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Archivio del Tag ‘crisi’

  • La Bce può coprirci di euro: ci salverebbe, perciò non lo fa

    Scritto il 30/1/15 • nella Categoria: segnalazioni • (7)

    «Il limite di spesa degli Stati euro è talmente miserabile che è come dare ai vigili del fuoco una bottiglia di acqua minerale al mese per spegnere gli incendi». Perché il governo europeo della Bce riversa trilioni di euro in liquidità sempre nei luoghi sbagliati e dove la gente non pescherà mai nulla? E perché ci si rifiuta di permettere a tutti gli Stati dell’Eurozona di spendere più di un misero 3% (sempre più risicato in futuro) per la vita dei cittadini, delle famiglie, delle aziende, della nostra democrazia? Perché, nella epocale impostura dell’euro, persino una banca centrale come la Bce – sovrana e libera sulla creazione illimitata di moneta – viene equiparata a qualsiasi banca privata, che il denaro non può emetterlo creandolo dal nulla. Di qui, sostiene Paolo Barnard, la patologia maniacale – tutta tedesca – che si riflette nel culto del “risparmio”, come se lo Stato stesso non fosse il monopolista dell’interesse pubblico, ma una semplice azienda o una normale famiglia. E’ tutto falso: la Bce, se solo volesse, potrebbe immettere fiumi di denaro nella nostra economia reale, resuscitandola di colpo.
    «Tutti sanno che la Bce è il monopolista dell’euro, solo lei e le sue banche centrali possono emetterlo, e lo danno ai governi comprandogli ogni tanto titoli di Stato sul mercato secondario», scrive Barnard nel suo blog. «La paura dei politici europei del nord, ma anche dei nostri, è che se la Bce ci desse molti euro in più, tipo ci permettesse di spendere un 10% o un 12% nel limite di spesa statale (chiamato “deficit di bilancio”), potrebbe correre il rischio che Grecia o Francia o Belgio o Italia, un giorno, non siano più in grado di ripagare quei soldi della Bce». E allora, attenzione: «La Germania in testa, e tutti gli altri fagiani politici, sono convinti che se domani qualche Stato cui fu permesso di spendere di più (per salvare la sua gente) fa bancarotta, allora sarà la Germania a doverci mettere il mancante». Si tratta di una «idiozia olimpionica, da qualsiasi punto di vista della macro-economia». Perché? Semplice: perché la Bce, potendo emettere moneta senza limite, non può mai temere di ritrovarsi a corto di denaro per ripianare eventuali buchi.
    «Facciamo che la Spagna non restituisca la sua spesa alla Bce», esemplifica Barnard. «Cosa succede alla Bce? Ha un buco nel bilancio. E questo dà un brutto segnale agli azionisti che toglieranno un po’ di soldi dal capitale della Bce (azioni)». Facile immaginarlo: «Tutti i tecnocrati e i politici a strapparsi i capelli». Aiuto, la Bce ha perso capitale: orrore, ora “la Germania deve ripagare la perdita”. No, tutto sbagliato. «Così come è vera e giusta la legge di gravità, è vero e giustissimo che la Bce non ha mai bisogno di un certo livello di capitale, per funzionare: mai e poi mai. Perché non è Unicredit, o Deutsche Bank, o Carisbo, cioè avventurosi privati. La Bce è il monopolista della moneta, è il Re, è Dio con l’euro, non la ferma nessuno, mai. Impossibile». E allora, «perché ci fanno morire, agonizzare, disperarci in un oceano di disoccupazione, con ’sta balla», secondo cui la Bce non potrebbe «rischiare di permettere agli Stati euro di spendere per noi cittadini molto di più, per paura di perdere capitale?». Risposta: «Perché i politici non hanno la più pallida idea di come funzionano le operazioni monetarie di una banca centrale. E noi crepiamo». La verità, conclude Barnard, la conoscono «pochissimi tecnici, a Francoforte e a Bruxelles, alla Bocconi, a Berlino: sanno benissimo che quello che dico è vero, e stanno zitti per sentirci urlare». Bisogna «scoprire chi sa e tace», perché questi «sono crimini contro la civiltà europea, più devastanti di una guerra».

    «Il limite di spesa degli Stati euro è talmente miserabile che è come dare ai vigili del fuoco una bottiglia di acqua minerale al mese per spegnere gli incendi». Perché il governo europeo della Bce riversa trilioni di euro in liquidità sempre nei luoghi sbagliati e dove la gente non pescherà mai nulla? E perché ci si rifiuta di permettere a tutti gli Stati dell’Eurozona di spendere più di un misero 3% (sempre più risicato in futuro) per la vita dei cittadini, delle famiglie, delle aziende, della nostra democrazia? Perché, nella epocale impostura dell’euro, persino una banca centrale come la Bce – sovrana e libera sulla creazione illimitata di moneta – viene equiparata a qualsiasi banca privata, che il denaro non può emetterlo creandolo dal nulla. Di qui, sostiene Paolo Barnard, la patologia maniacale – tutta tedesca – che si riflette nel culto del “risparmio”, come se lo Stato stesso non fosse il monopolista dell’interesse pubblico, ma una semplice azienda o una normale famiglia. E’ tutto falso: la Bce, se solo volesse, potrebbe immettere fiumi di denaro nella nostra economia reale, resuscitandola di colpo.

  • Grazie alla crisi, l’1% sta per superare in ricchezza il 99%

    Scritto il 28/1/15 • nella Categoria: idee • (6)

    La ricchezza oggi è insaziabile. Premia sempre di più coloro che hanno già tutto, e toglie ancora di più a coloro che non hanno quasi niente. Alla vigilia del World Economic Forum di Davos, la Ong Oxfam ha pubblicato il rapporto annuale “Grandi disuguaglianze crescono”, che aggrava lo scenario tracciato solo un anno fa. All’inizio del 2014 Oxfam aveva calcolato che 85 persone possedevano la ricchezza della metà più povera della popolazione mondiale, un dato choc che è stato ultra-citato in questi mesi a controprova del livello di estrema diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza e che oggi la lotta di classe esiste, e l’hanno vinta i ricchi. Le nuove stime, effettuate sui dati del Credit Suisse, ricalcolano il numero dei miliardari che nel 2013 possedevano la stessa ricchezza del 50% più povero, e attesta che oggi il loro numero esatto è 92 e non più 85. Oxfam fa una previsione: nel 2016 la ricchezza dell’1% della popolazione mondiale supererà quella del 99%, rendendo obsoleto persino lo slogan del movimento di Occupy Wall Street.
    L’1% dei super-ricchi possiede oggi il 48% della ricchezza globale e lascia al restante 99% il 52% delle risorse. Questo 52% è, a sua volta, posseduto da 20% di “ricchi”. Il restante 80% si deve arrangiare con il 5,5% delle risorse. Dal 2010, spiega il rapporto, gli 80 ultra-miliardari della lista stilata da “Forbes” (primo Bill Gates, secondo Warren Buffett, terzo Carlos Slim, quindicesimo Mark Zuckerberg; primo tra gli italiani Michele Ferrero e famiglia) hanno visto le loro ricchezze moltiplicarsi con l’esplosione della crisi globale. Cinque anni fa detenevano una ricchezza netta pari a 1.300 miliardi di dollari. Oggi contano su 1.900 miliardi di dollari. Un aumento di 600 miliardi di dollari, il 50% in termini nominali. Oxfam segnala inoltre una lotta tra i ricchi, visto che il loro numero è diminuito dai 388 del 2010 agli attuali 92 che detengono il volume equivalente alla ricchezza della metà più povera della popolazione mondiale. Tre miliardi e mezzo di persone si dividono dunque il totale della ricchezza posseduta da queste persone.
    Nell’élite elencata da “Forbes” c’erano 1645 miliardari nel 2014. Il 30% (492 persone) sono cittadini statunitensi, oligarchi russi, nuovi ricchi cinesi, finanzieri come George Soros e i principi sauditi. Più di un terzo di queste persone ha ereditato, e non prodotto, la ricchezza che detiene, segno che il capitale di produce verso l’alto e non allarga la base della piramide. Il 20% di questi ricchi ha interessi nei settori finanziario o assicurativo dove la ricchezza è aumentata da 1.010 miliardi di dollari a 1.160 miliardi in un solo anno. Nel frattempo sono cresciuti i miliardari che operano nel settore farmaceutico e sanitario. Nel club sono entrati in 29 con un aumento del 47% della ricchezza collettiva, passata da 170 miliardi a 250 miliardi di dollari. I campi biopolitici della cura o della prevenzione delle malattia, così come quello dell’assicurazione contro i rischi, costituiscono uno dei principali fattori dell’accumulazione.
    Lo strumento principale per ottenere tale risultato è il lobbismo, una modalità alla quale la finanza e le imprese ricorrono per ottenere benefici dalla politica e dagli Stati. Nel 2013, solo negli Usa, il settore finanziario ha speso oltre 400 milioni di dollari per fare lobby. Nell’Unione Europea la stima è di 150 milioni di dollari. Nel vecchio continente, tra il 2013 e il 2014, i super-ricchi sono aumentati da 31 a 39 con una ricchezza pari a 128 miliardi. Un’élite di oligarchi globali contro un mondo di working poors e poverissimi. Sono dati che smentiscono, una volta in più, la pseudo-teoria neoliberista del “trickle-down” (lo “sgocciolamento”). La ricchezza di pochi non traina lo sviluppo capitalistico né la redistribuzione delle ricchezze. Anzi, aumenta le diseguaglianze. Sono sette le proposte di Oxfam per invertire questa tendenza: contrasto all’elusione fiscale, investimenti in salute e istruzione pubblica e gratuita; redistribuzione equa del peso fiscale; introduzione del salario minimo e di salari dignitosi per tutti; parità di retribuzione, reti di protezione sociale per i poveri, lotta globale contro la diseguaglianza. Un’agenda in fondo minimalista per provare a rovesciare la direzione della lotta di classe dal basso verso l’alto.
    (Roberto Ciccarelli, “La lotta di classe dell’1% ha vinto, ed è insaziabile”, dal “Manifesto” del 20 gennaio 2015, articolo ripreso da “Come Don Chisciotte”).

    La ricchezza oggi è insaziabile. Premia sempre di più coloro che hanno già tutto, e toglie ancora di più a coloro che non hanno quasi niente. Alla vigilia del World Economic Forum di Davos, la Ong Oxfam ha pubblicato il rapporto annuale “Grandi disuguaglianze crescono”, che aggrava lo scenario tracciato solo un anno fa. All’inizio del 2014 Oxfam aveva calcolato che 85 persone possedevano la ricchezza della metà più povera della popolazione mondiale, un dato choc che è stato ultra-citato in questi mesi a controprova del livello di estrema diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza e che oggi la lotta di classe esiste, e l’hanno vinta i ricchi. Le nuove stime, effettuate sui dati del Credit Suisse, ricalcolano il numero dei miliardari che nel 2013 possedevano la stessa ricchezza del 50% più povero, e attesta che oggi il loro numero esatto è 92 e non più 85. Oxfam fa una previsione: nel 2016 la ricchezza dell’1% della popolazione mondiale supererà quella del 99%, rendendo obsoleto persino lo slogan del movimento di Occupy Wall Street.

  • Di Battista, aprite gli occhi sull’euro o sparirete dalla storia

    Scritto il 23/1/15 • nella Categoria: idee • (9)

    Qualcuno spieghi ad Alessandro Di Battista che l’Italia non sta morendo di corruzione, né di evasione fiscale, né di mafia. L’Italia sta morendo di euro. Corruzione, evasione e mafia esistevano già prima, ma c’era lavoro per tutti. C’erano benessere, risparmi, economia, aziende. In una parola: c’era la lira sovrana, la moneta che lo Stato poteva “fabbricare dal nulla”, senza limiti. Oggi, lo Stato è in bolletta perché la moneta non ce l’ha più, la deve elemosinare a caro prezzo sui mercati finanziari e prelevare direttamente dai cittadini, sotto forma di tasse. Tragedia nella tragedia? In Parlamento, l’opposizione non se n’è ancora accorta. Lo scrive Giulio Betti in una lettera aperta a Di Battista, reduce da un retorico intervento sullo scandalo “Mafia Capitale”, completamente fuori bersaglio: «Quando in una scuola manca la carta igienica, pensate alla corruzione», raccomanda Di Battista. «Quando vostro figlio cerca lavoro in un call center in India, pensate alla corruzione. Quando manca un posto letto in ospedale, pensate alla corruzione. Quando vedete strade distrutte, mondezza dovunque, infrastrutture ferme da anni, pensate alla corruzione».
    «No, Di Battista, non ci siamo», replica Betti sul sito “MeMmt”. «Ok, la corruzione è sicuramente un problema molto importante, da cercare di combattere con tutti i mezzi in nostro possesso. Ma tutto ciò che lei ha descritto non dipende dalla corruzione». E poi, c’è corruzione e corruzione: in regime di moneta sovrana, il denaro “rubato” non crea problemi di bilancio, perché tutto è sempre ripianabile. Se invece la corruzione colpisce un paese dell’Eurozona, che non ha più strumenti democratici di bilancio, allora il “furto” diventa una tragedia sociale. Possibile che il brillante Di Battista non lo afferri? E’ come se lui, Grillo e Casaleggio non avessero ancora capito cos’è la moneta sovrana, ovvero una valuta «di proprietà dello Stato, che la emette in regime di monopolio», senza convertirla in oro o altri metalli preziosi. Una moneta il cui tasso di cambio è fluttuante, ovvero: «Viene scambiata con le altre valute in base alla legge della domanda e dell’offerta». Esempi di Stati con moneta sovrana? Praticamente tutti, tranne quelli dell’Eurozona. «Lo Stato a moneta sovrana non può, e non potrà mai, finire i soldi», ribadisce Betti.
    Lo Stato che dispone della propria moneta «la spende semplicemente creandola dal nulla, accreditando conti correnti», e così «fa crescere la ricchezza finanziaria di quei conti semplicemente pigiando dei tasti nei computer della banca centrale». Oggi, del resto, la maggior parte della moneta circolante è elettronica. Punto nodale, che forse a Di Battista sfugge: «Nel fare questa operazione, lo Stato non ha necessità di procurarsi prima quel denaro guadagnandolo con le tasse, perché lo crea da sé senza problemi». E’ esattamente il tipo di potere sovrano a cui gli archietti dell’Eurozona volevano mettere fine. E ci sono riusciti. La fine della sovranità democratica garantita dalla moneta. «Esempio, un vigile del fuoco che a fine mese ottiene il suo stipendio: per lui è logicamente un attivo, e non dovrà mai ripagare quell’esborso di denaro pubblico. In quel momento lo Stato ha aumentato la sua spesa pubblica, ma ha aumentato la ricchezza finanziaria di un suo cittadino. Una volta capito questo, la domanda che dovrebbe scattare subito dopo è: com’è possibile che in Italia allora scarseggino i beni di prima necessità nelle scuole, non si trovi lavoro, le infrastrutture siano ferme da anni? Semplice e terribile allo stesso tempo: l’Italia non ha più la possibilità di fare quell’operazione di creazione di moneta dal nulla».
    Una tragedia chiamata euro, non corruzione: «Con l’ingresso nell’unione monetaria, l’Italia si è ridotta a dover chiedere in prestito dai mercati dei capitali tutti i soldi necessari per poter comprare la carta igienica nelle scuole, pagare i posti letto negli ospedali, costruire o fare la manutenzione delle infrastrutture». Il tutto, continua Betti, è aggravato dal “patto di stabilità” che impedisce ai Comuni di garantire, come prima, i servizi basilari per la comunità. Perché lo Stato italiano, al pari di tutti gli altri dell’Eurozona, oggi – a differenza di ieri – deve restituire i capitali che gli sono stati prestati dai mercati finanziari per le sue attività fondamentali, maggiorati del tasso d’interesse sempre deciso dagli stessi attori della grande finanza privata. E dove li rastrella, quei soldi? «Dalle tasche degli italiani, ovviamente. Ecco che mentre prima, con la sovranità monetaria, il governo non aveva alcuna necessità di tassare a morte i cittadini e le aziende (anzi, poteva tranquillamente decidere di abbassare le imposte), oggi il governo deve necessariamente attuare politiche di austerity, andando ad abbassare la spesa pubblica e contemporaneamente strangolare l’economia con la tassazione, la dismissione e privatizzazione di aziende statali che forniscono beni e servizi pubblici essenziali».
    Caro Di Battista, ancora convinto dello strapotere negativo dell’italica corruzione? Certo, si tratta di un crimine odioso che devasta la società e il territorio. Ma, in regime di moneta sovrana, la peggiore corruzione «non sottrae soldi ai settori vitali della gestione statale». Idem per l’altra piaga nazionale, l’evasione fiscale, «perché lo Stato può creare tutti i fondi che vuole per i servizi pubblici, tecnicamente senza limiti». Nell’Eurozona, invece, la musica cambia: la corruzione è molto più dannosa, «poiché sottrae fondi che lo Stato ha dovuto faticosamente ottenere, con i prestiti di euro da parte dei mercati finanziari, e non può permettersi di sprecarli, al pari del cittadino che ha un mutuo». Di Battista, scrive Betti, non ha capito che il problema è a monte: «Poniamo che da domani, per magia, la corruzione e gli sprechi spariscano (un improbabile paradiso terrestre), ma l’Italia rimanga comunque nell’Eurozona: il problema della scarsità di denaro sarebbe risolto? Sarebbe risolto il problema dell’approvvigionamento dei fondi necessari al funzionamento dei servizi pubblici? Lo Stato potrebbe forse abbassare le tasse e far ripartire l’economia con la spesa pubblica? Assolutamente no».
    Sveglia, Di Battista: «Anche in assenza di corruzione e sprechi, l’Italia dovrebbe comunque approvvigionarsi dai mercati finanziari di ogni singolo euro necessario al funzionamento dell’apparato pubblico. E come detto in precedenza, i mercati non ti regalano di certo i soldi, devi poi restituirglieli con gli interessi, come un normale cittadino in banca. E quindi tasse sempre più alte, taglio dei servizi e della spesa pubblica, povertà e distruzione economica sempre maggiore. Sarebbe un disastro comunque». Un appello accorato: «Queste cose deve capirle, Di Battista, ne va della vita di 60 milioni di italiani». Chi fa politica dovrebbe imparare a stabilire precise priorità, come durante la Resistenza: nel ‘43, scrive Betti, la priorità era liberare il paese dal nazifascismo, poi si sarebbe pensato a ricostruirlo. «Allo stesso modo, oggi la priorità è abbattere il mostro dell’Eurozona, riprenderci la sovranità monetaria, chiedere al governo di spendere in deficit fino al raggiungimento della piena occupazione, di ottimi servizi pubblici e di un’ottima qualità della vita. E’ necessario tornare ad essere una nazione nella quale vivere bene, senza ansia per il presente e il futuro, riaffermare la nostra sovranità e tornare ad essere Italia, un paese stupendo distrutto dall’Eurozona, come gli altri».
    Di Battista, aggiunge Betti, conosce benissimo il programma della Mmt, la “Modern Money Theory”, elaborato da Warren Mosler per far uscire l’Italia dall’incubo della crisi, puntando innanzitutto alla piena occupazione. Quella della Mmt «è una delle proposte più votate nel vostro portale», quello di Beppe Grillo, «ma stranamente non è mai stata presa in considerazione per l’inserimento nel vostro programma. Perchè?». Insiste Betti, nel suo appello a Di Battista: «Perchè non volete comprendere come l’euro distrugge l’Italia, ma vi trincerate dietro i discorsi da bar, “meno sprechi, no corruzione, debito pubblico brutto”? Così facendo voi indirizzate tutta l’attenzione su problematiche secondarie, non primarie, capisce?». Distrazione di massa. «Sappiamo che il vostro movimento è impegnato in una raccolta firme sul tema della permanenza dell’euro». Però nelle filippiche di Di Battista il tema-euro «non compare, non ve n’è traccia». Il campione grillino non utilizza la sua vasta platea per la giusta causa. Al contrario, «raccoglie la rabbia diffusa nel paese e la convoglia tutta verso l’obiettivo sbagliato: questo è gravissimo e non giustificabile. Sta trattando l’euro come un dettaglio, anzi meno». Pensaci, Di Battista. Tu e i tuoi colleghi. Decitedevi a dire finalmente la verità e ad afferrare il toro per le corna, «altrimenti non potrete fare nulla per risollevare le sorti dell’Italia, nemmeno se andrete al governo, e verrete inesorabilmente spazzati via dalla storia».

    Qualcuno spieghi ad Alessandro Di Battista che l’Italia non sta morendo di corruzione, né di evasione fiscale, né di mafia. L’Italia sta morendo di euro. Corruzione, evasione e mafia esistevano già prima, ma c’era lavoro per tutti. C’erano benessere, risparmi, economia, aziende. In una parola: c’era la lira sovrana, la moneta che lo Stato poteva “fabbricare dal nulla”, senza limiti. Oggi, lo Stato è in bolletta perché la moneta non ce l’ha più, la deve elemosinare a caro prezzo sui mercati finanziari e prelevare direttamente dai cittadini, sotto forma di tasse. Tragedia nella tragedia? In Parlamento, l’opposizione non se n’è ancora accorta. Lo scrive Giulio Betti in una lettera aperta a Di Battista, reduce da un retorico intervento sullo scandalo “Mafia Capitale”, completamente fuori bersaglio: «Quando in una scuola manca la carta igienica, pensate alla corruzione», raccomanda Di Battista. «Quando vostro figlio cerca lavoro in un call center in India, pensate alla corruzione. Quando manca un posto letto in ospedale, pensate alla corruzione. Quando vedete strade distrutte, mondezza dovunque, infrastrutture ferme da anni, pensate alla corruzione».

  • Il Fiscal Compact? Provano a nasconderlo ipotecando l’oro

    Scritto il 22/1/15 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Cancelliamo il Fiscal Compact? Forse, ma in compenso ipotechiamo gli Stati, dalle aziende leader alla riserva aurea, facendo persino riscuotere le tasse a un soggetto esterno, non più nazionale, in cambio dell’emissione di eurobond garantiti dall’Ue. «L’idea base di questo progetto è italiana, in quanto i primi a lanciarla, nell’agosto 2011, sono stati Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio». L’ipotesi è poi piaciuta anche agli economisti tedeschi che affiancano il governo di Berlino, i quali hanno anche suggerito alcune clausole sugli aspetti patrimoniali, pur manifestando il consueto scetticismo sugli eurobond. Tutto questo, a quanto pare, sarebbe stato architettato per tenere in piedi l’euro. A questo accordo, spiega Tino Oldani su “Italia Oggi”, starebbero lavorando in segreto economisti e politici di diversi paesi. «La novità centrale sarebbe l’istituzione di un nuovo fondo, l’European Redemption Fund (Fondo per il rimborso del debito), le cui caratteristiche sono illustrate in un “paper” dell’economista Luca Boscolo, discusso il 22 novembre scorso alla London School of Economics».
    Il punto di partenza sarebbe l’archiviazione del Fiscal Compact, maxi-tagliola approvata con perfetto autolesionismo dai paesi dell’Eurozona per volere dal “partito dell’austerità”? In breve, ricorda il blog “Senza Soste”, si tratta dello sciagurato accordo che impegna gli Stati a tagliare la spesa pubblica per comprimere il debito fino al 60% del Pil. In Italia si tratterebbe di 50 miliardi all’anno, per vent’anni. «Approvato quasi in segreto dal Parlamento, con il voto entusiasta del centrosinistra, il Fiscal Compact è velocemente sparito dalla scena», data la paura provocata da un’amputazione così abnorme del bilancio statale. Così, cominciano a circolare strane ipotesi: il debito considerato “in eccesso”, gravato dagli interessi passivi e divenuto “tossico” in quanto denominato in moneta non sovrana, finiebbe in una sorta di “bad bank” che lo governerebbe, usando come garanzia l’emissione di eurobond e le riserve auree dei vari paesi. Ma attenzione alle clausole-capestro: se un paese non paga, la “bad bank del debito” dovrebbe riscuotere direttamente le tasse, al posto dello Stato.
    Impossibile, ovviamente, tornare alla moneta nazionale. Per contro, ogni paese dell’Eurozona dovrebbe ipotecare il proprio oro e le principali aziende statali, oltre a dare l’ok a un soggetto esterno per la riscossione coercitiva delle tasse. A monte, l’obiettivo sarebbe completamente fuorviante: contenere il debito pubblico, che in realtà è proprio il motore dello sviluppo. Un lettore del “Corriere della Sera”, Mario Bocci, in una lettera al quotidiano milanese osserva: «Il debito è aumentato in ottobre di 23,5 miliardi e ha raggiunto quota 2.157,5 miliardi. Come faremo a pagare il Fiscal Compact?». Nonostante le manovre e le tasse, il debito cresce ogni anno. Attualmente rappresenta il 135,6% del Pil italiano. «In Europa – scrive “Italia Oggi” – ci supera soltanto la Grecia (174,1%), mentre la media dell’Eurozona è del 93,9%, con la Germania al 77,3%». Rispondere a Bocci non è facile, ammette Oldani, e il “Corriere” non ci ha neppure provato. Renzi ha proposto ai partner europei più flessibilità? Angela Merkel ha avuto gioco facile a bocciarlo, ribadendo le solite false verità neoliberiste, secondo cui non si può fare crescita aumentando la spesa e il debito pubblico.
    A smentire la Merkel è la storia: l’intero boom economico del dopoguerra, negli Usa e in Europa (e in particolare in Germania) è stato innescato esattamente dagli enormi investimenti statali, spesa pubblica a deficit, quindi debito pubblico. Ma visto che la verità è stata bandita dall’Eurozona, tiene banco il bullismo politico della cancelliera, longa manus delle banche tedesche. Solo che oggi il giocattolo degli speculatori si sta incrinando: «Tra gli economisti, c’è chi considera ormai fallita la moneta unica europea, e ne prevede sempre più vicina la “ropture”», annota Oldani. «Altri prevedono invece che l’euro sarà tenuto in vita grazie a un nuovo accordo europeo, destinato a superare il Fiscal Compact. E qui sta la vera novità, di cui non c’è ancora traccia nel dibattito politico». Così com’è, sostiene Luca Boscolo, l’euro ha troppi difetti per poter durare. E gli interventi della Troika per far rispettare il Fiscal Compact hanno peggiorato dovunque la situazione, invece di migliorarla. Inoltre, l’euro ha provocato pesanti squilibri nell’Eurozona, che lo stesso Fmi ha riconosciuto in un rapporto del luglio 2014: è una moneta sottovalutata in Germania (del 15%), mentre è sopravvalutata (10-14%) nei paesi periferici. Questo ha creato le condizioni per il surplus commerciale dell’export tedesco, superiore al 6% da tre anni, dunque passibile di sanzioni Ue, come lo è lo sforamento del 3% nel rapporto deficit-Pil.
    «Una situazione esplosiva, che mette in conflitto i paesi più forti con quelli più deboli, dalla quale si può uscire soltanto superando il Fiscal Compact». Come? Tra le soluzioni all’esame della Commissione Europea, rivela Boscolo, vi è appunto l’European Redemption Fund (Erf), in cui mettere tutte le eccedenze del debito dei paesi che sforano il limite del 60%. Dalle prime bozze, il Fondo Erf, da istituire con un nuovo trattato europeo, avrebbe le precise caratteristiche. La prima: il Fondo potrà emettere eurobond sui mercati, dando in garanzia i beni dello Stato interessato, oltre alle riserve valutarie e a quelle auree. Poi: in caso di mancato pagamento dei bond da parte degli Stati interessati, il Fondo potrà incassarne direttamente le tasse. Terza mossa: gli Stati aderenti non avranno più giurisdizione sul loro debito pubblico e non potranno più tornare alla moneta nazionale. Nel caso dell’Italia, spiega Boscolo, la parte del debito che eccede il 60% è pari a 1.182 miliardi: questa sarà la quota che dovrebbe andare nell’Erf. A garanzia dei bond, il nostro paese dovrebbe impegnare i propri asset di valore, cioé beni dello Stato come Eni, Enel e Finmeccanica, oltre alle riserve valutarie e auree.
    Vantaggi dell’operazione? Riduzione dell’eccesso di debito, medesimi tassi d’interesse nel mercato europeo dei bond, stabilizzazione sui mercati del debito pubblico, con tassi d’interesse più bassi. In definitiva, sparirebbe il rischio di bail-out (salvataggio): niente più prestiti di denaro agli Stati indebitati. Risultato: lunga vita per l’euro. Nemmeno per sogno, dice Boscolo, che ne descrive i rischi: «Sarà l’inizio della fine degli Stati così come li abbiamo conosciuti. Finiranno nelle mani dei grandi capitalisti, i quali hanno voluto l’euro e la globalizzazione per acquistare a prezzi stracciati gli asset dei paesi con moneta debole, per poi rivederli con ottimi guadagni, distruggendo così l’economia locale e impoverendone i cittadini». Va inoltre ricordato che ogni possibile soluzione – se si resta nell’euro – è votata al fallimento dello Stato democratico, premiando esclusivamente l’élite finanziaria. Solo grazie all’euro, infatti, il debito pubblico è diventato un problema esplosivo: non essendo più denominato in moneta sovrana (l’euro non è di nessuno, nemmeno della Bce), il debito in Eurozona va “garantito”, a spese dell’economia reale. Se lo Stato tornasse libero di fare il suo “mestiere”, e cioè realizzare la piena occupazione, secondo gli economisti della Mmt non avrebbe più neppure bisogno di emettere bond, gli basterebbe disporre liberamente di moneta. E il nostro debito farebbe la fine di quello del Giappone, che è enorme (quasi il doppio di quello italiano) ma non costituisce un problema, perché è sovrano e dunque sempre ripagabile, in qualsiasi momento.

    Cancelliamo il Fiscal Compact? Forse, ma in compenso ipotechiamo gli Stati, dalle aziende leader alla riserva aurea, facendo persino riscuotere le tasse a un soggetto esterno, non più nazionale, in cambio dell’emissione di eurobond garantiti dall’Ue. «L’idea base di questo progetto è italiana, in quanto i primi a lanciarla, nell’agosto 2011, sono stati Romano Prodi e Alberto Quadrio Curzio». L’ipotesi è poi piaciuta anche agli economisti tedeschi che affiancano il governo di Berlino, i quali hanno anche suggerito alcune clausole sugli aspetti patrimoniali, pur manifestando il consueto scetticismo sugli eurobond. Tutto questo, a quanto pare, sarebbe stato architettato per tenere in piedi l’euro. A questo accordo, spiega Tino Oldani su “Italia Oggi”, starebbero lavorando in segreto economisti e politici di diversi paesi. «La novità centrale sarebbe l’istituzione di un nuovo fondo, l’European Redemption Fund (Fondo per il rimborso del debito), le cui caratteristiche sono illustrate in un “paper” dell’economista Luca Boscolo, discusso il 22 novembre scorso alla London School of Economics».

  • Giannuli: disfare l’euro e subito, prima che ci crolli addosso

    Scritto il 21/1/15 • nella Categoria: idee • (2)

    Le elezioni greche si avvicinano e i mercati finanziari tremano: vincerà Tsipras? E che farà dopo? L’euro reggerà? E poi, Grecia a parte, come la mettiamo con il petrolio in picchiata? E il leggendario “quantitative easing” di Draghi ci sarà e quanto sarà consistente? Procediamo con ordine: che Tsipras vinca in Grecia è probabile (e, per quel che mi riguarda, auspicabilissimo) ma non è sicuro: dobbiamo vedere che campagna terroristica scateneranno per condizionare gli elettori greci e di quale efficacia sarà. Anche per questo, fa bene Tsipras a non parlare ora di uscita della Grecia dall’Eurozona, preferendo limitarsi al tema della rinegoziazione degli accordi; diversamente farebbe un favore agli avversari. Ma, se dovesse vincere, non credo che avrebbe molte scelte: o subite i diktat di Berlino via Troika e tradire il mandato elettorale, o far saltare il tavolo e andare dritto in rotta di collisione. Se dovesse vincere, il mandato dell’elettorato sarebbe inequivoco: portare fuori la Grecia dalla spirale in cui sta sprofondando. E questo non si fa mantenendo l’attuale regime di austerity, su questa strada c’è solo il suicidio.
    Quindi, la Grecia non può permettersi di pagare questi interessi sul debito e, tantomeno, di pagare un debito ormai non restituibile. Ma questo significa dichiarare default: è compatibile con l’appartenenza all’euro? Non ci sono precedenti, per cui non sappiamo come il default di un componente possa riflettersi sulla moneta comune e neppure se il paese fallito possa continuare a far parte del patto monetario e a quali condizioni; però ci pare scarsamente realistico che tutto possa restare come prima, dopo il default di uno dei paesi membri, anche se piccolo come la Grecia. La Bce potrebbe continuare a fornire allo Stato greco le banconote per il circolante necessario? Se ciò non fosse, Atene sarebbe costretta a battere moneta in proprio, anche solo in forma di moneta provvisoria o di buoni rimborsabili o altro, perché diversamente non avrebbe di che pagare gli stipendi statali e le pensioni e, più in generale, l’intera economia del paese si paralizzerebbe. E a quel punto, la scelta spetterebbe alla Bce: o continuare a fornire in qualche modo la propria moneta alla Grecia o accettare la sua uscita dal patto e aprire la crisi della moneta e del suo stesso patto istitutivo, che non prevede l’uscita di nessuno.
    Insomma, questa, più che una moneta, sembra essere un penitenziario di massima sicurezza. D’altro canto, una moneta che diventasse l’hotel del libero scambio, con gente che va e gente che viene, crollerebbe in brevissimo tempo sui mercati. Perché, se si accettasse di tenere nel club un paese in default, poi la stessa scelta potrebbe essere fatta da altri, magari Lisbona, Bruxelles, Madrid, Cipro e (perché no?) Roma. Stabilito il precedente, sarebbe difficile impedire agli altri di fare altrettanto, qualora le condizioni costringessero a quel passo. E così la moneta diventerebbe un aggregato molto instabile, troppo instabile per poterci investire qualsiasi cifra: io compero un qualsiasi titolo finanziario in euro (non importa se di uno Stato o una impresa) però non so, fra cinque anni, chi ci sarà dietro questa moneta, forse nessuno, perché uno alla volta se ne saranno andati tutti e resta solo la Bce come sorta di banca privata. Chi scommetterebbe un centesimo su una moneta così?
    D’altro canto, se la Bce decidesse di continuare a tenere la Grecia anche in stato di insolvenza, questo avrebbe inevitabilmente conseguenze sull’apprezzamento della moneta, perché, anche in questo caso, stabilito il precedente, non ci sarebbe modo di evitare l’assalto degli altri scarsamente solventi. In fondo, per i primi cinque anni di esistenza dell’euro, anche i paesi più indebitati (come l’Italia) hanno avuto la possibilità di emettere titoli a interessi bassissimi (ricordiamo, non troppo superiori all’1%) nel presupposto che vi fosse una garanzia implicita della Bce. Oggi si scopre che così non è, ma a questo punto chi volete che investa il becco di un quattrino in titoli del genere, se non per una sostanziosa rivalutazione degli interessi? E con un salto in avanti degli interessi, quanti Stati fallirebbero? Qui avrebbero da temere non solo l’Italia o la Spagna, ma anche la Francia e molti minori.
    Ci sarebbe la strada dell’haircut: una rinegoziazione parziale del debito greco, ribassando gli interessi e allungando i tempi per dar fiato alla Grecia. Ma, anche qui, il problema sarebbe il precedente: passato il precedente, che si fa se anche gli altri si mettono in fila per una transazione del genere? E se il debito greco è intorno ai 350 miliardi di euro, e una rinegoziazione potrebbe essere sopportata soprattutto dalle banche tedesche e francesi che ne detengono una bella fetta, se poi la cifra da rinegoziare dovesse raggiungere alcune migliaia di miliardi per l’arrivo di tutti gli altri, la cosa diventerebbe assai meno praticabile. Il punto è che l’euro è stato il più clamoroso abbaglio della storia economica mondiale: non si mettono insieme 27 economie diverse e con esigenze opposte, sotto lo stesso tetto monetario. O meglio, lo si può anche fare ma dandosi un unico centro decisionale, un unico sistema fiscale, un unico sistema sociale e contributivo, una stessa contabilità pubblica, insomma un governo comune.
    In effetti, l’euro fu venduto all’opinione pubblica mondiale e agli ignari europei come l’immediata premessa dell’unificazione politica, di cui, manco a dirlo, non si è visto neppure l’ombra, perché mancavano le più elementari premesse, per lo meno in tempi brevi o anche medi. E la realtà si vendica sugli architetti troppo audaci che costruiscono cattedrali su malferme palafitte. Il problema oggi non è se abbandonare l’euro, ma in che tempi e in che modi. L’euro è un esperimento fallito politicamente, prima ancora che monetariamente, e non c’è prova d’appello. Il crollo di questa moneta è solo questione di tempo. Il problema è quello di decidere se restare sotto la volta, ad aspettare che ci cada addosso, o magari prepararci ordinatamente ad uscire, prima che accada l’irreparabile. Il guaio è che dall’euro non si può uscire unilateralmente, con un colpo di testa – o, per lo meno, chi lo facesse si candiderebbe a sfasciarsi le ossa, e così uno alla volta, sino all’ultimo. E quel che è peggio è che non ci sono procedure previste per uscirne: che io sappia, l’euro è l’unico trattato al mondo senza procedure di recesso. Una follia unica.
    Immaginiamo che domani si faccia un referendum sull’euro, magari perché ammesso dalla Corte Costituzionale sulla base di non so quali ragionamenti giuridici, e immaginiamo che vinca la tesi favorevole all’uscita, cosa accadrebbe? Nulla, non accadrebbe nulla; e il referendum resterebbe senza conseguenze, perché l’Italia si è impegnata sottoscrivendo un trattato che non prevede libertà di recesso. Però, la realtà è sempre più testarda delle parole, anche se in forma di trattati. Per cui, possiamo fare i trattati che vogliamo, ma se le dinamiche oggettive vanno verso il crollo, non c’è nulla da fare. Per cui, non sarebbe il caso di iniziare a discutere su come se ne può uscire? Ad esempio, perché non fare una campagna per un referendum sull’euro in tutti i paesi dell’Eurozona e nello stesso giorno? Avremmo almeno un indirizzo su cui ragionare. Oppure, perché non provare a dar vita a un movimento europeo per la revisione del trattato, a cominciare dall’introduzione di procedure di regresso? Magari potremmo anche varare una doppia circolazione, o anche tenere l’euro come unità di conto, articolato in monete nazionali con parità variabili in una certa banda (come era lo Sme). Insomma ci si può pensare, ma in fretta. Qui il tema è molto più complesso del solito e non conviene pensarci ciascuno per proprio conto.
    (Aldo Giannuli, “Disfare l’euro: il problema non è se, ma come e quando”, dal blog di Giannuli del 4 gennaio 2015).

    Le elezioni greche si avvicinano e i mercati finanziari tremano: vincerà Tsipras? E che farà dopo? L’euro reggerà? E poi, Grecia a parte, come la mettiamo con il petrolio in picchiata? E il leggendario “quantitative easing” di Draghi ci sarà e quanto sarà consistente? Procediamo con ordine: che Tsipras vinca in Grecia è probabile (e, per quel che mi riguarda, auspicabilissimo) ma non è sicuro: dobbiamo vedere che campagna terroristica scateneranno per condizionare gli elettori greci e di quale efficacia sarà. Anche per questo, fa bene Tsipras a non parlare ora di uscita della Grecia dall’Eurozona, preferendo limitarsi al tema della rinegoziazione degli accordi; diversamente farebbe un favore agli avversari. Ma, se dovesse vincere, non credo che avrebbe molte scelte: o subite i diktat di Berlino via Troika e tradire il mandato elettorale, o far saltare il tavolo e andare dritto in rotta di collisione. Se dovesse vincere, il mandato dell’elettorato sarebbe inequivoco: portare fuori la Grecia dalla spirale in cui sta sprofondando. E questo non si fa mantenendo l’attuale regime di austerity, su questa strada c’è solo il suicidio.

  • Tsipras sbaglia tutto, esca dall’euro e faccia causa all’Ue

    Scritto il 19/1/15 • nella Categoria: idee • (1)

    Mentre i mercati s’interrogano su quali strategie, aldilà degli slogan elettorali, saranno poi effettivamente perseguite nel caso di successo delle forze politiche d’opposizione in Grecia, traspare sempre più la volontà del leader di Syriza, Alexis Tsipras, di procedere con un programma “accomodante” per la permanenza del paese nell’area euro. La stessa auspicata rimodulazione concordata del debito pubblico, in una nuova versione rivista e corretta dei precedenti haircut, non produrrebbe infatti gli effetti sperati così come puntualmente evidenziato dall’economista tedesco Hans-Werner Sinn, presidente dell’Ifo (Istituto per la ricerca economica, maggiore think-tank tedesco sulle tematiche di politica economica), il quale ha fatto giustamente presente che «solo uscendo dall’euro la Grecia può evitare il fallimento». Qualsiasi intervento sul debito significherebbe solamente procrastinare i problemi dell’economia greca e non risolverli, aggravando il già disastrato paese ellenico da ulteriori vincoli determinati da prestiti internazionali e da tutele sempre più pressanti nella gestione economica domestica.
    D’altronde i precedenti e sempre più onerosi salvataggi non hanno fatto che aumentare la posizione debitoria del paese e non certo aiutato nel tirarlo fuori dall’impasse della drammatica situazione economica il cui destino ogni giorno appare sempre più irreversibile. La popolazione è allo stremo e francamente non ci sono più i presupposti e i margini di manovra per poter rendere l’euro una valuta idonea alle esigenze dell’economia greca. Il caso greco ha dimostrato, in tutta la sua drammaticità, come il trapianto forzato di una moneta possa alla fine degenerare in un inevitabile rigetto, distruggendo letteralmente un paese nonostante noti personaggi, che hanno costruito esclusivamente la propria carriera e credibilità asservendosi supinamente ai dogmi perversi della moneta unica, abbiano sostenuto fino a poco tempo fa che proprio il paese ellenico era la prova più tangibile del successo dell’euro. Il problema di fondo della Grecia pertanto rimane la permanenza nell’euro e le sue assurde e anacronistiche politiche economiche imposte a un paese che non ha mai avuto le possibilità, neanche remote, di poterle perseguire ed attuarle.
    Tutte le ricette provenienti dalla Troika sono state orientate esclusivamente a salvaguardare gli interessi dei creditori e non certo del “debitore”, producendo danni difficilmente quantificabili non solo nell’economia ma anche nel tessuto sociale, facendo sprofondare la Grecia in una devastante deflazione permanente. Proprio per questo la coalizione che governerà la Grecia dopo la consultazione elettorale prevista per il 25 gennaio prossimo, più che proporre tagli e ristrutturazioni del debito, dovrebbe intraprendere una seria azione risarcitoria nei confronti delle istituzioni europee per i danni subiti nel perseguimento delle politiche economiche che gli sono state imposte. L’aver di fatto commissariato il governo di Atene inducendolo a perseguire politiche e metodi completamente errati che hanno peggiorato continuamente la situazione inchioda, senza possibilità di attenuanti, le responsabilità della Commissione Europea, del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Centrale Europea almeno sin dal 2010, anno in cui sono emerse in tutta la sua gravità sia l’effettiva posizione debitoria innescata dalla bomba a orologeria dei derivati contratti per ottenere il via libera all’entrata nell’Eurozona, sia l’insostenibilità che l’euro aveva prodotto nella sua crescita economica.
    Syriza chiede l’istituzione di una Commissione internazionale sulla falsariga di quella che portò all’accordo sul debito di Londra del 27 febbraio del 1953 dove fu cancellato il 50% del debito estero tedesco, ma i greci ora sottovalutano che la Germania di allora si avvantaggiò enormemente dell’accordo perché poté contare su una propria moneta e soprattutto su una politica economica perfettamente tarata per le proprie esigenze e non invece come quella odierna che rimarrebbe in ogni caso per la Grecia decisa altrove! Pertanto, se le nuove forze che assumeranno il potere ad Atene nei prossimi mesi intenderanno realmente fare gli interessi del paese con l’obiettivo di farlo risorgere economicamente e moralmente, dovrebbero perseguire una uscita dall’euro concordata e pianificata direttamente con i governi europei e promuovere contestualmente un’azione risarcitoria nei confronti della Troika per le responsabilità oggettive avute nella gestione delle crisi finanziarie avvenute negli ultimi anni.
    In particolare, se l’inesperienza e i grossolani errori profusi a più riprese dall’ex commissario europeo per gli affari economici e monetari Olli Rehn, trincerato sempre dietro vulgata dell’irreversibilità dell’euro, non avessero forzatamente fatto adottare alla Grecia politiche economiche con il pugno di ferro con il criterio del “bisogna punire chi non rispetta i patti”, non rendendosi minimamente conto che in questo modo stava segando il ramo dove invece erano seduti anche gli altri, lui compreso, il paese ellenico non sarebbe arrivato allo stato disastroso in cui versa attualmente. E’ giusto che vengano pertanto risarciti gli enormi danni perché gran parte delle colpe sono da imputare all’imposizione di politiche economiche completamente errate e con fini molto distanti dall’effettivo risanamento del paese: in questo modo si ristabilirebbe un criterio di giustizia nei confronti di palesi soprusi compiuti fra l’incompetenza e l’aver favorito interessi finanziari di parte.
    (Antonio Maria Rinaldi, “Grecia, perché Tsipras si sbaglia”, da “Sollevazione” dell’8 gennaio 2015).

    Mentre i mercati s’interrogano su quali strategie, aldilà degli slogan elettorali, saranno poi effettivamente perseguite nel caso di successo delle forze politiche d’opposizione in Grecia, traspare sempre più la volontà del leader di Syriza, Alexis Tsipras, di procedere con un programma “accomodante” per la permanenza del paese nell’area euro. La stessa auspicata rimodulazione concordata del debito pubblico, in una nuova versione rivista e corretta dei precedenti haircut, non produrrebbe infatti gli effetti sperati così come puntualmente evidenziato dall’economista tedesco Hans-Werner Sinn, presidente dell’Ifo (Istituto per la ricerca economica, maggiore think-tank tedesco sulle tematiche di politica economica), il quale ha fatto giustamente presente che «solo uscendo dall’euro la Grecia può evitare il fallimento». Qualsiasi intervento sul debito significherebbe solamente procrastinare i problemi dell’economia greca e non risolverli, aggravando il già disastrato paese ellenico da ulteriori vincoli determinati da prestiti internazionali e da tutele sempre più pressanti nella gestione economica domestica.

  • Grazie a Napolitano, oggi l’Italia è una valle di lacrime

    Scritto il 16/1/15 • nella Categoria: idee • (3)

    Da oggi gli italiani possono guardare al futuro con un pizzico di speranza e di fiducia in più. Giorgio Napolitano, arcigno avamposto italiano di poteri schiavistici, antidemocratici e occulti, si è finalmente dimesso, liberando inconsapevolmente nell’aria un fresco profumo di libertà che riscalda il cuore ed ossigena il cervello. Credo sia opportuno che il Parlamento, espressione di una volontà popolare ripetutamente tradita dal vecchio presidente, sottolinei l’importanza storica di siffatta circostanza, magari affiancando simbolicamente il 14 gennaio al 25 Aprile. Napolitano, con metodi e modi alquanto diversi da quelli utilizzati da Benito Mussolini, ha commissariato l’Italia per quasi un decennio, violentando una dialettica democratica da sacrificare sull’altare di interessi speculativi privati. Napolitano rappresenta uno spartiacque per il nostro paese. Gli storici, così come avvenne per l’esperienza fascista, saranno costretti a raccontare quanto l’Italia sia cambiata (in peggio) in conseguenza dell’ascesa al potere dell’ex comunista migliorista preferito da Henry Kissinger.
    Nel 2006 l’Italia era un paese relativamente prospero e felice, con un tasso di disoccupazione accettabile e un tessuto industriale ancora solido e competitivo. L’Italia di oggi è invece una valle di lacrime, impoverita e umiliata da tecnocrati sprovvisti di mandato popolare che banchettano sulla pelle dei più deboli. In Italia, grazie alle politiche volute da una serie di governi-fantoccio creati dallo stesso Napolitano, la disoccupazione è salita alle stelle. Generazioni intere sono state falcidiate agitando strumentalmente il mito del debito pubblico, tra l’altro paradossalmente aumentato proprio in conseguenza delle dissennate politiche di austerità difese a spada tratta e contro ogni logica proprio dal nostro ex presidente. Ma Napolitano non si è limitato a farsi garante per conto terzi del declino economico e industriale del Belpaese: ha fatto di più e di peggio; ha imposto cioè una visione del potere elitaria e oligarchica, lentamente sfociata in un vero e proprio culto della personalità indegno persino di un paese in via di sviluppo.
    In questi anni la grande stampa, all’unisono, non ha mai osato mettere in discussione le scelte del presidente-monarca, bollando come impuri ed infedeli tutti quelli che trovavano il coraggio di resistere alla dittatura del pensiero unico. Un crinale allo stesso tempo risibile e pericoloso, palesatosi al mondo in tutta la sua ridicola drammaticità il giorno in cui i presidenti delle Camere, Grasso e Boldrini, invitarono i parlamentari a non pronunciare invano in aula il nome del presidente Napolitano. Scene fantozziane che farebbero arrossire di vergogna perfino tipi alla Erdogan. Ancora oggi giornali come “Repubblica”, la “Stampa” e il “Corriere della Sera” trovano il tempo di raccontare al popolo quanto Napolitano sia felice di tornarsene a casa (figuratevi quanto lo siamo noi). Eugenio Scalfari, in un articolo pubblicato ieri su “Repubblica”, è riuscito a scrivere che Napolitano aderì in gioventù al Guf (gruppi universitari fascisti) in funzione antifascista. Ma vi rendete conto? E’ come dire che Tizio volle farsi prete perché chiaramente anticlericale. Non sanno più cosa inventarsi per tenere il sacco ad un uomo anziano che ha sempre e soltanto creduto nel potere per il potere.
    Quando però i piccoli interessi contingenti saranno sopiti, le menzogne interessate e pavide evaporeranno, lasciando sul campo una verità fattuale che, per quanto comprensiva e abbellita, condannerà in eterno il ricordo di Napolitano, pessimo presidente bravo a fare della banalità un’arte e dell’ipocrisia un punto di forza. Stendiamo infine un velo pietoso sulle vere ed eversive dinamiche che hanno preparato la nascita del governo Monti, denunciate sia nel libro di Alan Friedman (“Ammazziamo il Gattopardo)”, che in quello pubblicato dall’ex segretario del Tesoro americano Tim Geithner (“Stress Test”). Retroscena inquietanti, non a caso silenziati da un sistema informativo che, pur ricordando nei fatti l’Istituto Luce, marcia in difesa del ricordo dei giornalisti di “Charlie Hebdo”, massacrati nel nome di una libertà che non accetta limiti né compromessi. Addio Giorgio. L’Italia è finalmente libera di ricominciare a vivere.
    (Francesco Maria Toscano, “L’Italia è finalmente libera, il 14 gennaio 2015 come il 25 aprile 1945”, dal blog “Il Moralista” del 16 gennaio 2015).

    Da oggi gli italiani possono guardare al futuro con un pizzico di speranza e di fiducia in più. Giorgio Napolitano, arcigno avamposto italiano di poteri schiavistici, antidemocratici e occulti, si è finalmente dimesso, liberando inconsapevolmente nell’aria un fresco profumo di libertà che riscalda il cuore ed ossigena il cervello. Credo sia opportuno che il Parlamento, espressione di una volontà popolare ripetutamente tradita dal vecchio presidente, sottolinei l’importanza storica di siffatta circostanza, magari affiancando simbolicamente il 14 gennaio al 25 Aprile. Napolitano, con metodi e modi alquanto diversi da quelli utilizzati da Benito Mussolini, ha commissariato l’Italia per quasi un decennio, violentando una dialettica democratica da sacrificare sull’altare di interessi speculativi privati. Napolitano rappresenta uno spartiacque per il nostro paese. Gli storici, così come avvenne per l’esperienza fascista, saranno costretti a raccontare quanto l’Italia sia cambiata (in peggio) in conseguenza dell’ascesa al potere dell’ex comunista migliorista preferito da Henry Kissinger.

  • Guerre e terrore: guai se l’Europa molla gli Usa per la Cina

    Scritto il 15/1/15 • nella Categoria: idee • (1)

    L’impero anglosassone sta perdendo il controllo del mondo: per questo scatena guerre ovunque, col grande obiettivo di tenere incatenata l’Europa – con l’euro, col Ttip – per impedirne la “fuga” verso lidi più convenienti, come la Russia e la Cina, della cui crescita ormai l’America ha una paura folle. Secondo Federico Dezzani, questa tendenza è emersa in modo esplosivo con la crisi della Lehman Brothers nel settembre 2008: il collasso del sistema finanziario che mette in luce la fragilità dell’economia Usa. Dalla Lehman alla strage di “Charlie Hebdo” a Parigi il passo è più breve di quanto possa apparire. Perché da allora «il mondo sembra impazzito e scivolato in una tale spirale di caos e violenza da dover tornare indietro di decenni per trovarne un precedente». In realtà aveva “parlato chiaro” già l’11 Settembre, da cui le guerre “imperiali” in Iraq e Afghanistan. Il crack di Wall Street, però, ha reso palese quello che poteva ancora essere celato: l’insostenibilità del sistema e la scorciatoia della violenza, anche terroristica, per evitare di fare i conti col resto del mondo.
    Da allora, scrive Dezzani su “Come Don Chisciotte”, abbiamo assistito a un terremoto continuo, mai visto prima: la crisi dell’euro, il disastro dello spread, i governi non-eletti e guidati da ex-Goldman Sachs e affiliati al Bilderberg, le primavere arabe, l’intervento Nato in Libia con annessa uccisione di Gheddafi. E poi: i colpi di Stato consecutivi in Egitto, la guerra siriana, la rivolta di Gezi Park in Turchia, il tentato intervento Nato contro Damasco. A seguire: la nascita e proliferazione dell’Isis, le stragi di Boko Haram in Nigeria, il golpe di estrema destra in Ucraina con conseguente annessione russa della Crimea. Senza scordare le trattative segrete per il Ttip, la guerriglia nel Donbass con annesso abbattimento aereo di linea, le sanzioni a Mosca, la storica firma della cooperazione economica russo-cinese, la tentata “rivoluzione colorata” a Hong Kong. Per finire, l’attentato a Parigi contro “Charlie Hebdo” e, purtroppo, «molto altro ancora nei prossimi mesi».
    Dezzani propone di ricondurre a un’unica narrazione tutti questi eventi apparentemente scollegati: «Sotto la crosta degli avvenimenti scorrono tre fiumi: l’incapacità dell’economia americana di sostenere l’impero e il conseguente sgretolamento della pax americana, la mancata trasformazione dell’Eurozona in unione fiscale, complice anche l’affievolirsi dell’influenza americana sul Vecchio Continente, che avrebbe consentito la nascita degli Stati Uniti d’Europa, e la vertiginosa crescita della Cina, divenuta già nel 2014 prima economia mondiale». Secondo Dezzani, «le élite anglofone sono consce che per mantenere il primato mondiale che detengono dal 1945, il Vecchio Continente deve essere inglobato nella sfera americana, per formare una massa economica e demografica tale da competere con i giganti euroasiatici: per tale fine era stato concepito l’euro, prodromo dell’unione fiscale e quindi politica dell’Europa nella cornice Ue-Nato».
    Il tempo inoltre stringeva, continua Dezzani, perché nel frattempo sia l’Eurasia che l’Africa erano in forte crescita, ponendo le basi non solo per una futura competizione con Washington, ma rappresentando anche potenziali rivali nell’aggregazione con il Vecchio Continente: «Se l’Europa si saldasse all’asse Mosca-Pechino, oppure si formasse un triangolo Europa-Russia-Medioriente, gli Stati Uniti tornerebbero automaticamente al ruolo rivestito fino al 1914», e cioè «periferia del mondo». Qualcosa però non procede come previsto nel processo di unificazione europea: «E la crisi dell’euro, largamente prevedibile come può esserlo quella di un qualsiasi regime a cambi fissi, non partorisce gli Stati Uniti d’Europa nell’arco di tempo 2009-2012». A questo punto, «le élite anglofone cominciano a sudare freddo e si attivano immediatamente per impedire che si apra il recinto, consentendo ai buoi di fuggire dall’Unione Europea».
    Per Dezzani, «i padroni del vapore devono quindi bloccare le forze centrifughe dell’Eurozona e immaginare un progetto di inglobamento alternativo dell’Europa, il Ttip». E inoltre, devono «fare terra bruciata attorno al Vecchio Continente, impedendo qualsiasi processo di integrazione alternativo: sponda nord e sponda sud del Mediterraneo, Germania-Russia, Italia-Russia-Libia». Attenzione: «La primavera araba, le rivoluzioni colorate, il caos libico, il conflitto siriano, il terrorismo dell’Isis e la guerra in Ucraina sono quindi strumenti con cui le élite finanziarie anglofone puntellano l’Eurozona in attesa di assimilare il Vecchio Continente nella “Nato economica”, il Ttip». Massima allerta: «Se domani scoppierà una bomba dell’Isis a Roma, una rivoluzione ad Algeri o un ordigno nel municipio di Donetsk, avete una chiave di lettura per inquadrare l’avvenimento in un più ampio sistema».

    L’impero anglosassone sta perdendo il controllo del mondo: per questo scatena guerre ovunque, col grande obiettivo di tenere incatenata l’Europa – con l’euro, col Ttip – per impedirne la “fuga” verso lidi più convenienti, come la Russia e la Cina, della cui crescita ormai l’America ha una paura folle. Secondo Federico Dezzani, questa tendenza è emersa in modo esplosivo con la crisi della Lehman Brothers nel settembre 2008: il collasso del sistema finanziario che mette in luce la fragilità dell’economia Usa. Dalla Lehman alla strage di “Charlie Hebdo” a Parigi il passo è più breve di quanto possa apparire. Perché da allora «il mondo sembra impazzito e scivolato in una tale spirale di caos e violenza da dover tornare indietro di decenni per trovarne un precedente». In realtà aveva “parlato chiaro” già l’11 Settembre, da cui le guerre “imperiali” in Iraq e Afghanistan. Il crack di Wall Street, però, ha reso palese quello che poteva ancora essere celato: l’insostenibilità del sistema e la scorciatoia della violenza, anche terroristica, per evitare di fare i conti col resto del mondo.

  • Tsipras come Monti: curare la Grecia col pareggio di bilancio

    Scritto il 14/1/15 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    La Troika va trascinata in tribunale, perché i popoli europei – a partire da quello greco – siano finalmente risarciti delle atroci sofferenze loro inflitte dai “nani” tecnocratici di Bruxelles, la feroce casta filo-tedesca, neoliberista e mercantilista che ha trasformato l’Europa nel regno neo-feudale della crisi, minacciando l’intera economia mondiale. Aberrazioni spacciate per dogmi, da funzionari mediocri: gentaglia che in un’azienda sarebbe in grado, al massimo, di accendere e spegnere i computer. Si esprime in questi termini Alexis Tsipras, in vista del voto greco forse decisivo per il futuro dell’euro, senza però annunciare la chiara volontà di uscire dall’orrore della moneta unica che ha ridotto alla fame la Grecia e terremotato mezza Europa. Di più: a parole, il leader di Syriza si scaglia contro l’austerity. Ma non intende rinunciare neppure al più micidiale strumento di austerity imposto dall’Ue, il pareggio di bilancio. Incongruenze incomprensibili o ambigui tatticismi pre-elettorali, nel timore che i “mercati” facciano a pezzi la sinistra greca dopo il voto?
    Tspiras, scrive l’“Huffington Post”, ha sintetizzato il suo pensiero in un libro-intervista del giornalista Teodoro Andreadis Synghellakis, “Alexis Tsipras, La mia Sinistra”, stampato dalle edizioni Bordeaux con prefazione di Stefano Rodotà. Prima incoerenza: Tsipras annuncia che Syriza non intende tornare a una politica democratica basata sul deficit positivo, l’investimento dello Stato per i cittadini. Intoccabile, quindi, la mostruosità economica del pareggio di bilancio. «Il riuscire a proseguire tenendo come punto fermo il pareggio di bilancio è realmente un punto nodale della nostra strategia, perché ci dà la possibilità di trattare da una posizione di forza», sostiene Tsipras, secondo cui «pareggio di bilancio non significa, per forza, dover ricorrere all’austerità». Il leader della sinistra greca preferisce parlare di «giusta divisione dei vari pesi» e «redistribuzione vera, nel sostegno ai più deboli». Tradotto: la cintura resta stretta, ma le torture sociali andranno estese anche ai meno poveri. «La sinistra – dice Tsipras – non è arrivata sul proscenio per servire gli interessi dei potenti, ma per essere capace di attuare una politica socialmente giusta».
    Retorica a parte, Tsipras si dichiara fedele al suicidio economico programmato: col bilancio inchiodato al pareggio, lo Stato non spende un euro in più di quelli che riceve sotto forma di tasse, con un saldo per i cittadini pari a zero, quindi catastrofico. Tutto questo, per tenere a bada i mercati e disinnescare il ricatto dello spread. Non spendere per i cittadini, secondo Tsipras significa «limitare fortemente i bisogni di contrarre prestiti». Austerity pura, dunque, come Mario Monti? Tsipras ripete che la priorità è «rimettere in moto l’economia». Già, ma come? Più tasse o più spesa pubblica? Visto che Syriza non intende espandere la spesa per paura di Bruxelles e della Bce, non resta che una redistribuzione fiscale, destinata forse a incidere sulla società ma non certo sull’economia, che è al collasso. L’Europa teme il voto greco, e la prudenza di Tsipras è dichiarata: «Non intendiamo ricattare nessuno e non intendiamo neanche presentarci alla trattativa indossando una cintura esplosiva», dice il leader della sinistra ellenica, alludendo al negoziato per l’unica proposta – molto modesta – per la quale Syriza si candida: dilazionare semplicemente la liquidazione del debito.
    Eppure, nonostante il bassissimo profilo di Tsipras, secondo il filosofo Slavoj Zizek una vittoria di Syriza «darebbe la sveglia all’Europa». Tsipras conferma: «L’Europa è come un sonnambulo che sta procedendo verso il dirupo, e noi saremo la sveglia del sonnambulo». E come? Confermando il pareggio di bilancio? Tsipras resta ben incollato al grande diktat di Bruxelles, anche se sa benissimo che conduce alla rovina: «Credo che il modello “Sud in deficit e Nord in surplus” non costituisca un esempio attraente neanche per i popoli del Nord Europa. Presuppone, infatti, che gli stipendi debbano smettere di crescere per un tempo piuttosto lungo. Allo stesso tempo, questa logica di iper-accumulo della ricchezza (che viene accumulata nei risparmi ma non investita) costituisce un pericolo enorme per l’economia europea e per quella di tutto il mondo. Accumulando la ricchezza, si accumula la crisi che sarà destinata a scoppiare domani». Con questa strategia, aggiunge Tsipras, «l’Europa è destinata a non sfuggire al suo cammino recessivo: la recessione tornerà presto, e questo vuol dire che viene avvelenata l’acqua dell’economia di tutto il mondo. Vediamo, infatti, che l’Europa esporta recessione nel resto dell’economia mondiale e credo che sia proprio ciò che fa innervosire enormemente gli americani».
    Non dobbiamo scordarci, aggiunge il leader di Syriza, che «per riuscire ad affrontare la crisi, gli americani hanno seguito una politica economica totalmente diversa, una politica espansiva», cioè basata sull’incremento della massa monetaria e del deficit. E’ il tabù europeo che Syriza non osa infrangere, ben sapendo che a imporlo sono stati proprio i tecnocrati di Bruxelles: «La Grecia l’hanno rovinata e insistono nell’applicare le loro ricette distruttive». In altre parole: anche se Syriza non propone ricette per uscire dalla crisi e neppure dal cappio del rigore, limitandosi solo a una più equa ripartizione del peso sociale del disastro, secondo Tsipras la sola vittoria della sua sinistra in Grecia basterebbe a mettere paura ai padroni tedeschi dell’Europa, gli inventori dell’austerity, generando uno smottamento virtuoso in senso democratico. Tutto questo, senza osare alcunché: Syriza annuncia che non farà nulla per mettere in discussione l’impianto economico di Bruxelles, basato sui falsi dogmi di chi ha ideato e imposto la tragedia europea. Per contro, finora la sinistra greca non è stata “complice” dell’euro-sistema. Basta dunque questa sua estraneità a farne il salutare spauracchio di cui parla Zizek?

    La Troika va trascinata in tribunale, perché i popoli europei – a partire da quello greco – siano finalmente risarciti delle atroci sofferenze loro inflitte dai “nani” tecnocratici di Bruxelles, la feroce casta filo-tedesca, neoliberista e mercantilista che ha trasformato l’Europa nel regno neo-feudale della crisi, minacciando l’intera economia mondiale. Aberrazioni spacciate per dogmi, da funzionari mediocri: gentaglia che in un’azienda sarebbe in grado, al massimo, di accendere e spegnere i computer. Si esprime in questi termini Alexis Tsipras, in vista del voto greco forse decisivo per il futuro dell’euro, senza però annunciare la chiara volontà di uscire dall’orrore della moneta unica che ha ridotto alla fame la Grecia e terremotato mezza Europa. Di più: a parole, il leader di Syriza si scaglia contro l’austerity. Ma non intende rinunciare neppure al più micidiale strumento di austerity imposto dall’Ue, il pareggio di bilancio. Incongruenze incomprensibili o ambigui tatticismi pre-elettorali, nel timore che i “mercati” facciano a pezzi la sinistra greca dopo il voto?

  • Jobs Act, fine del lavoro e di cent’anni di progresso in Italia

    Scritto il 13/1/15 • nella Categoria: idee • (4)

    Era lecito domandarsi a che servisse togliere la tutela dell’articolo 18 a tutti i nuovi assunti, quando non si creano nuovi posti di lavoro e la disoccupazione aumenta. Il decreto natalizio del governo Renzi supera questa contraddizione. Senza che se ne fosse minimamente accennato nella discussione parlamentare sulla legge delega, il testo sfrutta al massimo l’incostituzionale mandato in bianco imposto col voto di fiducia e estende la franchigia anche al mancato rispetto delle regole sui licenziamenti collettivi. La legge 223 infatti, recependo principi e regole in vigore in tutti i paesi industriali più avanzati e sostenute con forza da tutte le organizzazioni internazionali, Onu in testa, da oltre venti anni disciplina i licenziamenti collettivi per crisi, stabilendo criteri e regole nel loro esercizio. Ad esempio essa applica un concetto principe del diritto del lavoro degli Usa, la “seniority list”. Se proprio si deve licenziare si parte dagli ultimi arrivati, dai più giovani, da coloro che non hanno carichi familiari e si risale verso le madri e gli anziani capi di famiglia. In vetta a quella lista, nelle aziende Usa sindacalizzate, stanno addirittura i rappresentanti dei lavoratori.
    In Italia non siamo così rigidi, ma il senso della regola è lo stesso. La 223 stabilisce che solo con un accordo sindacale controfirmato da una pubblica autorità si possa derogare ai criteri dell’anzianità e dei carichi familiari. Così son state definite con le aziende, da ultimo con Meridiana, le uscite dei più anziani, in grado di raggiungere la pensione con la indennità di mobilità. Se un’azienda prima del decreto Renzi avesse voluto fare licenziamenti indiscriminati di massa, avrebbe subìto un doppio danno. Avrebbe dovuto pagare consistenti penali e avrebbe rischiato la reintegra da parte di un giudice di tutti i dipendenti licenziati senza il rispetto di regole e procedure. Questo vincolo ha frenato i licenziamenti di massa, anche in una crisi senza precedenti come quella attuale. Ora viene tolto e le aziende potranno liberamente sbarazzarsi, per crisi e ragioni economiche, di lavoratrici e lavoratori che hanno l’articolo 18 e sostituirli con dipendenti precari a vita, pagati molto meno e per la cui assunzione riceveranno anche un consistente finanziamento pubblico.
    La portata reazionaria di questo decreto mostra tutta la malafede di un governo che sa perfettamente che la liberalizzazione dei licenziamenti non ha mai prodotto né mai produrrà un solo posto di lavoro aggiuntivo a quelli esistenti. Nessuno assume in più se non ha lavoro in più da far fare. Ma se viene offerta la possibilità di realizzare, a condizioni più che favorevoli, quello che le imprese chiamano il ricambio organico del personale, perché rifiutarla? Questo è lo scopo vero del Jobact: un gigantesco scambio di manodopera tra chi ha più e chi ha meno diritti e salario. Come più di cento anni fa, quando i braccianti venivano cacciati dalla terra che avevano coltivato, perché agrari e baroni reclutavano gente più povera disposta a subire condizioni peggiori. Non solo il Jobact non fa nulla contro la disoccupazione, ma anzi proprio per funzionare ha bisogno di una massa ricattabile di senza lavoro, senza i quali le sue norme resterebbero lettera morta.
    Alla fine l’occupazione complessiva sarà ancora minore, come già sapientemente prevede la Confindustria, ma quella rimasta somiglierà molto di più a quella che lavora oggi in Cina rispetto a quella che aveva conquistato diritti e dignità in Italia. Le imprese rimaste festeggeranno per i maggiori profitti, mentre il lavoro sarà sottoposto alla schiavitù di un Medio Evo tecnologico. A questo punto non serve aggiungere altre parole. Ogni atto del governo Renzi rappresenta una coerente azione di restaurazione sociale. Non si colpisce solo il lavoro, ma la scuola, la sanità, i servizi pubblici, mentre si rafforzano le spese militari. Quando si interviene, come all’Ilva, lo si fa per permettere alle multinazionali cui verrà ceduta di risparmiare i costi del risanamento e degli investimenti. Tutte le riforme politiche proposte stravolgono principi e libertà costituzionali.
    Ma a questo punto continuare a rimproverare a Renzi e a Giorgio Napolitano, che ne è il primo sostegno, di fare quello che dichiarano di voler fare non serve a niente. Il governo Renzi è la personalizzazione della distruzione della Costituzione Repubblicana, è nato e opera per questo. Rappresenta una classe dirigente italiana che ha deciso che il sistema sociale e democratico del dopoguerra non possa più essere mantenuto, di fronte ai vincoli della Troika e della finanza globale. O si contestano quei vincoli, euro compreso, o si insegue il modello del capitalismo selvaggio senza vincoli. Renzi e Napolitano hanno scelto di essere fino in fondo fedeli esecutori di quei vincoli, per questo oggi son avversari di tutto ciò che nella storia italiana ha significato progresso sociale e democratico. Renzi e Napolitano hanno scelto e chi si oppone a questa loro scelta deve essere altrettanto intransigente e rigoroso. Altrimenti la coerenza reazionaria del governo sarà la sola devastante forza in campo.
    (Giorgio Cremaschi, “Il Jobs Act e la coerenza reazionaria del governo Renzi”, da “Micromega” del 30 dicembre 2014).

    Era lecito domandarsi a che servisse togliere la tutela dell’articolo 18 a tutti i nuovi assunti, quando non si creano nuovi posti di lavoro e la disoccupazione aumenta. Il decreto natalizio del governo Renzi supera questa contraddizione. Senza che se ne fosse minimamente accennato nella discussione parlamentare sulla legge delega, il testo sfrutta al massimo l’incostituzionale mandato in bianco imposto col voto di fiducia e estende la franchigia anche al mancato rispetto delle regole sui licenziamenti collettivi. La legge 223 infatti, recependo principi e regole in vigore in tutti i paesi industriali più avanzati e sostenute con forza da tutte le organizzazioni internazionali, Onu in testa, da oltre venti anni disciplina i licenziamenti collettivi per crisi, stabilendo criteri e regole nel loro esercizio. Ad esempio essa applica un concetto principe del diritto del lavoro degli Usa, la “seniority list”. Se proprio si deve licenziare si parte dagli ultimi arrivati, dai più giovani, da coloro che non hanno carichi familiari e si risale verso le madri e gli anziani capi di famiglia. In vetta a quella lista, nelle aziende Usa sindacalizzate, stanno addirittura i rappresentanti dei lavoratori.

  • Spaventare la Francia: ieri il petroliere, oggi il banchiere

    Scritto il 12/1/15 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Certo, c’è ingombro grottesco e mediatico degli jihadisti fanatici, i tagliagole che – nessuno lo ricorda mai – sono stati incoraggiati, protetti, armati e finanziati dall’Occidente e dagli alleati occidentali del Golfo. E si parla come sempre anche dell’immancabile Mossad, campione mondiale della strategia della tensione per sabotare la democrazia in ogni angolo del pianeta. Ma se il principale bersaglio della strage di Parigi fosse un banchiere? Tra le vittime freddate nella redazione di “Charlie Hebdo” c’è infatti anche il professor Bernard Maris, economista e dirigente della Banca di Francia, protagonista di una clamorosa denuncia dell’austerity europea messa in atto dall’oligarchia che tutela il sistema bancario. La morte di Maris segue di pochi mesi quella di Christope de Margerie, numero uno della Total, scomparso il 20 ottobre scorso in uno strano incidente all’aeroporto di Mosca. De Margerie era stato protagonista di un vigoroso braccio di ferro contro le sanzioni da imporre alla Russia: il capo della Total voleva il dialogo, a tutti i costi. Dialogo che lo stesso Hollande aveva provato a riaprire, proprio alla vigilia della strage di Parigi, ipotizzando la revoca delle sanzioni contro Putin.
    Marco della Luna esplora l’ipotesi della “strage al-banqaidista”, cioè compiuta come “bank aid”, come soccorso alle banche, avente come bersaglio effettivo proprio Maris. Che «mai aveva offeso Allah», ma in compenso aveva attaccato ben altre divinità, interamente europee: «Con le sue ricerche e pubblicazioni, minacciava gli interessi dei creditori-usurai (soprattutto franco-tedeschi) e l’imperialismo finanziario di Berlino in Europa, spiegando che i debiti pubblici sono ingiusti, insostenibili e vanno parzialmente condonati», Soprattutto, continua Della Luna nel suo blog, Maris «aveva confutato e ridicolizzato i dogmi della falsa fede su cui si regge il potere e il profitto dei grandi banchieri: il globalismo, il neoliberismo, la creazione privata del danaro bancario e la mancata registrazione contabile di questa creazione da parte delle banche», quindi anche «la conseguente evasione fiscale per centinaia di miliardi l’anno». Lo stesso Della Luna aveva denunciato il fenomeno in diversi saggi, insieme a Marco Saba, Carlo Sibilia, Nino Galloni e Nicoletta Forcheri: i bilanci delle banche sono falsi, perché non registrano come “attivo” la creazione monetaria.
    Lo ha dimostrato il professor Richard Werner, in un recente “paper” ufficiale della Bank of England. Werner, che insegna all’università di Southampton, spiega che i prestiti bancari avvengono senza che la banca disponga del denaro che presta, mentre la banca si presenta come intermediaria del credito, basandosi su una massa di depositi. “Smontata” da Werner anche l’altra dottrina, quella della “riserva frazionaria”, secondo cui la banca, per prestare, attingerebbe alle proprie riserve presso la banca centrale. «Che le banche creino “ex nihilo” il grosso del “money supply”», continua Della Luna, «era stato anticipato il 26 marzo scorso da un “paper” della Bank of England, che ha spiegato come le banche creino la moneta bancaria con l’atto e nell’atto del prestarla, “by lending it into existence”, non preesistendo quanto prestato all’atto del prestare». Bernard Maris, sostiene Della Luna, faceva parte di questa comunità internazionale di economisti impegnati per un risveglio democratico dell’economia in Europa, denunciando gli abusi del sistema e le menzogne del potere Ue che impone il declassamento dei cittadini, mendiante austerity e smantellamento dello Stato, privatizzazioni selvagge, precarizzazione del lavoro.
    La vittima numero uno della tenaglia europeista è lo Stato, visto come “sindacato dei cittadini”, in quanto “prestatore di ultima istanza”. Con l’euro, questa vitale funzione dello Stato è completamente disabilitata: sono solo le banche a “creare denaro dal nulla”, denaro che però non è più “pubblico”, è privato, costa carissimo (debito pubblico) e arricchisce soltanto l’élite finanziaria. Bernard Maris l’aveva denunciato in modo chiaro, attraverso “Charlie Hebdo”. Se ora si aggiunge la sua morte a quella del patron della Total, si può leggere un chiaro disegno per colpire la Francia di Hollande? Secondo Gioele Magaldi, autore dell’esplosivo libro-denuncia “Massoni”, che indica in alcune superlogge mondiali i mandanti dei peggiori crimini, Hollande – che pure si era fatto eleggere per porre fine all’austerity – ha bruscamente riallineato la sua politica al rigore Ue perché sarebbe stato personalmente minacciato di morte. Quando il terrorismo è opaco e manipolato, i boia si assomigliano tutti. E i media mainstream evitano di ricordare che proprio l’Occidente ha “coltivato” i peggiori tagliagole, dall’Afghanistan all’Iraq, passando per la Libia e la Siria. Macellai perfetti, per silenziare un banchiere scomodo e un petroliere di Stato? Perfetti, sicuramente, per terrorizzare la Francia di Hollande, architrave della traballante Ue. Il clima di “guerra” può far digerire ai francesi la disciplina sociale della crisi, e anche il clima di militarizzazione del mondo su cui gli Usa stanno investendo incessantemente, nella loro pericolosa geopolitica del caos che non esita a reclutare i “nemici della civiltà”.

    Certo, c’è ingombro grottesco e mediatico degli jihadisti fanatici, i tagliagole che – nessuno lo ricorda mai – sono stati incoraggiati, protetti, armati e finanziati dall’Occidente e dagli alleati occidentali del Golfo. E si parla come sempre anche dell’immancabile Mossad, campione mondiale della strategia della tensione per sabotare la democrazia in ogni angolo del pianeta. Ma se il principale bersaglio della strage di Parigi fosse un banchiere? Tra le vittime freddate nella redazione di “Charlie Hebdo” c’è infatti anche il professor Bernard Maris, economista e dirigente della Banca di Francia, protagonista di una clamorosa denuncia dell’austerity europea messa in atto dall’oligarchia che tutela il sistema bancario. La morte di Maris segue di pochi mesi quella di Christope de Margerie, numero uno della Total, scomparso il 20 ottobre scorso in uno strano incidente all’aeroporto di Mosca. De Margerie era stato protagonista di un vigoroso braccio di ferro contro le sanzioni da imporre alla Russia: il capo della Total voleva il dialogo, a tutti i costi. Dialogo che lo stesso Hollande aveva provato a riaprire, proprio alla vigilia della strage di Parigi, ipotizzando la revoca delle sanzioni contro Putin.

  • Magaldi a Grillo: insieme, contro l’élite che minaccia l’Italia

    Scritto il 11/1/15 • nella Categoria: idee • (4)

    Matteo Renzi è un “wannabe” (contrazione di “want to be”, voler essere) massone, cioè è un uomo che aspira a fare parte non tanto del Grande Oriente d’Italia o di altre comunioni massoniche italiane che hanno un’incidenza mediocre sulle vere dinamiche del potere, ma a una delle Ur-Lodges che stanno guidando i processi di destrutturazione sociale ed economica europea. E sono Ur-Lodges in cui è in gran parte protagonista Mario Draghi, un uomo che viene costantemente osannato dalla grande stampa manipolatoria che tratta gli italiani come bambini deficienti. E invece è un uomo che, bisognerebbe ricordarlo, non solo è padre di questa austerità europea che sta massacrando popoli, ma è colui che ha gestito le grandi privatizzazioni all’italiana che sono state una svendita, a favore di amici e amici degli amici, di importanti asset pubblici della nostra nazione. Se non fossero stati dei bambinoni deficienti, gli italiani non avrebbero accolto con le fanfare Monti, Letta, Renzi. Monti appartiene alle aristocrazie massoniche delle Ur-Lodges. Enrico Letta è un paramassone di rango, non è stato mai ammesso nel santa sanctorum delle superlogge più importanti ma è sempre stato al loro servizio in modo subalterno e ancillare.
    Le dimissioni Napolitano sono state, da qualcuno, messe anche in connessione con questa operazione editoriale che noi abbiamo lanciato (il libro “Massoni”, edito da Chiarelettere). Questa nostra operazione, unita ad altre, ha creato molti nervosismi. Questi fattori, naturalmente insieme ad altri, hanno indotto Napolitano a dimettersi. Il sostituto di Napolitano? Noi vigileremo, perché nel libro si parla non soltanto di massoneria aristocratica, quella che gestisce da 30-40 anni i grandi processi di globalizzazione e di insana costruzione europea, ma si parla anche di riscatto delle Ur-Lodges progressiste, l’ambiente democratico, di cui sono un “gran maestro”. Noi vigileremo su chi sarà il prossimo inquilino del Colle. In termini democratici, limpidi e trasparenti diremo di evitare che vada al Quirinale un altro personaggio nefasto come Napolitano. Se uno guarda l’Ur-Lodge a cui appartiene Napolitano e ne vede la storia, non esce benissimo uno che, come lui, è stato appartenente fino al 1978. Il prossimo presidente non sarà però influente e importante come lo è stato Napolitano, perché i tempi sono cambiati e la gente inizia ad aprire gli occhi e le orecchie. Prodi? E’ senz’altro parte del network massonico sovranazionale, in termini perfino clamorosi e insospettabili.
    Il “Movimento 5 Stelle”? E’ nato su esigenze molto importanti e utili, avrebbe da modificare alcune cose. Ha poi un problema interno di articolazione democratica e liberale. Noi stiamo fondando un movimento metapartitico che quindi non chiederà il consenso e non sarà concorrente né del Movimento 5 Stelle né di altri partiti, ma vuole riunire tutti i progressisti italiani ed extra-italiani, europei, per cambiare paradigma in Italia, in Europa e nel mondo, in questa cattiva globalizzazione. Questo movimento si chiama “Movimento Roosevelt” e vedrà la luce tra gennaio e febbraio 2015. Riunisce massoni e non massoni, purché accomunati da una vocazione progressista. Il nome “Movimento Roosevelt” richiama la dichiarazione dei diritti umani patrocinata da Eleanor Roosevelt, richiama la grande lezione del New Deal di Franklin Delano Roosevelt e la lezione economica di John Maynard Keynes, dimenticata in questa Europa tutta quanta friedmaniana e basata sui principi di un neoliberismo feroce e anche ottuso, se non fosse che è un neoliberismo in malafede, è fatto apposta, con le sue valide declinazioni per destrutturare la società europea, i suoi principi di welfare la sua prosperità.
    La massoneria rivendica la costruzione delle società aperte, libere, democratiche, e del pluralismo di informazione. Anche le lamentele sullo svuotamento di sostanzialità, la democrazia contemporanea, si possono fare, oggi, perché qualcuno in passato l’ha inventata, la democrazia: la democrazia e la libertà non le ha portate la cicogna, ma i massoni progressisti. L’opinione pubblica media, non solo italiana, purtroppo è facilmente manipolata dai grandi mezzi di informazione, concentrati nelle mani di editori non puri in gran parte, e questo è un caso eclatante per l’Italia. Da noi c’è poca editoria pura, il Quarto Potere che controlli gli altri tre poteri non esiste perché giornali e televisioni sono in mano a signori che hanno anche banche, assicurazioni e altri interessi industriali o finanziari. Agli italiani, e non solo a a loro, viene fatta una narrazione delle cose che prepara poi l’arrivo con le fanfare di personaggi come Monti e Letta e poi anche di Renzi che è un grande affabulatore molto più carismatico e vendibile di Monti e Letta, ma che nella sostanza ha proseguito le stesse politiche recessive e distruttive dell’interesse pubblico.
    Invito il “Movimento 5 Stelle” e i suoi dirigenti ad abbeverarsi, perché faremo una scuola di alta formazione politologica: faremo una Fondazione Roosevelt con interventi importanti di welfare sul territorio europeo per dimostrare che la politica dovrebbe essere intervento sulle cose, sui territori, riunendo le persone di sano intelletto e buona volontà anche di diversi schieramenti. Ma vorrei dare un ultimo consiglio agli ispiratori e ai gestori del “Movimento 5 Stelle”: accettino l’idea che non si possono abolire i partiti, e che l’alleanza tra diversi, pur mantenendo la propria identità, è l’unica possibilità di ridare sostanza alla democrazia italiana e non solo italiana. Se il “Movimento 5 Stelle” accetterà di dialogare e di allearsi con chi li considera il meno peggio nel panorama politico italiano, noi potremo avere una svolta politica importante, altrimenti si rischia di congelare milioni di voti che credono e hanno creduto, giustamente, al Movimento 5 Stelle come fattore di rinnovamento.
    (Gioele Magaldi, dichiarazioni rilasciate al blog di Beppe Grillo per il “Passaparola” del 5 gennaio 2015).

    Matteo Renzi è un “wannabe” (contrazione di “want to be”, voler essere) massone, cioè è un uomo che aspira a fare parte non tanto del Grande Oriente d’Italia o di altre comunioni massoniche italiane che hanno un’incidenza mediocre sulle vere dinamiche del potere, ma a una delle Ur-Lodges che stanno guidando i processi di destrutturazione sociale ed economica europea. E sono Ur-Lodges in cui è in gran parte protagonista Mario Draghi, un uomo che viene costantemente osannato dalla grande stampa manipolatoria che tratta gli italiani come bambini deficienti. E invece è un uomo che, bisognerebbe ricordarlo, non solo è padre di questa austerità europea che sta massacrando popoli, ma è colui che ha gestito le grandi privatizzazioni all’italiana che sono state una svendita, a favore di amici e amici degli amici, di importanti asset pubblici della nostra nazione. Se non fossero stati dei bambinoni deficienti, gli italiani non avrebbero accolto con le fanfare Monti, Letta, Renzi. Monti appartiene alle aristocrazie massoniche delle Ur-Lodges. Enrico Letta è un paramassone di rango, non è stato mai ammesso nel santa sanctorum delle superlogge più importanti ma è sempre stato al loro servizio in modo subalterno e ancillare.

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