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Archivio del Tag ‘crisi’

  • Escobar: la Nato può solo sognare di battere i missili russi

    Scritto il 10/12/14 • nella Categoria: segnalazioni • (9)

    Roulette russa. Un gioco pericoloso, soprattuttto per l’Occidente. Perché Mosca è in grado di neutralizzare qualsiasi attacco, anche nucleare, proveniente dagli Usa e dalla Nato. Lo sostiene un osservatore internazionale come Pepe Escobar: il Pil occidentale non potrebbe nulla contro le capacità di difesa dei russi, che al vecchio arsenale atomico sovietico hanno aggiunto armamenti midiciali, capaci di annullare qualsiasi attacco aereo e missilistico. Armi strategiche che verrebbero prontamente impiegate per difendere la Federazione Russa se anche Ucraina e Bielorussia dovessero passare alla Nato, disintegrando l’ultimo residuo diaframma di sicurezza rappresentato dalla “shatterbelt”, zona-cuscinetto che separa «l’aquila tedesca e l’orso russo». Mentre l’élite di Washington e Wall Street preme per far precipitare la crisi fino alla guerra con la Russia, incoraggiata da Kiev, Varsavia e paesi baltici, «gli americani informati si chiedono il motivo per cui gli Usa dovrebbero pagare per la difesa dell’Europa quando il Pil europeo è più grande di quello degli Usa». Specie se la Russia, finora, non ha fatto altro che difendersi. Ma attenzione: quello degli Usa è un bluff.
    «I missili balistici intercontinentali russi armati di testate multiple Mirv viaggiano a una velocità di circa 18 Mach», scrive Escobar in un post ripreso da “Megachip”: quei missili sono «fondamentalmente imbattibili», perché «assai più veloci di qualsiasi cosa presente nell’arsenale Usa». Poi c’è il «doppio guaio» rappresentato dai missili S-400 e S-500: «Mosca ha accettato di vendere il sistema missilistico S-400 terra-aria alla Cina», e questo «renderà Pechino impermeabile alla potenza aeronautica degli Usa, ai loro missili balistici intercontinentali nonché ai missili Cruise». La Russia, da parte sua, si sta già concentrando sugli S-500 di ultimissima generazione, «che sostanzialmente fanno sì che il sistema anti-missile Patriot sembri un V-2 della Seconda Guerra Mondiale». Senza contare il missile russo Iskander, che viaggia a Mach 7, con un raggio di 400 chilometri, e trasporta una testata da 700 chili di diverse varietà, e con una probabilità di errore pari a 5 metri. «Traduzione: un’arma letale finale contro aeroporti e infrastrutture logistiche. L’Iskander può raggiungere obiettivi nel profondo dell’Europa». Quanto al duello aereo, il super-caccia Sukhoi T-50 “Pak Fa”, nuovissimo stealth russo, promette di sovrastare largamente l’F-35.
    «I pagliacci della Nato che sognano una guerra alla Russia», scrive Escobar, dovrebbero giungere ad avere «un sistema ferreo per mettere fuori gioco gli Iskander, ma non ne hanno alcuno». Inoltre, «dovrebbero affrontare gli S-400, che i russi possono distribuire a tutto spettro: pensate a una pesante partita di S-400 posizionati nell’enclave russa di Kaliningrad; essa trasformerebbe le operazioni aeree della Nato in profondità all’interno del’Europa in un incubo assolutamente orrendo». La difesa missilistica russa potrebbe distruggere «centinaia di caccia», a spese di una Ue «già finanziariamente devastata e impestata fino alla morte dall’austerity». Come se non bastasse, aggiunge Escobar, nessuno conosce l’esatta portata delle capacità strategiche della Nato, di cui Bruxelles infatti non parla. «Fuori dall’ufficialità, queste capacità non sono esattamente una meraviglia. E l’intelligence russa lo sa». Se la Nato divesse insistere nella scommessa bellica, «Mosca ha già fatto capire chiaramente che la Russia farebbe uso del proprio impressionante arsenale costituito da 5.000 o più armi nucleari tattiche – e qualsiasi altra cosa occorresse – per difendere la nazione contro un attacco convenzionale Nato. Inoltre, alcune migliaia di S-400 e S-500 sono sufficienti a bloccare un attacco nucleare Usa».
    Ce n’è abbastanza, aggiunge Escobar, per disegnare un «orripilante scenario da “Apocalypse Now”», e senza ancora tener conto della nuova alleanza tra Russia e Cina, che è «il maggior fattore di cambiamento di gioco nella storia eurasiatica». Pechino, infatti, «sta investendo massicciamente in sistemi di rimbalzo laser satellitare, in missili in grado di colpire i satelliti, sottomarini silenziosi che emergono accanto a portaerei Usa senza farsi rilevare». In più, c’è anche un nuovo missile anti-missile “made in China” che può colpire in movimento un satellite più velocemente di qualsiasi missile balistico intercontinentale “Icbm”. «In poche parole: Pechino sa quanto la flotta di superficie degli Stati Uniti sia obsoleta – e indifendibile. E non c’è bisogno di aggiungere che tutti questi sviluppi cinesi modernizzatori stanno procedendo modo più velocemente di qualsiasi altra cosa negli Stati Uniti». Mosca minaccia l’Europa? Falso. Semmai è vero il contrario: è la Nato che si sta avvicinando alla frontiera russa. Ma con un armamento fatto più di propaganda che di armi letali. «Quel che è realmente accaduto – scrive Escobar – è che Mosca ha abilmente voluto vedere il bluff ispirato da Brzezinski in Ucraina, con tutte le sue sfumature: nessuna meraviglia che l’Impero del Caos sia furioso».
    Secondo il giornalista, per «disinnescare l’attuale corsa isterica verso la logica di guerra» basterebbe, letteralmente, “disfare Stalin”, cioè le frontiere artificiosamente ridisegnate alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando l’Urss «si prese la Prussia orientale dalla Germania e trasferì la parte orientale della Polonia all’Ucraina». L’Est Ucraina, invece, «era originariamente della Russia: è parte della Russia e venne data da Lenin all’Ucraina». Per “cancellare Stalin” dalla carta geografica europea bisognerebbe quindi “restituire” alla Germania la Prussia orientale, oggi polacca, e alla Russia le regioni orientali dell’Ucraina. Una “restituzione” simile a quella della Crimea, storicamente russa e “regalata” all’Ucraina da Khrushev all’epoca dell’Urss. Niente più confini arbitrari? I cinesi la definirebbero «una situazione “a vittoria tripla”», che premierebbe tutti e allontanerebbe la guerra, perché «non ci sarebbe più un caos manipolato al fine di giustificare una crociata contro una “aggressione” russa fasulla». Una mossa del genere, ovviamente, oggi sarebbe impensabile, contrastata fino alla morte dall’“Impero del Caos”. A meno che non sia la Germania, in primis, a sganciarsi dalla carovana della guerra.

    Roulette russa. Un gioco pericoloso, soprattuttto per l’Occidente. Perché Mosca è in grado di neutralizzare qualsiasi attacco, anche nucleare, proveniente dagli Usa e dalla Nato. Lo sostiene un osservatore internazionale come Pepe Escobar: il Pil occidentale non potrebbe nulla contro le capacità di difesa dei russi, che al vecchio arsenale atomico sovietico hanno aggiunto armamenti midiciali, capaci di annullare qualsiasi attacco aereo e missilistico. Armi strategiche che verrebbero prontamente impiegate per difendere la Federazione Russa se anche Ucraina e Bielorussia dovessero passare alla Nato, disintegrando l’ultimo residuo diaframma di sicurezza rappresentato dalla “shatterbelt”, zona-cuscinetto che separa «l’aquila tedesca e l’orso russo». Mentre l’élite di Washington e Wall Street preme per far precipitare la crisi fino alla guerra con la Russia, incoraggiata da Kiev, Varsavia e paesi baltici, «gli americani informati si chiedono il motivo per cui gli Usa dovrebbero pagare per la difesa dell’Europa quando il Pil europeo è più grande di quello degli Usa». Specie se la Russia, finora, non ha fatto altro che difendersi. Ma attenzione: quello degli Usa è un bluff.

  • Pubblico impiego, assumere subito un milione di giovani

    Scritto il 09/12/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Pensate che i dipendenti pubblici in Italia siano troppi? Errore: sono troppo pochi. Nel 2011 erano 3 milioni e 435.000, di cui 320.000 precari, tra collaboratori e partite Iva, contro i 6 milioni e 217.000 della Francia e i 5 milioni e 785.000 del Regno Unito, paesi con una popolazione molto simile alla nostra e un Pil non troppo superiore. Anche in Spagna e negli Usa i dipendenti pubblici sono più numerosi che in Italia, rispettivamente 65,6 e 71,1 ogni mille abitanti, contro i 56,9 del nostro paese. Solo il dato tedesco è simile a quello italiano (54,7 ogni mille abitanti), ma è influenzato verso il basso dal regime privatistico della sanità. Se consideriamo il solo personale amministrativo, affermano gli economisti delle università di Torino e del Piemonte Orientale, per avere in Italia lo stesso numero di dipendenti pubblici pro capite che c’è in Germania bisognerebbe ricorrere a 417.000 nuove assunzioni, a fronte di uno stock attuale di 1.337.000: un incremento del 31%. E per raggiungere gli stessi livelli degli Usa bisognerebbe assumerne addirittura un milione e 310.000. Obiettivo, quindi: stabilizzare i precari già in servizio e, in più, assumere subito almeno 800.000 giovani nel pubblico impiego.
    E’ ovvio, premettono i docenti piemontesi, che nella pubblica amministrazione ci siano anche esuberi: la commissione di Carlo Cottarelli sulla “spending review” ne ha contati 58.000, cioè «un numero quasi trascurabile rispetto alle esigenze qui prospettate». Esempio: nel servizio sanitario nazionale, le dotazioni di organico nel 2012 erano di 760.000 posti, contro una presenza di 670.000 addetti. Oggi, il numero di addetti si è ridotto di altre 50.000 unità. Più dipendenti pubblici possono sicuramente rilanciare l’economia nazionale, spiegano su “Micromega” Bruno Contini, Nicola Negri, Francesco Scacciati e Pietro Terna dell’Università di Torino, insieme ai colleghi Angela Ambrosino, Maria Luisa Bianco e Guido Ortona dell’Università del Piemonte Orientale (Novara e Alessandria). «Se ammettiamo che un’economia non può funzionare bene senza uno Stato che funzioni bene, la ripresa della crescita del paese richiede contestualmente una altrettanto vigorosa crescita dell’efficienza della amministrazione pubblica in quasi tutti i suoi settori». Il malfunzionamento del pubblico impiego, infatti, «costituisce uno degli ostacoli più rilevanti alla competitività dell’Italia».
    Il vero problema, aggiungono i professori, è che risulta velleitaria qualsiasi ipotesi di modernizzazione della pubblica amministrazione che contempli solo una crescita di efficienza, e non anche di personale. «Se l’ordine di grandezza “giusto” di pubblici dipendenti è quello dei paesi con cui solitamente ci confrontiamo, un aumento consistente del loro numero è una condizione necessaria (anche se certo non sufficiente) per riavviare la tanto sospirata crescita», anche in chiave di riduzione della disoccupazione. La loro proposta? «E’ che la pubblica amministrazione assuma in tempi rapidi da ottocentomila a un milione di nuovi addetti, con contratti che tengano conto della situazione di emergenza in cui versa la nostra economia». Per i docenti, è inoltre indispensabile tener conto che oggi l’età media dei dipendenti pubblici si avvicina a 50 anni, e che il 48% del personale attuale andrà in pensione prima del 2029 e il 27% prima del 2024. Ricambio generazionale urgente: «Bisogna che le assunzioni avvengano là dove servono, cioè dove sono più utili per lo sviluppo dell’economia», cioè nella giustizia civile, nella formazione tecnica e professionale, nella ricerca, nella sanità e nei servizi di assistenza extra-ospedaliera, nei servizi per l’impiego, nell’ordine pubblico e nei progetti miranti al riassetto del territorio e alla manutenzione dei beni culturali.
    Negli altri paesi, il settore pubblico rappresenta una quota cospicua della domanda di laureati, grazie anche all’elevata scolarità della forza lavoro. Al contrario, in Italia, al sotto-dimensionamento della pubblica amministrazione si accompagna un livello di scolarità del personale particolarmente basso: solo il 26% degli addetti è in possesso di una laurea, cui si deve aggiungere un 4% con la laurea triennale, a fronte, per esempio, di una percentuale del 54% in Gran Bretagna, dove i “civil servants” laureati sono oltre 3 milioni (i pubblici dipendenti laureati italiani sono soltanto un milione). «Se si volesse adeguare il settore pubblico agli standard europei si riassorbirebbe completamente la disoccupazione dei laureati». Fondamentale, ovviamente, evitare di assegnare il personale a compiti non prioritari ed effettuare le assunzioni sulla base delle pressioni politiche locali più che delle reali necessità. Soluzione: «Gli enti e gli uffici locali interessati dovrebbero fare delle proposte di aumenti del personale sulla base di progetti o programmi dettagliati, che dovrebbero essere valutati e approvati da un ente centrale, rigorosamente non politico».
    Le risorse umane sono sterminate: una massa enorme di disoccupati e inoccupati, laureati e diplomati, qualificabili in tempi brevi con un addestramento orientato al nuovo lavoro. Quanto ai costi, non supererebbero i 15-20 miliardi l’anno: una cifra «consistente, ma reperibile, tanto più in quanto l’imposizione fiscale necessaria sia una vera imposizione di scopo». Parte del finanziamento potrebbe provenire da fondi europei, e un’altra parte da una limitata imposta patrimoniale sulla ricchezza finanziaria, che – cosa per nulla trascurabile – non confliggerebbe coi vincoli europei sul rapporto deficit/Pil. I docenti ipotizzano un’aliquota progressiva compresa tra il 2 e il 6 per mille – da cui sarebbero completamente esenti metà dei nuclei familiari, poichè la loro ricchezza finanziaria è inferiore ai 150.000 euro – sarebbe sufficiente a finanziare tre quarti dell’intero progetto, che “varrebbe” 28 miliardi in tre anni. Ovvero: «Se il finanziamento straordinario durasse tre anni, genererebbe per ciascuno dei tre anni una crescita di quasi un punto e mezzo di Pil». Di conseguenza, «alla fine dei tre anni le risorse finanziarie straordinarie per sostenere l’occupazione aggiuntiva non sarebbero più necessarie».
    Le assunzioni sarebbero un toccasana: per il pubblico impiego che è sottodimensionato, per i giovani laureati e disoccupati, quindi per la domanda interna che è in crisi e mette in difficoltà le aziende, il Pil, il gettito fiscale e di conseguenza il debito pubblico. I contribuenti? Pagherebbero volentieri una mini-tax, «qualora potessero essere sicuri che il gettito vada realmente ed esclusivamente a creare posti di lavoro utili alla collettività per i disoccupati, soprattutto giovani». In Italia vi sono oggi 22,5 milioni di nuclei familiari, di cui 11-12 che sarebbero chiamati a contribuire alla “patrimoniale di scopo” per sostenere l’occupazione. E sono 3 milioni i “Neet” (giovani tra i 18 e i 29 anni che non studiano né lavorano), ancora ospitati dai genitori. Di fatto, un milione e mezzo di famiglie con figli ormai adulti ancora a carico. Ovvio che il consenso sarebbe largo, se un piccolo sacrificio contributivo desse l’ossigeno necessario alla campagna di assunzioni. Soluzione perfettibile? Parliamone, dicono i professori, ma le difficoltà tecniche «non possono in alcun modo esimere il potere politico dalla necessità di affrontare i problemi che abbiamo citato».

    Pensate che i dipendenti pubblici in Italia siano troppi? Errore: sono troppo pochi. Nel 2011 erano 3 milioni e 435.000, di cui 320.000 precari, tra collaboratori e partite Iva, contro i 6 milioni e 217.000 della Francia e i 5 milioni e 785.000 del Regno Unito, paesi con una popolazione molto simile alla nostra e un Pil non troppo superiore. Anche in Spagna e negli Usa i dipendenti pubblici sono più numerosi che in Italia, rispettivamente 65,6 e 71,1 ogni mille abitanti, contro i 56,9 del nostro paese. Solo il dato tedesco è simile a quello italiano (54,7 ogni mille abitanti), ma è influenzato verso il basso dal regime privatistico della sanità. Se consideriamo il solo personale amministrativo, affermano gli economisti delle università di Torino e del Piemonte Orientale, per avere in Italia lo stesso numero di dipendenti pubblici pro capite che c’è in Germania bisognerebbe ricorrere a 417.000 nuove assunzioni, a fronte di uno stock attuale di 1.337.000: un incremento del 31%. E per raggiungere gli stessi livelli degli Usa bisognerebbe assumerne addirittura un milione e 310.000. Obiettivo, quindi: stabilizzare i precari già in servizio e, in più, assumere subito almeno 800.000 giovani nel pubblico impiego.

  • Guerra alla Russia, via libera a Obama dalla Camera Usa

    Scritto il 08/12/14 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Il 4 dicembre 2014 potrà a buon diritto essere incluso nell’elenco delle date che avranno anticipato, o preparato, la terza guerra mondiale. Luciano Canfora ha pubblicato un bel libretto, “1914” (Sellerio), a cento anni dall’inizio della prima, per ricordarci, saggiamente, che queste faccende non nascono all’improvviso, ma richiedono una lunga preparazione. E ne descrive il percorso. A posteriori. Forse noi stiamo vivendo il cammino, in medias res, della prossima. Ne scrivo dopo avere letto le 16 pagine della risoluzione approvata il 4 dicembre dalla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti d’America, 410 voti a favore e 10 contrari (quattro deputati repubblicani e 6 democratici). Il Congresso Usa invita il presidente a «esaminare» la «prontezza» e la «responsabilità» delle forze armate degli Stati Uniti, ma anche degli alleati della Nato, per sapere se «siano sufficienti» al fine di «soddisfare gli obblighi della difesa collettiva ai sensi dell’articolo 5 del Trattato del Nord Atlantico». E’ una dichiarazione di guerra. Contro chi è evidente dal resto della risoluzione, interamente dedicata alla Russia.
    Ma la gravità del documento balza agli occhi proprio nel punto citato, là dove richiama gli “obblighi” degli alleati in base all’articolo 5. Che impone a un qualsiasi membro della Nato di intervenire a difesa di un qualsiasi altro membro dell’Alleanza che si trovi sotto attacco. Si dà il caso, però, che l’Ucraina non è un membro della Nato (per lo meno non lo è ancora). Il che induce a pensare che, in questo modo, i deputati americani annuncino un suo immediato ingresso nell’Alleanza, ovvero che chiamino gli alleati a mettere in conto l’obbligo di intervenire comunque, se a questo li chiamerà il Grande Fratello d’oltre Atlantico. Si tenga presente inoltre che, in base alla legislazione americana, se una tale risoluzione diventasse legge, dopo l’approvazione del Senato, essa consentirà al presidente degli Stati Uniti di dichiarare guerra alla Russia senza bisogno di chiedere ulteriori autorizzazioni del legislatore.
    Le accuse alla Russia sono note e sono quelle che hanno condotto alle sanzioni economiche già varate dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea. Ma quello che sbalordisce è l’uso spregiudicato – in una risoluzione politica di tale importanza – delle falsificazioni che il mainstream televisivo e giornalistico ha utilizzato in questi mesi di esplosione della crisi ucraina per far crescere l’isteria anti-russa. I membri del Congresso hanno votato quasi all’unanimità una risoluzione che contiene una serie di invettive propagandistiche e di accuse palesemente infondate. Fino al punto dello scadimento nel ridicolo laddove, al paragrafo 34, ignorando patentemente le rivelazioni di Edward Snowden a proposito dello spionaggio americano verso il resto del mondo intero, il Congresso Usa accusa i russi di «raccogliere illegalmente informazioni sul governo degli Stati Uniti». Il bue che dà del cornuto all’asino.
    Da notare che la risoluzione è stata approvata negli stessi giorni in cui il Pentagono decideva l’invio di 100 carri armati americani verso destinazioni est-europee, per – ufficialmente – «fronteggiate l’aggressione russa». Ma di quale aggressione di tratta? Stando a quello che scrive Ron Paul (congressista fino al gennaio del 2013, repubblicano molto indipendente) «la risoluzione non fornisce alcuna prova». Parla ampiamente di una «violazione della sovranità dell’Ucraina», ma ignorando «la partecipazione degli Stati Uniti al rovesciamento di un governo eletto a Kiev». L’ex deputato del Texas ironizza pesantemente sulla richiesta del ritiro di forze russe dall’Ucraina. Il governo americano «non ha offerto alcuna prova che l’esercito russo sia entrato in Ucraina», sebbene «abbia tutti i mezzi per effettuare una simile verifica».
    Altra accusa alla Russia di Putin non solo infondata ma falsa – lo rileva anche Ron Paul sul suo blog – è quella di avere invaso la Georgia nel 2008. Esistono le conclusioni dell’inchiesta che venne promossa dall’Unione Europea nel dicembre di quell’anno, dalle quali si evince che «fu la Georgia a cominciare una guerra ingiustificata». Ed è sempre Ron Paul a contestare l’affermazione, data con totale impudenza come vera, secondo cui il volo della Malaysia Airlines fu abbattuto il 17 luglio scorso, nei cieli di Ucraina, da un missile dei ribelli. «Ciò – scrive Paul – è semplicemente scorretto perché il rapporto sull’inchiesta non sarà pubblicato fino al prossimo anno e nessuna informazione preliminare dichiara che l’aereo è stato abbattuto da un missile», né vi è alcuna dichiarazione «che assegni una tale responsabilità a una delle parti».
    A leggere la risoluzione si ha l’impressione che i suoi estensori (e i suoi votanti a favore) abbiano ricavato i loro giudizi dagli articoli di giornale e dai telegiornali americani, senza nemmeno curarsi di effettuare le verifiche. Con lo sconsolante risultato circolare che il cattivo giornalismo finisce per produrre pessime decisioni politiche. Lo stesso Ron Paul si chiede, con sdegno, come sia possibile che il Congresso degli Stati Uniti, nel quale egli stesso ha seduto per molti anni, possa ora «procedere sulla base di falsificazioni così plateali». Oppure addebitando all’avversario atti che gli Stati Uniti compiono negli stessi frangenti. Come quando, nel paragrafo 17, la Russia viene incolpata di avere imposto sanzioni contro l’Ucraina proprio mentre «gli Stati Uniti stanno colpendo la Russia con sanzioni economiche e ne annunciano altre». Che un ex deputato americano si accorga e denunci queste aberrazioni non cambia la gravità del voto del Congresso su un documento che autorizza «l’invio di armi letali e non letali» all’Ucraina, con il contorno di istruttori militari americani. E’ l’invito a un intervento militare a 10.000 chilometri di distanza, direttamente sulla soglia di casa della Russia.
    (Giulietto Chiesa, “Usa, la nuova risoluzione porta alla guerra contro la Russia”, da “Il Fatto Quotidiano” del 7 dicembre 2014).

    Il 4 dicembre 2014 potrà a buon diritto essere incluso nell’elenco delle date che avranno anticipato, o preparato, la terza guerra mondiale. Luciano Canfora ha pubblicato un bel libretto, “1914” (Sellerio), a cento anni dall’inizio della prima, per ricordarci, saggiamente, che queste faccende non nascono all’improvviso, ma richiedono una lunga preparazione. E ne descrive il percorso. A posteriori. Forse noi stiamo vivendo il cammino, in medias res, della prossima. Ne scrivo dopo avere letto le 16 pagine della risoluzione approvata il 4 dicembre dalla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti d’America, 410 voti a favore e 10 contrari (quattro deputati repubblicani e 6 democratici). Il Congresso Usa invita il presidente a «esaminare» la «prontezza» e la «responsabilità» delle forze armate degli Stati Uniti, ma anche degli alleati della Nato, per sapere se «siano sufficienti» al fine di «soddisfare gli obblighi della difesa collettiva ai sensi dell’articolo 5 del Trattato del Nord Atlantico». E’ una dichiarazione di guerra. Contro chi è evidente dal resto della risoluzione, interamente dedicata alla Russia.

  • Titoli all’asta per elemosinare euro, beffati anche i tedeschi

    Scritto il 06/12/14 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Come è noto, l’invenzione dell’euro ha distrutto le monete nazionali, che ogni paese creava da solo e dal nulla, e ora tutte le nazioni dell’Eurozona devono finanziarsi sui Mercati di Capitali privati per avere moneta (l’euro) per la spesa pubblica. Quindi emettono titoli di Stato per il valore di cui necessitano per la spesa, e sperano che i mercati glieli comprino tutti. Sappiamo come sono andate le cose per anni: i Mercati non si fidavano più dei paesi Eurozona più indebitati, come Italia o Spagna o Grecia, perché appunto avevano PERDUTO LA LORO ABILITA’ DI STAMPARE LA LORO MONETA E DI RIPAGARE I DEBITI SEMPRE E COMUNQUE perduto la loro abilità di stampare la loro moneta e di ripagare i debiti sempre e comunque (con fa il Giappone col debito più alto del mondo). Ok. E allora i Mercati pretendevano come precauzione, da Italia e Spagna, tassi d’interesse molto alti prima di comprargli i titoli di Stato. Brutto affare. E andavano a comprare invece i titoli di Stato tedeschi perché ritenevano che la Germania avesse i soldi per ripagare sempre, nonostante avesse perduto anch’essa la moneta sovrana, il marco. Li aveva perché esportava da pazzi, quindi soldi in cassa c’erano. Ok.
    Poi cosa è successo? Che Draghi e la Bce hanno visto che l’euro stava distruggendo mezza Europa, poi tre quarti d’Europa, poi tutta, eh sì, perché capitò che anche la grande Germania iniziò a esportare meno e a perdere enormi pezzi d’economia, a causa proprio del fatto che il resto d’Europa, impoverito dalle stesse dementi regole dell’euro, le Austerità, aveva smesso di comprare prodotti tedeschi, e poi era venuta la crisi della Cina, e dei paesi emergenti, e così anche Berlino stava e sta andando sotto. Ok. Allora la Bce decide di stampare somme colossali in euro e di intervenire sui Mercati per… (il perché lo sappiano noi segugi, ed è per ingrassare gli speculatori di Borsa, punto) per fingere di voler risollevare l’economia della Ue. La faccio breve. I Mercati hanno comprato talmente tanti titoli di Stato tedeschi (anche coi sopraccitati soldi stampati dalla Bce), che ora ne hanno la nausea, per due motivi: primo, perché speravano che la Bce si mettesse a comprare in massa anche i titoli di Stato (più se ne comprano, più aumentano di valore per chi li possiede) e invece la Bce non lo fa e non lo farà.
    Secondo, perché dopo aver comprato camionate di titoli tedeschi, gli interessi che i Mercati guadagnano su quei titoli è crollato a ZERO zero (più titoli si comprano, meno rendono in interessi). Oggi il Bund tedesco a 10 anni ti rende lo 0,74%, meno che un investimento in banane. Risultato? Indovinate chi oggi non riesce a finanziarsi appieno sui Mercati? Cioè a vendere la quantità di titoli di Stato che gli serve per avere gli euro? MA LA GERMANIA!! Ma la Germania! Che, e questo i cari Tg o giornali non ve lo dicono, è la DECIMA decima volta che non ce la fa a vendere tutti i titoli di cui ha bisogno. Ops! La Germania che fallisce le aste di titoli è come pensare che nessuno compri i biglietti per il derby Milan-Inter… C’è qualcosa di un po’ drammatico che tocca, no? Ma i prafi teteski non erano kosì prafi? Ma l’euro non è un successo?
    (Paolo Barnard, “Indovinate chi adesso non riesce a finanziarsi sui mercati di euro?”, dal blog di Barnard del 26 novembre 2014).

    Come è noto, l’invenzione dell’euro ha distrutto le monete nazionali, che ogni paese creava da solo e dal nulla, e ora tutte le nazioni dell’Eurozona devono finanziarsi sui Mercati di Capitali privati per avere moneta (l’euro) per la spesa pubblica. Quindi emettono titoli di Stato per il valore di cui necessitano per la spesa, e sperano che i mercati glieli comprino tutti. Sappiamo come sono andate le cose per anni: i Mercati non si fidavano più dei paesi Eurozona più indebitati, come Italia o Spagna o Grecia, perché appunto avevano perduto la loro abilità di stampare la loro moneta e di ripagare i debiti sempre e comunque (con fa il Giappone col debito più alto del mondo). Ok. E allora i Mercati pretendevano come precauzione, da Italia e Spagna, tassi d’interesse molto alti prima di comprargli i titoli di Stato. Brutto affare. E andavano a comprare invece i titoli di Stato tedeschi perché ritenevano che la Germania avesse i soldi per ripagare sempre, nonostante avesse perduto anch’essa la moneta sovrana, il marco. Li aveva perché esportava da pazzi, quindi soldi in cassa c’erano. Ok.

  • Matteo, le elezioni e quella scocciatura chiamata democrazia

    Scritto il 05/12/14 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    «Perché andare a votare governatori che non governano più niente, visto che le decisioni più importanti ormai si prendono altrove, neppure a Roma ma in Europa o alla Borsa di Wall Street?». Per Mauro Barberis, il deserto dell’astensionismo che ha reso «risibile, se non ridicola» la legittimazione dei nuovi presidenti regionali dell’Emilia e della Calabria, è l’ennesimo sintomo della rottura, minacciosa e inquietante, tra cittadini ormai ridotti all’impotenza e istituzioni a loro volta confinate nel limbo dell’irrilevanza, costrette a imporre tasse e tagliare servizi. «Siamo ormai alla disaffezione, non semplicemente per il voto o per la politica, ma per la democrazia». Il problema, scrive Barberis, non è solo che «con queste percentuali di votanti, può vincere chiunque». Il guaio è che, chiunque vinca, non sarà mai pienamente legittimato. Né potrà governare davvero, perché costretto a subire decisioni imposte dall’alto, a livello di Unione Europea. E tutto questo, «nell’indifferenza dei cittadini, naturalmente».
    Su “Micromega”, Barberis punta il dito anche contro «il fallimento delle Regioni, che da cardine del federalismo all’italiana si sono trasformate in carrozzoni costosi e inefficienti», un fardello ben più gravoso di quello delle Province, da poco “rottamate a metà” (eliminate le elezioni, non gli enti). Oggi, secondo Barberis, le Regioni volute con forza dal Pci di Berlinguer per distribire territorialmente e democratizzare il governo dello Stato «non le difende più nessuno, neppure la Lega di Matteo Salvini, ormai convertita in un partito nazionalista alla Le Pen». Le Regioni sono state travolte dagli scandali? «Ma lo sono state ancor più dalla crisi finanziaria», sottolinea l’analista di “Micromega”: gli enti locali, da cui dipende la delicatissima gestione di un servizio-chiave come quello sanitario, sono state letteralmente prese al laccio dalla politica di austerity, che impone un drammatico ridimensionamento della protezione sociale, a scapito in primo luogo dei cittadini più bisognosi, quelli che non possono permettersi cliniche private.
    L’altra grande ragione del dilagante astensionismo, secondo Barberis, è «la liquefazione dei grandi partiti radicati sul territorio, ormai sostituiti da comitati elettorali all’americana che però non mobilitano gli elettori». Quale che sia il risultato del voto, il discorso riguarda soprattutto l’ultimo partito rimasto, il Pd renziano, che «nonostante gli infuocati comizi del leader in Emilia, porta al voto percentuali di elettori minori che in Calabria». Al di là dell’analisi dei flussi elettorali contingenti, compreso il “boicottaggio” ispirato dalla Cgil presa a schiaffi dal premier, «l’impressione è che quanto Renzi perde a sinistra, attaccando i sindacati, non lo riguadagna a destra, abbracciando la Confindustria». Triste risultato della politica-spettacolo, che Bernard Manin chiama “democrazia del pubblico”: «Proporre slogan cool, o smart, o trendy, al solo fine di mantenere il potere o di conquistarlo, senza uno straccio di progetto per il futuro». Strada segnata? Declino elettorale per tutte le democrazie occidentali? Non proprio: «C’è un abisso di cultura e di lungimiranza politica fra Renzi che attacca l’articolo 18 per racimolare qualche voto di destra e Obama che, imparando da una sconfitta, regolarizza cinque milioni di immigrati pensando al futuro del proprio paese».

    «Perché andare a votare governatori che non governano più niente, visto che le decisioni più importanti ormai si prendono altrove, neppure a Roma ma in Europa o alla Borsa di Wall Street?». Per Mauro Barberis, il deserto dell’astensionismo che ha reso «risibile, se non ridicola» la legittimazione dei nuovi presidenti regionali dell’Emilia e della Calabria, è l’ennesimo sintomo della rottura, minacciosa e inquietante, tra cittadini ormai ridotti all’impotenza e istituzioni a loro volta confinate nel limbo dell’irrilevanza, costrette a imporre tasse e tagliare servizi. «Siamo ormai alla disaffezione, non semplicemente per il voto o per la politica, ma per la democrazia». Il problema, scrive Barberis, non è solo che «con queste percentuali di votanti, può vincere chiunque». Il guaio è che, chiunque vinca, non sarà mai pienamente legittimato. Né potrà governare davvero, perché costretto a subire decisioni imposte dall’alto, a livello di Unione Europea. E tutto questo, «nell’indifferenza dei cittadini, naturalmente».

  • L’antispreco è servito, tra gli chef anche Serge Latouche

    Scritto il 04/12/14 • nella Categoria: Recensioni • (1)

    Bastano tre mele per fare un dolce-capolavoro. L’importante? E’ che siano bacate. Parola di Anna Blasco, “food stylist” e “food maker” torinese. Perché il capolavoro è doppio: non solo il gusto, ma anche il piacere del recupero del cibo che sta per finire nella spazzatura. Pura filosofia: il cibo non è solo un mezzo per vivere, come insegna Emmanuel Lévinas. «All’esteriorità del cibo corrisponde la nostra sensibilità», spiega il professor Enrico Guglielminetti, direttore di “Spazio Filosofico”. «Il rapporto che abbiamo col cibo è analogo al rapporto che abbiamo con gli altri». Mancanza di rispetto: «Lo spreco alimentare, che riduce il cibo a rifiuto, è un caso esemplare». Una sorta di abuso di potere. «Produrre rifiuti allora diventa un vizio, l’opposto della virtù». E noi di cibo ne sprechiamo troppo: 1,3 miliardi di tonnellate l’anno, cioè un terzo di tutta la produzione mondiale di alimenti destinati all’uomo, lungo la filiera-colabrodo dei consumi di massa. Rimediare? Ovvio che sì. Partendo dalla cucina di casa. Basta seguire, alla lettera, le ricette di grandi chef: che si chiamano Maurizio Pallante, Hilary Wilson, Rossano Ercolini, Pamela Warhurst. E Serge Latouche, naturalmente.
    «Mangiare meglio, non meno», raccomanda il caposcuola francese del pensiero della decrescita. «Partiamo dalla pratica, dalle piccole cose quotidiane: abbandonare l’abitudine di sprecare, di acquistare cibo che arriva dall’altra parte del mondo, rivestito di imballaggi in plastica». Latouche è il maître della tavola (digitale) imbandita da Alessandra Mazzotta, “L’antispreco è servito”, agile manuale in formato ebook. L’autrice, giornalista specializzata in comunicazione ambientale e sostenibilità, si definisce «pessima cuoca, ma buona forchetta». In città si sposta in bici e «viaggia come ecoturista anche in sogno», secondo l’editore, “Bookrepublic”. Sogni? Quello di Latouche è «un’utopia socialista» chiamata decrescita, per «aiutarci a sperare», fuori dal totalitarismo consumistico. Intanto, “L’antispreco è servito” propone ricette domestiche per un risveglio anche immediato. Formule divertenti, come quella del “mago” Ercolini che trasforma in funghi i fondi di caffè. E prodigi sensazionali come il miracolo di Todmorten, vicino a Manchester, dove due donne si sono inventate la rivoluzione verde di “Incredible Edible”, il villaggio dove gli ortaggi a disposizione degli abitanti crescono persino nelle aiuole della stazione di polizia.
    «In un mondo paradossale in cui un miliardo di persone soffre di fame e un altro miliardo di malattie connesse con l’obesità, le distorsioni pesano troppo nel piatto e assumono un sapore di immoralità», scrive Mazzotta. «Nei paesi industrializzati, solo per fare qualche esempio, si cestinano 222 milioni di tonnellate di cibo, che equivalgono – tonnellata più, tonnellata meno – alla produzione alimentare disponibile dell’intera Africa sub-sahariana». Gli sprechi alimentari sono ovunque: dalla produzione agricola fino alla distribuzione. «Per non parlare di quelli che avvengono a livello domestico, nelle nostre cucine», sui cui antidoti è concentrata la mappa operativa del libro, utilissima per orientarsi da subito, cercare maestri, trovare alleati preziosi. Associazioni, campagne antispreco, Last Minute Market. Un mondo, navigabile partendo dal computer. Dalla piccola distribuzione alla ristorazione, la spesa consegnata in bicicletta e il locale aperto a Leeds dallo chef Adam Smith, dove vengono serviti piatti di ogni genere, dalla bistecca alla zuppa, a base di ingredienti scartati dagli stabilimenti alimentari della città. «Buon cibo salvato dalla discarica, che aiuta anche a nutrire chi fatica ad arrivare alla fine del mese».
    Il libro propone una geografia confortante, dalla rete milanese dei ristoranti “ad avanzi zero”, ai sommelier dell’Ais che spiegano come portarsi a casa il vino avanzato. Cresce la rete del “food sharing”: negli Usa, puoi fotografare gli avanzi nel piatto per segnalarli e riciclarli. In Germania, via web, gli abitanti di sette città si scambiano il cibo in eccesso. Stessa cosa a Londra, grazie al “Casseroleclub”. In Italia, “Food Share” è una piattaforma web che permette a privati, produttori e rivenditori di offrire gratuitamente prodotti alimentari in eccedenza a scopi solidali. A Trento basta un’app sul telefonino per ritirare gli avanzi, a Torino provvede una piattaforma web, “NextDoorHelp”, mentre a Treviso lo smistamento dell’antispreco è affidato al frigorifero virtuale di “Ratatouille”, da cui esplorare l’offerta della dispensa eco-solidale. Sono tutti avamposti, per un futuro meno grigio: «Nonostante la crisi, noi italiani buttiamo via ancora troppo cibo: il 55% viene sprecato nella filiera agroalimentare e il restante 45% nel consumo domestico, mense e ristoranti compresi», scrive Alessandra Mazzotta. «Ogni anno, lo spreco domestico ci costa più di 8 miliardi di euro. In media, ogni famiglia getta nella spazzatura più di 500 euro in alimenti».
    Maurizio Pallante, leader dei decrescisti italiani, punta il dito contro «stili di vita ancora irresponsabili», e spiega: «Manca la consapevolezza del legame tra cibo e  stagioni», e in più «non viene data sufficiente attenzione a quanto costa il cibo, produrlo, distribuirlo. Per cui si spreca tanto, con impatti ambientali altissimi». D’altra parte, «chi vende il cibo ha interesse a che se ne venda e se ne sprechi sempre di più». Colpa anche della vecchia agricoltura industriale, pensata come “industria estrattiva” per spremere la terra, allo scopo di vendere e guadagnare sempre di più, grazie anche all’autismo demenziale di una politica che pensa solo al Pil, gonfiato di veleni. L’antidoto si chiama «riscoperta della piccola produzione contadina, con la vendita delle eccedenze, in un’ottica di filiera corta come massima espressione della sovranità alimentare a livello territoriale». Questo, aggiunge Pallante, «favorisce la maturazione della consapevolezza e della responsabilità verso il cibo». Perché, ricordiamolo, l’accesso al cibo è un diritto. Dunque, «non sprecarlo è un dovere», chiarisce Lorenzo Bairati, docente di diritto degli alimenti all’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche a Pollenzo, creata da Carlo Petrini, fondatore di Slow Food.
    Se il sistema produce ancora passività sprecona, il “decalogo antispreco” di Alessandra Mazzotta propone una via d’uscita praticabile subito, da chiunque: pianificare i pasti, controllare il frigo, verificare etichette e scadenze, gestire gli avanzi e condividerli. C’è un mondo sconosciuto, nel frigorifero: dallo yogurt al tonno, si tratta di decifrare e vigilare sulle date, sulle modalità di conservazione. E di imparare: per esempio, a far “risorgere” ortaggi che ci stanno salutando. Patate e aglio che germogliano? Basta saperci fare, «la natura ha del miracoloso». Sedani, insalate, cipollotti: con poche mosse, un possibile rifiuto diventa una risorsa che ricresce sul davanzale. «Non ricordo di aver mai visto mia nonna buttare via del cibo avanzato», dice Alessandra. «Male che andava, c’era sempre il cane. Chi ha visto la guerra faceva così». Oggi, la “guerra” che abbiamo attorno è un’altra. Per fortuna, «complice forse la crisi e una maggiore coscienza, stanno fiorendo iniziative antispreco un po’ a ogni latitudine». E anche ottimi libri, che ti spiegano come fare. E intanto ti regalano la certezza di essere parte di una comunità. Un’umanità consapevole, che conosce le parole di Gandi: la Terra è abbastanza grande per soddisfare i bisogni di tutti, ma non l’avidità di pochi.
    (Il libro: Alessandra Mazzotta “L’antispreco è servito”, Bookrepublic, 625,8 Kb, euro 1,99. Mazzotta è redattrice del newmagazine “Econote” e gestisce il blog “Ecoavoi”).

    Bastano tre mele per fare un dolce-capolavoro. L’importante? E’ che siano bacate. Parola di Anna Blasco, “food stylist” e “food maker” torinese. Perché il capolavoro è doppio: non solo il gusto, ma anche il piacere del recupero del cibo che sta per finire nella spazzatura. Pura filosofia: il cibo non è solo un mezzo per vivere, come insegna Emmanuel Lévinas. «All’esteriorità del cibo corrisponde la nostra sensibilità», spiega il professor Enrico Guglielminetti, direttore di “Spazio Filosofico”. «Il rapporto che abbiamo col cibo è analogo al rapporto che abbiamo con gli altri». Mancanza di rispetto: «Lo spreco alimentare, che riduce il cibo a rifiuto, è un caso esemplare». Una sorta di abuso di potere. «Produrre rifiuti allora diventa un vizio, l’opposto della virtù». E noi di cibo ne sprechiamo troppo: 1,3 miliardi di tonnellate l’anno, cioè un terzo di tutta la produzione mondiale di alimenti destinati all’uomo, lungo la filiera-colabrodo dei consumi di massa. Rimediare? Ovvio che sì. Partendo dalla cucina di casa. Basta seguire, alla lettera, le ricette di grandi chef: che si chiamano Maurizio Pallante, Hilary Wilson, Rossano Ercolini, Pamela Warhurst. E Serge Latouche, naturalmente.

  • Rottamare il popolo, Renzi realizza il sogno della destra

    Scritto il 04/12/14 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    “Missione compiuta”, gigioneggia Matteo Renzi a fronte delle regionali emiliano-romagnole e calabresi. Certo che sì. Ma non tanto per la presumibile conquista della poltrona di governatore da parte dei due candidati sponsorizzati, personaggi tutto sommato insignificanti, latori di proposte politiche inesistenti. Niente di tutto questo. La vera missione giunta a compimento è l’aver rottamato, in un colpo solo, circa il dieci per cento del corpo sociale italiano; le donne e gli uomini che – in quanto cittadini – intendono concorrere a determinare la volontà generale. E l’effetto “piazza pulita” fa maggiormente impressione se il soggetto collettivo, in più fragoroso allontanamento da una concezione attiva della politica, è proprio l’antica “maglia rosa” nazionale del civismo: l’Emilia Romagna appassionata e socialdemocratica. Il nostro premier può farsi scrivere dal ghost-writer di fiducia tutti i temini che vuole sulla sua presunta natura di sinistra, può precettare la Gioconda Boschi allo sbandieramento dell’essenza newdealistica ed egualitaria del Jobs Act (ma perché questi anglicismi, visto che il Renzi si incarta quando bazzica l’anglofonia? Lo chiami Asfaltalavoro così ci capiamo meglio). Renzi può raccontarcela come vuole, anche se la gag mostra ormai la corda.
    Resta il fatto che l’obiettivo della Destra apparsa in Occidente da quattro decenni, diventando dominante da un quarto di secolo, ha come primario obiettivo quello di azzerare il popolo. Obiettivo che il giovanile di Rignano porta avanti con proterva determinazione sotto gli sguardi compiaciuti dei suoi mentori e precettori (Berlusconi e Verdini tra i più cari), di quanti avevano vendette da consumare a sinistra (tipo Sacconi) e con la benevola approvazione dei liquidatori internazionali della tradizione progressista novecentesca keynesiano-rooseveltiana (dai vari Blair ai tecno-killer di Bruxelles, al servizio del sistema bancario internazionale). Il senso generale dell’operazione discende da due inestirpabili retropensieri del nostro tempo: la logica finanziaria, in cui la ricchezza per riprodursi non ha più bisogno delle persone (la produzione di denaro a mezzo denaro; a differenza dell’età industrialista, in cui il capitale produceva masse che ne acquistassero i prodotti); la priorità del potere oligarchico che recalcitra ad ogni forma di controllo, in particolare quello democratico.
    Sicché fa specie, ma non troppo, che gli Orfini – già “giovani turchi, poi rivelatisi “vecchi ottomani” (nel senso di afferrare poltrone) – imbarcati felicemente sul carro renziano non emettano neppure un sospiro davanti alla mattanza in atto. Così, tanto per salvarsi l’anima. Il fatto è che la vicenda regionale si inserisce in un lungo processo di normalizzazione in corso non da oggi. Che nel nostro paese si accompagna alla sostituzione di seppur imperfette forme di democrazia deliberativa con il grande baraccone dello star-system; iniziato con il guitto di Arcore e proseguito da una lunga serie di imitatori, che avevano recepito dal maestro le virtù dell’illusionismo per la conquista del consenso. Quella sequenza di personaggi che pare giunta alla sua più compiuta espressione nel premier che gioisce davanti all’esodo dal voto di sei italiani su dieci; sostanzialmente perché l’intera offerta esposta sui banconi elettorali appariva loro inaccettabile.
    Certo, così facendo si consente alla banda che presidia il varco della politica di vincere per no-contest, per abbandono della controparte civica. E di questo dovrebbe farsi carico in termini autocritici chi ha dissipato le speranze riposte nel febbraio 2013 nell’Altra Politica da parte di un quarto di italiani. Intanto continua l’opera di abrogazione del popolo. Un vecchio sogno delle plutocrazie, se già all’inizio dell’età industriale l’abate Sismondi poteva scrivere: «In verità non resta che desiderare altro se non che il re, rimasto solo nell’isola, girando una manovella, faccia eseguire per mezzo di congegni meccanici tutto il lavoro dell’Inghilterra».
    (Pierfranco Pellizzetti, “Rottamare il popolo”, da “Micromega” del 24 novembre 2014).

    “Missione compiuta”, gigioneggia Matteo Renzi a fronte delle regionali emiliano-romagnole e calabresi. Certo che sì. Ma non tanto per la presumibile conquista della poltrona di governatore da parte dei due candidati sponsorizzati, personaggi tutto sommato insignificanti, latori di proposte politiche inesistenti. Niente di tutto questo. La vera missione giunta a compimento è l’aver rottamato, in un colpo solo, circa il dieci per cento del corpo sociale italiano; le donne e gli uomini che – in quanto cittadini – intendono concorrere a determinare la volontà generale. E l’effetto “piazza pulita” fa maggiormente impressione se il soggetto collettivo, in più fragoroso allontanamento da una concezione attiva della politica, è proprio l’antica “maglia rosa” nazionale del civismo: l’Emilia Romagna appassionata e socialdemocratica. Il nostro premier può farsi scrivere dal ghost-writer di fiducia tutti i temini che vuole sulla sua presunta natura di sinistra, può precettare la Gioconda Boschi allo sbandieramento dell’essenza newdealistica ed egualitaria del Jobs Act (ma perché questi anglicismi, visto che il Renzi si incarta quando bazzica l’anglofonia? Lo chiami Asfaltalavoro così ci capiamo meglio). Renzi può raccontarcela come vuole, anche se la gag mostra ormai la corda.

  • Stampano moneta e comprano noi, poveri euro-fessi

    Scritto il 04/12/14 • nella Categoria: idee • (3)

    Stampare moneta per l’economia reale, contro lo strapotere del sistema finanziario. Moneta funzionale, emessa direttamente dallo Stato o dalla “banca centrale di emissione”, di cui il potere pubblico assuma il governo. Obiettivo: fornire «tutto il denaro necessario a fare gli investimenti pubblici diretti», destinati a incentivare «occupazione, domanda interna, adeguamento infrastrutturale, innovazione scientifico-tecnologica, assicurando al contempo l’impossibilità del default». Per Marco Della Luna, è esattamente ciò che servirebbe per «uscire dall’attuale recessione-deflazione, dopo il fallimento ormai visibile delle ricette dell’austerità e del quantitative easing, difese oramai soltanto da soggetti in malafede e per interesse». Di fronte alla possibilità di creazione monetaria, il neoliberismo obietta: non si può immettere moneta a piacimento nell’economia, perché ci deve essere un rapporto tra quantità di moneta e quantità di beni, altrimenti la moneta si svaluta o si generano bolle speculative, mobiliari e immobiliari. L’alternativa? Ce l’abbiamo sotto gli occhi, e si chiama disastro.
    Se la moneta aggiuntiva viene usata per aumentare la produzione, quindi l’offerta di beni e servizi, allora non vi sarà inflazione monetaria (ossia aumento generalizzato dei prezzi), mentre vi sarà un aumento della ricchezza prodotta e del reddito, oltre che dell’occupazione. Certo, aggiunge Della Luna, questa moneta in più «bisogna spenderla bene, e una classe dirigente avida e idiota, come tale selezionata, non lo può fare». Se invece la moneta aggiuntiva viene usata per acquistare titoli finanziari e immobili, «allora vi sarà una salita dei valori delle Borse e degli immobili, e questo fa piacere a tutti gli investitori mobiliari e immobiliari». E se anche vi fosse, come conseguenza dell’immissione monetaria, una certa inflazione iniziale, «questa aiuterebbe i debitori (cioè gli Stati, molte imprese, molti privati) e danneggerebbe i creditori non indicizzati all’inflazione, mentre stimolerebbe le spese che oggi vengono differite perché si prevede un calo o una costanza dei prezzi, il che alimenta la deflazione». Quindi, nel complesso, «dopo la presente deflazione, una certa inflazione o reflazione sarebbe benefica».
    Oggi, continua Della Luna, il grosso dell’offerta monetaria è assorbito dal settore finanziario-speculativo, ossia da “prodotti” finanziari separati dall’economia reale (produzione, consumi). Sono “prodotti” producibili all’infinito, fino alla saturazione del mercato, cioè all’esaurimento «dell’abilità di collocarli, rifilarli o sbolognarli ai clienti ingenui, allorquando una bolla sta per scoppiare». Problema: questo settore dell’economia assorbe il grosso dell’offerta monetaria, «lasciando a secco della fisiologica liquidità il mercato dei beni-servizi reali e degli investimenti per produrli». Ed ecco il paradosso di oggi: «Da un lato un’esorbitante creazione-offerta di moneta, che le banche centrali creano e mettono a disposizione, in quantità enormi, non dell’economia reale ma delle banche universali per le loro speculazioni finanziarie, improduttive anzi distruttive, e dall’altro una carestia di moneta nell’economia reale, cui le medesime banche (in Italia) fanno sempre meno credito, con conseguente declino-insufficienza di domanda solvibile e di possibilità di investimento e occupazione – onde la deflazione».
    In altre parole, l’offerta di moneta «è eccessiva per il settore finanziario, da cui viene continuamente alimentata, mentre è gravemente insufficiente per quello reale, a cui viene continuamente ridotta». Primo passo: non solo «separare le banche di credito e risparmio da quelle speculative», ma anche «fare in modo che la liquidità del settore produttivo, dell’economia reale (quello da cui dipendono gli stipendi, il cibo, i servizi) sia assicurata e protetta dalle interferenze e distrazioni del settore finanziario, molto più grosso e turbolento». Della Luna Parla di «anemizzazione monetaria dell’economia reale», con detentori di liquidità che “tesaurizzano” gli investimenti anche all’estero, mentre il prelievo fiscale imposto dal Mes, il Meccanismo Europeo di Stabilità, drena altro denaro dal sistema-Italia, insieme al regime di austerity europea che impone «la realizzazione forzata di avanzi primari del bilancio pubblico e il pagamento di alti interessi a detentori esteri di titoli del debito pubblico». Domanda: «In una situazione di recessione interna e fuga verso l’estero di imprenditori, lavoratori qualificati e capitali, che cosa potrebbe essere più demenziale che imporre tasse al paese per sostenere il debito pubblico di paesi in crisi (Spagna, Grecia) al fine puntellare una valuta, l’euro, che ostacola le esportazioni e induce la deindustrializzazione del paese?».
    «Eppure gli italiani hanno dato fiducia persino a chi ha fatto questo», continua Della Luna. «Si aggiunga, infine, a questo museo degli orrori dell’imbecillità politica, o dell’alto tradimento istituzionale – se preferite – il fatto che la deprivazione-anemizzazione monetaria del paese, di cui sopra, fa sì che gli asset produttivi migliori – industria, commercio, finanza, alberghi, terreni agricoli pregiati – si deprezzino e vengano massicciamente comperati da soggetti-capitali finanziari stranieri, e che quindi il reddito generato da questi asset esca dal reddito nazionale italiano, divenendo reddito dei paesi che li comperano». E l’auto-privazione monetaria, che produce tutti questi mali, non è che un trucco: perché la moneta sovrana «è solo un simbolo e non ha costi o limiti di produzione intrinseci», e i paesi stranieri che rastrellano le nostre migliori aziende «lo possono fare appunto perché fanno la scelta opposta all’auto-privazione monetaria, ossia perché scelgono di produrre a costo zero grandi masse di moneta-simbolo». Che dire: «Il quadro dell’idiozia totale è perfetto. Non resta che ringraziare i nostri governanti nazionali ed europei e le nostre banche centrali, e lusingarci per tutti i consensi, i voti, le tasse e gli onori che continuiamo tributare loro».

    Stampare moneta per l’economia reale, contro lo strapotere del sistema finanziario. Moneta funzionale, emessa direttamente dallo Stato o dalla “banca centrale di emissione”, di cui il potere pubblico assuma il governo. Obiettivo: fornire «tutto il denaro necessario a fare gli investimenti pubblici diretti», destinati a incentivare «occupazione, domanda interna, adeguamento infrastrutturale, innovazione scientifico-tecnologica, assicurando al contempo l’impossibilità del default». Per Marco Della Luna, è esattamente ciò che servirebbe per «uscire dall’attuale recessione-deflazione, dopo il fallimento ormai visibile delle ricette dell’austerità e del quantitative easing, difese oramai soltanto da soggetti in malafede e per interesse». Di fronte alla possibilità di creazione monetaria, il neoliberismo obietta: non si può immettere moneta a piacimento nell’economia, perché ci deve essere un rapporto tra quantità di moneta e quantità di beni, altrimenti la moneta si svaluta o si generano bolle speculative, mobiliari e immobiliari. L’alternativa? Ce l’abbiamo sotto gli occhi, e si chiama disastro.

  • Global warning, Roma: Craig Roberts e lo stratega di Putin

    Scritto il 03/12/14 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Cos’hanno in comune il grande stratega economico di Vladimir Putin, assediato dall’Occidente, e il cervello finanziario di Ronald Reagan, il presidente che rottamò la guerra fredda insieme a Gorbaciov? Entrambi hanno paura, oggi, di uno scenario che Papa Francesco non esita a definire Terza Guerra Mondiale. E hanno deciso di discuterne, insieme, al meeting internazionale battezzato “Global warning”, promosso a Roma da “Pandora Tv”, la web-tv creata da Giulietto Chiesa in collaborazione con il network internazionale russo “Rt” per illuminare i retroscena della crisi mondiale, squarciando il velo delle reticenze quotidiane dei media. E così oggi si parlano direttamente l’economista del Cremlino, Sergej Glazev, e Paul Craig Roberts, già viceministro del Tesoro di Reagan e editorialista del “Wall Street Journal”, considerato uno degli opinion leader più influenti del mondo. Spaventato, come Glazyev, dall’aggressività della politica di Obama verso la Russia, che sta avvitando la crisi in una spirale pericolosissima: guerra economica e finanziaria, sullo sfondo della minaccia aeronavale e missilistica rappresentata dalla Nato nell’Est Europa.
    La formula del meeting, aperto al pubblico, è quella del panel internazionale: dopo l’introduzione di Pino Cabras (“Megachip”) e l’intervento di Giulietto Chiesa, il 12 dicembre a Roma (Palazzo Marini, Sala delle Colonne), prendono la parola grandi giornalisti come Marcello Foa (“Il Giornale”) e Pepe Escobar (“Asia Times”), il libanese Talat Khrais (Al Manar Tv”) e Piero Pagliani, analista geopolitico. Ospiti internazionali presenti a Roma o in collegamento video: da Mikhail Leontyev, vicepresidente del colosso energetico russo Rosneft, alla lettone Tatiana Zdanoka, europarlamentare dei Verdi e co-presidente del gruppo “Per i diritti umani in Lettonia”. Tra i politici italiani due “grilline” come le parlamentari Paola De Pin (Senato, commissione diritti umani) e Marta Grande (Camera, commissione esteri). E naturalmente, il punto di vista – incrociato e convergente – di due personaggi internazionali di primissima grandezza, l’americano Craig Roberts e il russo Glazyev, indicato come il super-tecnocrate che sta guidando il Cremlino verso la Cina, per resistere all’offensiva economica occidentale.
    «Il panel – spiegano gli organizzatori – include intellettuali provenienti da diverse parti del mondo, che condividono preoccupazioni simili riguardo lo scenario internazionale, nonostante background ed esperienze politiche e intellettuali differenti». L’incontro di Roma può diventare «fonte d’ispirazione per nuove connessioni tra personalità e networks, al fine di condividere idee e soluzioni alla crisi globale, in particolare alle situazioni che stanno ora vivendo Ucraina e Medio Oriente». Le voci che hanno accettato di confrontarsi con la platea di “Global warning” rivelano «visioni comuni in riguardo al declino del mondo unipolare, gravato dall’enorme debito, dal decadimento della democrazia e da una feroce competizione internazionale». La partecipazione è libera, con obbligo di accredito attraverso l’invio dei dati anagrafici, entro l’8 dicembre, all’indirizzo contatti@pandoratv.it.

    Cos’hanno in comune il grande stratega economico di Vladimir Putin, assediato dall’Occidente, e il cervello finanziario di Ronald Reagan, il presidente che rottamò la guerra fredda insieme a Gorbaciov? Entrambi hanno paura, oggi, di uno scenario che Papa Francesco non esita a definire Terza Guerra Mondiale. E hanno deciso di discuterne, insieme, al meeting internazionale battezzato “Global warning”, promosso a Roma da “Pandora Tv”, la web-tv creata da Giulietto Chiesa in collaborazione con il network internazionale russo “Rt” per illuminare i retroscena della crisi mondiale, squarciando il velo delle reticenze quotidiane dei media. E così oggi si parlano direttamente l’economista del Cremlino, Sergej Glazev, e Paul Craig Roberts, già viceministro del Tesoro di Reagan e editorialista del “Wall Street Journal”, considerato uno degli opinion leader più influenti del mondo. Spaventato, come Glazyev, dall’aggressività della politica di Obama verso la Russia, che sta avvitando la crisi in una spirale pericolosissima: guerra economica e finanziaria, sullo sfondo della minaccia aeronavale e missilistica rappresentata dalla Nato nell’Est Europa.

  • Germania e Olanda fuori dall’euro, piani pronti dal 2011

    Scritto il 02/12/14 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Nel 2011, in piena tempesta-Eurozona, l’Olanda aveva pronto un piano per uscire dalla moneta unica e tornare alla valuta sovrana nazionale, il guilder, già all’inizio del 2012. Analogo piano-B era stato preparato anche dalla Germania, nel caso in cui la crisi mortale imposta alla Grecia avesse travolto anche Spagna e Italia. Georgios Papandreou e Silvio Berlusconi si erano appena dimessi. Chiari sintomi del pericolo, scrive “Goldcore”: la situazione poteva finire fuori controllo, con possibile effetto-domino sull’intero sistema. Lo rivela un recente reportage televisivo e lo conferma l’attuale ministro olandese delle finanze, Jeroen Dijsselbloem, oggi presidente dell’Eurogruppo, in un’intervista per “Eu Observer” e “Bloomberg”. «E’ vero che il ministro delle finanze e che il governo si prepararono per il peggiore degli scenari», afferma Dijsselbloem. «I capi di governo, incluso quello olandese, lo hanno sempre detto: vogliamo che i paesi dell’Eurozona restino uniti. Ma il governo olandese si è anche domandato: cosa succederebbe se non ce la facessero? E si è preparato a questa evenienza».
    Mentre Dijsselbloem ha detto che ora non c’è più nessun bisogno di mantenere il “segreto” su questi piani, scrive “Goldcore” in un post su “Zero Hedge” tradotto da “Come Don Chisciotte”, all’epoca queste ipotesi furono tenute in segreto per evitare di spargere panico sui mercati finanziari. Racconto confermato anche da Jan Kees de Jager, ministro delle finanze tra il 2010 e il 2012. Non tutti i partner dell’Eurozona, però, si prepararono all’uscita dall’euro: «Siamo stati uno dei pochi paesi, insieme alla Germania», ha detto de Jager nel reportage, «e avevamo anche una squadra congiunta, Germania-Olanda, per parlare di questi scenari». Il governo tedesco non smentisce: «Noi e i nostri partner della zona euro, tra cui i Paesi Bassi, eravamo e siamo determinati a fare tutto il possibile per prevenire qualsiasi rottura della zona euro», si limita a dichiarare il ministero delle finanze di Berlino. «Questa è una vera rivelazione», sostiene “Goldcore”, perché nel 2011 il super-ministro Wolfgang Schauble aveva detto che l’euro avrebbe potuto sopravvivere anche senza la Grecia. «Ma che avrebbe potuto sopravvivere senza l’Olanda è tutta un’altra cosa».
    Un euro senza l’Olanda – e soprattutto senza la Germania – è attualmente inconcepibile, continua “Zero Hedge”. «De Jager afferma anche che altri paesi trovarono che la prospettiva di una disgregazione dell’euro fosse una cosa spaventosa, tanto che misero la testa sotto la sabbia piuttosto che affrontare la situazione di petto». Sembra che non siano stati preparati analoghi piani di emergenza nei paesi “Piigs”, cioè Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna. «Bisogna chiedersi se questi piani sarebbero stati resi pubblici, se questo documentario televisivo non avesse costretto il governo olandese a dare una conferma alle sue affermazioni». Da notare che in Germania e Olanda «la cittadinanza è stata in prima linea nella richiesta del movimento di rimpatrio dell’oro, che attualmente percorrere tutta Europa», Francia compresa. «In un clima in cui si è persa fiducia nelle valute “fiat”, qualsiasi ritorno ad un “fiat-fiorino” o ad un “fiat-marco” sarebbe rischioso, in mancanza della fiducia che può dare invece il supporto delle riserve auree».
    La prospettiva di un dissolvimento dell’euro sarebbe «spaventosa», secondo “Zero Hedge”, ma sembra che la maggior parte delle nazioni dell’Eurozona si siano preparate malamente a questo evento e anzi siano del tutto impreparate. «Per tutti gli investitori e i risparmiatori che utilizzano altre valute “fiat” di qualsiasi nazione, si pone una importante domanda: avete un piano di emergenza in caso di fallimento della valuta in cui avete investito?». Il disfacimento dell’euro, continua il blog, potrebbe anche avvenire qualora il popolo tedesco o i suoi politici decissero che non vale più la pena salvare il progetto monetario europeo. «In questo caso, tutte le nazioni indebitate in modo più significativo, i cosiddetti Piigs ma anche Giappone, Regno Unito e Stati Uniti, sarebbero a rischio di svalutazioni monetarie». Secondo “Zero Hedge”, ci sarebbero «svalutazioni monetarie competitive e l’abbattimento del valore di alcune valute per ottenere dei vantaggi competitivi», al punto che «comincerebbe una guerra delle monete che produrrebbe seri rischi per la stabilità a lungo termine e per la prosperità di tutte le democrazie del mondo, nonché delle finanze e dei risparmi della gente comune». Ben noti, invece, i rischi (in realtà certezze) del perdurare dell’Eurozona: per i paesi come l’Italia, il declino è segnato e senza speranze.

    Nel 2011, in piena tempesta-Eurozona, l’Olanda aveva pronto un piano per uscire dalla moneta unica e tornare alla valuta sovrana nazionale, il guilder, già all’inizio del 2012. Analogo piano-B era stato preparato anche dalla Germania, nel caso in cui la crisi mortale imposta alla Grecia avesse travolto anche Spagna e Italia. Georgios Papandreou e Silvio Berlusconi si erano appena dimessi. Chiari sintomi del pericolo, scrive “Goldcore”: la situazione poteva finire fuori controllo, con possibile effetto-domino sull’intero sistema. Lo rivela un recente reportage televisivo e lo conferma l’attuale ministro olandese delle finanze, Jeroen Dijsselbloem, oggi presidente dell’Eurogruppo, in un’intervista per “Eu Observer” e “Bloomberg”. «E’ vero che il ministro delle finanze e che il governo si prepararono per il peggiore degli scenari», afferma Dijsselbloem. «I capi di governo, incluso quello olandese, lo hanno sempre detto: vogliamo che i paesi dell’Eurozona restino uniti. Ma il governo olandese si è anche domandato: cosa succederebbe se non ce la facessero? E si è preparato a questa evenienza».

  • Fine dei giornali? Solo se lo vorranno i Padroni dell’Occidente

    Scritto il 02/12/14 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Nel blog di Beppe Grillo è comparso lunedì un post, a firma Gianroberto Casaleggio, che fa parte di una serie di post sulla “morte dei giornali” e che verrà inserito nello studio “Press Obituary” di prossima pubblicazione. Nel post compaiono alcune affermazioni che, a mio avviso, necessitano di commento e talvolta di precisazioni. «La fine dei giornali – scrive Casaleggio – è una delle cose più prevedibili del nostro futuro», se non si troveranno risorse diverse dalla pubblicità. È vero? È falso? È vero solo in parte, e comunque a condizione che si verifichino azioni e reazioni, da parte dei soggetti coinvolti, che al momento non sono ancora completamente scontate. Alcuni giornali, online e classici (quotidiani, settimanali ma anche mensili) potrebbero infatti sopravvivere alla contrazione delle risorse pubblicitarie alle seguenti condizioni: a) se fossero sostenuti prevalentemente dalle vendite e dagli abbonamenti; b) se fossero sostenuti da donazioni (anche occulte); c) soprattutto se fossero considerati, da potentati politici e economici, quali veicoli indispensabili per organizzare il consenso su argomenti altamente strategici.
    L’ipotesi c), per esempio, è attualmente in vigore nel caso di giornali che, barattando la loro visione “politica” ottengono, da parte di inserzionisti pubblicitari particolari, un occhio di riguardo. A tutt’oggi infatti il consenso politico su grandi temi strategici quali la guerra e la pace, il valore flottante delle monete di riserva planetaria, le questioni energetiche e farmaceutiche, gli investimenti nelle borse, viene ancora organizzato da “Big Press” e “Big Tv”, che stanno sopravvivendo alla crisi della pubblicità e anzi l’hanno usata come alibi per “asciugare” costi ritenuti superflui e dismettere giornalisti. Ciò non toglie che, all’interno del vasto mosaico dei media, il declino di gran parte della stampa classica e dei giornali online sia in corso. È sul suo decesso “inevitabile” però che si possono e devono esprimere dubbi, come quando all’avvento della Rivoluzione Industriale si espressero leciti dubbi sulla morte dell’artigianato. Esiste infatti un’ipotesi di sopravvivenza alla crisi della pubblicità, che tenterò di formulare in seguito.
    Casaleggio descrive poi una pratica pubblicitaria molto perversa che si svolge in rete: quella dell’uso dei “cookies”. E descrive i suoi effetti nefasti: monitoraggio degli accessi, dei comportamenti e del profilo dell’utente. Non possiamo che essere d’accordo. La questione è molto presente, nel dibattito internazionale, sulle linee guida che dovrebbero condurre a una futura governance di Internet, meno anarco-liberista di quanto non sia ora. Però c’è da dire che proprio in quelle sedi internazionali, dove la società civile riesce a manifestare un minimo la propria visione, la definizione “utente” è in via di superamento, per diverse ragioni: a) perché “utente” si impasta e si intreccia con “prosumer”, con “consumatore”, con “cliente finale” e con “utente inserzionista”, e ciò crea confusione; b) perché “utente” presuppone che la Rete sia “un servizio agli utenti”, e ciò contrasta con le più recenti visioni della “net neutrality”, per le quali la Rete è un’infrastruttura indispensabile alla Cittadinanza Digitale che, al dunque, è costituita da “persone”.
    Casaleggio afferma ancora: «In sostanza il rapporto tra consumatore e pubblicità non risiederà più nei siti editoriali, che ne perdono il controllo, ma negli inserzionisti digitali come Google o Facebook. Di fatto questo rovescia il rapporto economico attuale, in quanto la tracciabilità dell’utenza e l’uso dei dati personali sarà alla base di ogni futuro processo pubblicitario. La pubblicità sarà prevalentemente digitale e la proprietà del cliente verrà trasferita ai big del web. Questo comporterà una riattribuzione, già in atto, dei ricavi dai vecchi operatori (gli editori) a nuovi operatori, con un restringimento della filiera pubblicitaria». Anche qui ci sono da fare alcune considerazioni. Probabilmente Casaleggio allude alla “readership” che costituisce il parco lettori di una testata giornalistica e che viene “venduta” alle agenzie, o direttamente agli inserzionisti, dalla concessionaria della testata. La concessionaria dell’editore (e qui crediamo che parli di editori online) ne perde il controllo, che finisce nelle mani di soggetti quali Google e Facebook (i quali comunque, precisiamo: tutto sono meno che “inserzionisti digitali”). Allora: sì. È vero che le concessionarie e le sezioni marketing degli editori contano sempre meno, ma non è vero che la facoltà di vendita del parco lettori viene loro sottratta. Ciò che viene sottratto agli editori è la capacità di negoziare il prezzo del loro parco lettori. E quindi, in progress, pagandoli sempre meno, gli inserzionisti costringono gli editori a chiudere. Ma perché?
    Perché gli editori di giornali (e qui intendiamo tutti) non hanno capito il profondo valore della contrattazione del Costo Contatto e in dettaglio del Cost per Thousand, cioè il valore – negoziabile e non derivato – che l’inserzionista paga per raggiungere con il suo messaggio 1000 persone, e che regola la compravendita di spazi in tutti i media (incluso il web). Se gli editori sono l’offerta (di lettori/readership) e gli inserzionisti (non Google e Facebook) rappresentati dalle agenzie di pubblicità che comprano spazi, sono la domanda (di lettori/readership)… in un mercato vero ci dovrebbe essere contrattazione per fare il prezzo. Così invece non è! Il soggetto che genera l’offerta (gli editori) è frantumato, rissoso e ignorante, e invece di fare il cartello degli editori off-line e online, tende la mano e si accontenta di un Cost per Thousand che viene deciso dalla domanda, cioè dai compratori di spazi. In questo teatrino da accattoni, in cui si muovono gli editori privi di dignità, identità e capacità di marketing, si sono inseriti alla grande altri soggetti, quali Google e Facebook, che hanno assunto il ruolo di intermediatori e super-concessionarie del web perché “fanno il prezzo”, offrendo quantità illimitate di spazi a basso costo agli inserzionisti.
    Solo in alcuni tribunali nordeuropei la vicenda è stata affrontata (in parte) per ciò che è, ma poi, alla fine, impastata maldestramente insieme alla difesa dei diritti d’autore. È così che il dumping ai danni degli editori e anche dei “prosumers” e dei bloggers, si è sanato con un’elemosina (vedi caso francese). Allora: in questa vasta e complessa scena, Casaleggio, che è magna pars nella difesa dei diritti dei cittadini digitali e dei (mi auguro) piccoli e medi editori digitali, perché non riflette meglio su come avviene la contrattazione sul Cost per Thousand? Ci sembra infatti che dia per scontato che questo sia un valore da misurare “a monte” della compravendita e delle pratiche di inserimento pubblicitario tra soggetti Over the Top. Invece il Cost per Thousand è un valore da fissare “a valle”, cioè prima della compravendita, in quanto rappresenta la capacità potenziale di acquisto di 1000 componenti del parco lettori. Al dunque la pubblicità è soprattutto compravendita di “persone”, non solo di spazi promozionali. Ricordiamolo.
    Casaleggio menziona poi la torta pubblicitaria. Bene! La sua consistenza – che attualmente dipende dagli interessi del Consiglio di Amministrazione della Iaa – International Advertising Agency di Madison Avenue – NON DEVE ESSERE non deve essere quella offerta agli editori; ma DEVE ESSERE deve essere quella negoziata e richiesta dal cartello degli editori per la loro dignitosa sopravvivenza. Così fa il cartello dei grandi tv-broadcasters statunitensi. Se ne frega dei budget offerti e CHIEDE e OTTIENE chiede e ottiene annualmente ciò che serve a loro per vivere. Cioè sono i media che devono fare e difendere il prezzo della loro audience, non gli intermediari. Per capirci: gli inserzionisti consegnano alle agenzie di pubblicità circa 3 trilioni di dollari l’anno. Il 60% di queste risorse viene dato ai media dei Brics e dei paesi emergenti perché sono considerati mercati in crescita. Il rimanente 40% viene dato ai media dei paesi del vecchio Occidente allargato. Ma nel 2009 era il contrario e l’inversione venne decisa in un Cda dell’Iaa. Ciò dà un’idea dello strapotere degli inserzionisti pubblicitari sui media tutti e dimostra come la crisi dei media sia solo imputabile a decisioni non contrastabili per assenza di facoltà di negoziazione.
    In difetto di contrattazione, però, un soggetto come Casaleggio – e per estensione, mi auguro, il “Movimento 5 Stelle” – dovrebbe lanciare parole d’ordine al morente mondo degli editori per incitarli a negoziare al meglio ciò che hanno (i loro lettori) e per convincerli a non accontentarsi della semplice raccolta di ciò che viene loro offerto, e in continuazione rattrappito, dalle aziende inserzioniste. Casaleggio poi se la prende con Google. Benissimo Recentemente abbiamo tentato di spiegare che Google, Facebook e gli altri soggetti simili, non sono alla sommità della piramide, ma lavorano, a loro volta, per qualcun altro. Per CHI chi? Ma è ovvio: per gli inserzionisti, per le corporations che poi pagano le campagne politiche dei futuri leader (e anche per i servizi segreti, nel caso di cessione di Big Data). Allora? Se i giornali muoiono è perché gli inserzionisti non pagano un equo prezzo per fare la pubblicità delle loro merci e servizi. Ma chi deve contrattare il prezzo? È ovvio: i produttori di contenuti (“contents”) in grado di ospitare inserzioni, cioè gli editori di giornali on line tutti, i bloggers e i “prosumers”.
    Il “Movimento 5 Stelle” dovrebbe lanciare un appello a tutti questi soggetti per costruire una syndication – auspicabilmente su scala europea – che assuma il ruolo di soggetto collettivo in grado di negoziare autorevolmente il prezzo della pubblicità sui territori sia fisici che digitali. Se non piace la definizione “syndication” si può parlare di ConfEditori on line, di Content Providers Association, o altro. Attenti!… Berlusconi, De Benedetti e Rizzoli-“Corsera” recentemente hanno annunciato la nascita di una superconcessionaria del web italiano. Ciò vuol dire che il prezzo della pubblicità sul territorio (web) italiano lo faranno loro, solo loro e nient’altro che loro. Signor Casaleggio, la vicenda è passata nel silenzio dell’opposizione. Come mai? Se il gettito di risorse pubblicitarie nel web, che dovrebbe remunerare il lavoro svolto in Rete dalla cittadinanza digitale, viene deciso senza alcun dibattito, l’opposizione ancorata al mondo digitale che ci sta a fare?
    Per concludere: Google, è vero, è un bel puzzone, ma approfitta dell’ignoranza e dell’ignavia dei politici e dei “content providers” e della loro frantumazione. Non è (solo) Google il carnefice dei “giornali”. Il mandante è sempre e solo il Cartello delle Corporations/Inserzionisti, gli utenti pubblicitari associati globalizzati, lo stesso del resto con il quale Beppe Grillo mirabilmente se la prendeva tanti anni fa quando accendeva i riflettori su Giulio Malgara, a quel tempo presidente dell’Upa, e in quanto tale grande finanziatore di Berlusconi e Dell’Utri. Quell’intuizione era quella giusta, talmente giusta che gli costò il rapporto con la Tv. Rilanciamo quel dibattito, signor Casaleggio, magari anche a costo di perdere qualche inserzionista. Tanto, la stragrande maggioranza di loro persegue un modello di sviluppo che non è quello del suo Movimento.
    (Glauco Benigni, “Casaleggio, non hai capito chi fa il prezzo”, da “Megachip” del 27 novembre 2014).

    Nel blog di Beppe Grillo è comparso lunedì un post, a firma Gianroberto Casaleggio, che fa parte di una serie di post sulla “morte dei giornali” e che verrà inserito nello studio “Press Obituary” di prossima pubblicazione. Nel post compaiono alcune affermazioni che, a mio avviso, necessitano di commento e talvolta di precisazioni. «La fine dei giornali – scrive Casaleggio – è una delle cose più prevedibili del nostro futuro», se non si troveranno risorse diverse dalla pubblicità. È vero? È falso? È vero solo in parte, e comunque a condizione che si verifichino azioni e reazioni, da parte dei soggetti coinvolti, che al momento non sono ancora completamente scontate. Alcuni giornali, online e classici (quotidiani, settimanali ma anche mensili) potrebbero infatti sopravvivere alla contrazione delle risorse pubblicitarie alle seguenti condizioni: a) se fossero sostenuti prevalentemente dalle vendite e dagli abbonamenti; b) se fossero sostenuti da donazioni (anche occulte); c) soprattutto se fossero considerati, da potentati politici e economici, quali veicoli indispensabili per organizzare il consenso su argomenti altamente strategici.

  • La gioia sinistra di chi vince da solo, rottamate le elezioni

    Scritto il 02/12/14 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    A me non stupisce che Matteo Renzi esalti il successo del Pd alle regionali ignorando, anzi persino valutando con un certo compiacimento, il fatto che in Emilia Romagna abbia votato un elettore su tre, quando solo poco tempo fa votavano in nove su dieci. Nella concezione autoritaria della governabilità e nel decisionismo di cui il segretario presidente è solo l’ultimo esponente, la partecipazione popolare è solo un incomodo o un fastidio. Se votano solo tre persone e si ha la sicurezza di ottenere il consenso di due di esse va bene, in meno si decide è meglio è. Gli altri dovranno solo ubbidire. Mussolini sosteneva che lui del fascismo non aveva inventato nulla, lo aveva semplicemente tirato fuori dagli italiani e organizzato. Per Renzi vale lo stesso. Sono anni che i programmi di governo sono vincolati ai diktat dei mercati, della Ue, della finanza, e anche a quelli del governo di un altro paese, la Germania. Sono anni che i cittadini di questo paese vengono educati alla impotenza e alla inutilità di una democrazia ove le decisioni di fondo son già prese altrove. E quando è lo stesso Presidente della Repubblica che si fa alfiere di questa sottomissione culturale e psicologica, oltre che politica, è evidente che tutto il sistema costituzionale ne risente.
    La democrazia a sovranità limitata si è congiunta con due spinte che da decenni agiscono nella società italiana. La prima è la banalizzazione e la spoliticizzazione del confronto politico, di cui è stata espressione la Seconda Repubblica berlusconiana. La seconda è lo spirito di vandea contro il lavoro e i suoi diritti che da più di trenta anni si scatena ad ogni difficoltà economica. Il governo Craxi negli anni ‘80 aveva già anticipato il linguaggio e i comportamenti di Matteo Renzi, ma perché il decisionismo liberista diventasse regime occorrevano tutte e tre le condizioni di fondo, e non solo una. Una democrazia ridotta a subire gli ordini esterni sui temi stessi per i quali è nata: il bilancio dello Stato. La distruzione della partecipazione e la riduzione del confronto politico a talk show. La guerra tra i poveri come unico sbocco della impotenza popolare verso le decisioni di fondo. È dalla miscela tra questi tre processi degenerativi della nostra società che nasce il successo di Matteo Renzi, e anche quello del suo omonimo Salvini.
    I due Matteo si dividono gran parte del consenso dei pochi elettori residui, perché meglio rappresentano l’autodistruzione della nostra democrazia. Essi sono molto simili nel modo di pensare e di proporsi, e forse persino intercambiabili. E questo non solo per il giovanilismo di palazzo, la carriera burocratica oscura trasformata in leadership grazie ai mass media mentre crollava il consenso delle vecchie direzioni, la formazione giovanile nei quiz delle Tv di Berlusconi. Il punto vero che hanno in comune è il trasversalismo reazionario. Renzi è partito volendo battere i pugni in Europa e contro i poteri forti e ora picchia solo contro sindacati, scioperi e diritti del lavoro. Che vengono indicati come i veri ostacoli, o in altre versioni come gli alibi, che fanno sì che le imprese non investano. Per Renzi la ruota della fortuna ha girato a lungo e alla fine si è fermata sul lavoro ancora sindacalizzato e tutelato da qualche diritto residuo. Quello è il nemico dei giovani, dei disoccupati, del merito, della crescita e naturalmente di quelle imprese che finanziano Renzi a 1000 euro a coperto.
    Anche Matteo Salvini lancia proclami contro banche, euro, finanza. Ma i mass media li buca indirizzando il rebus contro migranti e Rom e alleandosi con forze esplicitamente fasciste e razziste. Renzi e Salvini indicano all’italiano medio l’unico avversario a reale portata di mano, il vicino di casa metalmeccanico, o impiegato pubblico, o migrante. Loro vengono indicati come la causa dei guai e con loro sindacati e centri sociali. Renzi e Salvini alimentano le rispettive guerre dei poveri in competizione l’uno con l’altro, e così si presentano sempre di più come un’alternanza nell’ambito della stessa devastazione democratica. Che la gente non vada più a votare, a parte i loro sostenitori, ai due leader va benissimo. Entrambi sono figli della ideologia liberista, e la privatizzazione della democrazia è la madre di tutte le altre.
    Non c’è soluzione facile a tutto questo. Crisi economica e degrado democratico si alimentano reciprocamente, e per uscire da entrambi bisogna ricostruire il conflitto con avversari che non sono il vicino di casa. Per questo gli scioperi, i movimenti sociali, le lotte vere fanno così paura ad entrambi i Matteo. Perché se questi dovessero crescere e consolidarsi, loro perderebbero centralità e leadership. Il voto regionale colloca la maggioranza della popolazione italiana in una posizione extraparlamentare. Oggi è un successo per Renzi e Salvini, domani potrebbe essere la loro condanna. Ma perché questo avvenga, tutto ciò che si oppone al regime dei due Matteo deve trovare la stessa determinazione, la stessa dimensione culturale e volontà di vero cambiamento, della Resistenza e della liberazione dal fascismo.
    (Giorgio Cremaschi, “La resistenza contro il regime dei due Matteo”, da “Micromega” del 24 novembre 2014).

    A me non stupisce che Matteo Renzi esalti il successo del Pd alle regionali ignorando, anzi persino valutando con un certo compiacimento, il fatto che in Emilia Romagna abbia votato un elettore su tre, quando solo poco tempo fa votavano in nove su dieci. Nella concezione autoritaria della governabilità e nel decisionismo di cui il segretario presidente è solo l’ultimo esponente, la partecipazione popolare è solo un incomodo o un fastidio. Se votano solo tre persone e si ha la sicurezza di ottenere il consenso di due di esse va bene, in meno si decide è meglio è. Gli altri dovranno solo ubbidire. Mussolini sosteneva che lui del fascismo non aveva inventato nulla, lo aveva semplicemente tirato fuori dagli italiani e organizzato. Per Renzi vale lo stesso. Sono anni che i programmi di governo sono vincolati ai diktat dei mercati, della Ue, della finanza, e anche a quelli del governo di un altro paese, la Germania. Sono anni che i cittadini di questo paese vengono educati alla impotenza e alla inutilità di una democrazia ove le decisioni di fondo son già prese altrove. E quando è lo stesso Presidente della Repubblica che si fa alfiere di questa sottomissione culturale e psicologica, oltre che politica, è evidente che tutto il sistema costituzionale ne risente.

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