Facile che a turbare gli sponsor sia stata l’offensiva giornalistica di Gramiccioli, che contro l’obbligo vaccinale introdotto dalla legge Lorenzin ha anche scritto e interpretato il fortunatissimo spettacolo teatrale “Il decreto”.
    Gramiccioli ha anche ospitato stabilmente Massimo Mazzucco, che smonta la versione ufficiale sull’11 Settembre. Ha dato spazio a Enrica Perucchietti, autrice di saggi su “fake news” e terrorismo “domestico” gestito da servizi segreti occidentali sotto falsa bandiera. E “Colors Radio” ha fatto audience ogni lunedì con Magaldi, che non ha esitato a svelare la cifra massonica (occulta) di tanti uomini di potere. Gianfranco Carpeoro, ospite con Gramiccioli della prima puntata di “Gioele Magaldi Racconta”, cita i “Promessi sposi”: elegante, Gramiccioli, nel non infierire sulla proprietà di “Colors Radio” che l’ha lasciato a piedi senza preavviso, e senza alcun rispetto per i tantissimi, affezionati ascoltatori. Ma certo, dice Carpeoro, il comportamento dell’editore ricorda quello di Don Abbondio. “Il coraggio, uno non se lo può dare”, scrive Manzoni. Specie se magari, come in questo caso, ha incontrato i “bravi”, che gli hanno fatto il loro discorsetto: via Gramiccioli, o niente più contratti pubblicitari. Onore al conduttore, in ogni caso, «ottimo giornalista e uomo dalla schiena diritta», lo saluta Magaldi. Che promette: la storia non finisce qui, naturalmente. Tanto per cominciare, la voce di Magaldi il lunedì mattina trasloca su “Border Nights”, grazie al tandem Carpeoro-Frabetti. E comunque, il progetto “Massoneria On Air” «riprenderà vita presto, vedremo come e dove».
    Anche perché il Movimento Roosevelt, di cui Magaldi è presidente, annuncia un impegno a tutto campo, anche sulla comunicazione. La missione è chiara: intanto, difendere il governo Conte e aiutarlo di fare di più e meglio. E’ vergognoso – dice Magaldi – che l’esecutivo gialloverde venga attaccato a reti unificate: per la prima volta, dopo l’orrenda stagione della Seconda Repubblica, un governo osa contestare la “teologia” del rigore, avanzando le prime proposte (ancora timide) per risollevare l’economia espandendo il deficit. «Le idee sono buone», riconosce lo stesso Carpeoro, nella speranza che poi «vengano effettivamente recepite nella finanziaria», vista la pericolosità dei super-poteri in azione, decisi a impedirlo con ogni mezzo. A fine novembre, annuncia Magaldi, lo stesso Movimento Roosevelt scenderà in campo – con un’assemblea generale a Roma – per presentare idee-forza da sottoporre poi al governo. In altre parole: siamo solo all’inizio della “primavera italiana”. Superati i primi scogli, poi i gialloverdi dovranno osare di più. E i circuiti massonici progressisti, di cui lo stesso Magaldi è portavoce, «si impegneranno a livello europeo per far sì che l’operato del governo italiano sia percepito in modo corretto», nonostante il fuoco d’interdizione cui è sottoposto ogni giorno dai grandi media, asserviti ai poteri oligarchici.
    Bei tempi, quando l’informazione italiana era affidata a professionisti come Stefano Andreani, prematuramente scomparso, cui Magaldi dedica un commosso ricordo. Stranissimo giornalista, Andreani, cattolico militante ma formatosi alla scuola di “Radio Radicale”: un uomo onesto, capace sempre di impedire alle proprie idee di intorbidire la verità destinata ai lettori. Esattamente il contrario dell’attuale deriva del post-giornalismo italico (gridato, fazioso, omertoso e bugiardo) che “bombarda” ogni giorno Di Maio e Salvini, in ossequio a poteri che poi, magari, impongono il licenziamento di un reporter coraggioso come Gramiccioli. Poteri forti, si capisce, che – ai piani alti – hanno il volto di Mario Draghi, supermassone «ascrivibile alla peggiore contro-iniziazione, che non manca certo di spessore e capacità strategica». Non come Mattarella, che politicamente «è un “maggiordomo” paramassone, come Enrico Letta», sintetizza Magaldi. Letta e Mattarella? «Figure ancillari e servizievoli, con poca autonomia e spessore di pensiero». Draghi in visita al capo dello Stato? Ovvio: «Fu Draghi a proporre Mattarella a Renzi, per il Quirinale, e quindi oggi Mattarella “prende ordini” da Draghi, talvolta per mezzo di Ignazio Visco», il governatore di Bankitalia. Ecco dunque, chiosa Magaldi, a cosa è servito l’incontro fra Draghi è Mattarella: ha permesso «che il padrone il suo maggiordomo concertassero qualche azione comune contro le pur labili, flebili innovazioni che questo governo sta cercando di introdurre».

    Come va letta, la visita di Draghi a Mattarella? «Be’, come dire: il padrone è venuto a visitare il maggiordomo». Indovinato: è Gioele Magaldi a esprimersi in questi termini, per commentare l’insolita “capatina” al Quirinale, da parte del presidente della Bce, proprio mentre l’establishment finanziario, politico e mediatico spara sul governo Conte, che si è permesso di alzare il deficit al 2,4% del Pil – nella previsione 2019 del Def – sperando di cominciare a finanziare reddito di cittadinanza, taglio delle tasse e pensioni più decorose. La novità è che, dall’8 ottobre, Magaldi “esterna” – sempre di lunedì, alle 12 – sul canale YouTube di “Border Nights”, dopo l’improvvisa chiusura di “Massoneria On Air” da parte di “Colors Radio”, che ha licenziato il conduttore, David Gramiccioli. «L’editore, che in tre anni mi aveva lasciato la massima libertà – spiega lo stesso Gramiccioli, durante il collegamento con Fabio Frabetti – mi ha contestato il crollo del fatturato pubblicitario, legato anche a strutture sanitarie». Facile che a turbare gli sponsor sia stata l’offensiva giornalistica di Gramiccioli, che contro l’obbligo vaccinale introdotto dalla legge Lorenzin ha anche scritto e interpretato il fortunatissimo spettacolo teatrale “Il decreto”.

  • Ho visto un Re: a piangere è Calabresi, “ferito” da Di Maio

    Scritto il 08/10/18 • nella Categoria: idee • (7)

    «E sempre allegri bisogna stare», cantava Jannacci, «ché il nostro piangere fa male al Re». Fa male «al ricco e al cardinale», al punto che «diventan tristi se noi piangiam». C’è qualcosa di più insopportabile del vittimismo (grottesco) da parte del potere che “chiàgne e fotte”? Nell’arcaico pantheon medievale evocato dall’immenso cantautore milanese non c’era ancora posto, ovviamente, per il giornalista. Senza contare che allora, nel mitico 1968 – quando quel brano fu composto – erano ancora in circolazione giornalisti veri e propri. Magari non erano infallibili neppure loro, ma si chiamavano Bocca, Biagi, Montanelli. Ciascuno amato o detestato, a seconda delle platee, ma tutti rispettati: non cantavano in nessun coro e, nel caso, “sbagliavano” in proprio, senza prendere ordini dall’editore, dal partito, dall’establihment. Erano i tempi in cui sul “Corriere” scriveva Pasolini. Si era lontani anni luce dalle “carte false” che poi Giampaolo Pansa avrebbe messo alla berlina, denunciando la vocazione al servilismo che avrebbe fatalmente rovinato il giornalismo italiano, trasformandolo in docile strumento di propaganda.
    Giornali a fari spenti nella notte: tutti addosso ai ladri di polli di Tangentopoli, senza vedere il furto vero e colossale – sovranità, democrazia – messo a segno nel frattempo dall’élite finto-europeista. Oggi è diverso, è persino peggio: non si può più dire che i giornali sbaglino, non vedano, non capiscano. Oggi i giornali picchiano. Malmenano il nemico del padrone, ogni giorno, spudoratamente. Il primo a farlo è “Repubblica”, quotidiano fondato dall’ex fascista e poi socialista Scalfari, quindi a lungo diretto da quell’Ezio Mauro che demolì Berlusconi per i sexgate di Arcore, trasformando l’ultimo premier italiano eletto in qualcosa di cui gli anti-italiani Merkel e Sarkozy potevano ridere, proprio mentre si preparavano a spedire in Italia il loro uomo, Mario Monti, per inguaiare famiglie e aziende mettendo in ginocchio il sistema-Italia, comodamente spolpato da Germania e Francia, tra una risata e l’altra. Ridotta in macerie la politica – il populista Renzi, dopo il “sicario” Monti – oggi la ribellione di un paese scientificamente impoverito, terremotato dall’euro-crisi pilotata dai poteri che controllano la Bce, si esprime in modo grossolano per bocca di Salvini e Di Maio, il quale ha addirittura l’ardire di denunciare apertamente che il Re è nudo: tutto racconta, fuor che la verità. Apriti cielo: l’attuale direttore di “Repubblica”, Sergio Calabresi, apre il fazzoletto.
    Niente manganello, per una volta, ma fiumi di lacrime: i «nuovi potenti», singhiozza Calabresi, si sono accorti che – grazie al web – oggi «possono sperare di realizzare il sogno di ogni governante della storia: liberarsi dei corpi intermedi, delle critiche e delle domande scomode». Se queste parole fossero lette da archeologi fra tremila anni, e se non fosse più rintracciabile nessuna copia di “Repubblica”, nessuna prima pagina e nessun editoriale, qualcuno potrebbe persino prenderlo sul serio, Calabresi. Cosa ha detto, il mai impeccabile Di Maio? Due verità sacrosante. La prima: i giornali come “Repubblica” non fanno più informazione ma solo propaganda, spacciando “fake news”. La seconda: per fortuna, non li legge più nessuno. Esatto: vendono un terzo, un quarto delle copie che vendevano ai tempi di Biagi, Bocca e Montanelli, all’epoca in cui Ilaria Alpi faceva giornalismo d’inchiesta in Somalia, e in televisione campeggiavano Renzo Arbore e Gianni Minà. Persino i comici facevano pensare: Paolo Villaggio, Cochi e Renato diretti dallo stesso Jannacci (oggi il pubblico deve rassegnarsi a Crozza, che riesce a trasformare in eroe il sindaco di Riace, paragonandolo nientemeno che ai partigiani che “violarono la legge”, quando la legge era quella di Hitler).
    «Siamo “pericolosi”», dice Di Maio, perché i gialloverdi – raccontando il contrario della versione unilaterale dell’establishment – invadono (con verità insopportabili) quello che i giornali «considerano il loro territorio, la loro prateria». Per fortuna, aggiunge, «ci siamo vaccinati anni fa dalle bufale, dalle “fake news” dei giornali, e si stanno vaccinando anche tanti altri cittadini». Sarà per questo che il sistema sta aumentando le dosi di chemioterapia quotidiana con cui accecare il pubblico? Come spiegare diversamente la mostruosa tecnocrate Elsa Fornero trasformata in guru dell’economia dal valletto Floris, o l’inaudito Cottarelli – uomo del Fmi, coinvolto nella rovina della Grecia – venerato settimanalmente nel felpato salottino di Fazio? Ma il problema non è la fogna a cui è ridotto il mainstream italiano. Macchè, il problema è il minaccioso, terribile Di Maio. «Non abbiamo paura», proclama Calabresi, asciugandosi le lacrime copiosamente sparse. «Siamo preoccupati per noi e per il paese, per lo scadimento del dibattito che avvelena l’opinione pubblica». Lo scadimento di quale dibattito, please? Ai gialloverdi, il mainstream ha solo e sempre tolto il microfono dalle mani, presentandoli come appestati, folli, velleitari, cialtroni, razzisti e sessisti, violenti e scellerati, incompetenti. E’ accaduto l’impensabile, ecco il punto: oggi sono al governo, i mascalzoni. Non potendoli più ignorare, li si prende a cannonate dal mattino alla sera, a reti unificate.
    Non è cambiato, lo schema del regime insediato in Italia dopo la rimozione forzata, per via giudiziaria, dei politici della Prima Repubblica: ad avere l’ultima parola non sono gli elettori, ma il “vincolo esterno” in base al quale l’oligarchia europea governa l’Italia al posto del governo italiano, sorretta dall’establihment locale (politico, industriale, finanziario e, naturalmente, mediatico). L’algido Ferruccio De Bortoli lancia anatemi e auspica il ritorno alle Crociate: guai, se il governo italiano dovesse spuntarla contro Bruxelles sulla storia del deficit al 2,4%. L’opinione pubblica è strettamente sorvegliata da ex giornalisti come Lilli Gruber, in quota al Bilderberg, come ieri lo era da Monica Maggioni, presidente della Rai, oggi a capo della sezione italiana della Trilaterale. E se alla Rai gli impudenti Salvini e Di Maio riescono a piazzare un non-allineato come Foa, un giornalista indipendente, sono dolori: il mite Marcello Foa diventa, in un battibaleno, una specie di pericoloso terrorista. La sua colpa? Di tanti colleghi, ha la stessa opinione di Di Maio: venduti a un potere che ormai se ne frega, della democrazia. E se qualcosa per una volta va storto, se cioè la democrazia vince davvero, i nuovi eletti vanno abbattuti, anche per dare una lezione ai maledetti italiani che, dopo averli votati, hanno pure il coraggio di continuare a sostenerli.
    Non c’è bisogno di ricordare che ognuno ha il diritto di coltivare qualsiasi opinione, purché non leda l’altrui libertà. A proposito di Crociate, il conte di Tolosa – che difendeva la libertà di religione nel Midi pre-francese – protestò per la “desmisura” con cui veniva oppresso dal potere vaticano, folle di rabbia per la scelta dei tolosani di difendere i diritti religiosi dei Catari. “Desmisura”, in occitano medievale, significa questo: violare le regole, soffocare l’avversario, negargli la possibilità di esistere come soggetto pensante. Una tentazione totalitaria, che – secondo Simone Weil – in quel drammatico inizio del 1200 gettò il seme velenoso dei peggiori incubi europei dei Novecento. Soffocare le voci altrui: non un fiato, dalle testate dirette da uomini come Calabresi, s’è levato contro l’infame legge europea sul copyright, promossa dal galantuomo tedesco Günther Oettinger. Bavaglio al web: social media e motori di ricerca saranno costretti a bloccare la circolazione di idee scomode. E’ proprio lo stesso Oettinger che disse che sarebbero stati “i mercati”, i signori dello spread, a insegnare agli italiani come votare. Per questo, come cantava Jannacci, è meglio non fidarsi delle lacrime del Re: quello del lupo che si mette a piangere, travestito da agnello, è uno spettacolo esteticamente osceno, prima ancora che ipocrita sul piano politico.

    «E sempre allegri bisogna stare», cantava Jannacci, «ché il nostro piangere fa male al Re». Fa male «al ricco e al cardinale», al punto che «diventan tristi se noi piangiam». C’è qualcosa di più insopportabile del vittimismo (grottesco) da parte del potere che “chiàgne e fotte”? Nell’arcaico pantheon medievale evocato dall’immenso cantautore milanese non c’era ancora posto, ovviamente, per il giornalista. Senza contare che allora, nel mitico 1968 – quando quel brano fu composto – erano ancora in circolazione giornalisti veri e propri. Magari non erano infallibili neppure loro, ma si chiamavano Bocca, Biagi, Montanelli. Ciascuno amato o detestato, a seconda delle platee, ma tutti rispettati: non cantavano in nessun coro e, nel caso, “sbagliavano” in proprio, senza prendere ordini dall’editore, dal partito, dall’establihment. Erano i tempi in cui sul “Corriere” scriveva Pasolini. Si era lontani anni luce dalle “carte false” che poi Giampaolo Pansa avrebbe messo alla berlina, denunciando la vocazione al servilismo destinata a rovinare fatalmente il giornalismo italiano, trasformandolo in docile strumento di propaganda.

  • Vaccini, massoni e tabù: Colors Radio licenzia Gramiccioli

    Scritto il 02/10/18 • nella Categoria: segnalazioni • (5)

    Perdi il posto, se insisti nel cercare la verità? Le forti pressioni subite avrebbero costretto l’editore di “Colors Radio” a licenziare il conduttore David Gramiccioli, direttore artistico dell’emittente. Sempre in prima linea sui temi più scomodi, Gramiccioli, a partire dalla battaglia civile contro l’obbligo vaccinale introdotto dal governo Gentiloni attraverso Beatrice Lorenzin – da cui lo spettacolo “Il decreto”, scritto e interpretato dallo stesso Gramiccioli, “sold out” nei teatri di tutta Italia. Ma non solo: vero e proprio mattatore di “Colors Radio”, Gramiccioli ha dato grande visibilità ai temi più difficili da trattare, come la polemica su “fake news” e terrorismo “false flag” sollevata dalla giornalista torinese Enrica Perucchietti, o le grandi falsificazioni del mainstream – a partire da quella sull’11 Settembre – denunciata dal documentarista Massimo Mazzucco, cui Gramiccioli aveva riservato una rubrica settimanale. Il licenziamento del conduttore “spegne” anche la voce radiofonica di Gioele Magaldi, che attraverso la rubrica “Massoneria On Air” ha potuto svelare la cifra massonica (occulta, e spesso oligarchica) dei maggiori protagonisti della politica, quella da cui giornali e televisioni stanno sempre a distanza di sicurezza, grazie al noto fenomeno dell’autocensura preventiva – mai disturbare il manovratore.
    «Permetteteci di esprimere subito la nostra solidarietà nei confronti del collega David Gramiccioli, che ha diffuso la notizia del suo licenziamento», afferma Fabio Frabetti di “Colors Radio” nella video-chat settimanale con Massimo Mazzucco, su YouTube. Una realtà radiofonica, quella di “Colors Radio”, che si stava affermando: grazie a Gramiccioli, «era diventata un vettore molto importante, per quanto riguarda il discorso vaccini e non solo». Purtroppo, gli fa eco lo stesso Mazzucco, «la storia di David è costellata da situazioni del genere: credo che questa sia la quarta o quinta volta che gli succede di essere licenziato per questi motivi». Mazzucco ricorda la sua prima intervista con Gramiccioli, a poca distanza dall’attentato alle Torri Gemelle, per quella che allora si chiamava “Radio Spazio Aperto”: si cominciava appena, a parlare di “verità non ufficiale” sull’11 Settembre, e Gramiccioli era già “sul pezzo”. «Poi le pressioni sono cresciute, la trasmissione è stata chiusa e il conduttore è stato costretto a licenziarsi». Il problema? Gramiccioli «tratta temi veramente scomodi: non solo l’11 Settembre ma anche la pedofilia, specie quella nella Chiesa», spiega Mazzucco. All’inizio le radio libere gli danno carta bianca, «ma appena lui guadagna ascolti – come stava succededo ora, con “Colors Radio” – qualcuno comincia a fare pressioni perché smetta di parlare di argomenti tanto delicati».
    A quel punto, continua Mazzucco, «l’editore si trova tra l’incudine e il martello, e comunica a Gramiccioli: “Guarda che mi stanno facendo pressioni: o la smetti o devo licenziarti”. Ma David è una persona con la schiena dritta, e risponde: io vado avanti. Così finisce regolarmente senza lavoro». Purtroppo, sottolinea Mazzucco, questo dimostra che, tanto per cominciare, «il discorso sui vaccini è veramente insidioso: oltre una certa soglia di attenzione non si può andare». Facile anche dedurre che Gramiccioli «abbia pagato il grande successo del suo spettacolo, “Il decreto”, che ha portato in tutta Italia: racconta la vera storia del decreto Lorenzin, di come è nato e di cosa c’è dietro. Io l’ho visto – conferma Mazzucco – ed è uno spettacolo veramente devastante, per quelli che sostengono la versione ufficiale sui vaccini, perché c’è dietro una storia di conflitto d’interessi che è veramente enorme». Gramiccioli, evidentemente, «si è creato dei nemici ad alto livello». Il che è un titolo di merito, se uno fa davvero il giornalista: permette al pubblico di scoprire verità che gli altri non raccontano mai.
    Informazione libera? Una rosa piena di spine: «Se c’è di mezzo la pubblicità, cominciano i condizionamenti», osserva Mazzucco: «Se devi pagare stipendi finisci per dipendere dalla pubblicità, e può succedere che ti si chieda di “sacrificare” certe trasmissioni che danno fastidio a chi comanda». Come si finisce nel mirino dei censori? Basta uscire dal “frame” citato da Marcello Foa, ora presidente Rai, nella sua coraggiosa polemica sulle viltà quotidiane dei media mainstream. Nelle notizie c’è sempre un “frame” (una cornice, un telaio ben preciso) all’interno del quale si deve restare, con qualunque argomentazione, sui grandi media. «Ma appena esci fuori da quel “frame”, da quella cornice – sottolinea Mazzucco – la notizia diventa tabù: certi argomenti non si possono più trattare, se affrontati in modo autonomo». Brutta storia: «Ci sembra sempre di avere una grande libertà di stampa solo perché viviamo – ci dicono – in un paese libero, in democrazia. Ma se appena esci fuori da quelle rotaie ti segano le caviglie», conclude Mazzucco, sicuro – comunque – che lo «spirito libero» di David Gramiccioli (già sommerso di attestazioni di solidarietà) gli ispirerà nuove avventure, come sempre dalla parte di quella verità che i grandi media temono, e di cui il pubblico ha sempre più bisogno.

    Perdi il posto, se insisti nel cercare la verità? Le forti pressioni subite avrebbero costretto l’editore di “Colors Radio” a licenziare il conduttore David Gramiccioli, direttore artistico dell’emittente. Sempre in prima linea sui temi più scomodi, Gramiccioli, a partire dalla battaglia civile contro l’obbligo vaccinale introdotto dal governo Gentiloni attraverso Beatrice Lorenzin – da cui lo spettacolo “Il decreto”, scritto e interpretato dallo stesso Gramiccioli, “sold out” nei teatri di tutta Italia. Ma non solo: vero e proprio mattatore di “Colors Radio”, Gramiccioli ha dato grande visibilità ai temi più difficili da trattare, come la polemica su “fake news” e terrorismo “false flag” sollevata dalla giornalista torinese Enrica Perucchietti, o le grandi falsificazioni del mainstream – a partire da quella sull’11 Settembre – denunciata dal documentarista Massimo Mazzucco, cui Gramiccioli aveva riservato una rubrica settimanale. Il licenziamento del conduttore “spegne” anche la voce radiofonica di Gioele Magaldi, che attraverso la rubrica “Massoneria On Air” ha potuto svelare la cifra massonica (occulta, e spesso oligarchica) dei maggiori protagonisti della politica, quella da cui giornali e televisioni stanno sempre a distanza di sicurezza, grazie al noto fenomeno dell’autocensura preventiva – mai disturbare il manovratore.

  • Sinistra neoliberista? Impossibile. Ditelo, ai morti del Pd

    Scritto il 01/10/18 • nella Categoria: idee • (4)

    Il Pd si sta macerando in una dolorosa e lunga agonia senza sbocco. Quello che li tormenta sono due cose: il nome del segretario e se e con quali alleati andare alle elezioni, senza rendersi conto che tanto l’una quanto l’altra cosa sono gli ultimi problemi in una situazione del genere. Il punto è la prospettiva politica che manca. I dirigenti del Pd, se volessero davvero fare il loro dovere, dovrebbero chiedersi in un convento in alta montagna e, cinti di cilicio e muniti di flagellum, autoflagellarsi chiedendosi ad alta voce: «Ma come abbiamo fatto a consegnare il paese a questa maggioranza?». Se poi gli venisse difficile autoflagellarsi, potrebbero chiedere aiuto e sarei pronto a dargli una mano. Loro si dividono in due correnti principali: i renziani, per i quali la colpa è dell’elettorato (che si è sbagliato a votare) e gli anti-renziani, che ammettono che a sbagliarsi è stato il Pd che «non ha saputo comunicare». E hanno torto tutti e due, perché non l’elettorato, ma il Pd, si è sbagliato – e non perché non ha saputo comunicare, ma perché ha fatto una politica di merda. Scusate la rudezza dell’espressione, ma la politica del Pd nell’ultima legislatura non merita altro appellativo.
    Il Pd è destinato a scomparire perché non è in grado di riconoscere i suoi errori e, perciò stesso, è condannato a ripeterli. Ad esempio, Martina è un bravissimo ragazzo animato dalle migliori intenzioni, Zingaretti ci mette molta buona volontà, Franceschini mostra segni di pentimento per aver spalleggiato Renzi (del quale non parlo nemmeno), ma tutti si ostinano a giocare la carta della “sinistra interna al sistema”, senza rendersi conto che nel sistema neoliberista (in particolare in tempi di crisi) non c’è spazio per alcuna sinistra. Il neoliberismo è un ordinamento costitutivamente di destra, che non ammette altro da sé, e la sinistra non può che collocarsi al di fuori di esso e lavorare per il suo crollo. E questo ha una serie di implicazioni, che vanno dall’atteggiamento verso l’attuale Unione Europea (con quel gioiello che è la sua moneta) sino alla politica delle privatizzazioni, al come affrontare l’immigrazione, eccetera.
    Ma il Pd ha le risorse intellettuali, la volontà politica, il coraggio per affrontare simili questioni? Non credo. E allora perché gli elettori dovrebbero tornare a votarlo? Per anni questo è accaduto perché ha retto l’incanto del “partito di sinistra” che era l’alternativa alla destra, pur con i suoi cedimenti occasionali. Ma, una volta chiarito che non di cedimenti occasionali si trattava e rotto l’incanto della alternativa, non c’è più niente da fare: gli incanti, una volta spezzati, non si ricompongono mai più. La situazione attuale si spiega in poche poverissime parole: Pd e Forza Italia sono stati il male, M5S e Lega sono il rimedio sbagliato di cui dobbiamo liberarci, ma non certo per tornare indietro. Serve altro, serve roba nuova.
    (Aldo Giannuli, “Perché il Pd è destinato a morire”, dal blog di Giannuli del 26 settembre 2018).

    Il Pd si sta macerando in una dolorosa e lunga agonia senza sbocco. Quello che li tormenta sono due cose: il nome del segretario e se e con quali alleati andare alle elezioni, senza rendersi conto che tanto l’una quanto l’altra cosa sono gli ultimi problemi in una situazione del genere. Il punto è la prospettiva politica che manca. I dirigenti del Pd, se volessero davvero fare il loro dovere, dovrebbero chiedersi in un convento in alta montagna e, cinti di cilicio e muniti di flagellum, autoflagellarsi chiedendosi ad alta voce: «Ma come abbiamo fatto a consegnare il paese a questa maggioranza?». Se poi gli venisse difficile autoflagellarsi, potrebbero chiedere aiuto e sarei pronto a dargli una mano. Loro si dividono in due correnti principali: i renziani, per i quali la colpa è dell’elettorato (che si è sbagliato a votare) e gli anti-renziani, che ammettono che a sbagliarsi è stato il Pd che «non ha saputo comunicare». E hanno torto tutti e due, perché non l’elettorato, ma il Pd, si è sbagliato – e non perché non ha saputo comunicare, ma perché ha fatto una politica di merda. Scusate la rudezza dell’espressione, ma la politica del Pd nell’ultima legislatura non merita altro appellativo.

  • Strinati: poesia per Nino Polifroni, l’eroe che rifiutò il racket

    Scritto il 30/9/18 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    «E’ logico che prima o poi un figlio raggiunga il padre sotto molti aspetti. Uno di questi è l’età. In quest’anno siamo coetanei. Lui si è fermato per aspettarmi, io da venti corro per raggiungerlo». Con queste parole, nel 2016, Bruno Polifroni ricordava il ventennale del sacrificio del padre, Antonino Polifroni, assassinato dalla ‘ndrangheta il 30 settembre 1996 a Varapodio, nella piana di Gioia Tauro. Aveva 49 anni. La sua colpa? Essersi rifiutato di pagare il pizzo alle ‘ndrine, denunciando alle forze dell’ordine i signori del racket calabrese. Padre di sei figli e imprenditore edile, fu sottoposto – insieme alla famiglia – a un autentico inferno, fatto di intimidazioni e attentati. Prima di essere “giustiziato” a colpi di lupara mentre viaggiava verso uno dei suoi cantieri, fece in tempo a diventare un simbolo della resistenza, in Calabria, al dominio della criminalità organizzata. In esclusiva per “Libreidee”, il poeta Fabio Strinati gli dedica un commosso ricordo, in versi, sottolineando il valore civile e il tratto umano di un italiano speciale, capace di anteporre il coraggio della dignità alla paura delle feroci ritorsioni alle quali si sarebbe esposto. Nel 1992 – quando ancora si sapeva poco, del potere della ‘ndrangheta – la tensione raggiunse il culmine: Nino Polifroni su preso a fucilate, prima alla guida di un camion e poi sulla porta di casa, rimediando gravi ferite. L’imprenditore non si piegò al terrore, fino al tragico epilogo che lo attendeva, quattro anni più tardi.
    «Ora che è successo – scrive il figlio, Bruno – posso meditare sulla sua storia da una diversa angolatura: prima d’ora, da figlio cercavo di immaginare il suo punto di vista, da persona ormai matura negli anni, e a come si potesse sentire quando era continuamente vessato dalla ‘ndrangheta. Ora che siamo “coetanei”, ho riavuto poche settimane fa il coraggio di rispolverare documenti e registrazioni del 1992: volevo risentire e studiare le sue reazioni nei momenti più bui, quando era giornalmente minacciato insieme ai suoi figli e qualche delinquente tentava di estorcergli denaro». Aggiunge Bruno: «Ho riascoltato le sue parole, il suo fiatone nel tentare di mantenere la calma, la tensione nel non sapere fare altro per combattere quel nemico invisibile». Li avrebbero presi, i maledetti killer: Bruno Polifroni ne era certo. «Caro papà, hai avuto coraggio e determinazione», scrive. «Senza la tua tenacia, oggi, invece di essere tutti qui a ricordarti ci saremmo occupati solo di vivere una normale giornata di settembre. E spesso ci siamo arrabbiati con te, perché più volte siamo caduti nell’errore di pensare che avremmo preferito fosse così. Ma mentre ti raggiungevo nell’età ho capito che nulla succede per caso e ogni storia ha il proprio significato da mostrare: grazie per averci insegnato a vivere e a farlo da persone libere. Se tu non ti fossi sacrificato per noi, oggi saremmo ancora imprigionati e schiavi di quei delinquenti. Grazie, papà».
    AD ANTONINO POLIFRONI
    Uomini senza cuore
    hanno chiuso il tuo sguardo
    posando un delitto scuro
    sopra la tua anima
    onesta ed integerrima.
    Uomini strani d’infima natura
    hanno spento con violenza
    i tuoi occhi vitali
    immersi di una luce chiara
    nutriti di memoria
    dentro una terra calda
    e assolata di natura…,
    ma quel ricordo vivo, denso
    di un coraggio fertile
    e di tanta premura che nel tuo petto
    ancora rintocca l’alba del mattino,
    mi ricorda il tuo esser fiero
    che di decoro s’è nutrito
    come materia di perpetua luce
    il tuo palpito infinito, smisurato
    come un fascio di biluce.
    (Fabio Strinati)
    Fabio Strinati (Esanatoglia, 1983) è poeta, artista visivo, compositore e fotografo. È presente in diverse riviste e antologie letterarie. Da ricordare “Il Segnale”, rivista letteraria fondata a Milano dal poeta Lelio Scanavini, la rivista  Fabio Strinati“Sìlarus” fondata da Italo Rocco, e “Osservatorio Letterario – Ferrara e L’Altrove”. È stato inserito da Margherita Laura Volante nel volume “Ti sogno, Terra”, viaggio alla scoperta di Arte Bellezza Scienza e Civiltà, inserito nei “Quaderni del Consiglio Regionale delle Marche”. Sue poesie sono state tradotte in romeno e in spagnolo. È inoltre il direttore della collana poesia per “Il Foglio Letterario” e cura una rubrica poetica dal nome “Retroscena”, proprio sulla Rivista trimestrale del “Foglio Letterario”. Pubblicazioni: “Pensieri nello scrigno. Nelle spighe di grano è il ritmo” (2014); “Un’allodola ai bordi del pozzo” (2015); “Dal proprio nido alla vita” (2016); “Al di sopra di un uomo” e “Periodo di transizione” (2017), “Aforismi scelti Vol.2” e “L’esigenza del silenzio” (2018).

    «E’ logico che prima o poi un figlio raggiunga il padre sotto molti aspetti. Uno di questi è l’età. In quest’anno siamo coetanei. Lui si è fermato per aspettarmi, io da venti corro per raggiungerlo». Con queste parole, nel 2016, Bruno Polifroni ricordava il ventennale del sacrificio del padre, Antonino Polifroni, assassinato dalla ‘ndrangheta il 30 settembre 1996 a Varapodio, nella piana di Gioia Tauro. Aveva 49 anni. La sua colpa? Essersi rifiutato di pagare il pizzo alle ‘ndrine, denunciando alle forze dell’ordine i signori del racket calabrese. Padre di sei figli e imprenditore edile, fu sottoposto – insieme alla famiglia – a un autentico inferno, fatto di intimidazioni e attentati. Prima di essere “giustiziato” a colpi di lupara mentre viaggiava verso uno dei suoi cantieri, fece in tempo a diventare un simbolo della resistenza, in Calabria, al dominio della criminalità organizzata. In esclusiva per “Libreidee”, il poeta Fabio Strinati gli dedica un commosso ricordo, in versi, sottolineando il valore civile e il tratto umano di un italiano speciale, capace di anteporre il coraggio della dignità alla paura delle feroci ritorsioni alle quali si sarebbe esposto. Nel 1992 – quando ancora si sapeva poco, del potere della ‘ndrangheta – la tensione raggiunse il culmine: Nino Polifroni fu preso a fucilate, prima alla guida di un camion e poi sulla porta di casa, rimediando gravi ferite. L’imprenditore non si piegò al terrore, fino al tragico epilogo che lo attendeva, quattro anni più tardi.

  • Becchi e Palma: via il Fiscal Compact, torniamo a crescere

    Scritto il 28/9/18 • nella Categoria: idee • (5)

    La guerra sui numeri che impazza in questi giorni su Tv e giornali ha un nome ed un cognome: Fiscal Compact. Di cosa si tratta? Di un trattato intergovernativo, firmato il 2 marzo 2012 per il nostro paese da Mario Monti, con il quale ci impegnavano al pareggio di bilancio e a ridurre il rapporto debito pubblico/Pil di un ventesimo all’anno. L’Italia subiva le conseguenze del colpo di Stato con il quale era stato fatto cadere l’ultimo governo Berlusconi e, in deroga ai trattati istitutivi dell’Unione (Maastricht e Lisbona), si impegnava a fare pareggio di bilancio, cioè zero spesa a deficit. Il governo Monti – tra il plauso dei media – sottoscrisse quel trattato intergovernativo imponendo la cosiddetta austerità. Anche se nessuno oggi lo ricorda, è per questo che ormai da diversi anni i governi italiani fanno a braccio di ferro con Bruxelles per elemosinare lo “zero virgola” in più. Il Fiscal Compact – ribadiamolo – è un trattato intergovernativo, quindi non rientra formalmente nei trattati dell’Unione Europea. Tuttavia, il secondo comma dell’articolo 2 del trattato – sul punto – è chiarissimo: «Il presente trattato si applica nella misura in cui è compatibile con i trattati su cui si fonda l’Unione Europea e con il diritto dell’Unione Europea. Esso non pregiudica la competenza dell’Unione in materia di unione economica».
    Bene. Se il Fiscal Compact, per sua stessa previsione, è applicabile solo se compatibile con i trattati su cui si fonda l’Unione Europea, va da sé che sia palesemente nullo. Vediamo perché. I trattati istitutivi della Ue, su tutti quello di Maastricht e successivamente quello di Lisbona, prevedono che ciascuno Stato possa spendere a deficit nella misura del 3% del rapporto deficit pubblico/Pil. Poco, a dire il vero, ma in linea di principio non è austerità. Vi è di più. Maastricht e Lisbona prevedono anche che gli Stati possano andare oltre il tetto del 3% quando la spesa a deficit riguarda investimenti produttivi ad alto impatto sul prodotto interno lordo. Una eccezione limitata e temporanea, alla quale hanno fatto ricorso più volte nel corso degli anni Germania, Francia, Spagna e Regno Unito, senza che nessuno battesse ciglio. L’Italia, invece, dal 2007 in avanti si è (con poche eccezioni) tenuta sotto la soglia del 3%. Il Fiscal Compact, però, in quanto non conforme ai trattati istitutivi della Ue, è nullo – come scriveva qualche anno fa Giuseppe Guarino, e oggi tutti se lo sono dimenticati. Un trattato intergovernativo, che per suo stesso espresso richiamo va applicato finché sia compatibile coi trattati istitutivi dell’Unione, deve essere ritenuto nullo dal governo italiano in quanto non conforme alle fonti del diritto gerarchicamente superiori, cioè i trattati istitutivi.
    Stando così le cose, la guerra sui numeri non ha alcun senso. Il Def predisposto dal governo Gentiloni-Padoan aveva previsto, per il 2019, un rapporto deficit-Pil dello 0,8% (corretto allo 0,9%). Il ministro dell’economia dell’attuale governo, Giovanni Tria, vorrebbe fare invece l’1,6%, una soglia più alta ma non sufficiente per portare a compimento le misure più incisive del “contratto di governo”. Che fare, quindi? La decisione è politica e spetta ai due vicepresidenti del Consiglio. Si dovrebbe a nostro avviso procedere con la denuncia unilaterale del Fiscal Compact e tornare – per ora realisticamente – almeno ai parametri di Maastricht. Dall’anno prossimo la musica potrà cambiare. Con un Europarlamento e una Commissione Europea meno invasive si potrà mettere mano anche alla soglia del 3%. Tria o non Tria, qui bisogna iniziare a capire che il ministro dell’economia non può limitarsi a far quadrare conti, altrimenti ci saremmo tenuti Monti e Padoan. Nell’anno del referendum costituzionale, Renzi portò il rapporto deficit-Pil al 2,5% dando agli insegnanti e ai diciottenni la mancetta elettorale dei 500 euro per i concerti. Una misura fatta solo per strappare qualche consenso. Salvini e Di Maio vorrebbero invece arrivare poco sotto il 3% per ridurre le tasse alle partite Iva, abbassare un po’ l’età pensionabile e ridare dignità a chi resta senza lavoro o lo sta cercando. Se rinunciano a questo inizieranno a perdere consensi. Rinunciare al proprio bilancio di Stato significa rinunciare ad essere uno Stato. Bisogna avere coraggio e cominciare a fare l’interesse nazionale. Questo si aspettano gli italiani da un governo sovranista.
    (Paolo Becchi e Giuseppe Palma, “Liberiamoci dal Fiscal Compact e torneremo a crescere, il ministro Tria abbia maggiore coraggio”, da “Scenari Economici” del 26 settembre 2018).

    La guerra sui numeri che impazza in questi giorni su Tv e giornali ha un nome ed un cognome: Fiscal Compact. Di cosa si tratta? Di un trattato intergovernativo, firmato il 2 marzo 2012 per il nostro paese da Mario Monti, con il quale ci impegnavano al pareggio di bilancio e a ridurre il rapporto debito pubblico/Pil di un ventesimo all’anno. L’Italia subiva le conseguenze del colpo di Stato con il quale era stato fatto cadere l’ultimo governo Berlusconi e, in deroga ai trattati istitutivi dell’Unione (Maastricht e Lisbona), si impegnava a fare pareggio di bilancio, cioè zero spesa a deficit. Il governo Monti – tra il plauso dei media – sottoscrisse quel trattato intergovernativo imponendo la cosiddetta austerità. Anche se nessuno oggi lo ricorda, è per questo che ormai da diversi anni i governi italiani fanno a braccio di ferro con Bruxelles per elemosinare lo “zero virgola” in più. Il Fiscal Compact – ribadiamolo – è un trattato intergovernativo, quindi non rientra formalmente nei trattati dell’Unione Europea. Tuttavia, il secondo comma dell’articolo 2 del trattato – sul punto – è chiarissimo: «Il presente trattato si applica nella misura in cui è compatibile con i trattati su cui si fonda l’Unione Europea e con il diritto dell’Unione Europea. Esso non pregiudica la competenza dell’Unione in materia di unione economica».

  • Foa in Rai: che succede quando un eretico sale al potere?

    Scritto il 27/9/18 • nella Categoria: idee • (4)

    Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.
    C’è qualcosa di meta-politico, di profondamente eversivo, nella sola idea di aver pensato a un cavaliere solitario e coltissimo come Foa, giornalista di razza e gentiluomo, per la presidenza della televisione di Stato, vera e propria fabbrica del consenso, per decenni affidata il più delle volte a mani servili e mediocri. È antropologicamente eversiva, la figura del liberale Foa al vertice della Rai: è il bambino che non può fare a meno di svelare l’imbarazzante nudità del sovrano, del monarca che si gloria nel celebrare una pace apparente, mentre intorno infuria la peggiore delle guerre. La guerriglia di oggi, nella quale Marcello Foa si trova coinvolto – dopo aver dato la sua avventurosa disponibilità a quell’ipotesi democratica chiamata “governo gialloverde” – non è un conflitto come quelli che l’hanno preceduto: è un sordido massacro quotidiano perpetrato ovunque, senza frontiere, senza più neppure le bandiere di un tempo. È una guerra orwelliana, affidata a mercenari. Navi corsare, che combattono (per lo più in incognito) per conto di padroni potentissimi, protetti dall’anonimato. Non c’è più neppure il triste onore della battaglia: si viene sopraffatti in modo subdolo, sistematicamente sommersi da menzogne spacciate per verità di fede, che il sistema mediatico non si cura più di verificare. Ed è proprio per questo che l’attuale sistema mediatico italiano detesta, e teme, Marcello Foa.
    Ascoltando solo e sempre un’unica campana, il sistema mainstream ci ha raccontato in questi anni che le poderose, ciclopiche Torri Gemelle di Manhattan sono crollate su se stesse, come se fossero state di cartone anziché di acciaio, solo perché colpite – con una manovra proibitiva persino per i migliori “top gun” – da normalissimi e leggerissimi jet di linea fatti di alluminio, dirottati da apprendisti piloti arabi, di cui tuttora non si sa nulla: non un’immagine, al fatale imbarco, di nessuno dei 19 presunti dirottatori (salvo poi rintracciare i loro passaporti, nientemeno, nell’inferno fumante di Ground Zero). Finge di credere sempre e soltanto alla versione ufficiale, il mainstream media, anche quando dimentica di ricordare che furono gli Usa a incoraggiare Saddam Hussein a invadere il Kuwait, dopo averlo spinto a combattere contro l’Iran. Dà retta unicamente al super-governo universale, il club dei telegiornali, anche quando assicura che Saddam disponeva di micidiali armi di distruzione di massa. E tace, invece, quando l’Onu dimostra che quelle armi erano pura fantasia, come i gas siriani di Assad, le fosse comuni di Gheddafi, le violenze della polizia di Yanukovich in Ucraina. E poi applaude a reti unificate, la consorteria mediatica, quando in Italia appaiono i cosiddetti salvatori della patria – i Monti, i Cottarelli – armati del bisturi che useranno per amputare carne viva, risparmi e pensioni, economia italiana di aziende e famiglie, oscurando il futuro dei giovani.
    All’epoca in cui Marcello Foa lavorava al “Giornale” di Indro Montanelli, il mondo probabilmente appariva infinitamente più semplice – più chiaro, più visibile nei suoi errori e orrori: la guerra fredda, il Medio Oriente e gli sconquassi africani della decolonizzazione, la strategia della tensione organizzata per gambizzare l’Italia e impedirle di prendere il volo come autonoma potenza euromediterranea fondata sulla forza formidabile dell’economia mista, pubblico-privata. In quella redazione milanese, dove Foa è cresciuto professionalmente, su una parete c’era appesa una carta geografica di Israele che indicava come capitale Gerusalemme, già allora, anziché Tel Aviv. Se Enrico Berlinguer impiegò anni per ammettere che si sentiva più al sicuro sotto l’ombrello della Nato piuttosto che tra i carri armati del Patto di Varsavia, Marcello Foa e il suo maestro Montanelli non avevano mai avuto dubbi sul fatto che niente di buono potesse venire, per l’Occidente, da un’oligarchia sedicente comunista che aveva soppresso sul nascere i primi vagiti democratici della Russia, cambiando semplicemente look all’antico dispotismo zarista. L’eroico sacrificio dell’Unione Sovietica, decisivo nell’abbattere il nazifascismo, non poteva cancellare né i Gulag di Stalin né l’esilio di Aleksandr Solženicyn. Era fatto di certezze, il mondo di Foa e Montanelli: la libertà (inclusa quella d’impresa) come fondamento irrinunciabile di qualsiasi comunità civile degna di chiamarsi democratica.
    Ed è questo che rende Foa insopportabile al potere economico di oggi, dove la libertà d’impresa cede il passo al dominio di immensi oligopoli finanziari globalizzati, privilegiati da legislazioni truccate come quelle dell’Unione Europea ordoliberista. È tanto più sgradevole e insidioso, Foa, perché non proviene – come invece molti anchorman televisivi – dalla contestazione giovanile del capitalismo: credeva, Foa, negli stessi valori professati dall’élite economica di un tempo, orientata pur sempre alla promozione della mobilità sociale, in sostanziale accordo con le forze sindacali dell’allora sinistra. Una dialettica anche aspra, ma vocata in ogni caso al miglioramento complessivo del sistema-paese. E mediata – sempre – dalla politica, letteralmente scomparsa dai radar italiani per 25 lunghissimi anni. Solo oggi, alla distanza, ci si mette le mani tra i capelli nel rivedere il film dell’euforia generale con la quale i cittadini avevano accolto il Trattato di Maastricht e, dieci anni dopo, l’ingresso nell’Eurozona disegnata dalle banche e governata dalla Bce con modalità feudali, imperiali, senza la supervisione di alcun controllo democratico. Succedeva negli anni cui, con la caduta del Muro di Berlino benedetta da Gorbaciov, l’umanità si era illusa che il fantasma della guerra sarebbe stato semplicemente cancellato dalla storia del pianeta.
    Magari fosse un comune complottista, Marcello Foa: sarebbe più comodo liquidarlo, come velleitario chiacchierone. Chi oggi gli promette guerra, invece, sa benissimo che l’ex caporedattore del “Giornale”, nonché docente universitario, nonché feroce critico del sub-giornalismo odierno, è un vero e proprio disertore. Non era un eretico: lo è diventato negli ultimi anni, disgustato dallo spettacolo al quale è stato costretto ad assistere. Per questo, al di là del reale potere che gli conferisce la carica di presidente Rai, Marcello Foa rappresenta un vero pericolo, per i malintenzionati che oggi gli danno del traditore. Nell’Italia corporativa delle caste, ha osato “sparare” contro la sua – quella dei giornalisti – definendoli “stregoni della notizia”, bugiardi e omertosi spacciatori di “fake news” di regime. E non c’è niente di peggio, per i servi, che l’ex schiavo che si libera delle catene: la sua rivolta personale, intellettuale, suona umiliante per chi si ostina a raccontare che la Terra è piatta, e che è il Sole a orbitarle attorno.
    Chi l’avrebbe detto? Oggi l’Italia riesce incredibilmente a piazzare una persona autorevole, onesta e competente, alla guida della televisione pubblica. Marcello Foa non è infallibile: ma quando ha sbagliato – anche di recente, prendendo per buona la notizia di presunte istruzioni che il governo tedesco avrebbe impartito alla polizia, per enfatizzare il terrorismo “casereccio” targato Isis – non ha esitato ad ammetterlo, tempestivamente. Quanti, al suo posto, avrebbero avuto lo stesso coraggio? E ora, questo volto pulito del nostro giornalismo è alle prese con una sfida estremamente impegnativa. È davvero impossibile fare molta strada, in politica, se non si è almeno in parte ricattabili, e quindi controllabili, in quanto complici dell’apparato da cui si è stati promossi? Così almeno ebbe a dire un protagonista della vita pubblica italiana come Giuliano Ferrara. Qualcuno – sincero o meno – obietterà che questa regola non vale necessariamente per tutti. Ma è sicuro che, una volta entrati in cabina di regia, le proprie virtù possono trasformarsi in problemi: in un ambiente non esattamente cristallino, le qualità naturali dell’eretico diventano un’enorme seccatura, se non un ostacolo da rimuovere prima che possa mettere in pericolo la sopravvivenza del sistema stesso.
    Questa è la sfida di Marcello Foa, nella quale è in gioco l’Italia intera: restare fedeli alla propria coscienza significa contribuire a riaccendere la luce sulle notizie. Senza un’informazione trasparente, lo sappiamo, non c’è neppure vera democrazia. Lo sostiene con vigore, Marcello Foa, che resta innanzitutto un uomo leale e garbato – anche quando si permette di dissentire in modo netto sull’operato del presidente della Repubblica: chi oggi lo accusa di aver addirittura insolentito Sergio Mattarella, dopo la bocciatura di Paolo Savona al ministero dell’economia, più che il prestigio del capo dello Stato sembra aver a cuore la disciplina sociale dell’ossequio, da imporre al popolo nei confronti di chiunque rivesta funzioni di potere. Non è questa la democrazia per la quale il giovane liberale Foa tifava, quando polemizzava con quel comunismo da cui provengono moltissimi dei suoi attuali, smemorati detrattori. Non sappiamo come si svilupperà, la sua avventura negli uffici della Rai. Ma sappiamo che – contro ogni previsione – è tornata sotto i riflettori, in Italia, un’antropologia che si credeva estinta. Quella delle persone per bene, a cui il governo in carica affida addirittura la guida della televisione.
    (Giorgio Cattaneo, “Marcello Foa alla guida della Rai: che succede quando un eretico sale al potere?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 27 settembre 201).

    Che succede, quando il mondo si capovolge e un eretico sale al potere? In Italia, di solito, se un outsider assoluto conquista una poltrona significa che non è più un vero outsider, perché l’establishment se l’è già “comprato”: intende usarlo per drenare il dissenso, facendo sfogare in modo innocuo e illusorio il malcontento di cui era stato la voce. I posti di comando, in genere, sono pieni di ex rivoluzionari ben remunerati, arruolati per la peggiore delle missioni: rinnegare di fatto la propria storia, i propri ideali, e riallineare il pubblico alla “voce del padrone”, utilizzando il prestigio di quella che, un tempo, era stata una voce diversa, apprezzata proprio perché libera e indipendente, e quindi scomoda. Solo in casi rarissimi un vero eretico può raggiungere il ponte di comando rimanendo se stesso. Come accorgersene? Semplice: basta vedere che tipo di accoglienza gli viene riservata. Ed è il caso della nomina di Marcello Foa, nuovo presidente della Rai: i grandi media, in coro, lo accolgono nella migliore delle ipotesi con freddezza, come se si trattasse di un intruso molesto e sgradevole, un oscuro alieno anziché un illustre collega, mentre le macerie della vecchia politica – rottamata dagli italiani il 4 marzo 2018 – descrivono il neo-eletto come una specie di teppista, di impudente cialtrone. In questo, ricordano da vicino il sovrano disprezzo che i dittatori mostrano sempre per il loro popolo in rivolta, un minuto prima di essere defenestrati dalla storia.

  • Magaldi: democrazia, non “sovranismo”. O rivince l’élite

    Scritto il 25/9/18 • nella Categoria: idee • (27)

    Sovranista a chi? Se accettate di lasciarvi chiamare in quel modo, fate un favore proprio a quei poteri oligarchici che vorreste combattere. Parola di Gioele Magaldi, che avverte: c’è un equivoco, “sovranismo” non è affatto sinonimo di “sovranità”. Che senso avrebbe, ad esempio, tornare alla lira, se la moneta nazionale fosse gestita nel modo sciagurato che fu introdotto nel 1981 dai massoni Ciampi e Andreatta ben prima dell’avvento dell’euro? Un avviso a Giorgia Meloni: va bene restituire dignità all’Italia, ma senza «nostalgie “conservatrici” per chissà quale buon tempo andato». L’ex guru di Trump, Steve Bannon? «Un personaggio folkloristico e anche simpatico», il promotore di “The Movement”, network che si propone di coordinare la carica “sovranista” alle prossime europee. Ma siamo sicuri che, dietro certe manovre, non ci sia lo zampino dei soliti noti? In fondo è comodo, il recinto del sovranismo. Molto più scomodo – e più utile per tutti – sarebbe invece costringere un oligarca come Mario Draghi a usare finalmente l’euro a beneficio del popolo, non delle banche. Se c’è una cosa di cui quell’establishment marcio ha davvero paura, sottolinea Magaldi, non è l’ambiguo sovranismo, ma la cara, vecchia sovranità democratica: che pure avevamo, e che ci è stata confiscata dall’élite neoliberista, dominata dai massoni neo-aristocratici che negli ultimi trent’anni hanno cancellato l’idea stessa di Europa unita.
    Autore del bestseller “Massoni”, che rivela il grande potere di 36 superlogge sovranazionali nella cabina di regia della globalizzazione imposta “a mano armata”, senza diritti, Magaldi – massone progressista e presidente del Movimento Roosevelt – fornisce la sua personale lettura dell’attualità ai microfoni di “Colors Radio”: lo stesso Isis, sostiene, è un progetto criminale coltivato dalla parte peggiore di quei cenacoli occulti, pronti a ricorrere persino all’orrore del terrorismo stragista per alimentare la guerra globale cui stiamo assistendo, gestita da interessi economici che si riparano dietro il paravento delle nazioni. Supermassoni reazionari, che sono riusciti a far rimangiare, all’Occidente, le conquiste inaugurate proprio da Roosevelt – l’economia espansiva fondata sul deficit positivo, secondo la ricetta del massone progressista Keynes – e la “Great Society” dello stesso Lyndon Johnson, alimentata dalle idee e dal coraggio di Bob Kennedy e Martin Luther King. L’Unione Europea? Capolavoro dell’élite neo-aristocratica, il più subdolo dei poteri: finto-progressista e finto-democratico. Pronto, oggi, anche a liquidare la nascente opposizione con la più comoda delle etichette, il “sovranismo”, che di fatto «è una falsa moneta», liberamente circolante – anche nell’Italia gialloverde – grazie a quegli stessi democratici che accettano di farsi chiamare “sovranisti”.
    «E a proposito di false monete», Magaldi ricorda di esser stato il primo, in tempi non sospetti, ad anticipare la “profezia” oggi rilanciata da Steve Bannon: l’Italia come unico punto di partenza possibile, in Europa, per una grande riscossa popolare. «Ma la riscossa che ha in mente Bannon – precisa Magaldi – non è quella di cui parlo io e di cui parlano i massoni limpidamente democratici: quella che abbiamo in mente noi è una rivoluzione democratica che vada a risvegliare la democrazia sostanziale, non soltanto in un paese ma in istituzioni sovranazionali che devono essere funzionanti per contrastare poteri privati altrettanto sovranazionali». Attenti alle “monete fasulle”, insiste Magaldi: in fondo, fanno comodo «a quelle élite apolidi e post-democratiche, anzi antidemocratiche, che poi sono le élite di natura massonica contro-iniziatica che si dicono europeiste ma invece hanno distrutto il sogno degli Stati Uniti d’Europa». Equivoci a reti unificate, sui media mainstream: «Adesso sembra che la contrapposizione sia, da una parte, tra tutti coloro che amano i valori democratici e progressisti, liberali, “politically correct”, e dall’altra i “sovranisti”, che sarebbero dei nazionalisti un po’ beceri e un po’ xenofobi, ripiegati su se stessi e incapaci di cogliere l’importanza delle costruzioni sovranazionali».
    «Quando in tanti accettano di farsi definire “sovranisti” sembra che le cose stiano così, ma non è vero», sostiene Magaldi: «Ciò che conta è la sovranità del popolo, che significa democrazia. E si può declinare tanto a livello nazionale quanto a livello internazionale o sovranazionale. Anzi: per contrastare questo tipo di globalizzazione, di segno post-democratico e neo-aristocratico, servono strutture pubbliche, politiche, legittimate dal popolo». Strutture di caratura anche sovranazionale, ribadisce Magaldi, «perché a chi possiede le armi atomiche non si fa la guerra con archi e frecce, da un avamposto locale o nazionale», per di più «in un contesto nel quale si muovono forze che penetrano le nazioni e riescono addirittura, dentro le nazioni, a creare dei cavalli di Troia o delle quinte colonne che poi ti levano la sedia da sotto il sedere». La parola da usare, oggi, è un’altra – sovranità popolare – declinata in Italia e nel resto del mondo, senza frontiere. «E a tutti coloro che tacciano i loro nemici di “sovranismo”, chiederei: ma perché, voi non siete per la sovranità popolare? Siete per la sovranità di gruppi oligarchici apolidi e sovranazionali?».
    Meglio essere chiari, dice sempre Magaldi: «Chi si schiera tra i conservatori e contro la sovranità popolare evidentemente ha in mente una idea di governance (locale, globale, nazionale) di tipo neo-aristocratico: ed è proprio nel passato conservatore, tradizionalista, che le pulsioni democratiche si sono dovute affermare con fatica». D’ora in avanti, annuncia l’autore di “Massoni”, il Movimento Roosevelt «farà una campagna politico-pedagogica proprio su questi temi, e anche sul termine “sovranista”». E insiste: «È un equivoco, il sovranismo: il rispetto per la sovranità popolare dovrebbe essere patrimonio condiviso di tutti». La prima a calpestarla, la nostra sovranità, è proprio l’antidemocratica Unione Europea, «gestita da personaggi impresentabili come frontman delle istituzioni: personaggi screditati e davvero indegni di rappresentare il grande sogno europeo». Punto primo: bocciare un’Europa «dove la Bce è l’organo più potente di comando», e dove il Parlamento Europeo non conta quasi niente eppure «si esprime in modo vergognoso, come ha appena fatto nel caso della legge sul copyright, la censura sul web». Il punto di svolta? «Una Costituzione politica europea, che imponga di usare l’euro per favorire il benessere collettivo». Sarebbe la fine della speculazione contro gli Stati, la fine del ricatto dello spread. Ora più che mai, servirebbe «una coesione europea in grado di avere anche una politica estera comune», e invece «oggi non c’è nessuna Europa».
    Il recupero della democrazia, riconosce Magadi, passa certamente per il ritorno alla sovranità monetaria: «La moneta – europea o nazionale, non importa – deve essere amministrata dai rappresentanti del popolo». Le banche centrali? Già prima dell’Eurozona erano «degenerate in un potere autonomo, un potere che poi è diventato sovraordinato addirittura a quello delle istituzioni politiche democratiche». Così le banche centrali hanno tradito il loro mandato: «Dovevano invece, in ultima istanza, rispondere alle esigenze dei popoli sovrani». Rivendicare un ritorno alla lira? Inutile, se poi la moneta nazionale non viene gestita in termini democratici. Magaldi ricorda «il famigerato divorzio tra Bankitalia e ministero del Tesoro del 1981, favorito dai massoni Beniamino Andreatta e Carlo Azeglio Ciampi, che agivano per conto di circuiti massonici non progressisti bensì neo-aristocratici». Quello strappo determinò già negli anni ‘80 «un aggravio enorme per le casse dello Stato, in termini di interessi sul debito pubblico», visto che la banca centrale «smetteva, in fondo, di garantire l’acquisto dei titoli di Stato italiani». Già quello, osserva Magaldi, era un modo per mettere la lira in difficoltà.
    Quindi, più che tornare alla valuta nazionale, «bisognerebbe preoccuparsi di rendere l’euro una moneta che dipenda da un potere politico democraticamente legittimato». E cioè: bisogna smettere di avere un euro «che viene gestito a discrezione della Bce, senza che nessun potere politico democraticamente legittimato possa intervenire». La Banca Cebntrale Europea? Lo sappiamo: «Pur essendo un istituto di diritto pubblico è proprietà anche di privati e risponde a logiche del tutto apolidi, sovranazionali, sganciate da qualunque livello politico democratico: questo è il problema. Finora, l’euro è stato governato da «quel funesto personaggio di Mario Draghi, che ha utilizzato la moneta europea per favorire sostanzialmente banche e interessi finanziari». Ha grandi colpe, il “venerabile” Draghi, spesso spacciato come paladino dell’Italia. Niente di più falso. Non c’era affatto il benessere del Balpaese, nella “mission” del super-tecnocrate di Francoforte, “regista” delle privatizzazioni italiane dall’epoca del Britannia, poi passato dal Tesoro a Bankitalia, alla Goldman Sachs, alla Bce. «Draghi non ha mai pensato di fare in modo che da questa moneta potesse venire un rilancio economico sociale del continente stesso. E allora, poi, si capisce perché la gente abbia vagheggiato il ritorno alla lira».
    La moneta, però, resta un mezzo. Il problema vero? E’ il timone politico: «Una Costituzione europea democratica, e un Parlamento Europeo che emani democraticamente un Consiglio dei ministri, mettendo fine a queste farlocche Commissioni Europee, che sono degli ibridi che non dicono nulla». Il vero obiettivo, chiarisce Magaldi, è un governo europeo finalmente legittimato dal voto popolare. Un euro-governo democratico, «che abbia il potere di indirizzare le strategie della Bce e di utilizzare la moneta euro a favore dei popoli, e non contro i popoli». Come arrivarci? Magaldi, nonostante tutto, si mostra fiducioso nelle piccole crepe che il governo gialloverde sta aprendo, nel Muro di Bruxelles. E saluta con favore il possibile avvento di Marcello Foa alla presidenza della Rai: «Non condivido alcune sue idee, ma mi risulta che sia un uomo libero: come presidente Rai sarebbe di gran lunga migliore dei suoi predecessori». Da giornalista indipendente, Foa è stato tra i primi a dare il benvenuto alla speranza gialloverde, intesa come possibile recupero di sovranità democratica. Tutto giusto, secondo Magaldi, a patto che si abbia ben chiaro il fatto che l’establishment italiano ha adottato gli stessi metodi dell’aborrita oligarchia europea: «Il governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, si permette il lusso di dire che non bisogna sforare i parametri di spesa, del tutto irrazionali e vessatori, stabiliti dagli euro-burocrati. La Banca d’Italia che detta le regole al governo? Deve accadere esattamente il contrario».

    Sovranista a chi? Se accettate di lasciarvi chiamare in quel modo, fate un favore proprio a quei poteri oligarchici che vorreste combattere. Parola di Gioele Magaldi, che avverte: c’è un equivoco, “sovranismo” non è affatto sinonimo di “sovranità”. Che senso avrebbe, ad esempio, tornare alla lira, se la moneta nazionale fosse gestita nel modo sciagurato che fu introdotto nel 1981 dai massoni Ciampi e Andreatta ben prima dell’avvento dell’euro? Un avviso a Giorgia Meloni: va bene restituire dignità all’Italia, ma senza «nostalgie “conservatrici” per chissà quale buon tempo andato». L’ex guru di Trump, Steve Bannon? «Un personaggio folkloristico e anche simpatico», il promotore di “The Movement”, network che si propone di coordinare la carica “sovranista” alle prossime europee. Ma siamo sicuri che, dietro certe manovre, non ci sia lo zampino dei soliti noti? In fondo è comodo, il recinto del sovranismo. Molto più scomodo – e più utile per tutti – sarebbe invece costringere un oligarca come Mario Draghi a usare finalmente l’euro a beneficio del popolo, non delle banche. Se c’è una cosa di cui quell’establishment marcio ha davvero paura, sottolinea Magaldi, non è l’ambiguo sovranismo, ma la cara, vecchia sovranità democratica: che pure avevamo, e che ci è stata confiscata dall’élite neoliberista, dominata dai massoni neo-aristocratici che negli ultimi trent’anni hanno cancellato l’idea stessa di Europa unita.

  • Moni Ovadia: accuso Israele, infame chiamarmi antisemita

    Scritto il 22/9/18 • nella Categoria: idee • (3)

    Chi critica la politica di Israele e in particolare le violazioni dei diritti umani dei palestinesi viene spesso tacciato di anti-semitismo. Come si può sfatare questa accusa? Innanzitutto denunciandola per quello che è: un’infamia, una bieca propaganda per tappare la bocca degli uomini liberi. Una viltà per impedire qualsiasi discorso sull’ingiustizia subita dal popolo palestinese e anche una forma di corto-circuito psicopatologico, di paranoia. E’ come se chi la formula vivesse nella Berlino del 1935 e non in un paese armato fino ai denti, dotato anche di armi nucleari e alleato non solo degli Stati Uniti, ma anche di fatto dell’Egitto, della Giordania e dell’Arabia Saudita. L’unico paese che fa quello che vuole e ignora le risoluzioni dell’Onu senza che la comunità internazionale muova un dito. Io stesso ho subito questa infamia. Siccome l’antisemitismo in Italia è un reato, ho sfidato i miei accusatori a trascinarmi in tribunale, così vedremo come stanno davvero le cose. Inoltre li ho invitati a farsi vedere da uno psichiatra per una lunga terapia. Come giudico la legge approvata un mese fa dal Parlamento israeliano, che dichiara Israele “Stato nazionale del popolo ebraico”? La considero una legge che istituisce “de iure” l’apartheid e il razzismo, che esisteva già “de facto”, ed esprime una logica e una mentalità colonialista. E’ una follia, quando il 20% della popolazione è arabo-palestinese e dunque Israele è già uno stato bi-nazionale.
    Non sto dicendo che tutti gli israeliani abbiano questa mentalità: ci sono quelli attanagliati dalla paura e preda del mito dell’accerchiamento, quelli che preferiscono non vedere la realtà e quelli che criticano questa politica e pagano le conseguenze del loro coraggio. Purtroppo questi ultimi sono una minoranza, ma nella storia sono state spesso le minoranze a redimere e salvare. La maggioranza ha il diritto di governare, ma non quello di avere ragione. Organizzazioni come “Combatants for Peace” riuniscono israeliani e palestinesi passati alla nonviolenza dopo aver partecipato ad azioni militari gli uni contro gli altri. La Marcia delle Madri ha coinvolto migliaia di donne ebree, musulmane e cristiane per esigere una soluzione nonviolenta del conflitto accettabile dalle due parti. Sono iniziative coraggiose e ammirevoli, portate avanti da persone che vengono boicottate dal governo e accusate di essere contro gli interessi di Israele. Vorrei citare anche i giovani obiettori di coscienza che preferiscono andare in carcere, piuttosto che servire come militari nei territori occupati, e associazioni per i diritti umani come B’Tselem.
    Due anni fa il suo direttore Hagai El-Ad ha auspicato “azioni immediate” contro gli insediamenti di Israele durante una sessione speciale del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sull’occupazione e ha denunciato «l’invisibile, burocratica violenza quotidiana» che i palestinesi subiscono «dalla culla alla tomba». Cosa possiamo fare, come europei e in particolare italiani, per contribuire a una soluzione pacifica del conflitto tra Israele e Palestina? La prima cosa è il lavoro culturale di cui parlavo prima: non smettere mai di ribadire che la denuncia delle ingiustizie e delle sopraffazioni subite dai palestinesi non c’entra niente con l’antisemitismo e la Shoà. In secondo luogo, fare pressione sui governi perché prendano posizione ed esigano il rispetto delle risoluzioni dell’Onu sempre violate da Israele. Terzo, appoggiare il movimento Bds, una campagna globale di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele, chiedendo all’Europa di sequestrare (in quanto illegali) le merci prodotte nei territori occupati e negli insediamenti dei coloni. Il messaggio è semplice, ma molto forte: “Non sono terre vostre, pertanto queste sono merci di contrabbando, fuorilegge, e noi non le vogliamo”.
    (Moni Ovadia, dichiarazioni rilasciate ad Anna Polo per l’intervista “Accusare di antisemitismo chi critica la politica di Israele è un’infamia”, pubblicata da “Pressenza” e ripresa da “Contropiano” il 9 settembre 2018).

    Chi critica la politica di Israele e in particolare le violazioni dei diritti umani dei palestinesi viene spesso tacciato di antisemitismo. Come si può sfatare questa accusa? Innanzitutto denunciandola per quello che è: un’infamia, una bieca propaganda per tappare la bocca degli uomini liberi. Una viltà per impedire qualsiasi discorso sull’ingiustizia subita dal popolo palestinese e anche una forma di corto-circuito psicopatologico, di paranoia. E’ come se chi la formula vivesse nella Berlino del 1935 e non in un paese armato fino ai denti, dotato anche di armi nucleari e alleato non solo degli Stati Uniti, ma anche di fatto dell’Egitto, della Giordania e dell’Arabia Saudita. L’unico paese che fa quello che vuole e ignora le risoluzioni dell’Onu senza che la comunità internazionale muova un dito. Io stesso ho subito questa infamia. Siccome l’antisemitismo in Italia è un reato, ho sfidato i miei accusatori a trascinarmi in tribunale, così vedremo come stanno davvero le cose. Inoltre li ho invitati a farsi vedere da uno psichiatra per una lunga terapia. Come giudico la legge approvata un mese fa dal Parlamento israeliano, che dichiara Israele “Stato nazionale del popolo ebraico”? La considero una legge che istituisce “de iure” l’apartheid e il razzismo, che esisteva già “de facto”, ed esprime una logica e una mentalità colonialista. E’ una follia, quando il 20% della popolazione è arabo-palestinese e dunque Israele è già uno stato bi-nazionale.

  • Page 20 of 49
  • <
  • 1
  • ...
  • 15
  • 16
  • 17
  • 18
  • 19
  • 20
  • 21
  • 22
  • 23
  • 24
  • ...
  • 49
  • >

Libri

UNA VALLE IN FONDO AL VENTO

Pagine

  • Libreidee, redazione
  • Pubblicità su Libreidee.org

Archivi

Link

  • Border Nights
  • ByoBlu
  • Casa del Sole Tv
  • ControTv
  • Edizioni Aurora Boreale
  • Forme d'Onda
  • Luogocomune
  • Mazzoni News
  • Visione Tv

Tag Cloud

politica Europa finanza crisi potere storia democrazia Unione Europea media disinformazione Ue Germania Francia élite diritti elezioni mainstream banche rigore sovranità libertà lavoro tagli euro welfare Italia sistema Pd Gran Bretagna oligarchia debito pubblico Bce terrorismo tasse giustizia paura Russia neoliberismo industria Occidente pericolo Cina umanità globalizzazione disoccupazione sinistra movimento 5 stelle futuro verità diktat sicurezza cultura Stato popolo Costituzione televisione Bruxelles sanità austerity mondo