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Archivio del Tag ‘democrazia’

  • Ovadia: il ‘900 è finito, infatti con Renzi torniamo all’800

    Scritto il 02/11/14 • nella Categoria: idee • (6)

    Auspico un autunno caldo e la rinascita di una sinistra, autentica, altro che Pd. Se Renzi ammettesse di essere un uomo di destra, sarebbe un gesto di grande onestà intellettuale. Quando sento parlare di due sinistre, mi vien da sorridere: quale sarebbe la seconda? Il Pd? E allora io sono Papa. Il Pd non ha più nulla di sinistra. Massimo Cacciari, non un pericoloso bolscevico come me, recentemente ha spiegato come quel partito non sia mai veramente nato e che ora è nelle ferree mani di Matteo Renzi, i cui modelli sono la Thatcher e Blair. Li copia nella distruzione dello Stato Sociale e delle sue regole. Lo stesso utilizzo degli anglicismi è indicativo. Perché termini come Local Tax, Spending Review e Jobs Act? Tra l’altro se analizziamo al dettaglio, i termini sono esplicati: Job in inglese non è lavoro bensì impiego in senso lato, e Act sottintende un gesto unilaterale, non un accordo tra due contraenti. Renzi ha scardinato qualsiasi ipotesi di patto sociale.
    Alle europee prende il 40,8%? E’ un bravissimo comunicatore, si vende bene. Incarna la retorica del nuovismo contro chi è ancora ancorato al Novecento, peccato lui voglia tornare all’Ottocento dove si poteva licenziare arbitrariamente. Forse è più vecchio lui di quella folla che sabato scorso ha invaso Roma in difesa dei propri diritti. Vince perché altrove c’è il nulla. Grillo ha perso il treno. Poteva rappresentare un’interessante proposta ma ha sposato veementemente la retorica dell’urlo. Pur avendo ottimi parlamentari, questo va riconosciuto al M5S, hanno fallito, non sono riusciti a incidere e la novità dopo mesi annoia. Anche la destra è allo sfascio, Berlusconi è un uomo patetico. La sinistra, quella vera, avrebbe un vastissimo popolo e potrebbe arrivare anche al 20%. Ma è più presa a litigare e dal proprio narcisismo ombelicale che a fare politica. Ora è in attesa che l’ex sinistra del Pd le getti un osso. Così – tra paura, opportunismo e crisi – le persone optano per questo giovanotto tronfio, con uno stile dinamico e sbarazzino, il quale dice di voler cambiare e modernizzare il paese.
    Conosco gente, autenticamente di sinistra, che per mancanza di alternative alle europee l’ha votato. C’è un disperato bisogno di un’aggregazione del popolo di sinistra, lo dovrebbero auspicare anche le persone sinceramente democratiche. In tutta Europa esiste, tranne che in Italia. In Germania abbiamo la Linke, in Francia un fronte variegato intorno al 10, in Grecia l’esperienza trionfante di Syriza, in Spagna l’innovazione di Podemos. E da noi? Abbiamo bisogno di una vera sinistra capace di tutelare il mondo del lavoro, l’ambiente e arrestare razzismo e deriva ultraliberista. Senza, chi osteggerà il trattato europeo del Ttip? Chi si batterà per i beni comuni e contro le privatizzazioni? Non abbiamo l’ambizione di diventare il partito della nazione, ma una forza forte e dialogante con gli altri.
    Decine di operai di Terni vengono licenziati e con la disperazione nel cuore, con vite perse senza più un’occupazione, e magari con figli senza futuro, si riversano nella capitale per una manifestazione non violenta e che succede? Vengono caricati e manganellati. Ma siamo matti? In un’epoca di dramma sociale e aumento delle diseguaglianze, invece di parlare di solidarietà umana e primaria, si cancellano diritti e dignità dei lavoratori. Dubito che gli agenti l’abbiamo fatto di loro sponte, sarà giunto un comando dall’alto. Come succedeva in Gran Bretagna ai tempi della Thatcher, lì torniamo. I minatori inglesi sanno cosa hanno passato in termini di repressione per aver osato rivendicare salari dignitosi e tutele. Passatemi una battuta: il Papa sembra al momento l’unico leader di sinistra. Landini? Ha un potenziale enorme, un leader già pronto. Quando lo sento parlare in televisione, vedo l’autenticità di un uomo che la sua vita se l’è sudata. La schiettezza di un uomo senza doppi fini, che non vuole fregarti. E’ autenticamente indignato. Le sue sono parole pronunciate col cuore perché da anni vicino alla povera gente e ai deboli. La nostra Italia migliore. Altro che manganellate.
    (Moni Ovadia, dichiarazioni rilasciate a Giacomo Russo Spena per l’intervista “Se Renzi e il Pd sono di sinistra, io sono il Papa”, pubblicata da “Micromega” il 31 ottobre 2014).

    Auspico un autunno caldo e la rinascita di una sinistra, autentica, altro che Pd. Se Renzi ammettesse di essere un uomo di destra, sarebbe un gesto di grande onestà intellettuale. Quando sento parlare di due sinistre, mi vien da sorridere: quale sarebbe la seconda? Il Pd? E allora io sono Papa. Il Pd non ha più nulla di sinistra. Massimo Cacciari, non un pericoloso bolscevico come me, recentemente ha spiegato come quel partito non sia mai veramente nato e che ora è nelle ferree mani di Matteo Renzi, i cui modelli sono la Thatcher e Blair. Li copia nella distruzione dello Stato Sociale e delle sue regole. Lo stesso utilizzo degli anglicismi è indicativo. Perché termini come Local Tax, Spending Review e Jobs Act? Tra l’altro se analizziamo al dettaglio, i termini sono esplicati: Job in inglese non è lavoro bensì impiego in senso lato, e Act sottintende un gesto unilaterale, non un accordo tra due contraenti. Renzi ha scardinato qualsiasi ipotesi di patto sociale.

  • Massacro sociale europeo: i nazisti erano meno subdoli

    Scritto il 31/10/14 • nella Categoria: idee • (9)

    Quattro milioni e 68.250 persone, in Italia, costrette a chiedere aiuto per mangiare nel 2013, con un aumento del 10% cento sull’anno precedente. Lo ha calcolato la Coldiretti, sulla base della relazione che riguarda il “Piano di distribuzione degli alimenti agli indigenti” realizzato dall’Agea, l’agenzia per le erogazioni in agricoltura, in riferimento ai dati Istat sulle famiglie senza redditi da lavoro. Numero approssimato per difetto: tiene conto soltanto di chi ha chiesto aiuto attraverso canali più o meno ufficiali, trascurando chi si è rivolto a famiglie, genitori e amici. «Se mettessimo in fila quelle persone, dando a ciascuna soltanto mezzo metro di spazio, si formerebbe una fila che parte da Reggio Calabria e finisce a Bruxelles», scrive “Come Don Chisciotte”. Bruxelles, cioè la città «in cui ha sede il meccanismo di dominazione tirannica basato sullo smantellamento delle istituzioni democratiche e sull’impoverimento generalizzato che si definisce Unione Europea».
    «Facciamo ora uno sforzo più grande, e immaginiamo di prendere non solo gli italiani che grazie ai destini magnifici e progressivi dell’Europa reale hanno dovuto calpestare la propria dignità per avere un piatto di minestra, ma quelli di tutti i paesi che aderiscono all’Ue, ridotti in miseria dalla moneta unica. A quel punto – continua il blog – il continente che un tempo possedeva il più avanzato e inclusivo sistema di welfare, e per questo era universalmente stimato e rispettato come quello in cui la sua civiltà millenaria si esprimeva al livello più alto, si vedrebbe attraversato in ogni direzione da file di diseredati, lunghe migliaia e migliaia di chilometri». Se i progetti grandiosi della Ue, come i cosiddetti corridoi ferroviari trans-europei ad alta velocità che avrebbero dovuto attraversare il continente sono rimasti in gran parte sulla sulla carta, in compenso «l’Europa reale ha realizzato file ancora più lunghe di poveri, disoccupati e affamati». Statistica: «Solo la più sanguinosa delle guerre, quella combattuta dal 1939 al 1945, è stata capace di produrre qualcosa di simile. Malgrado le armi convenzionali non siano finora entrate in gioco, le conseguenze della moneta unica sono di entità simile a quelle proprie di un evento bellico di tale portata».
    Come ormai sostengono diverse fonti autorevoli, negli Stati che dovrebbero essere affratellati dai trattati di unione si sta effettivamente combattendo una guerra, anche se non con i mezzi corazzati, ma con gli strumenti della finanza. «Che sono forse più micidiali, essendo capaci di produrre danni ancora maggiori». Tutto questo per che cosa? «Per dare soddisfazione alla patologia di accumulazione compulsiva di un branco di oligarchi, e il doveroso compenso ai politici non eletti da nessuno al loro servizio», e anche «per il prestigio politico da essi speso nella realizzazione del più micidiale strumento di devastazione sociale e istituzionale oggi conosciuto, quello che risponde al nome di Euro». Di fronte a un disastro simile, «causato deliberatamente», il capo del terzo “governo fantoccio” che si succede in Italia in poco più di due anni, Matteo Renzi, «non trova di meglio che rispondere con l’elemosina degli 80 euro», che dovranno essere ripagati «mediante misure più costose e permanenti, come al solito a spese dei redditi medio-bassi».
    “L’elemosina” va comunque a chi ha già una busta paga, per quanto misera: viceversa, «chi non ha niente, ovvero il milione e più di famiglie che non percepiscono reddito da lavoro alcuno, sempre certificato dall’Istat, niente avrà». Questo, «in base alla logica consolidata negli anni che prevede di abbandonare al proprio destino la fascia dei più bisognosi, di giorno in giorno più ampia: se non si ha nulla, nulla si ha da pretendere e tantomeno da offrire». E’ la politica sociale «dei partiti di falsa sinistra, da decenni intenta alla spoliazione e all’impoverimento generalizzato dei ceti subalterni». Quei partiti, secondo “Come Don Chisciotte”, «hanno definitivamente sancito l’assenza di qualunque volontà di porre un benché minimo rimedio alle conseguenze delle loro politiche scellerate», ossia «l’essersi messi al servizio delle élite per eseguire le politiche più oltranziste della destra finanziaria», il capitalismo assoluto. «Si perviene così a una forma di dissociazione dalla realtà in base a ordini superiori, quelli provenienti dai vertici del partito, che a prima vista potrebbe apparire patetica ma in realtà è ignobile e vergognosa», perché «se si agisce in modo tale da favorire l’aggravarsi delle condizioni generali, oltretutto su mandato di poteri esterni al proprio paese», allora «ci si assumono responsabilità enormi». .
    “Come Don Chisciotte” traccia un parallelo tra «l’attività ademocratica e antisociale della politica attuale» e il comportamento dei magnate degli inizi del secolo scorso, come Rockefeller: «Per il loro arricchimento personale, e migliorare la competitività della propria impresa, non hanno esitato a ordinare che donne e bambini fossero trucidati: erano le famiglie dei lavoratori impiegati nelle miniere del Colorado che chiedevano condizioni di vita meno disumane». Gli autori della restaurazione iper-capitalistica e della conseguente macelleria sociale oggi in atto sono «come nazisti e moderni Mengele». “Nazista” è parola assurta a sinonimo universale della crudeltà peggiore e della negazione per il valore e l’intangibilità della vita umana: nel mondo occidentale, si viene ammaestrati fin dalla più tenera età a riconoscere il nazismo come il male assoluto per definizione. Ma i “nazisti” di oggi si riparano dietro al “frame” della persuasione occulta: il sangue non si vede, la strage non viene percepita subito. Perfino gli esiti quotidiani del disastro-Europa «diventano controversi e di interpretazione incerta, malgrado ciascuno si ritrovi con meno soldi in tasca e un potere d’acquisto ridotto ai minimi termini», la prole disoccupata o precaria.
    La potente manipolazione mediatica rende gli individui incapaci di stabilire «persino il più elementare legame di causa ed effetto». Eppure, il «massacro sociale odierno» va oltre il nazismo, secondo “Come Don Chisciotte”: «Infatti il nazismo, come tutte le altre dittature dello scorso secolo, in primo luogo agiva in nome e per conto del proprio Stato o parte di esso, sia pure con metodi condannevoli. La classe politica di oggi, invece, opera su mandato di poteri esterni, dei quali si è fatta collaborazionista, o meglio fantoccio». Soprattutto, «il nazismo riconosceva la propria natura e non aveva problemi a palesarla». Viceversa, «i moderni sgherri dell’assolutismo iper-capitalista si mascherano vilmente dietro le loro teorie deliranti», palesemente insostenibili ma «ripetute fino a renderle i dogmi su cui si basa il lavaggio del cervello di massa». E questo avviene «dietro la facciata delle istituzioni democratiche che nel frattempo hanno provveduto a sovvertire, svuotandole del loro contenuto originario, con lo scopo di trasformarle negli strumenti atti a giungere agli obiettivi di dominazione assoluta che si sono prefissi».
    Si adotta questo modello, oggi, grazie alla consapevolezza «che proprio l’essersi palesate in quanto tali è stato il primo punto debole di quelle dittature», all’epoca «finanziate molto generosamente dalle banche controllate da chi oggi persegue il disegno di dominazione globale». Proprio «la necessità di tenere nascosto quel disegno, per non renderlo riconoscibile fino al suo compimento definitivo, sta a testimoniare il valore che chi lo ha attuato è il primo ad attribuirgli: il che equivale a una piena e inappellabile confessione di colpevolezza». In più, le guerre di allora erano dichiarate e combatture alla luce del sole. «I tiranni di oggi invece muovono guerre invisibili ma ancora più micidiali, che sovente hanno per vittima il loro stesso Stato». Se e quando il popolo se ne accorge, «è troppo tardi per rimediare». Per di più, «la tirannide attuale ritiene di poter fare a meno di una qualsiasi base di consenso che non sia quella dell’1%, cosa che le permette di colpire indiscriminatamente qualunque ceto sociale e di porsi come obiettivo la distruzione totale di tutto ciò che possa essere assimilato a una qualche forma di welfare». Al contrario, «le dittature storiche ricercavano comunque un consenso, il che le portava a realizzare opere di valore sociale, sia pure per motivi demagogici e inserite nel contesto delle loro politiche totalitarie».
    Per “Come Come Don Chisciotte”, dunque, «definire nazisti gli autori dell’odierno massacro sociale è fuorviante, ma soprattutto riduttivo». Il perché ce lo spiega George Orwell, nel suo capolavoro “1984”, in cui denuncia i problemi di percezione indotti dalla manipolazione linguistica, un deficit cognitivo che porta al blackout mentale e all’incapacità di articolare un’autodifesa fondata sul pensiero critico. «Assieme alla negazione sistematica della realtà e alla riscrittura altrettanto sistematica del passato, proprio questo va a costituire l’architrave dell’ordinamento tirannico descritto dallo scrittore inglese, cui non a caso la realtà di oggi rassomiglia in maniera sempre più evidente». E’ urgente che «qualche intellettuale di buona volontà si sforzi per coniare un neologismo», un termine «che condensi in sé tutta l’enorme e inedita carica di vile malvagità insita nel disegno restaurativo dell’assolutismo capitalista e dei suoi esecutori», in modo da incidere nell’immaginario comune. «Fino ad allora non sarà possibile far sì che l’opinione pubblica si renda conto fino in fondo di quanto sta avvenendo».

    Quattro milioni e 68.250 persone, in Italia, costrette a chiedere aiuto per mangiare nel 2013, con un aumento del 10% cento sull’anno precedente. Lo ha calcolato la Coldiretti, sulla base della relazione che riguarda il “Piano di distribuzione degli alimenti agli indigenti” realizzato dall’Agea, l’agenzia per le erogazioni in agricoltura, in riferimento ai dati Istat sulle famiglie senza redditi da lavoro. Numero approssimato per difetto: tiene conto soltanto di chi ha chiesto aiuto attraverso canali più o meno ufficiali, trascurando chi si è rivolto a famiglie, genitori e amici. «Se mettessimo in fila quelle persone, dando a ciascuna soltanto mezzo metro di spazio, si formerebbe una fila che parte da Reggio Calabria e finisce a Bruxelles», scrive “Come Don Chisciotte”. Bruxelles, cioè la città «in cui ha sede il meccanismo di dominazione tirannica basato sullo smantellamento delle istituzioni democratiche e sull’impoverimento generalizzato che si definisce Unione Europea».

  • Putin: americani fermatevi, il mondo non vuole più guerre

    Scritto il 30/10/14 • nella Categoria: idee • (4)

    La rettitudine e la durezza nel formulare delle valutazioni servono oggi non per punzecchiarci reciprocamente, ma per cercare di comprendere che cosa veramente sta accadendo nel mondo, perché diventa sempre meno sicuro e meno prevedibile, perché ovunque aumentano i rischi. Nuove regole del gioco oppure gioco senza regole? Formulato così, il concetto descrive puntualmente quel bivio storico in cui ci troviamo, la scelta che dovrà essere compiuta da tutti noi. L’idea che il mondo contemporaneo cambi precipitosamente non è nuova. Infatti, rimane difficile non notare le trasformazioni nella politica globale, nell’economia, nella vita sociale, nell’ambito delle tecnologie industriali, informatiche e sociali. Ma nell’analizzare la situazione attuale non dobbiamo dimenticare le lezioni della storia. In primo luogo, il cambio dell’ordine mondiale (e i fenomeni che osserviamo oggi appartengono proprio a questa scala), veniva accompagnato, di solito, se non da una guerra globale, da intensi conflitti locali. In secondo luogo, parlare di politica mondiale significa affrontare i temi della leadership economica, della pace e della sfera umanitaria, compresi i diritti dell’uomo.
    Nel mondo si è accumulata una moltitudine di contrasti. E bisogna chiedersi in tutta franchezza se abbiamo una rete di protezione sicura. Purtroppo, la certezza che il sistema di sicurezza globale e regionale sia capace di proteggerci dai cataclismi non c’è. Questo sistema risulta seriamente indebolito, frantumato e deformato. Vivono tempi difficili le istituzioni, internazionali e regionali, di interazione politica, economica e culturale. Molti meccanismi atti ad assicurare l’ordine mondiale si sono formati in tempi lontani, influenzati soprattutto dall’esito della Seconda Guerra Mondiale. La solidità di questo sistema non si basava esclusivamente sul bilanciamento delle forze e sul diritto dei vincitori, ma anche sul fatto che i “padri fondatori” di questo sistema di sicurezza si trattavano con rispetto, non cercavano di “spremere fino all’ultimo” ma cercavano di mettersi d’accordo. Il sistema continuava ad evolversi e, nonostante tutti i suoi difetti, era efficace per – se non una soluzione – almeno per un contenimento dei problemi mondiali, per una regolazione dell’asprezza della concorrenza naturale tra gli Stati.
    Sono convinto che questo meccanismo di controbilanciamenti non potesse essere distrutto senza creare qualcosa in cambio, altrimenti non ci sarebbero davvero rimasti altri strumenti se non la rozza forza. Tuttavia gli Stati Uniti, dichiarandosi i vincitori della “guerra fredda”, hanno pensato – e credo che l’abbiano fatto con presunzione – che di tutto questo non v’è alcun bisogno. Dunque, invece di raggiungere un nuovo bilanciamento delle forze, che rappresenta una condizione indispensabile per l’ordine e la stabilità, hanno intrapreso, al contrario, i passi che hanno portato a un peggioramento repentino dello squilibrio. La “guerra fredda” è finita. Però non si è conclusa con un raggiungimento di “pace”, con degli accordi comprensibili e trasparenti sul rispetto delle regole e degli standard oppure sulle loro elaborazione. Par di capire che i cosiddetti vincitori della “guerra fredda” abbiano deciso di “sfruttare” fino in fondo la situazione per ritagliare il mondo intero a misura dei propri interessi. E se il sistema assestato delle relazioni e del diritto internazionali, il sistema del contenimento e dei controbilanciamenti impediva il raggiungimento di questo scopo, veniva da loro immediatamente dichiarato inutile, obsoleto e soggetto ad abbattimento istantaneo.
    Il concetto stesso della “sovranità nazionale” per la maggioranza degli Stati è diventato un valore relativo. In sostanza, è stata proposta la formula seguente: più forte è la lealtà a un unico centro di influenza nel mondo, più alta è la legittimità del regime governante. Le misure per esercitare pressione sui disubbidienti sono ben note e collaudate: azioni di forza, pressioni di natura economica, propaganda, intromissione negli affari interni, rimandi a una certa legittimità di “infra-diritto”. Recentemente siamo venuti a conoscenza di testimonianze di ricatti non velati nei confronti di una serie di leader. Non è un caso che il cosiddetto “grande fratello” spenda miliardi di dollari per lo spionaggio in tutto il mondo, compresi i suoi stretti alleati. Allora facciamoci la domanda se tutti noi troviamo la nostra vita confortevole e sicura in questo mondo, chiediamoci quanto sia giusto e razionale il mondo. Forse il modo in cui gli Usa detengono la leadership è davvero un bene per tutti? Le loro onnipresenti interferenze negli affari altrui implicano pace, benessere, progresso, prosperità, democrazia? Bisogna semplicemente rilassarsi e godersela? Mi permetto di dire che non è così. Non è assolutamente così.
    Il diktat unilaterale e l’imposizione dei propri stereotipi producono un risultato opposto: al posto di una soluzione dei conflitti, l’escalation; al posto degli Stati sovrani, stabili, l’espansione del caos; al posto della democrazia, il sostegno a gruppi ambigui, dai neonazisti dichiarati agli islamisti radicali. Continuo a stupirmi di fronte agli errori ripetuti, una volta dopo l’altra, dei nostri partner che si danno da soli la zappa sui piedi. A suo tempo, nella lotta contro l’Unione Sovietica, avevano sponsorizzato i movimenti estremisti islamici che si erano rinvigoriti in Afghanistan, fino a generare sia i talebani sia Al-Qaeda. L’Occidente, pur senza ammettere il suo sostegno, chiudeva un occhio. Anzi, in realtà sosteneva l’irruzione dei terroristi internazionali in Russia e nei paesi dell’Asia Centrale attraverso le informazioni, la politica e la finanza. Non l’abbiamo dimenticato. Solo dopo i terribili atti terroristici compiuti nel territorio degli stessi Usa siamo arrivati alla comprensione della minaccia comune del terrorismo. Vorrei ricordare che allora siamo stati i primi a esprimere il nostro sostegno al popolo degli Stati Uniti d’America e abbiamo agito come amici e partner dopo la spaventosa tragedia dell’11 Settembre.
    Nel corso dei miei incontri con i leader statunitensi ed europei ho costantemente ribadito la necessità di lottare congiuntamente contro il terrorismo, che rappresenta una minaccia su scala mondiale. Non possiamo rassegnarci di fronte a questa sfida. Una volta la nostra visione era condivisa, ma è passato poco tempo e tutto è tornato come prima. Si sono verificati in seguito gli interventi sia in Iraq sia in Libia. Quest’ultimo paese, tra l’altro, ora è diventato un poligono per i terroristi. E soltanto la volontà e la saggezza delle autorità attuali dell’Egitto hanno permesso di evitare il caos e lo scatenarsi violento degli estremisti anche in questo paese-chiave del mondo arabo. In Siria, come in passato, gli Usa e i loro alleati hanno cominciato a finanziare apertamente e a fornire le armi ai ribelli, favorendo il loro rinforzo con gli arrivi dei mercenari di vari paesi. Permettetemi di chiedere dove i ribelli trovano denaro, armi, esperti militari? Com’è potuto accadere che il famigerato Isis si sia trasformato praticamente in un esercito?
    Si tratta non solo dei proventi dal traffico di droga, ma la sovvenzione finanziaria proviene anche dalle vendite del petrolio, la cui estrazione è stata organizzata nei territori sotto il controllo dei terroristi. Lo vendono a prezzi stracciati, lo estraggono, lo trasportano. Qualcuno lo compra, lo rivende e ci guadagna, senza pensare al fatto che così sta finanziando i terroristi, gli stessi che prima o poi colpiranno anche nella sua terra. Da dove provengono le nuove reclute? Sempre in Iraq, dopo il rovesciamento di Saddam Hussein sono state distrutte le istituzioni dello Stato, compreso l’esercito. Già allora abbiamo detto: siate prudenti e cauti. Con quale risultato? Decine di migliaia di soldati e ufficiali, ex militanti del partito Baath, buttati sulla strada, oggi si sono uniti ai guerriglieri. A proposito, non sarà nascosta qui la capacità di azione dell’Isis? Le loro azioni sono molto efficaci dal punto di vista militare, sono oggettivamente dei professionisti. La Russia aveva avvertito più volte del pericolo che comportano le azioni di forza unilaterali, delle interferenze negli affari degli Stati sovrani, delle avance agli estremisti e ai radicali, insistendo sull’inclusione dei raggruppamenti che lottavano contro il governo centrale siriano, in primo luogo dell’Isis, nelle liste dei terroristi. Tutto inutile.
    L’accrescimento del dominio di un unico centro di forza non conduce alla crescita del controllo dei processi globali. Al contrario, è inefficace contro le vere minacce costituite dai conflitti regionali, terrorismo, traffico di droga, fanatismo religioso, sciovinismo e neonazismo. Allo stesso tempo ha largamente spianato la strada ai nazionalismi e alla rude soppressione dei più deboli. Il mondo unipolare è la celebrazione apologetica della dittatura sia sulle persone sia sui paesi. Ed è un mondo insostenibile e difficile da gestire anche per il cosiddetto leader autoproclamatosi. Da qui nascono i tentativi odierni di ricreare un simulacro del mondo bipolare, più “comodo” per la leadership americana. Poco importa chi occuperà, nella loro propaganda, il posto del “centro del male” che spettava una volta all’Urss: l’Iran, la Cina oppure ancora la Russia. Adesso assistiamo di nuovo a un tentativo di frantumare il mondo, fabbricare delle coalizioni non secondo il principio “a sostegno di”, ma “contro”; serve l’immagine di un nemico, come ai tempi della “guerra fredda”, per legittimare la leadership e ottenere un diritto di diktat.
    Durante la “guerra fredda”, agli alleati si diceva continuamente: «Abbiamo un nemico comune, è spaventoso, è lui il centro del male; noi vi difendiamo, dunque abbiamo il diritto di comandarvi, di costringervi a sacrificare i propri interessi politici e economici, a sostenere le spese per la difesa collettiva; ma a gestire questa difesa saremo, naturalmente, noi». Oggi traspare evidente l’aspirazione a trarre dividendi politici ed economici tramite la riproposizione dei consueti schemi di gestione globale. Tuttavia il mondo è cambiato. Le sanzioni hanno già cominciato a intaccare le fondamenta del commercio internazionale e le normative del Wto, i principi della proprietà privata, il modello liberale della globalizzazione, basato sul mercato, sulla libertà e sulla concorrenza. Un modello i cui beneficiari, lo voglio rilevare, sono soprattutto i paesi occidentali. A mio parere, i nostri amici americani stanno tagliando il ramo su cui sono seduti. Non si può mescolare politica ed economia, ma è proprio questo che sta accadendo.
    Ho sempre ritenuto e ritengo ancora che le sanzioni politicamente motivate siano state un errore che danneggia tutti quanti. Comprendiamo bene in che modo e sotto quale pressione siano state adottate. Ma ciò nonostante la Russia non intende, e lo voglio mettere ben in chiaro, impuntarsi, portare rancore contro qualcuno o chiedere qualcosa a qualcuno. La Russia è un paese autosufficiente. Lavoreremo nelle condizioni di economia esterna che si sono create, sviluppando la nostra industria tecnologica. La pressione esterna non fa altro che consolidare la nostra società, ci obbliga a concentrarci sulle tendenze principali di sviluppo. Beninteso, le sanzioni ci ostacolano: stanno cercando di danneggiarci, di arrestare il nostro sviluppo, di ridurci all’auto-isolamento e all’arretratezza. Ma il mondo è cambiato radicalmente. Non abbiamo alcuna intenzione di chiuderci nell’autarchia; siamo sempre aperti al dialogo, compreso quello sulla normalizzazione delle relazioni economiche, nonché quelle politiche. In questo contiamo sulla visione pragmatica e sullo schieramento delle comunità imprenditoriali dei paesi leader. Affermano che la Russia avrebbe voltato le spalle all’Europa, cercando partner economici in Asia. Non è così. La nostra politica in Asia e nel Pacifico risale ad anni fa e non è affatto legata alle sanzioni. L’Oriente occupa un posto sempre più importante nel mondo e nell’economia e non possiamo trascurarlo. Lo stanno facendo tutti e noi continueremo a farlo, anche perché una parte notevole del nostro territorio si trova in Asia.
    Se non sapremo creare un sistema di obblighi e accordi reciproci e non elaboriamo i meccanismi per gestire le situazioni di crisi, rischiamo l’anarchia mondiale. Già oggi è aumentata repentinamente la probabilità di una serie di conflitti violenti con il coinvolgimento, se non diretto, ma indiretto, delle grandi potenze. Il fattore di rischio viene amplificato dall’instabilità interna dei singoli Stati, in particolar modo quando si parla dei paesi cardine degli interessi geopolitici e si trovano ai confini dei “continenti” storici, economici e culturali. L’Ucraina è un esempio – ma non l’unico – di questo genere di conflitti che dividono le forze mondiali. Da qui scaturisce la prospettiva reale della demolizione del sistema attuale degli accordi sulle restrizioni e il controllo degli armamenti. Il via a questo pericoloso processo è stato dato proprio dagli Usa quando, nel 2002, sono usciti unilateralmente dal Trattato sulla limitazione dei sistemi di difesa antimissilistica per avviare la creazione di un proprio sistema globale di difesa.
    Non siamo stati noi a iniziare tutto questo. Stiamo di nuovo scivolando verso tempi in cui i paesi si trattengono dagli scontri diretti non in virtù di interessi, equilibri e garanzie, ma solo per il timore dell’annientamento reciproco. È estremamente pericoloso. Noi insistiamo sui negoziati per la riduzione degli arsenali e siamo aperti alla discussione sul disarmo nucleare, ma deve essere seria, senza “doppi standard”. Che cosa intendo dire? Oggi le armi di precisione si sono avvicinate alle armi di distruzione di massa. Nel caso di rinuncia assoluta o diminuzione del potenziale nucleare, i paesi che si sono guadagnati la leadership nella produzione dei sistemi di alta precisione otterranno un netto dominio militare. Sarà spezzata la parità strategica, comportando così il rischi di una destabilizzazione: affiora così la tentazione di ricorrere al cosiddetto “primo colpo disarmante globale”. In breve, i rischi non diminuiscono ma aumentano.
    Un’altra minaccia evidente è l’ulteriore proliferazione dei conflitti di origine etnica, religiosa e sociale, che creano zone di vuoto di potere, illegalità e caos, in cui trovano conforto terroristi, delinquenti comuni, pirati, scafisti e narcotrafficanti. I nostri “colleghi” hanno continuato i tentativi, nel loro esclusivo interesse, di sfruttare i conflitti regionali: hanno progettato le “rivoluzioni colorate”, ma la situazione è sfuggita a loro di mano, alla faccia del “caos controllato”. E il caos globale aumenta. Nelle condizioni attuali sarebbe ora di cominciare ad accordarsi sulle questioni di principio. È decisamente meglio che non rifugiarsi nei propri angoli, soprattutto perché ci scontriamo con i problemi comuni, siamo sulla stessa barca. La via logica è quella della cooperazione tra i paesi e la gestione congiunta dei rischi, sebbene alcuni dei nostri partner si ricordino di questo solo quando risponde al loro interesse. Certo, le risposte congiunte alle sfide non sono una panacea e nella maggioranza dei casi sono difficilmente realizzabili: non è per niente semplice superare le diversità degli interessi nazionali, la parzialità delle visioni, soprattutto se si parla dei paesi di diverse tradizioni storico-culturali. Eppure ci sono stati casi in cui, guidati dagli obiettivi comuni, abbiamo raggiunto successi reali.
    Vorrei ricordare la soluzione del problema delle armi chimiche siriane, il dialogo sul programma nucleare iraniano e il nostro soddisfacente lavoro svolto in Corea del Nord. Perché allora non attingere a questa esperienza anche in futuro, per la soluzioni dei problemi sia locali sia globali? Non ci sono ricette già pronte. Sarà necessario un lavoro lungo, con la partecipazione di una larga cerchia di Stati, del business mondiale e della società civile. Bisogna definire in modo nitido dove si trovano i limiti delle azioni unilaterali e dove nasce l’esigenza di meccanismi multilaterali. Bisogna trovare la soluzione, nel contesto del perfezionamento del diritto internazionale, al dilemma tra le azioni della comunità mondiale volte a garantire la sicurezza e i diritti dell’uomo e il principio della sovranità nazionale e non intromissione negli affari interni degli Stati. Non c’è bisogno di ripartire da zero, le istituzioni create subito dopo la Seconda Guerra Mondiale sono abbastanza universali e possono essere riempite di contenuti più moderni. Sullo sfondo dei cambiamenti fondamentali nell’ambito internazionale, della crescente ingovernabilità e dell’aumento delle più svariate minacce abbiamo bisogno di un nuovo consenso delle forze responsabili per dare stabilità e della sicurezza alla politica e all’economia.
    Vorrei ricordarvi gli eventi dell’anno passato. Allora dicevamo ai nostri partner, sia americani che europei, che le decisioni frettolose, come ad esempio quella sull’adesione dell’Ucraina all’Unione Europea, erano pregne di seri rischi. Simili passi clandestini ledevano gli interessi di molti terzi paesi, tra cui la Russia, in quanto partner commerciale principale dell’Ucraina. Abbiamo ribadito la necessità di avviare una larga discussione. Una volta realizzato il progetto dell’associazione dell’Ucraina, si presentano da noi attraverso le porte di servizio i nostri partner con le loro merci e i loro servizi, ma noi non lo abbiamo concordato, nessuno ha chiesto il nostro parere a riguardo. Abbiamo dibattuto su tutte le problematiche inerenti all’Ucraina in Europa in modo assolutamente civile, ma nessuno ci ha dato ascolto. Ci hanno semplicemente detto che non era affar nostro, finito il dibattito e la faccenda è deteriorata fino al colpo di Stato e alla guerra civile. Tutti allargano le braccia: è andata così. Ma non era inevitabile.
    Io lo dicevo: l’ex presidente ucraino Yanukovich aveva sottoscritto tutto quanto, aveva approvato tutto. Perché allora bisognava insistere? Sarebbe questo il modo civile per risolvere le questioni? Evidentemente coloro che “producono a macchia” una rivoluzione colorata dopo l’altra si ritengono degli artisti geniali e non ce la fanno proprio a fermarsi. Voglio aggiungere che avremmo gradito l’inizio di un dialogo concreto tra L’Unione Eurasiatica e l’Unione Europea. A proposito, fino a oggi ci è stato praticamente sempre negato: e di nuovo è poco chiaro per quale motivo; cosa c’è di spaventoso? Ne ho parlato spesso in precedenza trovando l’appoggio dei molti nostri partner occidentali, almeno quelli europei: è necessario formare uno spazio comune di cooperazione economica e umanitaria, lo spazio che si stenda dall’Atlantico al Pacifico. La Russia ha fatto la sua scelta. Le nostre priorità sono costituite dall’ulteriore perfezionamento degli istituti di democrazia e di economia aperta, l’accelerazione dello sviluppo interno tenendo conto di tutte le tendenze positive nel mondo, il consolidamento della società sulla base dei valori tradizionale e del patriottismo.
    La nostra agenda è orientata all’integrazione, è positiva, pacifica. La Russia non vuole ricostituire un impero, compromettendo la sovranità dei vicini, e non esige un posto esclusivo nel mondo. Rispettando gli interessi altrui vogliamo che si tenga contro anche dei nostri interessi, che anche la nostra posizione sia rispettata. Abbiamo bisogno di un grado particolare di prudenza, di evitare passi sconsiderati. Dopo la “guerra fredda” i protagonisti della politica mondiale hanno perduto in certo senso queste qualità. È giunto il momento di ricordarle. In caso contrario, le speranze per uno sviluppo pacifico, sostenibile, si riveleranno una nociva illusione, mentre i cataclismi di oggi significheranno la vigilia del collasso dell’ordine mondiale. Siamo riusciti a elaborare le regole di interazione dopo la Seconda Guerra Mondiale, siamo riusciti a trovare un accordo negli anni ‘70 a Helsinki. Il nostro obbligo comune è trovare un soluzione per questo obiettivo fondamentale anche nel contesto di una nuova fase di sviluppo.
    (Vladimir Putin, estratti dal discorso pronunciato il 24 ottobre 2014 al Forum internazionale del “Club Valdai” a Sochi, tradotto e ripreso da “Il Giornale”).

    La rettitudine e la durezza nel formulare delle valutazioni servono oggi non per punzecchiarci reciprocamente, ma per cercare di comprendere che cosa veramente sta accadendo nel mondo, perché diventa sempre meno sicuro e meno prevedibile, perché ovunque aumentano i rischi. Nuove regole del gioco oppure gioco senza regole? Formulato così, il concetto descrive puntualmente quel bivio storico in cui ci troviamo, la scelta che dovrà essere compiuta da tutti noi. L’idea che il mondo contemporaneo cambi precipitosamente non è nuova. Infatti, rimane difficile non notare le trasformazioni nella politica globale, nell’economia, nella vita sociale, nell’ambito delle tecnologie industriali, informatiche e sociali. Ma nell’analizzare la situazione attuale non dobbiamo dimenticare le lezioni della storia. In primo luogo, il cambio dell’ordine mondiale (e i fenomeni che osserviamo oggi appartengono proprio a questa scala), veniva accompagnato, di solito, se non da una guerra globale, da intensi conflitti locali. In secondo luogo, parlare di politica mondiale significa affrontare i temi della leadership economica, della pace e della sfera umanitaria, compresi i diritti dell’uomo.

  • Piketty: Renzi e Hollande senza idee da opporre alla Merkel

    Scritto il 28/10/14 • nella Categoria: idee • (1)

    «Errare è umano, perseverare è diabolico. Cambiamo strada, ora». Thomas Piketty è in testa alla classifica degli economisti che proprio non amano l’austerità. «Non per partito preso o per bieca ideologia», premette. «Semplicemente perché ho studiato la storia del debito pubblico dall’Ottocento ad oggi». A 43 anni appena compiuti è ormai entrato nella ristretta cerchia degli oracoli, o guru che dir si voglia. Tutta colpa, o merito, de “Il capitale del XXI secolo”, appena pubblicato in Italia da Bompiani, il libro con cui analizza l’esplosione delle disuguaglianze e un capitalismo basato sulla rendita finanziaria più che sul lavoro. Un bestseller mondiale a sorpresa, incensato da Paul Krugman, che addirittura mette Piketty sulla rampa di lancio per la candidatura al Nobel. Piketty crede che il vulnus dell’Eurozona sia soprattutto politico: «I paesi dell’euro devono avere un Parlamento che possa decidere in autonomia rispetto alle istituzioni dei 28 paesi dell’Ue. Abbiamo creato un mostro: non possiamo più avere una moneta unica senza una politica di bilancio comune».
    I debiti pubblici europei, dichiara Piketty ad Anais Ginori in un’intervista per “Repubblica” ripresa da “Micromega”, non sono più elevati che in America, nel Regno Unito o in Giappone: eppure «solo qui, in Europa, abbiamo trasformato questa situazione in una crisi di sfiducia e stagnazione dell’economia». E dire che «i fondamentali dell’Europa sono migliori di quel che pensiamo: i patrimoni e i redditi non sono mai stati così alti. Anzi, sono aumentati in percentuale del Pil più che i debiti pubblici. Sono i nostri governi ad essere poveri». Soluzioni sbagliate: «Per ridurre il debito con avanzi primari sul bilancio statale, come cerca di fare l’Italia, ci vogliono decenni. Nell’Ottocento il Regno Unito aveva il 200% di debito pubblico sul Pil. Nel 1910, attraverso continui avanzi primari, è arrivato al 20% del Pil. Ma in un secolo il Regno Unito ha speso più per rimborsare debito che per investire nel sistema educativo. E’ un esempio triste, che ci dovrebbe far riflettere».
    Più flessibilità sui deficit, allora come chiedono timidamente Francia e Italia? «Mi fa paura l’assenza di proposte che colgo in Hollande e Renzi», dice Piketty. «Non si può dire solo meno austerità, più investimenti. Per la Germania è facile rifiutare. È come se qualcuno chiedesse di avere una carta di credito in comune, facendo la spesa per conto suo. Italia e Francia dovrebbero avere più coraggio. Mettere subito sul tavolo un progetto di unione politica. A quel punto, anche i tedeschi sarebbero in difficoltà». Unione politica, ovvero: «Un Parlamento dell’Eurozona, anche con meno paesi degli attuali 18, ma con un bilancio comune, un solo ministro delle Finanze, un livello di deficit votato di anno in anno in base alla congiuntura. Non potrà mai funzionare una moneta unica con 18 sistemi economici e sociali, 18 debiti pubblici e 18 tassi di interessi su cui i mercati possono speculare». Ci sarebbe posto per Francia, Italia, Germania, Belgio, Olanda e Spagna. «Serve un gruppo pilota per dimostrare che l’integrazione delle politiche di bilancio è possibile».
    Oggi, continua Piketty, i tassi di interesse sui titoli di Stato nell’Eurozona vanno dallo 0 al 4%. «Non è normale, per paesi che fanno parte della stessa unione monetaria. I mercati continuano a mettere in conto che qualche paese possa fare default o uscire dall’euro». Grosso ostacolo, l’attuale governance europea: un sistema «bloccato dalla regola dell’unanimità», che non prevede compromessi e coalizioni. «Bisogna dare fiducia alla democrazia: i cittadini sono pronti se spieghiamo che con un Parlamento dell’Eurozona si potranno adattare i deficit alla congiuntura, lottare meglio contro l’evasione fiscale, oppure votare un’imposta sui redditi delle società. Oggi in Europa le multinazionali pagano meno tasse delle piccole e medie imprese. E’ un’assurdità». E il piano di investimenti della nuova Commissione Europea? «Per arrivare a 3-400 miliardi di euro sono stati addizionati investimenti pubblici e privati che ci sarebbero stati comunque. Non ci sarà alcun impatto sui bilanci nazionali e sull’economia europea. E’ solo un trucco contabile». E ovviamente c’è l’euro: «La speculazione sulle monete è stata sostituita da quella sui tassi d’interesse. E oggi i governi non hanno più l’arma della svalutazione. Siamo in trappola».

    «Errare è umano, perseverare è diabolico. Cambiamo strada, ora». Thomas Piketty è in testa alla classifica degli economisti che proprio non amano l’austerità. «Non per partito preso o per bieca ideologia», premette. «Semplicemente perché ho studiato la storia del debito pubblico dall’Ottocento ad oggi». A 43 anni appena compiuti è ormai entrato nella ristretta cerchia degli oracoli, o guru che dir si voglia. Tutta colpa, o merito, de “Il capitale del XXI secolo”, appena pubblicato in Italia da Bompiani, il libro con cui analizza l’esplosione delle disuguaglianze e un capitalismo basato sulla rendita finanziaria più che sul lavoro. Un bestseller mondiale a sorpresa, incensato da Paul Krugman, che addirittura mette Piketty sulla rampa di lancio per la candidatura al Nobel. Piketty crede che il vulnus dell’Eurozona sia soprattutto politico: «I paesi dell’euro devono avere un Parlamento che possa decidere in autonomia rispetto alle istituzioni dei 28 paesi dell’Ue. Abbiamo creato un mostro: non possiamo più avere una moneta unica senza una politica di bilancio comune».

  • Complici del massacro sociale, e ora contestano Renzi?

    Scritto il 26/10/14 • nella Categoria: idee • (7)

    Da almeno trent’anni, il copione è sempre o stesso: per revocare diritti e conquiste sociali è necessaria la piena complicità di quella sinistra che nel dopoguerra aveva lottato per il welfare, cioè per l’estensione orizzontale del benessere. Il grande capitale finanziario e oligarchico utilizza partiti e sindacati di cui la gente è abitutata a fidarsi – chi meglio di loro? Dunque non devono più combattere contro le riforme strutturali, destinate a demolire la struttura dell’economia sociale. E in più devono collaborare pienamente all’erosione della società dei diritti, che oggi culmina con l’attacco storico alla Costituzione democratica. Attraverso il famigerato memorandum di Lewis Powell, la destra economica statunitense aveva dettato la linea già all’inizio degli anni ‘70: radere al suolo in tutto l’Occidente la sinistra radicale e addomesticare la sinistra riformista, letteralmente “comprando” i suoi leader per ottenere la smobilitazione di partiti e sindacati. Detto fatto. E quindi che senso ha, oggi, protestare contro Renzi dopo essersi piegati per decenni ai peggiori diktat?
    E’ stato il centrosinistra guidato dai tecnocrati a consegnare gli italiani all’euro-sistema, massima espressione della fine dei diritti, condannando il paese alla crisi: non c’è più “benzina” per le politiche sociali, perché Maastricht – revocando la sovranità monetaria – ha prosciugato le casse dello Stato, costretto a svendere prima i servizi pubblici e poi il sistema-paese, le aziende e le tecnologie, i risparmi, i giovani talenti. Tutto travolto dal taglio della spesa pubblica, che fa crollare anche l’economia privata fondata sui consumi. Dov’èra, Susanna Camusso, mentre tutto questo accadeva? Se lo domanda Giorgio Cremaschi, già leader della Fiom, di fronte al tardivo soprassalto di orgoglio esibito dalla Cgil dopo la rottamazione forzata della repubblica dei lavoratori, il Jobs Act renziano. «In questi decenni – scrive Cremaschi su “Micromega” – il principale sindacato italiano da un lato è stato l’attore sociale della sinistra, perfettamente collaterale al Pd, dall’altro ha ripetutamente tentato un patto dei produttori con l’impresa, per agire di concerto con essa rispetto al potere politico. Entrambi questi capisaldi della strategia della Cgil ora franano clamorosamente e il suo gruppo dirigente non sa letteralmente che fare».
    Nessuna mobilitazione di piazza, dice Cremaschi, riuscirà a chiarire dove si sta andando, «perché la rivoluzione reazionaria di Renzi si combatte non solo rompendo con le sue manifestazioni estreme, ma anche con le ragioni e con il percorso che ad essa ci hanno portato». Il governo Renzi? «Lo potremmo chiamare il governo Renzi-Marchionne, almeno per quel che riguarda il lavoro». Rappresenta «l’ultimo e più intelligente tentativo delle classi dirigenti italiane ed europee di imporre da noi le politiche liberiste che hanno distrutto la Grecia». Intelligente, certo, «perché si è capito che la pura brutalità dei diktat della Troika alla lunga non paga: per questo le politiche liberiste oggi devono essere accompagnate o addirittura precedute da cambiamenti politici e culturali che rendano accettabile o persino condivisibile l’accentuazione delle già così esplosive diseguaglianze sociali». Niente di nuovo: «Per fare questo non basta la destra tradizionale, bisogna occupare il campo della sinistra e portare la parte più grande di essa a sostenere politiche più a destra della destra tradizionale». Questo è il renzismo, dice Cremaschi. Ma è anche – alla lettera – l’applicazione della dottrina di Lewis Powell contro i lavoratori.
    In Italia, secondo Cremaschi, siamo di fronte all’ultima versione «di quel trasformismo politico che nella storia del nostro paese è sempre partito dalla mutazione genetica della sinistra». Ma il fenomeno non è certo un’esclusiva del made in Italy: in Gran Bretagna provvide Tony Blair, il maestro di Renzi, a far piazza pulita di quel po’ di sinistra laburista che era sopravvissuta a Margaret Thatcher. In Germania, la patria della socialdemocrazia europea, la Spd fu suicidata dal cancelliere Gerhard Schroeder, l’uomo che fece storici sconti alla Russia per poi ottenere un ingaggio miliardario dalla Gazprom come super-consulente. Proprio Schroeder varò le micidiali riforme strutturali ispirate dal boss della Volkswagen, Peter Haartz, che comprò – corrompendoli – i leader sindacali dell’azienda, perché tradissero i lavoratori che si fidavano di loro. In Francia, l’eclissi della sinistra raggiunse caratteri mostruosi col monarca finto-socialista Mitterrand: fu lui, il massimo architetto politico dell’euro-regime, a inoculare il virus letale dell’austerity nello Stato europeo, proiettando micidiali tecnocrati – da Jacques Delors a Jacques Attali – al vertice del nuovo super-potere di Bruxelles, da cui impartire le direttive che avrebbero trasformato la fiorente Europa nella “terra desolata” di oggi, ricattata dalle banche e devastata dalla recessione e della disoccupazione.
    In Italia, con Renzi, siamo agli spiccioli finali: «La cancellazione dell’articolo 18 ha il valore simbolico dell’abbattimento dell’ultima bandiera dell’uguaglianza e serve a rendere accettabili provvedimenti ben più immediatamente sostanziosi, come il via libera ai licenziamenti di massa dato alla ThyssenKrupp, o il regalo alla Confindustria della riduzione delle tasse sui profitti pagata con i ticket dei malati», scrive Cremaschi. «Abbiamo realizzato un sogno, ha detto Squinzi, mentre lavoratori e precari vivono nell’incubo». Ma la sceneggiatura è invariabile: la promozione della rovina non può procedere senza il pieno consenso dei leader dell’ex sinistra. «Un governo così sfacciatamente filopadronale – insiste Cremaschi – non poteva che nascere da una operazione culturale e politica che si accampasse e giustificasse nel Pd». Il governo Renzi? «Riassume trenta anni di politiche liberiste contro il lavoro e le conduce al punto estremo», rendendo palese «la doppia contraddizione della Cgil». La prima è la più evidente: «Il rapporto del primo sindacato italiano con il Pd sta diventando sempre più insostenibile, ma allo stesso tempo resta inscindibile».
    Il guaio è che la Cgil, con i suoi gruppi dirigenti, ha sinora avuto il Pd come referente istituzionale fondamentale: «Rompere con esso significherebbe praticare un mare aperto nelle relazioni politiche che fa paura». Imbarazzante, quindi, che con la Cgil si schierino esponenti Pd dell’area anti-renziana, come Stefano Fassina, che poi però restano «disciplinati nel votare la legge sul lavoro». Anche qui, nulla di originale: le più importanti manomissioni della legislazione del lavoro in Italia furono introdotte da esponenti del centrosinistra, primo fra tutti Tiziano Treu con l’omonimo “pacchetto” di riforme, poi sviluppato da Massimo D’Antona (governo D’Alema) a aggiornato da Marco Biagi, consulente del governo Berlusconi ma proveniente dalla sinistra socialista, come D’Antona poi barbaramente assassinato dalle “Nuove Br”. La loro “colpa”, agli occhi dei killer? Aver cercato di demolire lo Statuto dei Lavoratori, precarizzando l’impiego. E i sindacati dov’erano? Dalla stessa parte, ovviamente: tacevano, approvando in silenzio le norme padronali che avrebbero sottratto diritti un tempo intangibili.
    Un’acquiescenza tacita, mai interrotta. La Cgil oggi si oppone al Jobs Act, contesta Cremaschi, ma in questi trent’anni «ha sempre finito per accettare tutti i patti e i provvedimenti che hanno portato ad esso». Ultimi esempi: «La legge Fornero sulle pensioni e il primo attacco all’articolo 18 del governo Monti son passati tranquillamente». E se ora la Camusso si oppone alla legge-delega, «non fa certo altrettanto con quei Job Act diffusi che vengono definiti in accordi che riducono diritti e salario», da ultimi «l’accordo del 10 gennaio con la Confindustria sulla rappresentanza e alcuni pessimi contratti». Lo scatto d’orgoglio contro Renzi? Meglio tardi che mai. Ma non è sufficiente «né a fermare l’offensiva di un governo che le contraddizioni del sindacato ben le conosce ed usa, né tantomeno a invertire la tendenza al degrado delle condizioni di chi lavora». Perché tutto questo cambi, conclude Cremaschi, «è necessaria una rottura di fondo della Cgil con la linea politica e le pratiche sindacali di questi trenta anni. Ma di questo, al momento, non si vede alcuna traccia».

    Da almeno trent’anni, il copione è sempre o stesso: per revocare diritti e conquiste sociali è necessaria la piena complicità di quella sinistra che nel dopoguerra aveva lottato per il welfare, cioè per l’estensione orizzontale del benessere. Il grande capitale finanziario e oligarchico utilizza partiti e sindacati di cui la gente è abitutata a fidarsi – chi meglio di loro? Dunque non devono più combattere contro le riforme strutturali, destinate a demolire la struttura dell’economia sociale. E in più devono collaborare pienamente all’erosione della società dei diritti, che oggi culmina con l’attacco storico alla Costituzione democratica. Attraverso il famigerato memorandum di Lewis Powell, la destra economica statunitense aveva dettato la linea già all’inizio degli anni ‘70: radere al suolo in tutto l’Occidente la sinistra radicale e addomesticare la sinistra riformista, letteralmente “comprando” i suoi leader per ottenere la smobilitazione di partiti e sindacati. Detto fatto. E quindi che senso ha, oggi, protestare contro Renzi dopo essersi piegati per decenni ai peggiori diktat?

  • Paese a pezzi, mai unito: e se rinunciassimo all’Italia?

    Scritto il 25/10/14 • nella Categoria: idee • (3)

    Quindici anni fa, in una fase storica che vedeva il paese ormai impantanato in logiche politiche incapaci di affrontarne i problemi strutturali dell’economia e della società, ne “L’asino di Buridano” (ora ripubblicato dall’editore Guerini) Gianfranco Miglio immaginò una sua via d’uscita, essenzialmente basata su una struttura confederale e macro-regionale. L’Italia doveva lasciarsi alle spalle lo Stato nazionale e unitario di costruzione ottocentesca, affidarsi a logiche pattizie più coerenti con una società d’ispirazione democratica e liberale, ridefinirsi attorno ad aree omogenee per storia e struttura produttiva. Quindici anni sono pochi e sono tanti al tempo stesso. Se l’essenza della riflessione migliana resta valida, qualcosa merita indubbiamente di essere rivisto, aggiornato, ripensato. Non è in nessun modo realistica, in particolare, l’idea di una “via italiana” (o romana) alla soluzione dei problemi che affliggono il paese.
    Innamorato della dimensione anche tecnica e ingegneristica dei dispositivi costituzionali, Miglio ancora 15 anni fa pensava che non fosse da escludere l’ipotesi di una classe politica italiana disposta a suicidarsi nella sua dimensione nazionale per riscoprire una propria vocazione locale. Questa illusione ora non è più ammissibile e non vi sarà mai una riforma delle istituzioni, a Roma, che ponga fine a quel potere romano che vede politici settentrionali e meridionali cooperare con tanta passione. In secondo luogo, non è realistico prevedere un’Italia che tenga vivi tenui legami confederali, così come non era realistico immaginare che la Lituania o la Georgia potessero stare in una confederazione che avesse al centro la Russia. Se l’Italia perderà la configurazione prefettizia acquisita nel diciannovesimo secolo, al suo posto vi saranno piccole realtà tra loro assai slegate: non mancheranno certo accordi e alleanze (per giunta entro un condiviso quadro europeo), ma difficilmente vi sarà una struttura comune intesa in senso classico.
    Certo è impossibile sapere se l’Italia saprà ammettere il fallimento della sua unificazione o invece continuerà a illudersi che sia riformabile anche l’irriformabile. Ma se un giorno l’unità verrà messa in discussione, come giustamente Miglio invitava a fare, quella che ne conseguirà sarà una soluzione di tipo catalano. Qualche segnale va emergendo. A Trieste, ad esempio, c’è un movimento assai attivo che usa argomenti di diritto internazionale (legati all’amministrazione Onu delle zona A e B, create all’indomani del 1945) per rivendicare il diritto ad amministrarsi da sé: dando vita a un Lussemburgo di taglio adriatico e mitteleuropeo. Nel Tirolo meridionale, inoltre, va riemergendo la voglia di ricollegarsi a Innsbruck ed essere sempre più europei e sempre meno italiani. E spinte centrifughe sono visibili anche in Sardegna, in Lombardia e in altre parti del paese. Ma la potenziale Catalogna d’Italia è il Veneto.
    Miglio immaginava una soluzione confederata basata essenzialmente su tre grandi aree: Nord, Centro e Sud. Le premesse di un anti-Risorgimento vincente, invece, giungono da realtà più piccole e – ciò che è molto importante – dotate di una propria struttura istituzionale. Il Nord di Miglio, come la Padania vagheggiata dai leghisti, non ha confini e non ha un Parlamento. Non così è il Veneto, che dispone di un presidente, di un palazzo del governo e di una sua assemblea rappresentativa. E che nei mesi scorsi ha approvato una legge regionale che istituisce un referendum consultivo sull’indipendenza, che l’attuale esecutivo si è subito preoccupato di impugnare dinanzi alla Corte Costituzionale. Matteo Renzi vuole giocare alla Mariano Rajoy (niente “diritto di voto” per i catalani), e non alla David Cameron. Il referendum scozzese ha però rappresentato uno spartiacque nella storia europea: ha detto che l’unità nazionale di uno Stato dipende dalla volontà, e solo dalla volontà, delle comunità che ne fanno parte.
    In qualche modo, anche “retoricamente”, Miglio riteneva che l’Italia potesse ancora essere salvata soltanto disfacendola. Oggi le linee di tendenza ci dicono che l’alternativa è tra un’Italia che salva se stessa e condanna gli italiani, oppure un’Italia che si dissolve per dare alle diverse comunità italiane una qualche chance di farcela. E a questo punto c’è da domandarsi in che modo, nei mesi a venire, il potere romano saprà resistere dinanzi a chi chiede di mettere una scheda entro un’urna. La crisi spagnola in corso, che vede Madrid interpretare logiche neo-franchiste, attesta quanto sia difficile per gli Stati democratici opporsi ai movimenti indipendentisti che chiedono di andare alle urne e far decidere tutto con il voto. Le nostre istituzioni pubbliche sono macchine poderose che sottraggono diritti e risorse (ormai il 50% di quanto viene prodotto) legittimandosi con le procedure elettorali.
    Renzi può disporre di tanta parte dell’economia e della società italiane perché si sente legittimato dal voto. Ma se il voto è così nobile e potente, come può lo stesso Renzi negarne l’esercizio a quei veneti che vogliono interpellare la popolazione in merito alla scelta tra status quo e una Serenissima 2.0? Esattamente come quando Miglio scrisse quelle pagine, non è affatto da escludere l’ipotesi che nulla cambi e che il nostro resti il paese del gattopardismo. Ma l’Europa sta mutando: in Scozia già hanno votato e il 9 novembre catalano (la data fissata per un referendum che la Spagna considera illegale) è ormai alle porte. L’ipotesi che il Veneto sia l’anello che non tiene è assai seria. Ben poco c’è da aspettarsi dalla Corte Costituzionale e dal nostro ceto politico, ma vi sono processi che prendono luogo indipendentemente da queste cose. E talvolta prima di sprofondare nel nulla una società cerca di ripensarsi su basi nuove.
    (Carlo Lottieri, “E se rinunciassimo all’Italia? La profezia di Gianfranco Miglio”, da “Il Sussidiario” del 20 ottobre 2014).

    Quindici anni fa, in una fase storica che vedeva il paese ormai impantanato in logiche politiche incapaci di affrontarne i problemi strutturali dell’economia e della società, ne “L’asino di Buridano” (ora ripubblicato dall’editore Guerini) Gianfranco Miglio immaginò una sua via d’uscita, essenzialmente basata su una struttura confederale e macro-regionale. L’Italia doveva lasciarsi alle spalle lo Stato nazionale e unitario di costruzione ottocentesca, affidarsi a logiche pattizie più coerenti con una società d’ispirazione democratica e liberale, ridefinirsi attorno ad aree omogenee per storia e struttura produttiva. Quindici anni sono pochi e sono tanti al tempo stesso. Se l’essenza della riflessione migliana resta valida, qualcosa merita indubbiamente di essere rivisto, aggiornato, ripensato. Non è in nessun modo realistica, in particolare, l’idea di una “via italiana” (o romana) alla soluzione dei problemi che affliggono il paese.

  • Feltri: nazisti Ue, buttateci fuori così poi ridiamo noi

    Scritto il 24/10/14 • nella Categoria: idee • (8)

    La lettera minatoria che il presidente della Commissione Europea, Barroso, ha inviato a Palazzo Chigi è la dimostrazione plastica che Bruxelles considera l’Italia una scolaretta negligente e, pertanto, ritiene lecito tirarle le orecchie e prenderla a bacchettate con disinvoltura. Può darsi che in assoluto noi meritiamo simile trattamento, perché da anni giuriamo di stare in riga e invece, passando da Berlusconi a Monti e da Enrico Letta a Renzi, non abbiamo fatto altro che sbandare, come certificano i dati economici degli ultimi tre anni, andati via via peggiorando rispetto a quelli registrati in epoca di centrodestra. Ammesso e non concesso che siamo asini, non si capisce comunque perché l’Ue si arroghi il diritto di darci la pagella secondo pregiudizi, e non giudizi, che prescindono dalla conoscenza dei fatti. In altri termini, più crudi, se la Germania e i suoi camerieri scodinzolanti non apprezzano la politica romana sono liberi sì di criticarci e, al limite, di buttarci fuori dal club burocratico in cui guazzano, ma non di recapitarci una missiva dai toni ultimativi, sgradevoli, maleducati e arroganti, degni del Quarto Reich, anzi del Terzo.
    Essi ci hanno invitato perentoriamente a rispondere entro 24 ore al loro diktat in cui si dice che la nostra manovra (legge di stabilità) fa praticamente ribrezzo ed è quindi necessario correggerla, altrimenti… Altrimenti che? Cosa fate, ci cacciate? Provateci, fessacchiotti. Senza Italia nel mucchio selvaggio di 28 paesi, in cerca di una unione fittizia, salterebbe per aria non solo la Ue, ma anche la moneta unica difesa con spocchia dagli affamatori del popolo, cioè banchieri, finanzieri e loro utili idioti, tra cui economisti da talk show. Ecco perché ci auguriamo che Matteo Renzi (costretti ad affidarci a lui, già siamo nelle sue mani, oddio in che mani siamo), attingendo una tantum all’aulico linguaggio di Beppe Grillo, e rivolgendosi a Barroso e complici, pronunci il classico vaffanculo. Quando ci vuole, ci vuole.
    Non ci vengano a dire lorsignori di Berlino e Bruxelles che se disubbidiamo agli ordini saremo commissariati, come se il nostro paese fosse una colonia dei tognini. Manderanno in trasferta a Roma i commissari? Li accoglieremo nel migliore albergo. Va bene l’Excelsior di via Veneto? Ok. Qui rimpinzeremo gli ospiti di spaghetti all’amatriciana e di pizza e, l’indomani, li caricheremo sulle auto blu invendute rispedendoli a casa, oltre frontiera. Ce la siamo sempre cavata da soli nei momenti più tragici, compresi due dopoguerra mondiali e una tentata rivoluzione dei brigatisti rossi (indimenticabili quanto portentosi coglioni), vi pare che ci possano far tremare le ginocchia quattro contabili avvezzi a misurare la lunghezza degli zucchini e a disporre la distruzione delle arance siciliane? Andate all’inferno.
    Noi con la politica dei piccoli passi (da gambero) ci eravamo guadagnati una buona posizione, poi siete arrivati voi menagramo con l’euro fasullo e coniato non per aiutare il popolo europeo, che non esiste (esistono tanti popoli europei privi di un denominatore comune), e ci siamo lasciati infinocchiare, affascinati dall’idea di appartenere a una élite che avesse in tasca le stesse banconote. Prodi e Ciampi, nel predisporci a essere presi in giro, ci misero del loro, ma sorvoliamo per rispetto della terza età (cui mi avvicino). Constato che Renzi non usa le buone maniere ma preferisce la pressa delle rottamazioni rapide. Lo preghiamo vivamente di non intimidirsi davanti a un portoghese (vocabolo che da noi ha un significato giustamente sinistro) e di apprestarsi piuttosto a mandarlo a quel paese, il suo, dove troverà altri portoghesi più malleabili di noi. Chiaro il concetto? Caro presidente Renzi, lei che ha fatto fuori le cariatidi del Pd in pochi mesi, non faticherà a far secco anche questo intruso, Barroso, un nome che evoca quello di un calciatore, anzi di vari calciatori, tutti modesti.
    Ci aspettiamo da lei un atteggiamento dignitoso, un atto di coraggio che riaffermi la nostra sovranità nazionale a costo di sfidare il Quarto Reich che, senza di noi, farebbe la fine del Terzo, sul serio. Un’ultima osservazione prima di chiudere. L’Ue si è risentita perché Padoan, ministro dell’economia, ha pubblicato la lettera minatoria sul sito del proprio ministero. Ma da quando in qua gli atti ufficiali in democrazia rimangono segreti? Ha fatto benissimo Padoan a divulgarla. Chi lancia il sasso e nasconde la mano è un vile; chi ambisce perfino a nascondere il sasso è un pistola. P.S.: Presidente Renzi, le rammento che nel 2011 Berlusconi ricevette una lettera dalla Ue e, non avendola rispedita al mittente con un circostanziato vaffa, fu sfanculato. Politico avvisato, mezzo salvato.
    (Vittorio Feltri, “Buttateci fuori che poi ridiamo noi”, da “Il Giornale” del 24 ottobre 2014).

    La lettera minatoria che il presidente della Commissione Europea, Barroso, ha inviato a Palazzo Chigi è la dimostrazione plastica che Bruxelles considera l’Italia una scolaretta negligente e, pertanto, ritiene lecito tirarle le orecchie e prenderla a bacchettate con disinvoltura. Può darsi che in assoluto noi meritiamo simile trattamento, perché da anni giuriamo di stare in riga e invece, passando da Berlusconi a Monti e da Enrico Letta a Renzi, non abbiamo fatto altro che sbandare, come certificano i dati economici degli ultimi tre anni, andati via via peggiorando rispetto a quelli registrati in epoca di centrodestra. Ammesso e non concesso che siamo asini, non si capisce comunque perché l’Ue si arroghi il diritto di darci la pagella secondo pregiudizi, e non giudizi, che prescindono dalla conoscenza dei fatti. In altri termini, più crudi, se la Germania e i suoi camerieri scodinzolanti non apprezzano la politica romana sono liberi sì di criticarci e, al limite, di buttarci fuori dal club burocratico in cui guazzano, ma non di recapitarci una missiva dai toni ultimativi, sgradevoli, maleducati e arroganti, degni del Quarto Reich, anzi del Terzo.

  • Renzi: basta democrazia, frena la crescita. E noi, zitti?

    Scritto il 24/10/14 • nella Categoria: idee • (2)

    «Ci sono cose che vanno cambiate in modo quasi violento, nel senso del procedimento, non della via men che pacifica. Ci vuole un cambiamento radicale, strutturale, profondo su tutto». Per una volta ci verrebbe di dire che siamo d’accordo con Matteo Renzi. E siamo stupiti dal fatto che, sui giornali, nessuno abbia commentato, neanche di sfuggita, il “salto di qualità” nella retorica del cosiddetto premier. Evocare la violenza, infatti, di solito attira strali feroci, alte lamentazioni, lunghe tirate moralistiche. Se poi a farlo è un presidente del Consiglio “paracadutato” in quel ruolo dallo spirito divino (o più probabilmente da quello finanziario-massonico), che vuole stravolgere la Costituzione con il consenso di Hindenburg-Napolitano, che si attira ogni giorno una nuova accusa di tentazioni autoritarie (ci è arrivato persino Bersani, ormai), l’evento meriterebbe almeno una piccola riflessione. Proviamo a farla noi. Come scrive anche Loretta Napoleoni parlando del capitalismo nel suo complesso, non della sola Italia, «stiamo vivendo in un sistema che non funziona più e come tutti i sistemi che non funzionano devono autodistruggersi. Non c’è una soluzione o un nuovo modello».
    Cosa vogliamo dire? Che questo sistema – aggravato qui in Italia da storiche “anomalie” – è assolutamente indifendibile e chiunque si ostini a “conservarne” pezzi passa facilissimamente dalla parte del torto. La situazione sta diventando invivibile, al di là di ogni possibile sopportazione, persino per quella parte di popolazione – il cosiddetto “ceto medio” che vive di stipendio e in una casa di proprietà – che di solito veniva portato ad esempio di benessere e virtù civiche, da imitare e porsi come obiettivo di autorealizzazione. È lo stesso che ora viene invece indicato come “egoista”, anacronistico, conservatore (per l’appunto), in quanto cerca – molto debolmente – di non perdere tutto e tutto insieme. Bisogna dire che i reazionari sanno fare benissimo il loro mestiere. Non altrettanto si può dire dei comunisti, e non solo in questo paese. La “difesa dei diritti” – sacrosanta – è il minimo sindacale, ma parla ormai a un blocco sociale in via di estinzione se non si costruisce una prospettiva di cambiamento generale, capace di accogliere i bisogni e gli interessi di strati sociali già da venti anni messi fuori dal ciclo “virtuoso” lavoro-contrattazione-salario-diritti.
    La prospettiva “moderata” fin qui egemone anche nella sinistra cosiddetta radicale (altrimenti detta “contrattazione a perdere”, o “menopeggismo”) è arrivata a fine corsa. Può solo esibirsi in contorsioni ripetitive, neppure più gratificate da un risultato elettorale positivo. Quando Renzi dice di voler fare il Jobs Act per «occuparsi di chi non si è mai occupato nessuno», dei precari e dei co.co.co., punta esplicitamente a fare delle vittime principali dei governi degli ultimi venti anni la massa di manovra per un golpe, schiera muta cui viene chiesto soltanto consenso al “cambiamento”. Che lui stesso definisce “violento”. Ma con una “procedura pacifica”. Che vuol dire “cambiamento violento con procedimento pacifico”? È un ossimoro, una contraddizione in termini. E quando c’è una contraddizione in termini siamo sicuramente di fronte a una menzogna gigantesca. Ricordate la “guerra umanitaria”, le “truppe di pace”, ecc? Diciamola così: la violenza nell’azione di governo è certa. Punta a distruggere ceti sociali, istituzioni, meccanismi di selezione della rappresentanza, culture, valori fondamentali. È insieme economica, politica e anche ideologica. Resterà pacifica nelle forme solo se non incontrerà resistenza.
    Sarà una violenza dall’alto, feroce nei fatti e “promettente” nella retorica. Come la cinematografia dei “telefoni bianchi” sotto il fascismo mentre si preparava il macello della Seconda Guerra Mondiale, si riempivano le galere di antifascisti o li si faceva assassinare persino all’estero. Ci stanno dicendo chiaro e forte “basta con la democrazia, ostacola la crescita”. E non saranno molti quelli che si batteranno per la prima, come stiamo vedendo. Qui tocca a noi. Sia chiaro: “noi” come classe, sindacalismo conflittuale, soggettività politiche. Vanno cancellati i ragionamenti soltanto tattici, di breve momento, finalizzati all’autoconservazione dei piccoli gruppi, alla disperata ricerca di qualche via di ritorno a una “normalità” che non solo è fattualmente impossibile, ma ti iscrive di fatto nelle fila dei “conservatori”, inutili a sé e agli altri. Bisogna resistere qui e ora, certamente, ma pensare sui tempi storici, individuare e nominare la prospettiva. Il sistema non tiene più, i reazionari alla Renzi stanno indicando una direzione di “cambiamento” presentandola come l’unica possibile. Siamo capaci di indicarne una opposta?
    (Dante Barontini, “La violenza di regime”, da “Contropiano” del 24 settembre 2014).

    «Ci sono cose che vanno cambiate in modo quasi violento, nel senso del procedimento, non della via men che pacifica. Ci vuole un cambiamento radicale, strutturale, profondo su tutto». Per una volta ci verrebbe di dire che siamo d’accordo con Matteo Renzi. E siamo stupiti dal fatto che, sui giornali, nessuno abbia commentato, neanche di sfuggita, il “salto di qualità” nella retorica del cosiddetto premier. Evocare la violenza, infatti, di solito attira strali feroci, alte lamentazioni, lunghe tirate moralistiche. Se poi a farlo è un presidente del Consiglio “paracadutato” in quel ruolo dallo spirito divino (o più probabilmente da quello finanziario-massonico), che vuole stravolgere la Costituzione con il consenso di Hindenburg-Napolitano, che si attira ogni giorno una nuova accusa di tentazioni autoritarie (ci è arrivato persino Bersani, ormai), l’evento meriterebbe almeno una piccola riflessione. Proviamo a farla noi. Come scrive anche Loretta Napoleoni parlando del capitalismo nel suo complesso, non della sola Italia, «stiamo vivendo in un sistema che non funziona più e come tutti i sistemi che non funzionano devono autodistruggersi. Non c’è una soluzione o un nuovo modello».

  • Gallino: dittatura Ue, cosa aspettiamo a denunciarla?

    Scritto il 22/10/14 • nella Categoria: idee • (7)

    «Quel che sta accadendo è una rivoluzione silenziosa», annunciò José Manuel Barroso a Firenze nel 2010: «Un più forte governo dell’economia realizzato a piccoli passi». Gli Stati membri «hanno accettato di attribuire importanti poteri alle istituzioni europee riguardo alla sorveglianza, e un controllo molto più stretto delle finanze pubbliche». Barroso non parlava a caso, avverte Luciano Gallino: sin dal 2010, la Ue e il Consiglio Europeo avevano avviato un piano di trasferimento di poteri dagli Stati membri alle principali istituzioni comunitarie, che per la sua ampiezza «rappresenta una espropriazione inaudita, non prevista nemmeno dai trattati Ue, della sovranità degli Stati stessi». Non è solo questione di economia: si prevedeva l’intervento d’autorità, parte di funzionari di Bruxelles, per sanzionare chi uscisse rai ranghi, cioè dagli “indicatori” «elaborati secondo criteri sottratti a ogni discussione». Piano perfettamente eseguito: «Il ministero delle Finanze degli Stati membri potrebbe essere eliminato: del bilancio se ne occupa la Commissione Europea».
    Il culmine del sequestro della sovranità economica e politica dei nostri paesi da parte della Ue, scrive Gallino su “Repubblica”, è stato toccato nel 2012 con l’imposizione del Fiscal Compact, che prevede l’inserimento nella legislazione del pareggio di bilancio, “preferibilmente in via costituzionale”. «I nostri parlamentari, non si sa se più incompetenti o più allineati sulle posizioni di Bruxelles, hanno scelto la strada del maggior danno – la modifica dell’articolo 81 della Costituzione». Sequestri di sovranità e potere: «Non sono motivati, come sostengono le istituzioni europee, dalla necessità di combattere la crisi finanziaria». Per Gallino, i tecnocrati dell’Ue, del Fmi e della Bce sembrano «dilettanti allo sbaraglio», visto che i loro diktat hanno fatto esplodere il debito pubblico nell’Eurozona, salito dal 66% del 2007 all’86% del 2011. In realtà non è il super-potere “sbagli”. La realtà è ancora peggiore: il super-potere centrale mente, sapendo di mentire. Perché il suo piano è oligarchico: colpire lo Stato fino a smantellarlo, per lasciare senza più difese lavoratori, aziende e cittadini.
    La Troika, infatti, imputa la crisi economica al «peso eccessivo della spesa sociale» nonché al «costo eccessivo del lavoro». La loro unica ricetta? Tagliare. Christine Lagarde, direttrice del Fmi, insiste sulla necessità di tosare le pensioni italiane, visto che rappresentano la maggior spesa dello Stato, «dando mostra di ignorare, la dotta direttrice, che i 200 miliardi della ordinaria spesa pensionistica sono soldi che passano direttamente dai lavoratori in attività ai lavoratori in quiescenza». Il trasferimento all’Inps da parte dello Stato, circa 90 miliardi l’anno, «non ha niente a che fare con la spesa pensionistica, bensì con interventi assistenziali che in altri paesi sono a carico della fiscalità generale», precisa Gallino. Il problema è che «dinanzi ai diktat di Bruxelles, il governo italiano in genere batte i tacchi e obbedisce». Le prescrizioni contenute nella lettera del 2011 con cui Olli Rhen, allora commissario all’economia dell’Ue, esigeva riforme dello Stato sociale, sono state eseguite. La “riforma” del lavoro, il Jobs Act di Renzi, «potrebbe essere stata scritta a Bruxelles». Morale: «Nessuno di questi interventi ha avuto o avrà effetti positivi per combattere la crisi; in realtà l’hanno aggravata».
    Combattere la crisi, aggiunge Gallino, non è nemmeno il loro obiettivo: «Lo scopo perseguito dalle istituzioni Ue è quello di assoggettare gli Stati membri alla “disciplina” dei mercati. Oltre che, più in dettaglio, convogliare verso banche e compagnie di assicurazione il flusso dei versamenti pensionistici; privatizzare il più possibile la sanità; ridurre i lavoratori a servi obbedienti dinanzi alla prospettiva di perdere il posto, o di non averlo». Il vero nemico delle istituzioni Ue? «E’ lo stato sociale e l’idea di democrazia su cui si regge: è questo che esse sono volte a distruggere». L’Unione Europea sembra ormai diventata «una dittatura di finanza e grandi imprese, grazie anche all’aiuto di governi collusi o incompetenti». Si parla di “fine della democrazia” nella Ue, di “democrazia autoritaria” o “dittatoriale” o di “rivoluzione neoliberale” condotta per attribuire alle classi dominanti il massimo potere economico. «Il termine potrà apparire troppo forte», ma basta dare un’occhiata ai fatti: «I poteri degli Stati membri, di cui le istituzioni europee si sono appropriati, sono superiori a quelli dei quali gode in Usa il governo federale nei confronti degli Stati federati».
    Di fatto, continua Gallino, «le persone che decidono quali poteri lasciarci o toglierci, sono sì e no alcune dozzine: sei o sette commissari della Ce su trenta; i componenti del Consiglio Europeo (due dozzine di capi di Stato e di governo); i membri del direttivo della Bce; i capi del Fmi, e pochi altri». Tutti, beninteso, sono «immersi in trattative con esponenti del mondo politico, finanziario e industriale», che dettano loro le nuove regole a cui i cittadini dovranno sottoporsi. «Non esiste alcun organo elettivo – nemmeno il Parlamento Europeo – che possa interferire con quanto tale gruppo decide». Sicché, «pare evidente che la Ue abbia smesso di essere una democrazia, per assomigliare sempre più a una dittatura di fatto, la cui attuazione – come vari giuristi hanno messo in luce – viola perfino i dispositivi già scarsamente democratici dei trattati istitutivi».
    Al limite, «la dittatura Ue potrebbe essere tollerabile se avesse conseguito successi economici: italiani e tedeschi hanno applaudito i loro dittatori per anni perché procuravano lavoro e prestazioni da stato sociale. Ma le politiche economiche imposte dal 2010 in poi hanno provocato solo disastri». Una tragedia politica, prima ancora che economica: la denuncia del “golpe”, forte e chiara, non è mai stata pronunciata da nessun soggetto politico con visibilità istituzionale, ma solo da analisti indipendenti, Paolo Barbard fra i primi. Si domanda Gallino: «Quali sciagure debbono ancora accadere, quali insulti l’ideale democratico deve ancora subire, prima che si alzi qualche voce – meglio se sono tante – per dire che di questa Ue dittatoriale ne abbiamo abbastanza, e che se uscirne oggi può costare troppo caro è necessario rivedere i trattati, prima di assicurarci decenni di recessione e di servitù politica ed economica?».

    «Quel che sta accadendo è una rivoluzione silenziosa», annunciò José Manuel Barroso a Firenze nel 2010: «Un più forte governo dell’economia realizzato a piccoli passi». Gli Stati membri «hanno accettato di attribuire importanti poteri alle istituzioni europee riguardo alla sorveglianza, e un controllo molto più stretto delle finanze pubbliche». Barroso non parlava a caso, avverte Luciano Gallino: sin dal 2010, la Ue e il Consiglio Europeo avevano avviato un piano di trasferimento di poteri dagli Stati membri alle principali istituzioni comunitarie, che per la sua ampiezza «rappresenta una espropriazione inaudita, non prevista nemmeno dai trattati Ue, della sovranità degli Stati stessi». Non è solo questione di economia: si prevedeva l’intervento d’autorità, parte di funzionari di Bruxelles, per sanzionare chi uscisse rai ranghi, cioè dagli “indicatori” «elaborati secondo criteri sottratti a ogni discussione». Piano perfettamente eseguito: «Il ministero delle Finanze degli Stati membri potrebbe essere eliminato: del bilancio se ne occupa la Commissione Europea».

  • L’arsenale della democrazia fabbrica guerre senza fine

    Scritto il 21/10/14 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Ormai comunemente si osserva che l’arsenale della democrazia continua a intervenire con le sue guerre, coinvolgendo i suoi alleati subalterni, per buttare giù soggetti politici che esso stesso aveva messo su, armandoli e finanziandoli. Pensiamo ai Talebani, a Saddam Hussein, a Osama Bin Laden, ai miliziani dell’Isis. Queste odierne operazioni in due fasi, costruzione e demolizione, sono la continuazione di ciò che l’arsenale della democrazia aveva fatto col nazismo, sostenendolo finanziariamente persino in tempo di guerra attraverso partecipazioni societarie, e combattendolo nella seconda fase con grande dispendio di mezzi, in larga parte addebitati agli alleati. È stato infatti grazie all’indebitamento abissale degli alleati e poi delle potenze sconfitte nella Seconda Guerra Mondiale, che l’arsenale della democrazia ha assunto l’egemonia di gran parte del pianeta, facendosi suo fornitore di credito e, con Bretton Woods, di moneta di riserva.
    In Ucraina avviene oggi qualcosa di simile: l’arsenale della democrazia dapprima sostiene una sorta di colpo di stato contro un regime eletto, poi incoraggia una deriva anti-russi a Kiev, usa ogni mezzo per fare della Russia un nemico e una minaccia militari per l’Europa occidentale, imponendoci di adottare contro Mosca sanzioni autolesionistiche per noi, che però ci rendono più dipendenti dall’arsenale della democrazia per le forniture energetiche, quindi arricchiscono l’arsenale della democrazia in termini di profitti ed egemonia; al contempo, annuncia che potrà in futuro contribuire alle spese della Nato in misura ridotta, quindi gli alleati europei dovranno metterci più soldi, ossia dovranno comprare più armamenti dall’arsenale della democrazia, il quale è di gran lunga il principale produttore di armamenti, con una larga quota del Pil e dell’occupazione dipendente dalla produzione e… dal consumo di questi articoli; così contribuiranno alla prosperità della sua industria bellica a spese dei propri cittadini contribuenti.
    L’arsenale della democrazia ha una necessità oggettiva e strutturale di agire così, per rimanere egemone e per assicurare grandi profitti al suo complesso finanziario e industriale-militare, e salario ai suoi addetti. E per continuare a imporre la sua ultra-inflazionata valuta come valuta internazionale di riserva e pagamenti soprattutto delle materie prime, con cui comperare tutto, nel mondo, continuando a stampare carta. Ha necessità di essere fabbrica di guerre, tiranni e terrori. La sua fisiologia richiede una continua domanda di armamenti, quindi continue guerre, tensioni, conflitti nel mondo. I suoi governi assicurano e producono queste condizioni. Nel corso della sua storia, l’arsenale della democrazia è quasi sempre stato impegnato in qualche guerra. Il Papa non parla mai di questa causa di guerre e violenza. È una necessità oggettiva, che non ha implicazioni morali. Nessuno va condannato. Finché resterà l’arsenale della democrazia, avremo guerre senza fine. Dopo, chissà.
    (Marco Della Luna, “Arsenale della democrazia e fabbrica delle guerre”, dal blog di Della Luna del 23 settembre 2014).

    Ormai comunemente si osserva che l’arsenale della democrazia continua a intervenire con le sue guerre, coinvolgendo i suoi alleati subalterni, per buttare giù soggetti politici che esso stesso aveva messo su, armandoli e finanziandoli. Pensiamo ai Talebani, a Saddam Hussein, a Osama Bin Laden, ai miliziani dell’Isis. Queste odierne operazioni in due fasi, costruzione e demolizione, sono la continuazione di ciò che l’arsenale della democrazia aveva fatto col nazismo, sostenendolo finanziariamente persino in tempo di guerra attraverso partecipazioni societarie, e combattendolo nella seconda fase con grande dispendio di mezzi, in larga parte addebitati agli alleati. È stato infatti grazie all’indebitamento abissale degli alleati e poi delle potenze sconfitte nella Seconda Guerra Mondiale, che l’arsenale della democrazia ha assunto l’egemonia di gran parte del pianeta, facendosi suo fornitore di credito e, con Bretton Woods, di moneta di riserva.

  • Orsi: la disperazione di chi vorrebbe uccidere Putin

    Scritto il 18/10/14 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    «La demonizzazione di Putin non è una politica – dice Kissinger – ma un alibi per l’assenza di una politica». Per quanto autorevole sia la fonte, sostiene Roberto Orsi, analista internazionale e docente all’università di Tokyo, l’ossessione collettiva contro il presidente russo ha raggiunto il record durante l’attuale crisi geopolitica in Ucraina: tra le élite occidentali si sta facendo strada l’idea che, se Putin potesse incontrare sul suo cammino, anche tramite mezzi violenti, una fine prematura, questo risolverebbe la crisi ucraina e il “problema” della rinascita della Russia. Illuminanti le parole di Herbert Meyer, già dirigente della Cia, secondo cui il capo del Cremlino «è una grave minaccia per la pace mondiale», quindi un criminale. Attenzione: «I teppisti come Putin non si fermano davanti a punizioni o restrizioni», come le sanzioni Ue, «hanno un’alta tolleranza al dolore e non cambiano il loro comportamento, vanno avanti finché qualcuno non gli assesta un colpo mortale». Quindi, i russi dovrebbero sbarazzarsi di Putin, magari «tirandolo fuori dal Cremlino in modo orizzontale, con un foro di proiettile dietro la testa», soluzione che «andrebbe bene anche a noi».
    Il pensiero di Meyer, scrive Orsi in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, non è che uno sfogo esplicito e definitivo dopo anni di incessante propaganda occidentale: Putin come l’assassino di Anna Politkovskaya e dell’ex 007 Alexander Litvinenko, Putin come persecutore del gruppo rock delle “Pussy Riot”, Putin l’“omofobo”, Putin che «vive in un altro mondo» (secondo Angela Merkel), Putin che è chiaramente «un lato sbagliato della storia» (secondo Barack Obama). Insomma: Putin il malato di mente, il “nuovo Hitler”, come già Saddam Hussein. L’Anticristo, simbolo del male assoluto, annunciatore dell’imminente fine del mondo. «Molti sono stati gli europei etichettati come emissari del diavolo: Napoleone Bonaparte, Federico II di Prussia e Pietro il Grande», scrive Orsi. «L’identificazione di Putin come manifestazione di un male assoluto metafisico, che giustifica il ricorso a misure estreme, invece di essere semplicemente accennata attraverso semplici metafore e ridotta a una banale questione propagandistica di bassa lega, dovrebbe diventare il centro di una più profonda discussione».
    Il caso Putin evoca la pratica dell’omicidio politico, in tempo di pace oppure in guerra. La “decapitazione” del leader avversario, ovviamente, finisce sempre per «legittimare atti di ritorsione, aprendo scenari a spirale di violenze indiscriminate con conseguenze imprevedibili». In Occidente, continua Orsi, «c’è stata una sorprendente varietà di opinioni sulla corretta conduzione della “guerra giusta”». Per esempio, «le guerre tra nazioni cristiane dovevano essere altamente regolamentate, mentre erano ammessi diversi gradi di guerra senza restrizioni contro gli infedeli». L’assassinio del leader del nemico «sembra essere un atto di disperazione, di solito associato a guerre genocide definitive». Mentre nasceva una moderna concezione di politica internazionale e globale, che prendeva le distanze dalla dicotomia tra cristiani e non-cristiani, nel saggio “La pace perpetua” Immanuel Kant mise in guardia la società del suo tempo contro questo tipo di pratiche: il filosofo auspicò il divieto, nelle guerre, di tutte quelle pratiche che potrebbero rendere impossibile la reciproca fiducia nei futuri accordi di pace, come appunto l’assassinio, l’avvelenamento, la violazione della capitolazione, l’istigazione al tradimento.
    «Essere contrari alla demonizzazione del nemico e a un suo assassinio a sangue freddo non significa sostenere la totale assenza di odio o di conflitto», scrive Orsi. «Al contrario, secondo una vecchia teoria purtroppo troppo poco apprezzata, proprio la guerra senza restrizioni (fin troppo familiare) ad ogni forma di lotta, è in sé contraddittoria, poiché conduce ad una forma di guerra totale». E’ possibile evitare che uno scontro sia completamente distruttivo? «Il punto è quello di limitare e contenere il conflitto», conferendogli una legittimazione all’interno di argini precisi: «Ci può essere inimicizia tra la Nato e la Russia, ma non vi è alcuna ragione per trasformarla in una guerra totale globale». Proprio in questo quadro, aggiunge Orsi, «la denigrazione del nemico diminuisce la dignità di chi lo denigra e il valore dei suoi sforzi durante il conflitto». Invece di inventare nuove rappresentazioni denigratorie del nemico, «sarebbe bene non scendere in queste forme di demonizzazione, perché il compromesso politico e il dialogo diplomatico restino sempre un’opzione possibile». In che non significa sradicare l’ostilità, ma gestirla. Chi invece cede alla violenza della degradazione verbale, si condanna da sé: «Mentre Putin costituisce certamente un avversario temibile per le élite che attualmente governano il mondo occidentale, è proprio per questo che dovrebbero apprezzare l’occasione storica di poter dimostrare il loro valore».
    Una seconda linea di pensiero, continua Orsi, fa riferimento alla tradizione intellettuale che permette – o addirittura raccomanda – l’assassinio di un leader politico ogni volta che questi imponga un dominio tirannico. Storia lunga, da Pisistrato a Giulio Cesare. «Tuttavia, il tirannicidio solleva per lo meno due questioni: la prima riguarda la definizione stessa della tirannia, la seconda il suo rapporto con la politica internazionale». Tirannia, dittatura, autocrazia, autoritarismo, dispotismo, assolutismo: «Sono cose tra loro diverse, nonostante alcune comuni aree di sovrapposizione». La tirannia è «una forma autocratica degenerata, in cui il potere è esercitato contro il principio del bene comune, al di fuori e contro le regole costituzionali stabilite, e con una sistematica crudeltà nei confronti dei propri sudditi». Ora, non c’è dubbio che Putin sia l’individuo più potente nella Federazione Russa, ma questo non basta a farne a un “tiranno”. Al contrario, è il politico che ha risollevato il paese dopo il crollo dell’Urss e la “colonizzazione” occidentale.
    Certo, la nuova Russia di Putin resta «uno Stato autoritario, la cui classe dirigente – un’alleanza in qualche modo eterogenea di intelligence, militari, leader religiosi, magnati e influenti personaggi locali – è sufficientemente coesa da mantenere un efficace controllo del paese, ma non abbastanza ampia da promuovere una più sofisticata prospettiva pluralistica». Tuttavia, aggiunge Orsi, «nessuno sta dicendo che Putin sta esercitando il suo potere al di fuori del quadro costituzionale dello Stato russo, e tantomeno tenendo in ostaggio l’intera popolazione attraverso una violenza sadica e onnipresente». Inoltre, «Putin gode di un autentico sostegno popolare, pur tenendo conto dello stretto controllo dei principali mezzi d’informazione da parte del Cremlino». Senza contare che il presidente «rappresenta una figura moderata nel panorama della politica russa: la sua estromissione probabilmente aprirebbe la strada ad altre figure politiche significativamente più radicali».
    Infine, la responsabilità morale e politica della “detronizzazione” del leader «non può che essere presa da coloro che sono soggetti al potere tirannico, non da soggetti esterni». Sicché, «fatta esclusione del caso deprecabile di una guerra totale, non vi è alcun motivo per considerare tale atto come un’azione politica raccomandabile». Riguardo alla tentazione di accelerare l’eliminazione di Putin, quindi, «ci sono tanti motivi per respingere questo flusso di pensieri e ritenerli gravemente controproducenti». La demonizzazione del presidente russo? «Non è una politica sana, né una pratica moralmente onorevole». Quanto alla venuta dell’Anticristo e alla fine del mondo, «nessuno ne conosce l’ora». Per dirla con l’evangelista Matteo: «Di quel giorno e ora nessun uomo sa, né gli angeli del Cielo, né il Figlio, ma solo il Padre».

    «La demonizzazione di Putin non è una politica – dice Kissinger – ma un alibi per l’assenza di una politica». Per quanto autorevole sia la fonte, sostiene Roberto Orsi, analista internazionale e docente all’università di Tokyo, l’ossessione collettiva contro il presidente russo ha raggiunto il record durante l’attuale crisi geopolitica in Ucraina: tra le élite occidentali si sta facendo strada l’idea che, se Putin potesse incontrare sul suo cammino, anche tramite mezzi violenti, una fine prematura, questo risolverebbe la crisi ucraina e il “problema” della rinascita della Russia. Illuminanti le parole di Herbert Meyer, già dirigente della Cia, secondo cui il capo del Cremlino «è una grave minaccia per la pace mondiale», quindi un criminale. Attenzione: «I teppisti come Putin non si fermano davanti a punizioni o restrizioni», come le sanzioni Ue, «hanno un’alta tolleranza al dolore e non cambiano il loro comportamento, vanno avanti finché qualcuno non gli assesta un colpo mortale». Quindi, i russi dovrebbero sbarazzarsi di Putin, magari «tirandolo fuori dal Cremlino in modo orizzontale, con un foro di proiettile dietro la testa», soluzione che «andrebbe bene anche a noi».

  • Renzi, ovvero: la sinistra fa ciò che la destra minaccia

    Scritto il 17/10/14 • nella Categoria: idee • (1)

    «La destra fa ciò che la sinistra promette», recitava negli anni Ottanta una pubblicità. Era quella di un amaro, che trasformava gente comune in testimonial del prodotto, con frasi a effetto. Una simpatica provocazione. Ma oggi, nell’Era Renzi, «possiamo capire quanta verità vi fosse in quello slogan», dice Angelo d’Orsi. «Basta rovesciarlo: “La sinistra fa ciò che la destra minaccia”». Il già sindaco fiorentino, poi leader del Pd e subito dopo capo del governo nazionale, «continuando a conservare quella poltrona da cui comanda caporalescamente il partito», sta realizzando il pacchetto delle “riforme” che, «come recita un mantra insopportabile, “l’Europa ci chiede”». Riforme? «Sono le stesse che aveva provato a portare avanti l’ex cavalier Berlusconi, incontrando sul suo cammino ben altri ostacoli: non solo il sindacato, a dispetto della corrività di Cisl e soprattutto Uil, ma una larga parte del Partito Democratico. E una vastissima opposizione sociale». Ora, finalmente al potere e avendo con sé i 4/5 del suo partito, Renzi «procede spedito verso la Terza Repubblica».
    Lo stile è tutto, scrive d’Orsi su “Micromega”, e la smart-politics del giovinotto in camicia bianca, «che mangia e distribuisce coni-gelato, che si rovescia in testa secchiate d’acqua», tra «battute che oscillano dalla noncuranza ostentata alla minaccia neppur velata», dicono molto del contenuto della sua politica, tradotta nell’“agenda” – quella dei 100 giorni, poi dei 1.000 giorni e infine chissà, «dell’intero millennio, una volta realizzata la base di questa orrenda “nuova Italia” che costui vorrebbe costruire». Una Italia forgiata a colpi di tweet lunghi 140 caratteri, un paese che deve archiviare “la cultura del piagnisteo”. Ostentato e reiterato ottimismo di facciata: anche in questo, il giovin Matteo si rivela berlusconiano. E l’insistenza sul tasto “ridurremo le tasse” – proprio mentre la pressione fiscale aumenta – è nel cuore della politica degli annunci, da Silvio a Matteo. «Tutti ricorderanno come nei mesi scorsi il Nostro abbia ripetutamente irriso i gufi, coloro che “frenano”, mentre una della sue fedelissime, la più nota delle bionde Renzi-girls, è diventata celebre per la battuta contro i “professoroni”, immancabile segnale di ogni forma di cultura parafascista».
    Qualsivoglia accenno di dissenso, continua d’Orsi, «viene bollato per tradimento del progetto patriottico: siamo alla campagna contro i “disfattisti” che in seno alla Prima Guerra Mondiale ne fu uno dei portati più nefasti». Il fascismo storico? «Fu la più tragica delle sue conseguenze». Ma non usa solo il tasto imperioso, il nuovo astro della politica nazionale: «Pretende di sommare la sagacia politica di un Cavour e la temerarietà di un Garibaldi, il decisionismo di Craxi e il battutismo di Berlusconi, per realizzare il suo “sogno”, parola che ricorre spesso nell’eloquio del Capo». Retorica combinata «con un beffardo sarcasmo da quattro soldi, che riesce a raggiungere vette inquietanti, da piccolo duce». Siamo passati dal volgare «Fassina chi?», rivolto al suo compagno di partito nonché membro di governo, all’irridente «brrr…, che paura!», in risposta alle riserve espresse dall’Anm, l’associazione nazionale magistrati, sul progetto di “riforma della giustizia”. Brr… che paura? «Suona semplicemente mussoliniano».
    «Dietro il simpatico ragazzo tutto pepe – continua d’Orsi – affiora nei momenti cruciali il bulletto di quartiere, con ambizioni smodate». Messaggio chiaro: a nessuno sarà permesso di ostacolare la sua irresistibile marcia. «Il governo va avanti», ripete. «Non ci lasciamo intimidire», dice, rivolto alle proteste degli agenti di polizia. «Non ci fermeranno». «Nelle orecchie risuona il famigerato “Noi tireremo diritto”», scrive d’Orsi. «In questo stile che rivela la peggiore eredità di Craxi e di Berlusconi fuse insieme, ma immessa nel corpo della forza politica che era stata la principale avversaria dell’uno come dell’altro, ciò a cui stiamo assistendo è un processo di evidenza purtroppo chiarissima: ciò che il barzellettiere di Arcore, con la sua piacioseria grottesca, con le pacche sulle spalle (maschili) e quelle sui culi (femminili) aveva annunciato, per un ventennio, senza riuscire ad attuarlo in nulla (salvo la “riforma Gelmini”, che infatti ha distrutto il sistema universitario), è finalmente in corso d’opera, grazie al suo avversario politico, che, in effetti, ha con lui concordato ogni punto sostanziale del programma».
    Patto del Nazareno: «Un programma di devastazione dell’impianto istituzionale della democrazia italiana e del welfare state, che è poi il cuore della “postdemocrazia”: il punto centrale di ogni disegno di “cambiamento”». Tradotto: «Eliminare garanzie, sottrarre diritti, ridurre margini di azione a chi la pensa diversamente, confinare in ghetti le residue opposizioni, e soprattutto togliere di mezzo quel fastidioso ostacolo che è la Costituzione repubblicana». E quindi: «Lavoro, scuola, giustizia, infrastrutture, difesa, cultura, politica estera». Il programma del governo Renzi? «E’ solo l’aggiornamento e lo sviluppo del programma degli esecutivi precedenti, da Berlusconi ai pallidi governi Monti-Letta». Proprio vero, allora: “La sinistra (italiana) fa ciò che la destra minaccia”. «Dal che si ha l’estrema, mesta conferma che il Pd oggi è una forza politica organicamente di destra», chiosa d’Orsi. Quindi, bisogna sapere che «qualsiasi ipotesi di politica alternativa» non può più pensare a un dialogo con quello che fu “il partito di Gramsci, Togliatti e Berlinguer”. Alternativa radicale? Buio pesto: nel passato recente c’è solo «la vicenda desolante della “Lista Tsipras”», ennesimo “voto inutile” in memoria della sinistra che fu.

    «La destra fa ciò che la sinistra promette», recitava negli anni Ottanta una pubblicità. Era quella di un amaro, che trasformava gente comune in testimonial del prodotto, con frasi a effetto. Una simpatica provocazione. Ma oggi, nell’Era Renzi, «possiamo capire quanta verità vi fosse in quello slogan», dice Angelo d’Orsi. «Basta rovesciarlo: “La sinistra fa ciò che la destra minaccia”». Il già sindaco fiorentino, poi leader del Pd e subito dopo capo del governo nazionale, «continuando a conservare quella poltrona da cui comanda caporalescamente il partito», sta realizzando il pacchetto delle “riforme” che, «come recita un mantra insopportabile, “l’Europa ci chiede”». Riforme? «Sono le stesse che aveva provato a portare avanti l’ex cavalier Berlusconi, incontrando sul suo cammino ben altri ostacoli: non solo il sindacato, a dispetto della corrività di Cisl e soprattutto Uil, ma una larga parte del Partito Democratico. E una vastissima opposizione sociale». Ora, finalmente al potere e avendo con sé i 4/5 del suo partito, Renzi «procede spedito verso la Terza Repubblica».

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