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Archivio del Tag ‘crisi’

  • E Draghi si arrese a Keynes: lo Stato torni a spendere

    Scritto il 13/9/14 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Debito pubblico, spesa pubblica, deficit positivo. Tradotto: o lo Stato finanzia direttamente l’economia, o è la fine per tutti. Chi l’ha detto? John Maynard Keynes, ovviamente, il padre dell’economia democratica moderna. Ma la notizia bomba, rileva Paolo Barnard, è che la stessa identica verità l’ha finalmente ammessa l’uomo-simbolo dell’infinita austerity europea, il “signor no” per eccellenza, il massimo esponente della dottrina del rigore senza via di scampo: Mario Draghi, nientemeno. Una storica inversione di rotta, dice Barnard, esternata solo grazie a un cronista del “Wall Street Journal”: viceversa, «tutto questo non l’avremmo mai saputo, dai nostri quotidiani». La data “storica” è quella del 9 settembre, in cui Draghi ha presenziato all’Eurofi di Milano. Per dire, al giornalista statunitense, che – nonostante il dogma neoliberista ripetuto all’infinito, quello dell’autosufficienza del mercato – senza l’intervento dello Stato l’economia muore, come dimostra la crisi europea. «Mario, quanto ci hai messo! Ma come ci insegna il Figliol Prodigo… welcome fra noi».
    «Alla fine neppure lui ce l’ha fatta», scrive Barnard nel suo blog. Lui, Draghi, definito «’sto cadavere telecomandato dal neofeudalesimo e cresciuto a scudisciate neoliberiste», la scuola austriaca della destra economica europea, quella di Friedrich von Hayek (lasciare i poveri in miseria, aiutarli solo quel tanto che basta per evitare che la loro rabbia si trasformi in rivolta) e la dottrina iperliberista di Milton Friedman, altro nemico giurato dello Stato come fondamentale istituzione economica a guardia del benessere della comunità nazionale. Cattivi maestri, «da cui escono anche gli Alesina, Serra, Taddei, Boldrin o Giavazzi», vale a dire «gli unici tordi rimasti al mondo della serie “l’euro ha fatto tutto giusto, guai mollarlo”, cui seguono sbadigli e sghignazzi di Goldman Sachs, Jp Morgan, Krugman e altri principianti di questa sorta». Per una volta, il sovranista Barnard canta vittoria: «Draghi ha fatto outing, e si è strappato la camicia mostrando sul petto il tatuaggio di John Maynard Keynes. Ebbene sì!». L’ha fatto, aggiunge Barnard, perché ormai sconfitto dai numeri impietosi della recessione europea.
    Quello che di colpo sconfessa come un fallimento catastrofico dopo lunghi decenni di linea dura (e suicida), secondo Barnard è un Draghi «ormai fucilato alla schiena dalla Germania», che l’ha appena «bocciato a morte». Un Draghi «ormai sepolto da un’irrimediabile deflazione dell’Europa, cui non ha mezzi per rimediare». Un banchiere centrale «ormai umiliato come l’uomo che ha presidiato la distruzione di una civiltà economica». E a quanto pare si arrende all’evidenza, «senza più mezzi per fare nulla». Così, ha improvvisamente abbracciato Keynes, e insieme al grande economista inglese anche «la Mosler Economics, che è Keynes adattato al terzo millennio». Infatti, a Milano, Mario Draghi ha ammesso che «i governi devono agire con forza per incoraggiare gli investimenti, includendo garanzie di Stato per le piccole e medie imprese», riassume Barnard. «E, quando i conti glielo permettono, i governi devono spendere soldi di Stato», checché ne pensino i liberisti  alla Giavazzi.
    Inoltre, aggiunge Barnard citando Draghi, «solo se le politiche monetarie saranno affiancate da politiche strutturali e da politiche economiche di spesa di Stato, vedremo gli investimenti tornare in Ue», perché la Bce «non può fare tutto da sola». E’ esattamente quanto affermano Barnard e gli attivisti della Mmt, la Modern Money Theory sintetizzata dallo statunitense Warren Mosler: «Senza politiche economiche di spesa di Stato, la politica monetaria non può fare niente». Da almeno trent’anni, agitando lo spauracchio dell’inflazione, il super-potere dell’élite economica europea ha imposto, attraverso la finanza e la tecnocrazia di Bruxelles, l’amputazione progressiva dello Stato, a cui è stato tolto il potere di sostenere l’economia. Oggi, di fronte allo sfacelo dell’Europa, persino Draghi alza bandiera bianca. Meglio tardi che mai, dice Barnard, sostenitore del ritorno alla sovranità monetaria come unica possibilità di risollevare l’economia, ripristinando l’interesse pubblico e la capacità di investimenti strategici mediante iniezioni di denaro: non alle banche ma all’economia reale, puntando alla piena occupazione.

    Debito pubblico, spesa pubblica, deficit positivo. Tradotto: o lo Stato finanzia direttamente l’economia, o è la fine per tutti. Chi l’ha detto? John Maynard Keynes, ovviamente, il padre dell’economia democratica moderna. Ma la notizia bomba, rileva Paolo Barnard, è che la stessa identica verità l’ha finalmente ammessa l’uomo-simbolo dell’infinita austerity europea, il “signor no” per eccellenza, il massimo esponente della dottrina del rigore senza via di scampo: Mario Draghi, nientemeno. Una storica inversione di rotta, dice Barnard, esternata solo grazie a un cronista del “Wall Street Journal”: viceversa, «tutto questo non l’avremmo mai saputo, dai nostri quotidiani». La data “storica” è quella del 9 settembre, in cui Draghi ha presenziato all’Eurofi di Milano. Per dire, al giornalista statunitense, che – nonostante il dogma neoliberista ripetuto all’infinito, quello dell’autosufficienza del mercato – senza l’intervento dello Stato l’economia muore, come dimostra la crisi europea. «Mario, quanto ci hai messo! Ma come ci insegna il Figliol Prodigo… welcome fra noi».

  • Estulin: vogliono sterminarci, è la cupola dell’apocalisse

    Scritto il 12/9/14 • nella Categoria: idee • (4)

    «Tutti gli eventi sono tra loro interconnessi. A leggere i giornali sembra che gli scontri in Ucraina siano un problema a sé, completamente slegati dagli scontri razziali di Ferguson o dalle persecuzioni razziali e religiose in Iraq e Siria». Prima di entrare nel merito delle tensioni tra la Russia e la Nato, Daniel Estulin (controverso autore del libro “La vera storia del club Bilderberg”) ci tiene a spiegare che «la Terra è un pianeta piccolo» e che, per andare fino in fondo, è fondamentale capire chi tira le fila. Perché «noi siamo solo burattini». Estulin nasce nel 1966 a Vilnius. Della sua vita non si sa molto. Ma, chiacchierando, è lui stesso a raccontare delle battaglie del padre per una Russia più libera, della fuga in Canada e della passione per la politica, senza divisione tra interni e esteri, perché «la vera politica si svolge a un livello sovranazionale, al di sopra dei governi, tra quelle persone che governano il mondo da dietro le quinte». Li chiama “shadow master”, signori dell’oscurità, e cerca di smascherarli nei suoi libri, da “L’istituto Tavistock” in avanti.
    Perché la Nato sta alzando i toni con la Russia? «Per capirlo bisogna guardare a Detroit, uno scenario post-apocalittico degno di un film di Will Smith. Le persone che tirano le fila del mondo vogliono le guerre, la crescita zero e la deindustrializzazione, vogliono che ogni città del mondo assomigli a Detroit». Progresso e sviluppo non dovrebbero essere direttamente proporzionali alla densità di popolazione? «Grazie ai progressi tecnologici, le società si sviluppano, creano ricchezza e costruiscono. Ma chi tira le fila del mondo sa che la Terra è un pianeta molto piccolo, con risorse naturali limitate e una popolazione in continua crescita. Ora siamo 7 miliardi e stiamo già esaurendo le risorse naturali. Ci sarà sempre abbastanza spazio sul pianeta, ma non abbastanza cibo e acqua per tutti. Perché i potenti sopravvivano, noi dobbiamo morire». Come intendono fare? «Distruggendo le nazioni a vantaggio delle strutture sovranazionali controllate dal denaro che gestiscono. Le corporazioni governano il mondo per conto dei governi che esse controllano. Così è successo con l’Unione Europea».
    E Putin non rientra in questo disegno. «Pensavano di poterlo controllare». Perché non ci riescono? «La Russia è una superpotenza nucleare. È questo che la rende tremendamente pericolosa agli occhi di questa gente. La Cina, per esempio, ha una grande popolazione ma non è una potenza nucleare. E per questo non è un pericolo. Mentre l’economia cinese può essere distrutta nel giro di un minuto, le tecnologie russe non possono essere annientate». Dove vogliono arrivare col conflitto in Ucraina? «Togliere il gas all’Europa per farla morire di freddo… Quando parlo di potere, non lo identifico con persone che siedono su un trono, ma con un concetto sovranazionale. L’idea è appunto distruggere ogni nazione». Alla fine non ci sarà più alcuna patria? «L’alleanza è orientata verso una struttura mondiale, che per essere controllata ha bisogno di nazioni deboli». È possibile fare qualche nome? «Christine Lagarde, Mario Draghi, Mario Monti, Petro Oleksijovyč Porošenko. Tutte queste persone sono sostituibili. Prendete Renzi: la sua politica conduce alla distruzione dell’Italia. Perché lo fa, dal momento che dovrebbe fare l’interesse del vostro paese? Non è logico».
    Non è poi tanto diverso da Monti. «I vari Renzi, Monti, Prodi sono traditori dell’Italia, non lavorano nell’interesse del paese. Renzi non ha mandato politico, nessuna legittimazione, non è stato eletto». L’ultimo premier eletto democraticamente è stato Berlusconi. «E questo è il motivo per cui c’è stato uno sforzo così ben orchestrato per distruggerlo». È il Bilderberg a tirare le fila? «Il Bilderberg era molto influente negli anni Cinquanta, nel mondo postbellico. Ora è molto meno importante di quanto non si creda. Organizzazioni come il Bilderberg o la Trilaterale non sono il vertice di nulla. Sono la cinghia di trasmissione. I veri processi decisionali hanno luogo ancora più in alto. L’Aspen Institute è molto più importate del Bilderberg». Nessuno ne parla. «I giornali mainstream fanno parte di questo gioco. Pensare che media come il “New York Times”, il “Washington Post” o “Le Monde” siano indipendenti, è da idioti. I giornalisti lavorano per azionisti che decidono la linea editoriale del giornale». Vale anche per l’Italia? «Il “Corriere della Sera”, “La Stampa” e “Il Sole 24 Ore” siedono spesso alle riunioni del Bilderberg. Non c’è metodo più efficace che far passare le loro idee nella stampa mainstream».
    Anche l’estremismo e il terrorismo islamico rientrano in questo disegno? «Certamante. Non è possibile credere che Obama lavori nell’interesse degli Stati Uniti. Come è impensabile credere che un’organizzazione come l’Isis sia passata, nel giro di poche settimane, dall’anonimato più assoluto a rappresentare la peggiore organizzazione terroristica del mondo». Come si “costruisce” un nemico? «Con gruppi come Isis, Hamas, Hezbollah o Al-Qaeda, succede quello che chiamiamo “blow-back”, cioè quello che succede quando soffi il fumo e ti torna in faccia. L’effetto è sempre lo stesso: si costruisce e si finazia un gruppo terroristico, in Ucraina come in Medio Oriente, e dopo un certo periodo di gestazione questo ti torna indietro e ti colpisce. In ogni operazione non c’è mai un solo obiettivo, ma sempre molti obiettivi. Un obiettivo lavora per te, un altro contro di te».
    Tutto già calcolato? «Un qualsiasi attacco implica l’uso dell’esercito e, quindi, la necessità di investire soldi nell’industria bellica. La formula è la stessa, cambiano solo i giocatori. Oltre alla guerra ci sono modi diversi per ottenere lo stesso risultato: la fame, la siccità, le droghe, la malattie. Li stanno usando tutti. Così da un lato distruggono il mondo economicamente, dall’altro usano i soldi per sviluppare tecnologie così potenti e futuristiche da creare un gap tra noi e loro sempre più marcato». Eppure faticano a contrastare l’ebola… «Macché! È solo un esempio per vedere la reazione della popolazione mondiale. Viene presentata come un’epidemia ma ha ammazzato appena tremila persone negli ultimi dieci anni. Ogni anno raffreddore, tosse e influenza ne uccidono 30.000 solo negli Stati Uniti. La prossima volta che ci sarà una vera epidemia, conosceranno già le reazioni umane».
    (“Ecco chi tira i fili del terrore per sovvertire l’ordine mondiale”, intervista di Andrea Indini a Daniel Estulin, da “Il Giornale” dell’11 settembre 2014).

    «Tutti gli eventi sono tra loro interconnessi. A leggere i giornali sembra che gli scontri in Ucraina siano un problema a sé, completamente slegati dagli scontri razziali di Ferguson o dalle persecuzioni razziali e religiose in Iraq e Siria». Prima di entrare nel merito delle tensioni tra la Russia e la Nato, Daniel Estulin (controverso autore del libro “La vera storia del club Bilderberg”) ci tiene a spiegare che «la Terra è un pianeta piccolo» e che, per andare fino in fondo, è fondamentale capire chi tira le fila. Perché «noi siamo solo burattini». Estulin nasce nel 1966 a Vilnius. Della sua vita non si sa molto. Ma, chiacchierando, è lui stesso a raccontare delle battaglie del padre per una Russia più libera, della fuga in Canada e della passione per la politica, senza divisione tra interni e esteri, perché «la vera politica si svolge a un livello sovranazionale, al di sopra dei governi, tra quelle persone che governano il mondo da dietro le quinte». Li chiama “shadow master”, signori dell’oscurità, e cerca di smascherarli nei suoi libri, da “L’istituto Tavistock” in avanti.

  • Merkel, bugie e orrori Ue. E gli italiani? Non pervenuti

    Scritto il 12/9/14 • nella Categoria: idee • (5)

    I governi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi saranno ricordati come quelli che hanno dimostrato la maggiore incapacità nel governare l’economia in un periodo di crisi. I dati sono impietosi. Dal 2009 ad oggi il Pil è calato di dieci punti. Qualcosa come 160 miliardi sottratti ogni anno all’economia. L’industria ha perso un quarto della sua capacità produttiva. La produzione di autovetture sul territorio nazionale è diminuita del 65%. L’indicatore più scandaloso dello stato dell’economia, quello della disoccupazione, insieme con quelli relativi alla immensa diffusione del lavoro precario, ha raggiunto livelli mai visti. La scuola e l’università sono in condizioni vergognose. Sei milioni di italiani vivono sotto la soglia della povertà assoluta, il che significa che non sono in grado di acquistare nemmeno i beni e i servizi di base necessari per una vita dignitosa. Il rapporto debito pubblico-Pil sta viaggiando verso il 140%, visto che il primo ha superato i 2.100 miliardi.
    Questo fa apparire i ministri che si rallegrano perché nel corso dell’anno saranno di sicuro trovati tre o quattro miliardi per ridurre il debito dei tristi buontemponi. Ultimo tocco per completare il quadro del disastro, l’Italia sarà l’unico paese al mondo in cui la compagnia di bandiera ha i colori nazionali dipinti sulle ali, ma chi la comanda è un partner straniero. Si possono formulare varie ipotesi circa le origini del disastro. La più nota è quella avanzata da centinaia di economisti europei e americani sin dai primi anni del decennio. È un grave errore, essi insistono, prescrivere al cavallo maggiori dosi della stessa medicina quando è evidente che ad ogni dose il cavallo peggiora. La medicina è quella che si compendia nelle politiche di austerità, richieste da Bruxelles e praticate con particolare ottusità dai governi italiani. Essa richiede che si debba tagliare anzitutto la spesa pubblica: in fondo, a che cosa servono le maestre d’asilo, i pompieri, le infermiere, i ricercatori universitari? In secondo luogo bisogna privatizzare il maggior numero possibile di beni pubblici.
    Il privato, dicono i medici dell’austerità, è sempre in grado di gestire qualsiasi attività con superiore efficienza: vedi, per dire, i casi Ilva, Alitalia, Telecom. Infine è necessario comprimere all’osso il costo del lavoro, rendendo licenziabile su due piedi qualunque tipo di lavoratore. I disoccupati in fila ai cancelli sono molto più disposti ad accettare qualsiasi lavoro, a qualsiasi condizione, se sanno che al minimo sgarro dalla disciplina aziendale saranno buttati fuori come stracci. Altro che articolo 18. Nell’insieme la diagnosi appare convincente. Le politiche di austerità sono un distillato delle teorie economiche neoliberali, una macchina concettuale tecnicamente agguerrita quanto politicamente misera, elaborata dagli anni 80 in poi per dimostrare che la democrazia non è che una funzione dell’economia. La prima deve essere limitata onde assicurare la massima espansione della libertà di mercato (prima di Draghi, lo hanno detto senza batter ciglio Lagarde, Merkel e perfino una grande banca, Jp Morgan).
    La mente e la prassi di tutto il personale che ha concorso a governare l’economia italiana negli ultimi anni è dominata sino al midollo da questa sofisticata quanto grossolana ideologia; non c’è quindi da stupirsi che essa abbia condotto il paese al disastro. Domanda: come mai, posto che tutti i governanti europei decantano e praticano i vantaggi delle politiche dell’austerità, molti dei loro paesi se la passano meglio dell’Italia? La risposta è semplice: perché al di sotto delle coperture ideologiche che adottano in pubblico, le iniziative che essi prendono derivano piuttosto da una analisi spregiudicata delle reali origini della crisi nella Ue. In Italia, non si è mai sentito un membro dei quattro “governi del disastro” proporre qualcosa di simile a una tale analisi, con la conseguenza che oltre a praticare ciecamente le politiche neoliberali, i nostri governanti ci credono pure. Facendo di loro il personale politico più incompetente della Ue.
    Si prenda il caso Germania; non a caso, perché la Germania è al tempo stesso il maggior peccatore economico d’Europa (copyright Flassbeck), e quello cui è meglio riuscito a far apparire virtuoso se stesso e peccatori tutti gli altri. Il motivo del successo tedesco è noto: un’eccedenza dell’export sull’import che col tempo ha toccato i 200 miliardi l’anno. Poco meno di due terzi di tale somma è dovuta ad acquisti da parte di altri paese Ue. Prodigio della tecnologia tedesca? Nemmeno per sogno. Prodigio, piuttosto, della formula “vai in malora te e il tuo vicino” (copyright Lapavitsas) ferreamente applicata dalla Germania a tutti i paesi Ue. Grazie alle “riforme” dell’Agenda 2010, dalla fine degli anni ‘90 i lavoratori tedeschi non hanno visto un euro in più affluire ai loro salari; il considerevole aumento complessivo della produttività verificatosi nello stesso periodo si è tradotto per intero nella riduzione dei prezzi all’esportazione.
    In un regime di cambi fissi come quello imposto dall’euro, questo meccanismo ha trasformato la Germania in un paese a forte surplus delle partite correnti e tutti gli altri paesi dell’Eurozona in paesi deficitari. Ha voglia la cancelliera Merkel di decantare le virtù della “casalinga dello Schlewig-Holstein”, che spende soltanto quel che incassa e non fa mai debiti. La virtù vera dei tedeschi è consistita, comprimendo i salari interni per favorire le esportazioni, nel diventare l’altezzoso creditore d’Europa, mettendo in fila tutti gli altri paesi come debitori spreconi. È vero che negli incontri ufficiali è giocoforza che ognuno parli la neolingua del regime neoliberale che domina la Ue. Invece negli incontri dove si decidono le cose serie bisognerebbe chiedere ai governanti tedeschi che anziché della favola della casalinga si discuta magari delle politiche del lavoro – quelle tedesche – che hanno disastrato la Ue. Potrebbe essere utile quanto meno per condurre trattative per noi meno jugulatorie. Tuttavia per fare ciò bisogna avere una nozione realistica della crisi, e non è chiaro se esiste un solo governante italiano che la possegga.
    Nei discorsi con cui verso metà agosto Matteo Renzi ha occupato gran parte delle reti tv, si è profuso in richiami alla necessità di guardare con coraggio alla crisi, di non lasciarsi prendere dalla sfiducia, di contare sulle risorse profonde del paese. Sarà un caso, o uno spin doctor un po’ più colto, ma questi accorati richiami alla fibra morale dei cittadini ricordano il discorso inaugurale con cui Franklin Delano Roosevelt inaugurò la sua presidenza nel marzo 1933. In Usa le conseguenze furono straordinarie. Ma non soltanto perché i cittadini furono rianimati di colpo dalle parole del presidente. Bensì perché nel giro di poche settimane Roosevelt creò tre agenzie per l’occupazione che in pochi mesi diedero un lavoro a quattro milioni di disoccupati, e attuò la più grande ed efficace riforma del sistema bancario che si sia mai vista in Occidente, la legge Glass-Steagall. Ci faccia vedere qualcosa di simile, Matteo Renzi, in tempi analoghi, e cominceremo a pensare che il suo governo potrebbe anche risultare meno disastroso di quanto oggi non sembri.
    (Luciano Gallino, “Quattro anni sprecati”, da “La Repubblica” del 19 agosto 2014, ripreso da “Megachip”).

    I governi Berlusconi, Monti, Letta, Renzi saranno ricordati come quelli che hanno dimostrato la maggiore incapacità nel governare l’economia in un periodo di crisi. I dati sono impietosi. Dal 2009 ad oggi il Pil è calato di dieci punti. Qualcosa come 160 miliardi sottratti ogni anno all’economia. L’industria ha perso un quarto della sua capacità produttiva. La produzione di autovetture sul territorio nazionale è diminuita del 65%. L’indicatore più scandaloso dello stato dell’economia, quello della disoccupazione, insieme con quelli relativi alla immensa diffusione del lavoro precario, ha raggiunto livelli mai visti. La scuola e l’università sono in condizioni vergognose. Sei milioni di italiani vivono sotto la soglia della povertà assoluta, il che significa che non sono in grado di acquistare nemmeno i beni e i servizi di base necessari per una vita dignitosa. Il rapporto debito pubblico-Pil sta viaggiando verso il 140%, visto che il primo ha superato i 2.100 miliardi.

  • Il piano: rovinarci, ma non al punto da provocare rivolte

    Scritto il 09/9/14 • nella Categoria: idee • (7)

    La recente crisi di governo in Francia, con il “licenziamento” dei ministri anti-austerità e la loro sostituzione con solerti funzionari della politica economica ferocemente antipopolare che vede tutti i governi europei, di destra come di “sinistra”, impegnati a massacrare livelli di occupazione e di reddito e qualità della vita dei propri cittadini, ha scatenato l’entusiasmo dei media italiani, “Corriere della Sera” in testa, che hanno salutato con gioia l’epurazione degli eretici allievi delle teorie dell’odiato neokeynesiano Thomas Piketty e reiterato le lodi nei confronti del nostro amato leader Renzi, immune da analoghe tentazioni paleo-sinistrorse. Prosegue intanto l’assordante silenzio sugli effetti sempre più evidenti di politiche che, in barba allo strombazzato, e a parole universalmente condiviso, obiettivo di rilanciare crescita e sviluppo, appaiono inequivocabilmente autolesionistiche anche dal punto di vista capitalistico. Siamo dunque di fronte a un rincoglionimento generale di politici, media e padroni?
    In un articolo ripreso dall’“Huffington Post”, Jaques Attali tenta un’altra spiegazione (già anticipata dal titolo “Il consumatore ha sconfitto il lavoratore?”): queste scelte sarebbero il risultato della preoccupazione dei politici di accontentare gli elettori-consumatori, il cui consenso viene giudicato assai più importante di quello degli elettori-lavoratori ai fini della conservazione del potere. Ecco perché l’obiettivo di controllare l’inflazione (e quindi i prezzi di beni e servizi) prevale sull’obiettivo di preservare i livelli di occupazione (e quindi i livelli retributivi). La spiegazione può apparire bizzarra, ove si consideri che consumatori e lavoratori sono sostanzialmente le stesse persone, per cui la tesi adombra una sorta di schizofrenia acquisita dei cittadini-elettori, dovuta al prevalere di una “narrativa” che vede destra e sinistra impegnate a descrivere la società in termini di categorie cultural generazionali (vecchi e giovani, uomini e donne, consumatori e lavoratori, ecc.) per cancellare ogni memoria delle “vecchie” appartenenze di classe e dei relativi interessi.
    Eppure la tesi non è priva di un qualche merito, ove la si consideri da un altro punto di vista, ove cioè la si rilegga a partire dalle tesi dell’economista conservatore americano, Tyler Cowen, il quale, nel saggio “Average is Over”, descrive con crudo cinismo un processo destinato a generare in breve tempo una società oligarchica. Il mercato del lavoro, sostiene Cowen, è destinato a  subire, a causa della rivoluzione tecnologica in corso, un’irreversibile trasformazione che produrrà tre distinti strati sociali: una minoranza vincente attorno al 10% – che otterrà redditi e qualità della vita sempre più elevati – e una massa di perdenti che si divideranno fra una classe media impoverita e una massa di esclusi ancora più miserabili. Per evitare che scoppi una rivoluzione, argomenta Cowen, occorre un nuovo contratto sociale: bisogna cioè garantire agli esclusi beni e servizi (in primo luogo abitazioni) a basso costo, privarli dei vecchi servizi sociali ma lasciare loro in tasca abbastanza soldi perché non si ribellino. Ecco dunque riformulata la tesi di Attali, non nei termini ideologici dell’interesse del consumatore, bensì nella più cinica e realistica prospettiva di come condurre la “guerra di classe dall’alto” di cui parla Gallino senza provocare pericolose rivolte sociali.
    (Carlo Formenti, “Verso una società oligarchica”, da “Micromega” del 29 agosto 2014).

    La recente crisi di governo in Francia, con il “licenziamento” dei ministri anti-austerità e la loro sostituzione con solerti funzionari della politica economica ferocemente antipopolare che vede tutti i governi europei, di destra come di “sinistra”, impegnati a massacrare livelli di occupazione e di reddito e qualità della vita dei propri cittadini, ha scatenato l’entusiasmo dei media italiani, “Corriere della Sera” in testa, che hanno salutato con gioia l’epurazione degli eretici allievi delle teorie dell’odiato neokeynesiano Thomas Piketty e reiterato le lodi nei confronti del nostro amato leader Renzi, immune da analoghe tentazioni paleo-sinistrorse. Prosegue intanto l’assordante silenzio sugli effetti sempre più evidenti di politiche che, in barba allo strombazzato, e a parole universalmente condiviso, obiettivo di rilanciare crescita e sviluppo, appaiono inequivocabilmente autolesionistiche anche dal punto di vista capitalistico. Siamo dunque di fronte a un rincoglionimento generale di politici, media e padroni?

  • Isis, corsari per la grande guerra Usa: ditelo, alla sinistra

    Scritto il 09/9/14 • nella Categoria: idee • (3)

    Chi erano i corsari? Mercenari del mare, incaricati di colpire gli avversari della potenza che li aveva ingaggiati: di fatto, a loro toccava il lavoro sporco. Dunque, come definire altrimenti l’attuale Isis, armato dagli Usa attraverso l’Arabia Saudita? Già negli anni ‘80, scrive “Piotr” su “Megachip”, la Rand Corporation aveva previsto che guerre future sarebbero state combattute, sul terreno, da “entità sub-statali”. Cui prodest: «Cosa c’è di meglio per gli Usa che installare nel centro nevralgico dell’Eurasia (già oggetto degli incubi e dei desideri del “veggente” consigliere di Carter per la sicurezza, Zbigniew Brzezinski) uno Stato-non-Stato, uno Stato-zombie, un essere-non-essere, un’organizzazione territoriale che al riparo della sua bandiera nera pirata può minacciare di azioni raccapriccianti tutti gli stati vicini, a partire da Siria, Russia, Iran, Cina, repubbliche centroasiatiche e poi lungo il corridoio che tramite il Pakistan penetra in India e che attraverso lo Xinjiang Uyghur prende alle spalle la Cina? Difficile pensare a un’arma non convenzionale migliore».
    L’Isis è «un temibile cuneo piazzato nel bel mezzo dell’Organizzazione di Shanghai», nonché una minaccia verso l’Europa, nel caso il vecchio continente «si mostrasse troppo recalcitrante al progetto neoimperiale statunitense, con annessi e connessi tipo il rapinoso Ttip». Il momento è adesso: l’economia occidentale è in declino, mentre i Brics non hanno ancora le capacità militari per reagire. Scrupoli, da parte di Washington? Escluso: «Il regista Oliver Stone e lo storico Peter Kuznick con molto acume hanno fatto notare che con Hiroshima e Nagasaki gli Usa non solo volevano dimostrare al mondo di essere superpotenti, ma anche – cosa ancor più preoccupante – che non avrebbero avuto alcuno scrupolo nella difesa dei propri interessi: erano pronti a incenerire in massa uomini, donne e bambini». Oggi tocca a libici, siriani, iracheni. Certo, «in Occidente questa strategia rimane incomprensibile ai più», anche se già negli ‘80 alcuni studiosi avevano fatto notare «le connessioni tra crisi sistemica, reaganomics, finanziarizzazione, conflitti geopolitici e la ripresa d’iniziativa neoimperiale degli Usa dopo la sconfitta in Vietnam».
    All’appello manca, drammaticamente, la sinistra: quella che si era battuta contro il Vietnam, contro le guerre imperiali di Bush e contro la globalizzazione selvaggia, e ora lascia che sia il Papa a parlare di “Terza Guerra Mondiale a zone”, iniziata di fatto con l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 Settembre. Il movimento no-global era sulla strada giusta, eppure – annota l’analista di “Megachip” – è bastata la crisi finanziaria e «l’elezione santificata» di Obama per accecare milioni di individui, divenuti «passivi o incoscienti della nuova politica imperiale». Tutto “merito” della disinformazione mediatica: Goebbels ha fatto scuola. «Il trucco c’è, si vede benissimo, ma non gliene frega niente a nessuno», sentenzia una vignetta di Altan. Tutti lo vedevano: «La “guerra al terrorismo” non sconfiggeva alcun terrorismo», ma «in compenso distruggeva stati, prima l’Afghanistan poi l’Iraq». E il terrorismo? «Entrava “in sonno” e si rifaceva vivo con alcune necessarie dimostrazioni di esistenza a Madrid e a Londra, nel cuore dell’Europa». Avvertimenti.
    «Con Obama, gli obiettivi e la strategia si sono progressivamente chiariti», sostiene “Piotr”. «Una volta riorganizzato e potenziato l’esercito corsaro, scattava la nuova offensiva che ha avuto due preludi: il discorso di Obama all’Università del Cairo nel 2009 e le “primavere arabe” iniziate l’anno seguente». Attenzione: «In entrambi i casi, la sinistra ha sfoggiato una strabiliante capacità di non capire nulla. Avendo ormai scisso completamente l’anticapitalismo dall’antimperialismo, la maggior parte del “popolo di sinistra” si faceva avviluppare dalla melassa della coppia buonismo-diritti umanitari (inutile ricordare i campioni italiani di questa pasticceria), elevando ogni bla-bla a concetto e poi a Verbo. Obama dixit. Che bello! Che differenza tra Obama e quel guerrafondaio antimusulmano di Bush! Avete sentito cosa ha detto al Cairo? Nemmeno il più pallido sospetto che l’impero stesse esponendo la nuova dottrina di alleanza con l’Islam politico (alleanza che ha il centro logistico, finanziario e organizzativo nell’Arabia Saudita, il partner più fedele e di più lunga data degli Usa in Medio Oriente)». Peggio ancora con le “primavere arabe”: «Nemmeno a bombardamenti sulla Libia già iniziati la sinistra ha avuto il buon senso di rivedere il proprio entusiasmo per quelle “rivolte”».
    «Disaccoppiare il capitalismo dall’imperialismo è come pretendere di dissociare l’idrogeno dall’ossigeno e avere ancora acqua», continua “Megachip”. «Si è giunti al punto che un capo di stato maggiore statunitense, il generale Wesley Clark, rivela che Libia e Siria erano già nel 2001 nella lista di obiettivi selezionati dal Pentagono». Ma niente paura: i «sedicenti marxisti» continuino ancora a credere alla fiaba delle “rivolte popolari”. E’ così che, all’alba della Terza Guerra Mondiale, la sinistra «ci arriva totalmente disattrezzata, teoricamente, politicamente e ideologicamente», ancora peggio del “popolo di destra” perché, spesso, apertamente schierata coi guerrafondai. Unico «sprazzo di sereno», nell’estate 2014, l’opposizione di M5S e Sel all’invio di armi ai curdi, per una guerra in cui – come avverte Emergency – a pagare saranno al 90% i civili. E il gioco è più sporco che mai: «Il senatore John McCain, in apparenza battitore libero ma nella realtà executive plenipotenziario della politica di caos terroristico di Obama, si è messo d’accordo sia coi leader del governo regionale curdo in Iraq sia con il Califfo dell’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi, già Abu Du’a, già Ibrahim al-Badri, uno dei cinque terroristi più ricercati dagli Stati Uniti con una taglia di 10 milioni di dollari».
    «Così come Mussolini aveva bisogno di un migliaio di morti da gettare sul tavolo delle trattative di pace – conclude “Megachip” – gli Usa, l’Isis e i boss curdo-iracheni hanno bisogno di qualche migliaio di morti (civili) da gettare sul palcoscenico della tragedia mediorientale, per portare a termine la tripartizione dell’Iraq e lo scippo delle zone nordorientali della Siria (altro che Siria e Usa uniti contro i terroristi, come scrivono cialtroni superficiali e pennivendoli di regime). Il tutto a beneficio del realismo dello spettacolo». Nel lontano 1979, Brzezinski aveva capito e scritto che il futuro problema degli Stati Uniti era l’Eurasia e che quindi occorreva balcanizzarla, in particolare la Russia e la Cina. All’inizio del secolo scorso, in piena egemonia mondiale dell’impero britannico, il geografo inglese Halford Mackinder scriveva: «Chi controlla l’Est Europa comanda l’Heartland, chi controlla l’Heartland comanda l’Isola-Mondo, chi controlla l’Isola-Mondo comanda il mondo». L’indefesso girovagare di McCain tra Ucraina e Medio Oriente non è dunque un caso. Ciò che è cambiato, chiosa “Piotr”, è che «gli Usa hanno capito che non è necessario che siano le proprie truppe a fare tutto il lavoro sporco». Bastano a avanzano i nuovi corsari.

    Chi erano i corsari? Mercenari del mare, incaricati di colpire gli avversari della potenza che li aveva ingaggiati: di fatto, a loro toccava il lavoro sporco. Dunque, come definire altrimenti l’attuale Isis, armato dagli Usa attraverso l’Arabia Saudita? Già negli anni ‘80, scrive “Piotr” su “Megachip”, la Rand Corporation aveva previsto che guerre future sarebbero state combattute, sul terreno, da “entità sub-statali”. Cui prodest: «Cosa c’è di meglio per gli Usa che installare nel centro nevralgico dell’Eurasia (già oggetto degli incubi e dei desideri del “veggente” consigliere di Carter per la sicurezza, Zbigniew Brzezinski) uno Stato-non-Stato, uno Stato-zombie, un essere-non-essere, un’organizzazione territoriale che al riparo della sua bandiera nera pirata può minacciare di azioni raccapriccianti tutti gli stati vicini, a partire da Siria, Russia, Iran, Cina, repubbliche centroasiatiche e poi lungo il corridoio che tramite il Pakistan penetra in India e che attraverso lo Xinjiang Uyghur prende alle spalle la Cina? Difficile pensare a un’arma non convenzionale migliore».

  • Torneremo sudditi: il piano del demonio, padrone d’Europa

    Scritto il 08/9/14 • nella Categoria: idee • (3)

    Tagli al welfare. Si persegue quella che il mondo anglosassone da sempre considera l’essenza della democrazia moderna: una società di individui fondata sulla libertà d’impresa. Afferma un celebre adagio che nella pervicacia si annida il demonio. Se è vero, le leadership europee sono prigioniere di potenze infere. Da sette anni infliggono ai propri paesi e alle loro economie una terapia nel segno dell’austerity che dovrebbe debellare la crisi e rimettere in moto la crescita. Non solo questa cura non ha prodotto nessuno dei risultati attesi. Tutte le evidenze depongono in senso contrario, al punto che sempre più numerosi economisti mainstream si pronunciano a favore di politiche espansive. Ciò nonostante la musica non cambia, nemmeno ora che l’Istituto statistico nazionale della Germania federale ha reso noti i dati sul secondo semestre di quest’anno. Anzi, il mantra delle “riforme strutturali” imperversa più forte che mai. Insomma, il demonio sbanca. O c’è semplicemente un dio dispettoso che si diverte ad accecare gente che vuol perdere.
    Sta di fatto che a suon di “riforme” l’Europa si sta suicidando, come già avvenne nel secolo scorso dopo il crollo di Wall Street, nonostante il buon esempio degli Stati Uniti rooseveltiani, che pure di capitalismo ne capivano. Questa è una lettura possibile. I capi di Stato e di governo e i grandi banchieri starebbero sbagliando i conti. Per superbia e presunzione, forse per incapacità, come pare suggerire il ministro Padoan parlando di previsioni errate. Ma c’è un’altra ipotesi altrettanto plausibile. Anzi, a questo punto ben più verosimile. Che non si tratti di errori ma del pesante tributo imposto dal massimo potere oggi regnante. Nonché (di ciò troppo di rado si discute) del perseguimento di un lucido progetto. E di un calcolo costi benefici forse spericolato ma coerente, in base al quale la recessione, con i suoi devastanti effetti collaterali (deflazione, disoccupazione, deindustrializzazione), appare un prezzo conveniente a fronte del fine che ci si prefigge: la messa in sicurezza di un determinato modello sociale nei paesi dell’Eurozona.
    Quale modello è facile a dirsi, se leggiamo in chiave politica le “riforme strutturali” di cui si chiede a gran voce l’adozione. Costringere gli Stati a “far quadrare i conti” significa nei fatti imporre loro, spesso congiuntamente, tre cose. La prima: vendere (svendere) il proprio patrimonio industriale e demaniale. La seconda: accrescere la pressione fiscale sul lavoro dipendente (posto che ci si guarda bene – soprattutto ma non solo in Italia – dal colpire rendite, patrimoni e grandi evasori). La terza: tagliare la spesa sociale destinata al welfare (vedi le ultime esternazioni del ministro Poletti in tema di pensioni), al sistema scolastico pubblico e all’occupazione nel pubblico impiego (dato che altre voci del bilancio non sono mai in discussione). Non è difficile capire che tutto ciò significa affamare il lavoro e spostare enormi masse di ricchezza verso il capitale privato. Nel frattempo, accanto a questi provvedimenti, ci si impegna a modificare le cosiddette relazioni industriali. Così si varano “riforme del lavoro” che hanno tutte un denominatore comune: l’attacco ai diritti dei lavoratori (“rigidità”) al fine di fare della forza lavoro una variabile totalmente subordinata (“flessibile”) al cosiddetto “datore”, che deve poter decidere in libertà se, quanto e a quali condizioni utilizzarla.
    Ne emerge un progetto nitido, che rovescia di sana pianta non solo il sogno sovversivo degli anni della sommossa operaia ma anche quello dei nostri costituenti. Si vuole fare finalmente della vecchia Europa quello che il mondo anglosassone da sempre considera l’essenza della democrazia moderna: una società di individui fondata sulla libertà d’impresa, cioè sul potere pressoché assoluto del capitale privato. Dopodiché potrà forse spiacere che dilaghino disoccupazione e povertà mentre enormi ricchezze si concentrano nelle mani di pochi. Pazienza. La “libertà” è un bene sommo intangibile, al quale è senz’altro opportuno sacrificare un feticcio d’altri tempi come la giustizia sociale. A chi obiettasse che questa è una lettura tendenziosa, sarebbe facile replicare con un rapido cenno alla teoria economica. L’enfasi sulla disciplina di bilancio suppone il ruolo chiave del capitale finanziario nel processo di produzione, secondo quanto stabilito dalla teoria neoclassica. Nel nome della “democrazia” questa teoria affida la dinamica economica alle decisioni del capitale privato. Il processo produttivo si innesca soltanto se esso prevede di trarne un profitto, il che significa concepirlo non soltanto come dominus naturale della produzione ma anche come il sovrano sul terreno sociale e politico.
    Vi sono naturalmente altre teorie. Marx, per esempio (ma anche Keynes) vede nella produzione una funzione sociale determinata principalmente da due fattori: la domanda (i bisogni sociali, compresi quelli relativi a beni o servizi “fuori mercato”) e la forza lavoro disponibile a soddisfarli. In questa prospettiva la funzione del capitale (soprattutto di quello finanziario, il denaro) è solo quella di mettere in comunicazione la domanda col lavoro. Per questo non gli è riconosciuto alcun potere di veto, meno che meno la sovranità. Anzi: la disponibilità di capitale è interamente subordinata alla decisione politica, per quanto concerne sia la leva fiscale, sia la massa monetaria. Inutile dire che queste teorie sono tuttavia reiette, bollate come stravaganti e antimoderne. Si pensa alle teorie come cose astratte, ma, come si vede, esse in filigrana parlano di soggetti in carne e ossa e di concretissimi conflitti. Il che spiega in abbondanza la povertà logica delle resistenze alle critiche keynesiane e marxiste. Spiega il vergognoso servilismo dei media, fatto di ignoranza e opportunismo. E spiega soprattutto perché, per l’establishment europeo, le “riforme strutturali” propugnate nel nome della teoria neoclassica siano un valore in sé, benché non servano affatto a risolvere la crisi, anzi la stiano aggravando oltremisura.
    La questione, insomma, è solo in apparenza economica e in realtà squisitamente politica. Del resto, nella sovranità assoluta del capitale e nella totale subordinazione della classe lavoratrice risiede la sostanza dei trattati europei che in questi vent’anni hanno modificato i rapporti di forza tra Stati e istituzioni comunitarie, tra assemblee elettive e poteri tecnocratici. È questo il punto di caduta di provvedimenti in apparenza dettati dalla ragion pura economica come il famigerato Fiscal Compact; questa la ratio della sciagurata decisione, al tempo del “governo del presidente”, di inserire il pareggio di bilancio in Costituzione. Non ve n’era bisogno, essendoci già Maastricht. Ma si sa, si prova un brivido particolare nel prosternarsi dinanzi ai primi della classe, nell’eccedere in espressioni servili. In altri tempi si sarebbe parlato di collaborazionismo.
    Un solo dubbio resta, nonostante tutto. È chiaro che alle leadership europee non interessa granché dell’equità sociale, né fa problema, ai loro occhi, l’instaurarsi di un’oligarchia. Ma a un certo momento (ormai prossimo) non sarà più tecnicamente possibile drenare risorse verso il capitale. Già oggi l’impoverimento di massa genera disfunzioni gravi, come dimostra l’imperiosa esigenza di “riformare” le Costituzioni per affrancare i governi dall’onere del consenso. Insomma, è sempre più evidente che il modello neoliberista urta contro limiti sociali e politici non facili a varcarsi. È vero che in un certo senso il capitale non conosce patria (è di casa ovunque riesca a valorizzarsi). Ma, a parte il fatto che gli equilibri geopolitici risentono del grado di forza interna delle compagini sociali (per cui l’Occidente rischia grosso nel confronto con l’«altro mondo», in vertiginosa crescita, ricco di capitali e di risorse umane), davvero è pensabile tenere a bada società già avvezze alla democrazia sociale (in questo l’Europa si distingue dagli Stati Uniti) a dispetto di una regressione ad assetti neofeudali? Abbiamo detto che non si capisce la discussione economica se non la si legge in chiave politica. Ma è proprio un problema politico quello che le leadership neoliberiste sembrano non porsi. Confermando tutta la distanza che corre tra gli statisti e i politicanti.
    (Alberto Burgio, “L’inchino europeo al capitale privato”, da “Il Manifesto” del 20 agosto 2014).

    Tagli al welfare. Si persegue quella che il mondo anglosassone da sempre considera l’essenza della democrazia moderna: una società di individui fondata sulla libertà d’impresa. Afferma un celebre adagio che nella pervicacia si annida il demonio. Se è vero, le leadership europee sono prigioniere di potenze infere. Da sette anni infliggono ai propri paesi e alle loro economie una terapia nel segno dell’austerity che dovrebbe debellare la crisi e rimettere in moto la crescita. Non solo questa cura non ha prodotto nessuno dei risultati attesi. Tutte le evidenze depongono in senso contrario, al punto che sempre più numerosi economisti mainstream si pronunciano a favore di politiche espansive. Ciò nonostante la musica non cambia, nemmeno ora che l’Istituto statistico nazionale della Germania federale ha reso noti i dati sul secondo semestre di quest’anno. Anzi, il mantra delle “riforme strutturali” imperversa più forte che mai. Insomma, il demonio sbanca. O c’è semplicemente un dio dispettoso che si diverte ad accecare gente che vuol perdere.

  • In Ucraina, la guerra europea degli idioti pericolosi

    Scritto il 07/9/14 • nella Categoria: idee • (1)

    Le menti geostrategiche di Usa e Ue avevano già convincentemente manifestato il loro livello di intelligenza e lungimiranza nelle campagne di pacificazione, stabilizzazione e democratizzazione di Iraq, Afghanistan, Libia, Egitto. In Siria mesi fa stavano per aiutare gli insorti jihadisti bombardando l’esercito siriano, e ora, costretti dai fatti, aiutano l’esercito siriano bombardando i jihadisti. Mentre le fabbriche licenziano e chiudono e l’economia comunitaria si contrae perfino in Germania, e mentre si avvicina un freddo inverno, le sullodate menti si lanciano in una campagna di sanzioni, dirette a parole contro la Russia, ma nei fatti contro le imprese, i lavoratori, i consumatori dell’Europa Occidentale. Penso alle ditte che, a seguito delle sanzioni, non possono più esportare verso il più grande paese del nostro continente, quindi vanno a gambe all’aria. Con le sanzioni in vigore ad oggi e con le contromisure russe, l’Italia rischia 800.000 posti di lavoro e, solo di esportazioni agroalimentari perde 200 milioni, cioè il 24%. L’Ue perderà circa 5 miliardi.
    Qual è il fine degli illuminati strateghi? Indurre Mosca a decurtarci i prodotti energetici per costringerci ad affidarci ai fornitori Usa, così da aumentare anche la nostra sudditanza politica verso Washington, e con un passaggio per forti rincari che si tradurranno in maggiori costi per riscaldarsi, per viaggiare, per fabbricare? Dopo che la loro geniale e felicissima guerra in Libia (voluta da Londra e Parigi, appoggiata da Washington, e a cui Berlusconi fu spinto a partecipare da Napolitano) ci ha privato di quella preziosa fonte alternativa, in cui avevamo investito molto, è logico che adesso puntino a privarci anche del fornitore russo, per metterci completamente in pugno a quello americano. Intanto – ripeto – è assodato che queste stupide sanzioni ci stanno facendo perdere punti di Pil e guadagnare punti di disoccupazione. Ma per distrarre l’opinione pubblica dai veri problemi, dalla depressione economica, da chi fa gli affari sulla pelle delle nazioni, da chi si mangia i diritti della gente – per distrarre gli europei dal problema dei conflitti oggettivi e interni di interessi all’Ue, tra paesi dominanti (Germania in testa) e paesi subalterni – si costruiscono conflitti esterni e nemici esterni, meglio se con connotazioni morali e ideologiche. E’ una costante storica.
    Non meno balorda è la motivazione delle sanzioni medesime. Le menti strategiche dei nostri leaders, dopo aver inglobato nella Nato e armato contro la Russia diversi paesi dell’area ex-sovietica, anche nel Caucaso e nella zona altaica, fino all’Afghanistan, ora vorrebbero estendere la Nato all’Ucraina, portando i loro missili a poche centinaia di chilometri da Mosca. E’ pensabile che Mosca accetti ciò senza combattere? Che accetti un accerchiamento che le arriva sotto casa? Quanto vogliamo tirare questa corda? Non è meglio, non è più sicuro, magari, creare uno Stato-cuscinetto nel Donbass, libero da armi strategiche? Non è meglio lasciare alla Russia le sue tre provincie storiche ed etniche, piuttosto che rischiare una guerra nucleare, o anche solo un ulteriore tracollo economico?
    Infatti, la Russia rivuole semplicemente indietro le sue tre provincie, che da secoli sono abitate in maggioranza da russi, e che Krushev, a tavolino, aveva passato amministrativamente all’Ucraina nel 1953, in un contesto che rendeva pressoché indifferente questo passaggio. E’ chiaro che i recenti rivolgimenti in Ucraina hanno cambiato le carte in tavola, che è emersa e si sta consolidando una forma di nazionalismo ucraino il quale, verso la minoranza russa, va dal non amichevole all’ostile, e che politicamente si estende dal liberismo capitalista al fascismo. Santa Julya Tymoshenko, celebrata leader filoeuropea ed eroina della democrazia di Kiev, è stata intercettata mentre diceva di voler eliminare i separatisti russi con le armi nucleari. Dopo questo, e dopo le stragi che sono state consumate, come si può onestamente pensare a una pacifica convivenza della minoranza russa con la maggioranza ucraina entro il medesimo Stato e sotto il medesimo governo?
    La divisione umana che si è aperta è incolmabile e insanabile; meglio prenderne atto, e tracciare un confine che metta fine alla guerra e alle carneficine, prima che prenda corpo il fenomeno che già è iniziato, ossia dei volontari stranieri, perlopiù di estrema destra, che vanno a combattere in Ucraina contro i comunisti russi, e che, a differenza dei soldati ucraini, non si fanno scrupolo di sparare anche sui civili, identificandoli come nemico etno-ideologico. Si aggiungono i mercenari e i contractors occidentali, i mercenari delle multinazionali Usa che supportano Kiev, assieme a neonazisti svedesi. Combattenti francesi, americani, serbi, polacchi, israeliani, britannici, etc., già versano il loro sangue, perlopiù  per motivi ideali, soprattutto a difesa dei russi. Hanno formato una brigata sotto il nome “United Continent”. Stanno così risvegliandosi gli odii atavici e tradizionali del Vecchio Continente, complicati, oltre che dalla stupidità dei vari fanatismi, dalla contrapposizione ideologica e dalla valenza di lotta paneuropea contro l’invadente presenza del capitalismo americano.
    Una deriva, questa, di cui i cauti media non ci informano, ma che è ovviamente assai pericolosa, che tende a coinvolgere altri paesi e a far evolvere un conflitto etnico locale in qualcosa di incomparabilmente peggiore e che può portare all’uso di armi nucleari in Europa, quindi a conseguenze mortifere o persino peggio che mortifere anche per noi dell’Europa occidentale. La guerra di Ucraina è già adesso una guerra europea. Assomiglia alla guerra civile spagnola. Ma a differenza di quella, tocca direttamente una superpotenza nucleare. Perciò ripeto: basta sanzioni idiote contro la Russia, tracciare un confine per separare le opposte forze armate, porre fine alla guerra, lasciare alla Russia ciò che è della Russia, e prendersi pure il resto. Ma senza piazzarci armi strategiche.
    (Marco Della Luna, “Ucraina, la guerra europea degli idioti pericolosi”, dal blog di Della Luna del 1° settembre 2014).

    Le menti geostrategiche di Usa e Ue avevano già convincentemente manifestato il loro livello di intelligenza e lungimiranza nelle campagne di pacificazione, stabilizzazione e democratizzazione di Iraq, Afghanistan, Libia, Egitto. In Siria mesi fa stavano per aiutare gli insorti jihadisti bombardando l’esercito siriano, e ora, costretti dai fatti, aiutano l’esercito siriano bombardando i jihadisti. Mentre le fabbriche licenziano e chiudono e l’economia comunitaria si contrae perfino in Germania, e mentre si avvicina un freddo inverno, le sullodate menti si lanciano in una campagna di sanzioni, dirette a parole contro la Russia, ma nei fatti contro le imprese, i lavoratori, i consumatori dell’Europa Occidentale. Penso alle ditte che, a seguito delle sanzioni, non possono più esportare verso il più grande paese del nostro continente, quindi vanno a gambe all’aria. Con le sanzioni in vigore ad oggi e con le contromisure russe, l’Italia rischia 800.000 posti di lavoro e, solo di esportazioni agroalimentari perde 200 milioni, cioè il 24%. L’Ue perderà circa 5 miliardi.

  • Smith: un nuovo 11 Settembre firmato Isis, cioè Cia

    Scritto il 06/9/14 • nella Categoria: idee • (4)

    L’Isis è una creatura dell’Occidente al 100%: perché non aspettarsi che siano proprio gli “alleati coperti” del Califfato Islamico a firmare l’eventuale prossimo replay dell’11 Settembre? Se lo domanda Brandon Smith, in una lucida analisi nella quale mette a fuoco la storia recente e recentissima. «Il terrorismo “false flag” architettato dai governi è un fatto storico accertato: per secoli, le élite politiche e finanziarie hanno affondato navi, incendiato edifici, assassinato diplomatici, rimosso leader eletti e fatto saltare la gente per aria, per poi incolpare di questi disastri un conveniente capro espiatorio, così da generare paura nel pubblico e acquisire più potere». Gli scettici potranno discutere se una qualche specifica calamità sia stata o meno un evento terroristico “sotto falsa bandiera”, ma nessuno può negare che queste tattiche, in passato, siano state usate puntualmente, in tutto l’Occidente. «I governi hanno ammesso apertamente di creare tragedie sanguinarie e catalizzatrici con falsi pretesti, come l’Operazione Gladio, un programma false-flag in Europa, supportato dai servizi segreti europei e americani, che durò per decenni, dagli anni ’50 ai ’90».

  • Cabras: siam pronti anche noi alla macelleria della guerra?

    Scritto il 05/9/14 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Perché mai, domanda il giornalista, avete deciso di far sfilare i prigionieri di guerra? «E’ stata Kiev a dire che avrebbero marciato in parata a Donetsk il giorno 24. E così han fatto». Questa la terribile ironia che i difensori russofoni del Donbass aggredito dall’esercito ucraino esibiscono dopo aver respinto l’attacco. Avvertono: nessuna illusione sui cosiddetti dispersi dell’esercito regolare. «Le famiglie ricevono lettere che li dichiarano “dispersi in azione”. In realtà sono morti. Le autorità di Kiev lo fanno apposta. Centinaia e migliaia di morti in qualche decina di tombe». Il comandante russofono lo annuncia ufficialmente: «Ognuno sappia che se hai ricevuto una lettera che lo definisce “disperso in azione”, allora molto probabilmente tuo marito, fratello o figlio è stato ucciso». Il video è proposto da “Pandora Tv”, che presenta anche l’intera conferenza stampa del presidente del Donbass, Aleksandr Zakharchenko, tenutasi il 24 agosto nel pieno della controffensiva delle milizie ribelli, che hanno sbaragliato le meglio armate e più numerose forze del governo di Kiev.
    «Sarà l’Ucraina, sarà il richiamo bellico dell’anno quattordici, sarà che ormai le dichiarazioni di molti politici europei già annunciano la carneficina all’orizzonte», moltiplicando ogni giorno le nuove evocazioni di una guerra mondiale, ma intanto «cresce per molti una sensazione di pericolo», scrive Pino Cabras su “Megachip”. «Evocare è facile, ma essere davvero pronti all’anticamera dell’Apocalisse è un’altra cosa». Chi è davvero pronto per la guerra? Certo non i popoli europei: «Vivono in una bolla televisiva che fa loro sperare di essere ancora a lungo i consumatori che sono stati negli ultimi decenni. La cuccagna non è stata ancora smontata, perciò il ricordo dell’ultima guerra mondiale rimane annacquato. Gli europei medi – continua Cabras – non riescono più a immaginare la guerra come catastrofe. I telegiornali e i grandi quotidiani li ammaestrano all’isteria bellica, alla propaganda più sfacciata, alla russofobia, questo sì. Ma occultano l’idea che la distruzione possa entrare nelle loro case o sommergere intere coorti dei loro figli».
    Il peggio è che «nessun europeo medio ha saputo cosa è accaduto in Ucraina negli ultimi sei mesi, dal golpe in poi. Tanto meno sa cosa c’era prima. Né sa che il governo di Kiev ha martoriato la popolazione civile delle regioni orientali». L’europeo medio «ignora gli interessi predatori di quei capitalisti mafiosi che vorrebbero svuotare quelle regioni dei loro abitanti russofoni», non sa che «le forze di sicurezza ucraine sono in mano ad avventurieri imbevuti di ideologie naziste». E naturalmente «non sa nulla della Russia, non sa nulla di nulla: e si ritroverà nella guerra vasta che annuncia il neopresidente polacco del Consiglio Europeo, Donald Tusk (un burattino atlantista), e peggio di lui il ministro della difesa ucraino Gheletei, senza sapere ancora nulla». Certamente a scalpitare è Tusk, il regime dell’Ue è al guinzaglio di Washington, lo stesso Cameron sembra avere il dito sul grilletto. La Nato sembra abbozzare una frenata – su richiesta della Merkel, cioè dell’export tedesco danneggiato dalle sanzioni contro Mosca – ma intanto prepara una forza di pronto intervento per l’Est. In teoria, era pronta alla guerra anche la giunta golpista di Kiev, «ma in modo totalmente irresponsabile, con una tragica incapacità di valutare gli interessi dei russi e – di questi – la determinazione (cioè una prontezza reale) a pagare e infliggere il prezzo di una guerra vera».
    Quel che accade ora in Ucraina, dice Cabras, misura le reali dimensioni di queste diverse “prontezze”. Da un lato i popoli occidentali «anestetizzati dai loro media», popoli «che non hanno alcuna misura dei fatti», e in più il popolo ucraino «che si sorprende di dover subire una disfatta (in Italia si direbbe una Caporetto), come nel caso delle mamme e sorelle disperate che chiedono conto delle notizie di una brigata di 4.700 uomini, di cui sono tornati con le proprie gambe in appena 83». Queste famiglie «hanno appena riscoperto il concetto di “carne da cannone”», quello della Grande Guerra. «Sono le avanguardie delle mamme che ripeteranno la scena in tante altre lingue, anche da noi, nelle capitali in bancarotta dell’Europa ai comandi di Bruxelles e Francoforte». Dall’altro lato della barricata, ecco invece i militari del Donbass: «Colpisce la sicurezza e l’agghiacciante autorevolezza – in un dosaggio di gravitas e brutale ironia – con cui questi partigiani dei nostri giorni parlano di migliaia di vittime di guerra». La “gravitas” è quella che annuncia l’avvenuta strage dei militari mandati allo sbaraglio dagli aggressori incoraggiati dalla Nato. L’ironia è quella della sfilata dei prigionieri: a marciare (disarmati e sconfitti) il 24 agosto sono stati gli ucraini di Kiev, quelli che avevano annunciato con troppa fretta la conquista di Donesk, con tanto di parata dal sapore hitleriano.
    «Purtroppo, cari giornalisti, l’Occidente cerca di invaderci con una frequenza di 30-50 anni», dicono i resistenti dell’Est. «Ogni 30-50 anni la civiltà occidentale cerca di imporci la sua opinione e il suo modo di vivere. La Prima Guerra Mondiale, la Grande guerra patriottica, la guerra di Crimea prima ancora, e così via nelle profondità della storia. Come risultato, l’Occidente tradizionalmente ottiene la caduta di Berlino, di Parigi. L’Occidente arriva ogni 30-50 anni per ottenere ciò che si merita. Ora, nel 2014, sono un po’ in ritardo», ma il copione sembra lo stesso. Loro, sì, sono pronti alla guerra. Lo hanno dimostrato. E lo spiegano in modo chiarissimo: «Diremo a chiunque venga a farci del male sul nostro territorio: ci batteremo con le unghie e con i denti per la nostra patria. Kiev e l’Occidente hanno fatto un grosso sbaglio a risvegliarci. Noi siamo gente laboriosa. Mentre altri saltavano a Maidan per 300 grivne, la nostra gente era giù in miniera a estrarre carbone, a fondere metallo e a seminare le colture. Nessuno di noi ha avuto il tempo di saltare, eravamo impegnati a lavorare». Poi, quando li hanno presi a cannonate, si sono ribellati.
    «Quando un tizio che appena ieri lavorava con un martello pneumatico o guidava una mietitrebbia, oggi si trova alla guida di un carro armato o di un Grad, o a raccogliere un mitra, la linea è stata passata e non lo potete più fermare», dicono i militari dell’Est. «Quello che ha dovuto lasciare il proprio lavoro sa che combatterà fino alla fine e fino al suo ultimo respiro». E l’Occidente è pronto è combattere “fino all’ultimo respiro”? Certo non lo è la nuova Lady Pesc, Federica Mogherini, che si abbandona a dichiarazioni desolanti, del tipo: «Se non esiste più un partenariato strategico è per scelta di Mosca». Ovvero: nessuna autocritica ai piani alti dell’Ovest. «Ecco, Mogherini non è pronta», scrive Cabras. «Fa interamente sua tutta l’eredità della Nato e della Ue in questi anni di crisi internazionali, destabilizzazioni, aggressioni ed escalation: cioè un bilancio disastroso e criminale, dall’Iraq all’Afghanistan al dossier libico, alla Siria, e ora all’Ucraina».
    Il bilancio occidentale di questi anni? «Un caos funesto interamente imputabile alla lunga “guerra infinita” scatenata dalle capitali dell’atlantismo», subito dopo l’opaco super-attentato dell’11 Settembre. Lo stesso Cabras ricorda che, all’indomani della guerra-lampo nell’Ossezia del Sud attaccata dall’esercito georgiano armato da Bush e poi travolto dai russi, nel 2008 il “Times” ricordava le parole di Lord Salisbury, ministro degli esteri e primo ministro ai tempi dell’Impero Britannico», un uomo che «irradiò un potere globale immenso». Di fronte a proposte pericolose, in cui Londra minacciava seriamente altri paesi, Salisbury avrebbe guardato i suoi colleghi negli occhi, chiedendo semplicemente: «Siete davvero pronti a combattere? Altrimenti, non imbarcatevi in questa politica».
    Già: siete davvero pronti a combattere? «E’ la domanda giusta, quella che non vi hanno ancora fatto», osserva Cabras. «Nell’Europa politicamente desertificata dall’obbedienza alla Nato si continua ad agire come se la Russia fosse ancora oggi lo Stato esausto degli anni novanta, su cui si muoveva etilicamente Boris Eltsin e sul cui collo si stringeva il capestro del Fondo Monetario Internazionale. La situazione è completamente diversa, eppure si va lo stesso allo scontro. O si va proprio per questo, nel momento in cui i Brics picconano il Dollar Standard. E gli Usa non possono accettare un mondo multipolare in cui il dollaro non sia l’architrave». Allora, siamo pronti a combattere? La risposta la anticipano – a distanza – i comandanti militari dell’Est ucraino, che a questa guerra hanno già preso le misure. «Potete dirlo in giro: non svegliate la bestia», raccomandano. «Non fatelo, davvero. Finché c’è ancora la possibilità, lasciate che le madri risparmino i propri figli».

    Perché mai, domanda il giornalista, avete deciso di far sfilare i prigionieri di guerra? «E’ stata Kiev a dire che avrebbero marciato in parata a Donetsk il giorno 24. E così han fatto». Questa la terribile ironia che i difensori russofoni del Donbass aggredito dall’esercito ucraino esibiscono dopo aver respinto l’attacco. Avvertono: nessuna illusione sui cosiddetti dispersi dell’esercito regolare. «Le famiglie ricevono lettere che li dichiarano “dispersi in azione”. In realtà sono morti. Le autorità di Kiev lo fanno apposta. Centinaia e migliaia di morti in qualche decina di tombe». Il comandante russofono lo annuncia ufficialmente: «Ognuno sappia che se hai ricevuto una lettera che lo definisce “disperso in azione”, allora molto probabilmente tuo marito, fratello o figlio è stato ucciso». Il video è proposto da “Pandora Tv”, che presenta anche l’intera conferenza stampa del presidente del Donbass, Aleksandr Zakharchenko, tenutasi il 24 agosto nel pieno della controffensiva delle milizie ribelli, che hanno sbaragliato le meglio armate e più numerose forze del governo di Kiev.

  • Rubarci acqua, luce e gas: ecco la riforma del Titolo V

    Scritto il 05/9/14 • nella Categoria: segnalazioni • (7)

    Acqua, luce e gas: oggi la riscossione delle tariffe è italiana, domani potrebbe non esserlo più. Proprio i servizi vitali, che valgono «moltissimi miliardi» secondo il Tesoro, sono il vero bottino della grande privatizzazione, spacciata per “riforma”. Obiettivo per il quale sono stati all’opera, ininterrottamente, i tre governi messi in pista da Napolitano, senza elezioni: prima Monti, poi Letta, ora Renzi. Missione comune: svendere il paese, usando l’emergenza-spread e l’alibi del debito. Facilissimo: il boom del debito pubblico è la diretta conseguenza dell’austerity. Meno Pil, meno consumi, meno entrate fiscali. L’Italia, costretta a elemosinare gli euro attraverso i titoli di Stato filtrati dal sistema bancario che ha accesso alla Bce, va rapidamente in rosso. Col diktat del rigore, il debito pubblico esplode. Così il momento si fa propizio: il Giorno dello Sciacallo si avvicina. All’asta Poste Italiane e Telecom, poi si parla di Eni, Enel, Finmeccanica. Ma il boccone grosso è un altro: rete elettrica, acquedotti, gas. Reti e servizi da svendere. Prima, però, bisogna scipparli ai legittimi proprietari: Comuni e Regioni. Ed ecco in arrivo la “riforma” del Titolo V della Costituzione, cavalcata da Renzi.
    Tutto già denunciato, a suo tempo, dalla trasmissione “La Gabbia” condotta su “La7” da Gianluigi Paragone, molto prima del “Patto del Nazareno” che ha reso evidente il piano oligarchico Renzi-Berlusconi per archiaviare il “rischio” della democrazia, amputando il Senato e soprattutto varando una legge elettorale “ad personam”. Il blog “Senza Soste” segnala l’ottimo servizio realizzato a settembre 2013 da Filippo Barone: “Italia, un paese in svendita”. In tre minuti, il trucco delle “riforme” è svelato: «Siccome la svendita delle quote statali di Eni, Enel e Finmeccanica farebbe racimolare solo 12 miliardi di euro, il governo e i tecnici dei ministeri hanno individuato nelle “utilities”, cioè le società di proprietà di Comuni e Regioni che gestiscono beni comuni e vitali – acqua, luce e gas – come la vera miniera d’oro da vendere ai privati per fare cassa». Con la “riforma del Titolo V” della Costituzione, in poche parole, «lo Stato scipperebbe i territori della gestione di questi beni, da poter poi vendere: tutto questo sarà fatto da un governo illegittimo formato da persone non elette,  grazie a Napolitano».
    Il video è fulminante. Parla l’economista ed ex banchiere centrale Fabrizio Saccomanni, allora ministro dell’economia del governo Letta. Saccomani, al G-20 del luglio 2013 a Mosca, è «impegnato a spiegare agli italiani che ci servono altri soldi, altri sacrifici, perché non sappiamo come reggere il debito». Lo intervista un giornalista dell’emittente finanziaria americana “Bloomberg”. Domanda al ministro: come pensate di ridurre il debito? «Stiamo anche considerando la possibilità di vendere le nostre partecipazioni in aziende controllate dallo Stato». Dunque Eni, Enel, Finmeccanica? «Sì, stiamo considerando questo». Quando, dopo alcuni minuti, la notizia arriva in Italia, il ministero si affretta a smentire. «Peccato che il video sia finito su Internet». Un paese in vendita ha bisogno di una vetrina dove esporre la mercanzia, riassume il reporter de “La Gabbia”. E allora, quale migliore occasione di una fiera? Bari, 14 settembre. Ci sono «rappresentanti del ministero dell’economia, il capo della Cassa Depositi e Prestiti (cassaforte del patrimonio italiano), esperti di fondi sovrani e rappresentanti di governi stranieri». Tutti d’accordo: svendere l’Italia è essenziale, urgente.
    «L’Italia è stata colpita dalla crisi più di altri paesi», dice Franco Bassanini, presidente della Cdp. «Quindi, in Italia, oggi si possono fare investimenti e finanziamenti a condizioni molto favorevoli: ci sono ottime opportunità di investimento, in Italia». Bassanini, un tempo esponente della sinistra “riformista” italiana, è oggi un super-tecnocrate passato armi e bagagli ai “signori del mercato”, ai quali propone «ottime opportunità di investimento». Dall’ufficialità del forum di Bari, il servizio de “La Gabbia” si trasferisce nel party organizzato in un circolo privato, «al riparo da occhi e orecchie indiscrete». Mentre l’Italia precipita, «si organizzano incontri con uomini d’affari e fondi sovrani per vendere il vendibile». E dato che l’appetito vien mangiando, dice il reporter Filippo Barone, ecco il gran galà ben nascosto nel cuore del porto pugliese. Ricompare Bassanini, impegnato a spolverare un piatto del buffet: «Io non mi appassiono alle privatizzazioni», confida il capo della Cassa Depositi e Prestiti. E ammette: «Le privatizzazioni vanno fatte con molta cautela, perché il rischio della svendita è altissimo». Domanda: la cessione di Finmeccanica, Eni ed Enel era solo una boutade di Saccomani oppure corrisponde ai piani del governo? E qui arriva il colpo del ko: la svendita delle migliori aziende di Stato non basta, bisognerà strappare acqua, luce e gas alla gestione pubblica, regionale e comunale, e poter vendere i servizi vitali, la vera preda a cui ambiscono i “mercati”.
    Nel chiaroscuro felpato del party, la risposta – chiarissima – arriva dal “numero uno” dei tecnici del ministero del Tesoro, Lorenzo Codogno. Le cessioni di Eni, Enel e Finmeccanica «hanno un senso», certamente, «ma il problema è che non prendi tantissimo, perché – ho fatto un calcolo un po’ di tempo fa – sono 12 miliardi, meno di 1 punto di Pil». Parola del responsabile della direzione analisi economico-finanziaria del dipartimento, ieri retto da Saccomanni e oggi da Padoan. Secondo Codogno, per abbattere il debito non bastano Finmeccanica, le altre maxi-imprese dello Stato, gli immobili pubblici. Serve, soprattutto, «il resto». E cioè «acqua, luce e gas», o meglio, le “utilities” che ogni Comune gestisce per i propri cittadini. «La vera risorsa – dice Codogno all’inviato de “La Gabbia” – sono le “utilities” a livello locale: lì sono veramente tanti, tanti miliardi».
    Il problema – aggiunge il tecnocrate – è che quei servizi «non sono nostri, dello Stato: sono dei Comuni, delle Regioni. E quindi bisogna cambiare il Titolo V della Costituzione, ed espropriare i Comuni e le Regioni». Letteralmente: “espropriare”. Conclude l’inviato di Paragone: «Sindaci, preparatevi. Le aziende di servizio devono finire in mano araba o cinese, poche storie». Gli italiani? Non protesteranno, non se ne accorgeranno nemmeno. A loro provvederà l’ottimismo di Matteo Renzi: servirà a presentare come “vecchiume da rottamare” anche il Titolo V della Costituzione, cioè il dispositivo legale che assegna agli enti locali l’autonomia finanziaria per creare e gestire le reti di distribuzione dei servizi pubblici vitali. Quelle che fanno così gola agli “investitori” esteri. Perché, come dice il dottor Codogno, valgono «tanti, tanti miliardi». Basterà gonfiare le tariffe, per incamerare utili stratosferici. E a quel punto, l’Italia – come Stato – sarà tecnicamente estinta. E i cittadini, in balia degli “usurai” di mezzo mondo, futuri padroni del paese.

    Acqua, luce e gas: oggi la riscossione delle tariffe è italiana, domani potrebbe non esserlo più. Proprio i servizi vitali, che valgono «moltissimi miliardi» secondo il Tesoro, sono il vero bottino della grande privatizzazione, spacciata per “riforma”. Obiettivo per il quale sono stati all’opera, ininterrottamente, i tre governi messi in pista da Napolitano, senza elezioni: prima Monti, poi Letta, ora Renzi. Missione comune: svendere il paese, usando l’emergenza-spread e l’alibi del debito. Facilissimo: il boom del debito pubblico è la diretta conseguenza dell’austerity. Meno Pil, meno consumi, meno entrate fiscali. L’Italia, costretta a elemosinare gli euro attraverso i titoli di Stato filtrati dal sistema bancario che ha accesso alla Bce, va rapidamente in rosso. Col diktat del rigore, il debito pubblico esplode. Così il momento si fa propizio: il Giorno dello Sciacallo si avvicina. All’asta Poste Italiane e Telecom, poi si parla di Eni, Enel, Finmeccanica. Ma il boccone grosso è un altro: rete elettrica, acquedotti, gas. Reti e servizi da svendere. Prima, però, bisogna scipparli ai legittimi proprietari: Comuni e Regioni. Ed ecco in arrivo la “riforma” del Titolo V della Costituzione, cavalcata da Renzi.

  • Cremaschi: agonia-deflazione, il capolavoro dell’euro

    Scritto il 04/9/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Ha molto contribuito al disastro economico attuale un falso storico e ideologico. Quando in Italia e in Germania alla fine degli anni ‘70 si adottarono le politiche liberiste e si definì come prioritaria la lotta alla inflazione, fu spesso usato il monito che essa era all’origine del fascismo e soprattutto del nazismo. Falso. L’ascesa del fascismo da noi con l’inflazione non c’entra nulla e con quella del nazismo ancora meno. L’iper-inflazione degli anni ‘20 in Germania, usata come babau per giustificare tutto, persino lo statuto della Banca Centrale Europea, fu domata in pochi mesi dai governi di centrosinistra di quel paese e dal banchiere Schacht. Fu invece la disoccupazione di massa dopo la crisi del ‘29 a far crescere a dismisura il consenso ai nazisti, che fino ad allora era stato in percentuali bassissime. E quel consenso si alimentava del fatto che i governi democratici affrontavano la crisi con le politiche del rigore e dell’austerità, esattamente come oggi.
    Sulla base di questo falso storico le politiche deflazionistiche, che al massimo possono essere usate come emergenza per brevi periodi, sono diventate da più di trenta anni la politica economica ufficiale di tutti i paesi europei, Italia e Germania in testa. Da questo punto di vista, tutta la classe dirigente dovrebbe esultare per il fatto che ora l’obiettivo è stato raggiunto: l’inflazione è stata soppressa e al suo posto abbiamo la stagnazione o il calo dei prezzi. La separazione della Banca d’Italia dal Tesoro, per impedire allo Stato di stampare moneta per finanziarsi e per costringerlo a ricorrere al mercato, cioè in primo luogo alle banche, con il conseguente aumento a dismisura del debito e dei suoi vincoli. La distruzione del potere d’acquisto dei salari, avviata con la cancellazione della scala mobile e completata con l’euro. La precarizzazione e la flessibilità del lavoro, le privatizzazioni, tutte le politiche economiche e sociali attuate senza distinzioni da tutti i governi fino a quello attuale, son state giustificate nel nome della lotta all’inflazione. E ora abbiamo 6 milioni di disoccupati.
    Ora è immaginabile che parta il solito coro delle litanie auto giustificanti, mentre si continuerà a proporre in concreto la continuità di queste politiche trentennali, corretta solo dalla iniezione di un poco di liquidità nel sistema. Che fallirà nel proposito di far ripartire la crescita. Non si é sentito nessun effetto economico, ma non quello elettorale, degli 80 euro di Renzi. Draghi, che probabilmente aveva suggerito quella misura al presidente del Consiglio, ora fa capire che vuol introdurre liquidità nel sistema finanziario. Se glielo lasceranno fare il risultato sarà uguale a quello degli ottanta euro, zero. Perché alla base della crisi attuale sta proprio la continuità delle politiche liberiste e deflazionaste che durano da 35 anni. E se quelle non vengono messe in discussione alla radice, le iniezioni periodiche di liquidità sono acqua sparsa nel deserto. Qui però sta la difficoltà vera. Perché le classi dirigenti economiche, politiche e sindacali sono state selezionate in questi anni sulla base della priorità della lotta all’inflazione.
    Un’altra politica non la vogliono e neppure la sanno fare. Come ben dimostra l’ottusa tracotanza del ministro del Tesoro Padoan, che tranquillamente ha affermato di aver sbagliato tutte le previsioni, ma che ne sta preparando altre. Anche l’opinione pubblica è stata educata al tabù della lotta all’inflazione. Per cui oggi spera nelle riforme liberiste e autoritarie di Renzi, che, se realizzate effettivamente, aggraveranno la crisi. Per cambiare ci vuole una rottura di fondo. Ci vuole il ritorno alla gestione pubblica della moneta, con una banca centrale che la stampi invece che ricorrere alla finanza internazionale. Ci vogliono grandi investimenti pubblici in deficit e politiche di pubblicizzazione e non di privatizzazione. I salari devono crescere senza il vincolo-capestro delle produttività e della redditività d’impresa. Il lavoro deve riconquistare sicurezza e dignità rompendo la gabbia della precarietà.
    Queste sono le politiche non convenzionali necessarie, le stesse che presero gli Stati dopo gli anni Trenta del secolo scorso dopo il fallimento del rigore. Queste politiche romperebbero sicuramente gli equilibri e i poteri della globalizzazione, ma lo farebbero dal lato della pace. L’alternativa è che la globalizzazione salti per aria comunque, ma dal lato della guerra, come ci ricorda il Papa. Non c’è niente da fare, o si mettono in discussione i cardini della politica deflazionistica di questi decenni o la crisi si aggraverà sempre più, trasferendosi dal campo economico a quello sociale e da questo al campo della democrazia e della stessa convivenza, come la storia insegna a chi da essa vuole imparare.
    (Giorgio Cremaschi, “Il fallimento di trent’anni di deflazione”, da “Micromega” del 29 agosto 2014).

    Ha molto contribuito al disastro economico attuale un falso storico e ideologico. Quando in Italia e in Germania alla fine degli anni ‘70 si adottarono le politiche liberiste e si definì come prioritaria la lotta alla inflazione, fu spesso usato il monito che essa era all’origine del fascismo e soprattutto del nazismo. Falso. L’ascesa del fascismo da noi con l’inflazione non c’entra nulla e con quella del nazismo ancora meno. L’iper-inflazione degli anni ‘20 in Germania, usata come babau per giustificare tutto, persino lo statuto della Banca Centrale Europea, fu domata in pochi mesi dai governi di centrosinistra di quel paese e dal banchiere Schacht. Fu invece la disoccupazione di massa dopo la crisi del ‘29 a far crescere a dismisura il consenso ai nazisti, che fino ad allora era stato in percentuali bassissime. E quel consenso si alimentava del fatto che i governi democratici affrontavano la crisi con le politiche del rigore e dell’austerità, esattamente come oggi.

  • L’agenda del governo? Scritta dall’ambasciata Usa

    Scritto il 04/9/14 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Cari elettori italiani, sapevate che il programma di governo – qualsiasi governo – lo scrive direttamente l’ambasciatore Usa a Roma? Fateci caso: l’attuale politica economica di Renzi – rottamare lo Stato e svendere l’Italia – è esattamente quanto richiesto dall’“amico americano”. «Quando, allevato, sostenuto e finanziato, si ritenne Renzi pronto, scattò l’operazione “Renzi al governo”», scrive Stefano Ali. «Goldman Sachs, McKinsey, Morgan Stanley, Ubs e perfino la nostrana Unicredit si sperticarono in “endorsement”». È noto il caso Ubs che, in un report per l’Eurozona nel gennaio 2014 individuava già Renzi quale capo del governo. «È evidente che un report di quel genere non potesse essere prodotto in una settimana: erano già mesi, quindi, che Renzi era il capo del governo predestinato. Sulle stesse “primarie” (tanto discusse sotto l’aspetto della trasparenza) si allunga l’ombra di una sovra-organizzazione a sostegno di Renzi. L’ultima spinta a Napolitano venne data con lo “scandalo Friedman”: a proposito, ne avete mai più sentito parlare, dopo l’incarico a Renzi?».
    Col “rottamatore”, scrive Ali in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, gli Usa «hanno costruito lo strumento finale: il rottamatore ha definitivamente rottamato la sinistra italiana, oltre che impegnarsi strenuamente nel rottamare la democrazia». E’ una vicenda che parte da lontano. Per la precisione dal 2008, quando si arena il secondo governo Prodi e Veltroni fonda il Pd. A parlare sono due cablo di “Wikileaks”, che si riferiscono alle imminenti elezioni italiane. L’8 aprile, l’ambasciatore Ronald Spogli riferisce a Washington che «Berlusconi e Veltroni hanno fatto una campagna elettorale noiosa», dominata «dalle loro personalità» ma «non dalle proposte politiche». I programmi? Identici: «Entrambi promettendo tagli alle spese governative, aumento delle pensioni, abbassamento delle tasse e taglio alla burocrazia per le imprese». La stampa italiana? Nebbia: «Si è focalizzata sulle discussioni circa l’organizzazione elettorale e i commenti volgari del frequentemente volgare alleato di Berlusconi, Umberto Bossi». Il peggio, però, arriva col secondo “cablo”, l’11 aprile: dovendo proprio scegliere, gli Usa preferirebbero Vetroni, più pronto a eseguire gli ordini di Washington.
    «E’ un vero e proprio programma di governo», annota Ali, «con tanto di indicazione sui ministri». Le elezioni, scrive Spogli, «ci daranno l’opportunità di spingere il nostro programma con rinnovato vigore», dopo mesi di crisi e il fastidio rappresentato da Rifondazione Comunista, spina nel fianco dell’esecutivo Prodi. «Se le nostre relazioni con il governo Prodi erano buone, le nostre relazioni con il prossimo governo promettono ancora meglio. Forse molto meglio», scrive Ronald Spogli. «Si può anticipare che faremo progressi sul programma, se dovesse vincere a sorpresa Veltroni, ed eccellenti progressi se Berlusconi tornasse al potere». Molto esplicito, l’ambasciatore: «A prescindere da chi vince, ci incontreremo con i probabili membri del nuovo governo appena possibile dopo le elezioni, durante il periodo di formazione del governo in aprile e nei primi giorni di maggio per marcare le nostre priorità politiche chiave e la direzione che ci piacerebbe prendesse la politica italiana. Ci piacerebbe che esponenti del governo Usa venissero per far pressioni sul programma, incluso il periodo tra le elezioni e l’insediamento del nuovo governo».
    In particolare, Spogli vorrebbe «sollevare le questioni» relative al “tono delle relazioni”, all’Iran, all’Afganistan, alla sicurezza energetica e quindi la Russia, e poi l’Iraq, il “processo di pace” in Medio Oriente, gli sviluppi in Libano e Siria, le basi militari Usa in Italia. E infine «competitività economica, assistenza estera, cambiamenti climatici e leggi di rafforzamento della cooperazione» tra Roma e Washington. Ma l’ambasciatore Spogli non si ferma qui: per ciascuna voce redige un dettagliato piano di intervento. Riguardo al “miglioramento delle relazioni”, ad esempio, scrive: «Sebbene il governo Prodi abbia seguito le politiche che supportiamo, sentiva il bisogno di fare gratuite dichiarazioni anti-americane per puntellare la componente di estrema sinistra. Tali commenti distraevano da discussioni importanti come il Medio Oriente, i Balcani e l’Iran. Anche se entrambi i leader candidati alle elezioni sono pro-America, dovremmo comunque incoraggiare il nuovo governo a riconoscere che i toni hanno importanza, nelle relazioni bilaterali». Meglio quindi «esercitare la disciplina, per evitare retorica inutile». Politici italiani: attenti a come parlate,
    A Ronald Spogli, già nel 2008, premeva che l’Italia prendesse le distanze dalla Russia in materia di energia: «Incoraggeremo il nuovo governo italiano a impostare come prioritaria la formulazione di una politica energetica nazionale che affronti realisticamente il crescente fabbisogno energetico e la preoccupante dipendenza dalla Russia». Consigli per gli acquisti: «Energia nucleare e energie rinnovabili dovrebbero fare parte del piano. L’Italia dovrebbe esercitare leadership a livello europeo, spingendo per una politica energetica che si occupi dell’estremamente preoccupante dipendenza dalla Russia». È un caso, si domanda Ali, se dopo vent’anni Berlusconi rispolverò l’energia nucleare? Spogli insiste: «Suggeriremo di usare l’influenza che promana dalla comproprietà del governo italiano in Eni per fermare la compagnia dall’essere la punta di lancia di Gazprom. Questo probabilmente richiederà una nuova leadership in Eni». Spogli conta ovviamente sull’Italia anche per la gestione americana del conflitto israelo-palestinese. E, ancora sull’energia, aggiunge: «Quando ci occuperemo di negoziare accordi vincolanti e avremo bisogno che l’Ue scenda a compromessi per arrivare a un accordo che sia accettabile per il Congresso Usa, avremo bisogno di un interlocutore affidabile nel governo italiano che comprenda le ragioni dell’economia, oltre che quelle dell’ambiente».
    Scontati, dice Ali, i diktat americani sulla politica estera – il comportamento italiano rispetto a Iran e Iraq, Russia e Afghanistan, nonché il “disappunto” che avrebbe creato il ritiro delle forze italiane dalle “missioni di pace”. Rivelatore, il cuore del “cablo” dell’11 aprile 2008: Berlusconi o Veltroni, l’Italia avrebbe fatto le medesime scelte, dettate dagli Usa. Cosa accadde dopo? Lo sappiamo: Berlusconi venne «accusato di troppe cose», tra cui «pedofilia, corruzione, evasione fiscale, collusioni con la mafia», tutte accuse che in Usa avrebbero determinato la fine di qualsiasi uomo politico. «Troppo, perché gli Usa continuassero a considerare Berlusconi un alleato fidato, perfino se a capo di un paese rammollito e corrotto come l’Italia». Per cacciarlo non bastarono le pressioni degli ex alleati che lo mollarono, da Casini a Fini. A metterlo da parte ci volle «la tempesta sui titoli Mediaset del 2011». Dopodiché, come da copione, seguirono Monti e Letta: «Tutte persone di “provata fede” filo-americana». Nel frattempo, «cresceva in provetta l’esperimento finale: Renzi, con la sua rete di amicizie particolari in Usa e in Israele (Carrai, Serra, Gutgeld, Bernabè, Kerry e, sopra tutti, Michael Ledeen)».
    Riposi in pace, conclude Stefano Ali, «chi rimane convinto di essere di sinistra e non si accorge che la politica di riferimento è ben più di destra perfino rispetto a quella di Berlusconi». A parlare sono i fatti. E chi ancora si crede di sinistra «non riesce ad accettare di essere li a supportare – suo malgrado e contro la sua volontà cosciente – una politica liberista e imperialista». A nulla vale far presente che questa “sinistra” ha ammainato tutte le “bandiere” della sinistra per sostituirle con quelle un tempo sventolate dall’estrema destra: non più la Dc (che, nella sua mastodontica struttura correntizia, compensava al suo interno destra, sinistra e centro per far emergere una linea tutto sommato moderatamente popolare), ma il vecchio Partito Liberale Italiano e il vecchio Movimento Sociale Italiano». Berlusconi e il Pd non erano rivali nemmeno del 2008, come conferma l’ambasciatore Spogli. Amara conclusione: «Chi si ritiene di sinistra prenda atto che una agenda politica redatta fin nei dettagli dall’ambasciata Usa non è esattamente il programma di un governo di sinistra. Rassegnatevi, la vostra sinistra oggi è questa».

    Cari elettori italiani, sapevate che il programma di governo – qualsiasi governo – lo scrive direttamente l’ambasciatore Usa a Roma? Fateci caso: l’attuale politica economica di Renzi – rottamare lo Stato e svendere l’Italia – è esattamente quanto richiesto dall’“amico americano”. «Quando, allevato, sostenuto e finanziato, si ritenne Renzi pronto, scattò l’operazione “Renzi al governo”», scrive Stefano Ali. «Goldman Sachs, McKinsey, Morgan Stanley, Ubs e perfino la nostrana Unicredit si sperticarono in “endorsement”». È noto il caso Ubs che, in un report per l’Eurozona nel gennaio 2014 individuava già Renzi quale capo del governo. «È evidente che un report di quel genere non potesse essere prodotto in una settimana: erano già mesi, quindi, che Renzi era il capo del governo predestinato. Sulle stesse “primarie” (tanto discusse sotto l’aspetto della trasparenza) si allunga l’ombra di una sovra-organizzazione a sostegno di Renzi. L’ultima spinta a Napolitano venne data con lo “scandalo Friedman”: a proposito, ne avete mai più sentito parlare, dopo l’incarico a Renzi?».

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