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Archivio del Tag ‘democrazia’

  • Cercasi leader che ci porti in salvo, lontano dall’euro

    Scritto il 16/10/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Cercasi politica per uscire dall’euro. Servirebbe un premier. Ci vorrebbe un governo dalla parte degli italiani, non asservito ai poteri forti tecno-finanziari, quelli che impongono il rigore, il suicidio a rate dello Stato, la privatizzazione di tutto. Moneta sovrana, unica arma per la ricostruzione dell’economia. Domanda: si può uscire dalla trappola dell’euro e dell’Europa a guida tedesca o saremo costretti a rimanere per sempre legati alle catene dell’Eurozona, cioè dell’euro-marco che affossa l’Italia? La risposta, ammette Enrico Grazzini, è squisitamente politica: «Dopo il dollaro, l’euro è la seconda valuta di riserva per le banche centrali di tutti i paesi del mondo e la sua rottura potrebbe provocare non solo la crisi della Ue ma una crisi geopolitica internazionale». Non a caso l’euro è sostenuto, in quanto valuta internazionale non competitiva nei confronti del dollaro, anche dall’amministrazione Obama. Peccato che, per noi europei, la moneta unica della Bce sia una autentica tragedia. L’ingresso nell’euro? «Un errore enorme e grossolano».
    Ormai è chiaro a tutti: l’ingresso dell’Italia nell’euro è stato «un escamotage inventato dalle classi dirigenti nazionali per tentare di vincolare l’economia italiana a quella europea, di riportare a bada l’inflazione e i sindacati, e di domare il lavoro e la spesa pubblica». Risultato: l’economia precipita, la comunità nazionale vacilla e gli Stati sono completamente in balia della speculazione internazionale, visto che non possono più emettere moneta e si finanziano solo attraverso la cessione di titoli di Stato, con la mediazione monopolistica del sistema bancario privato. «Purtroppo l’Unione Europea è ormai fondata soprattutto sulla moneta unica, sull’euro che divide», scrive Grazzini su “Micromega”. «E la Ue ha abbandonato ogni prospettiva di cooperazione e di benessere sociale». Diciamoci la verità: «Gli Stati Uniti d’Europa – invocati in Italia da un ampio ed eterogeneo schieramento, da Matteo Renzi a Giorgio Squinzi, da Nichi Vendola a Barbara Spinelli – sono solo una chimera, e sotto l’ombrello dell’euro-marco e dell’egemonia tedesca sarebbero comunque un vero e proprio incubo».
    Il problema, continua Grazzini, è che una moneta unica per 18 paesi estremamente diversi sul piano competitivo – inflazione, tecnologie, costo del lavoro – è un vero e proprio «insulto al buon senso». L’euro-marco? «E’ una moneta troppo forte e soprattutto troppo rigida, una moneta straniera, una trappola che provoca crisi non solo perché è scioccamente unica (e quindi rigida) ma perché è costruita su istituzioni e politiche monetarie intrinsecamente deflattive, modellate a somiglianza del marco e della Bundesbank». Così, la moneta unica nata dichiaratamente per unire l’Europa «è diventata lo strumento principe di una politica neo-coloniale che le élite finanziarie e industriali tedesche e dei paesi del nord Europa conducono per egemonizzare l’Europa». Impedendo le svalutazioni competitive ai paesi deboli e la rivalutazione monetaria dei paesi forti, la moneta della Bce ha favorito solo la Germania, che ha potuto esportare manufatti e capitali in tutti i paesi europei, indebolendoli e indebitandoli. Poi, i deficit commerciali dei paesi deboli hanno generato i debiti verso i paesi forti. E i paesi creditori dettano legge.
    I trattati europei imposti dalla Germania – da Maastricht in poi (Fiscal Compact, Six Pack, Two Pack) sono sempre più soffocanti. Più che governare, la Troika regna e scavalca i Parlamenti eletti. E’ un disegno neo-feudale, perfettamente realizzato, per moltiplificare i profitti dell’élite finanziaria al prezzo della devastazione dei sistemi economici, sociali e produttivi. Si va avanti a suon di diktat: via i diritti del lavoro, tagli al welfare, tassazione folle. E la democrazia è ormai un ricordo. «La Germania non abbandonerà queste politiche recessive e suicide – dice Grazzini – semplicemente perché le convengono e perché l’ideologia monetarista è connaturata alla Bundesbank». Niente illusioni: «Non ci sarà alcuna solidarietà o cooperazione europea, e nemmeno flessibilità. Con questo euro non usciremo dalla crisi, anche se la Bce ogni tanto concede un po’ di ossigeno per non soffocare del tutto la moribonda economia europea. La stagnazione-recessione potrebbe proseguire, provocando gravi crisi sociali fino a riportare l’Europa a un equilibrio economico assestato al livello più basso – con la rovina del welfare, del lavoro e dei paesi e delle regioni deboli – o potrebbe deflagrare in una nuova disastrosa crisi finanziaria europea e globale».
    Come uscire dalla trappola? Secondo Emiliano Brancaccio, dopo la svalutazione iniziale causata dall’abbandono dell’euro, i lavoratori potrebbero recuperare i loro salari in pochi anni. Addio Bce? «Cambierà tutto se la rottura dell’euro sarà in qualche maniera concordata con la Ue e con la Germania o se invece sarà del tutto unilaterale», sostiene Grazzini, «e se la mossa italiana avrà in qualche modo il consenso o anche solo la neutralità delle potenze globali o regionali extraeuropee, come gli Usa, la Cina, la Russia (e le grandi potenze private, le banche d’affari come Jp Morgan e Goldman Sachs e i fondi speculativi) o se invece le grandi potenze saranno contrarie». E’ chiaro che l’Italia, come potenza industriale e manifatturiera con vocazione esportatrice, «potrebbe più di altri paesi beneficiare dall’uscita dall’euro e dalla conseguente svalutazione della sua ritrovata moneta nazionale». Il momento sarebbe propizio: oggi il bilancio statale è in attivo e la bilancia commerciale è in sostanziale pareggio, quindi il nostro paese non avrebbe bisogno dell’aiuto di nessuno, né della Bce né della finanza internazionale.
    A pesare è l’ingombro del peso storico del deficit, «2300 miliardi di euro di debito pubblico verso l’estero». Oggi, in mancanza di moneta sovrana, lo si potrebbe finanziare solo «con le tasse dei cittadini o con i tagli di spesa», due strade che, come si vede, conducono nel vicolo cieco della depressione cronica. Tutto cambierebbe, invece, se si disponesse della nuova lira: «Senza il peso del debito pubblico verso l’estero – che è stato emesso secondo le leggi italiane e che quindi potrebbe essere riconvertito abbastanza facilmente e legalmente in moneta nazionale – non ci sarebbe bisogno di aumentare il deficit: e nessuno proporrebbe di aumentare le tasse o di tagliare selvaggiamente la spesa pubblica nazionale, che è minore della media europea», osserva Grazzini. Con la svalutazione della nuova lira, secondo Alberto Bagnai, l’economia diventerebbe più competitiva, gli investimenti e la produzione riprenderebbero, così come l’occupazione. Alla fine anche i redditi da lavoro aumenterebbero, dopo la svalutazione iniziale. «In questo senso, l’ipotesi di uscire unilateralmente dall’euro ristrutturando i debiti verso l’estero avrebbe un senso economico apparentemente positivo».
    In più, aggiunge Grazzini, «la svalutazione della lira non sarebbe una disgrazia o un fatto vergognoso, come molti economisti anche di sinistra ci dicono: infatti tutti i paesi – Usa, Giappone, Cina – stanno svalutando la loro moneta per recuperare competitività sul piano internazionale e crescita sul fronte nazionale». Quindi, «la svalutazione non è un peccato di cui vergognarsi: è solo un riallineamento dei prezzi verso l’estero». Secondo Grazzini, però, è sbagliato limitarsi al profilo economico e finanziario sottovalutando quello politico internazionale: «Nessun modello econometrico e quantitativo potrebbe stabilire che cosa succederà realmente se un paese come l’Italia, o anche solo un paese più piccolo come la Grecia, uscisse dell’euro». La moneta della Bce «rappresenta all’incirca un quarto delle valute di riserva mondiali, per un valore complessivo pari a oltre 2.000 miliardi, cioè al 25% del totale delle valute di riserva, mentre il dollaro è al 60% circa». Per questo, «molti Stati hanno un preminente interesse economico a salvaguardare l’euro», la cui drastica svalutazione o rottura comporterebbe «sconvolgimenti tellurici per quanto riguarda le riserve valutarie di Stati come Cina, Russia, Giappone, India e Brasile».
    Inoltre, agli Usa converrebbe «mantenere l’euro come moneta internazionale debole, cioè come improbabile alternativa al suo dollaro», cioè al dollaro che gli Stati Uniti possono «stampare all’infinito per pagare i loro debiti e comprare ciò che vogliono nel mondo». Vivecersa, sempre secondo Grazzini, Washington appoggerebbe la fine dell’euro per motivi geopolitici, «per esempio per punire la Germania e l’Europa se si avvicinassero troppo alla Russia». Purtroppo, però, la sensazione è che sia Wall Street che la Casa Bianca puntino sulla sopravvivenza dell’Eurozona, calcolando che l’euro impiegherà ancora qualche anno prima di completare la distruzione definitiva dell’economia europea. Pessime notizie, dunque, perché «l’euro non conviene all’Italia, né alle sue industrie, né alle sue banche, né ai lavoratori né al ceto medio, né al sud né al nord», sottolinea Grazzini. «E’ convenuto solo alle multinazionali finanziarie e industriali per eliminare i rischi di cambio. Ma ora è una gabbia anche per le imprese medio-grandi, perché impedisce la crescita».
    In più, una volta entrati nella moneta unica «è molto difficile uscirne senza danni e senza sofferenze, proprio perché l’euro è una valuta di riserva mondiale e non una moneta nazionale qualsiasi». Per Grazzini, una rottura unilaterale è rischiosa: «Se l’Italia si trovasse contro tutti gli Stati e tutta la finanza europea e mondiale, l’uscita unilaterale provocherebbe prevedibilmente una svalutazione a catena e un disastro nazionale (e globale) difficilmente valutabile e recuperabile». Peggio: «La tragedia è che attualmente non sembrano esserci via di uscita», perché «le scelte alternative sono comunque tragiche». Infatti, «se da una parte l’uscita unilaterale appare difficilmente proponibile, dall’altra – rimanendo nella prigione dell’euro-marco – la condizione europea e italiana peggiorerà a causa del Fiscal Compact». Questo sarebbe dunque il paradiso europeo profetizzato dai vari Prodi, Visco, Bassanini, Padoa-Schioppa. Non uno dei dirigenti decisivi del centrosinistra italiano, responsabile della consegna del paese alla sciagura dell’Eurozona, ha finora pronunciato una sola parola di autocritica.
    Se la politica tace, per Grazzini c’è solo da sperare nel blackout: «Prima o poi il sistema dell’euro-marco imploderà, perché è intrinsecamente insostenibile a causa della sua assoluta inefficienza economica e dei pesantissimi costi sociali e politici che comporta». Tutto è possibile, però: persino che l’euro «sopravviva con il sostegno della finanza internazionale», o che «gli Stati europei si adeguino alla rovina economica e alla subordinazione economica e politica imposte dall’egemonia tedesca». Difficile, però, che i paesi sopportino a lungo questa situazione: «Nonostante la stupefacente inettitudine di François Hollande, perfino una parte dei socialisti francesi – che certamente non brillano per acume e progressismo ma appaiono piuttosto propensi al suicidio elettorale – hanno cominciato a reagire dopo il successo travolgente dell’antieuro partito del Front National». Anche le potenze extraeuropee sono preoccupate del possibile contagio derivante dalla malattia europea, e la speculazione è sempre in agguato: prima o poi la finanza anglosassone «interverrà per trarre profitto dai conflitti tra i diversi Stati europei in modo da affossare la moneta unica».
    E’ certo che la crisi si prolungherà perché i paesi europei non crescono, la disoccupazione aumenta e i debiti pubblici continuano a crescere. Se poi i paesi del sud Europa – Francia e Italia – riuscissero ad allentare i vincoli imposti dalle regole Ue, allora la stessa Germania potrebbe abbandonare l’euro e ritornare al marco per difendere la forza della sua moneta. Secondo Grazzini, «la sinistra italiana ed europea dovrebbe battersi fin da ora per una rottura concordata dell’euro in modo da minimizzare i danni e permettere ai popoli e ai governi democraticamente eletti di perseguire una via di uscita dalla crisi». Ma forse Grazzini ha in mente una sinistra immaginaria: quella italiana ed europea è esattamente la forza che più di ogni altra ha collaborato al disegno eurocratico, antidemocratico e anti-sovranista. In Germania la riforma Harz contro i sindacati è stata condotta dalla Spd di Schroeder, in Gran Bretagna i lavoratori sono stati “sistemati” dai laburisti di Blair. E in Italia, liquidati i partiti della Prima Repubblica, le principali riforme strutturali contro il lavoro e la sovranità nazionale sono state progettate e realizzate da Ciampi, Prodi e D’Alema.
    Oggi, Grazzini riconosce che se si resta nell’euro si sprofonda nella crisi. E per uscire dalla moneta unica nel modo meno doloroso possibile è necessario «ricreare una banca centrale nazionale responsabile verso il governo e il Parlamento», una Banca d’Italia «in grado di sostenere una politica espansiva, ovvero di comprare i titoli del debito pubblico nazionale». Va ricordato che a disabilitare Bankitalia come “prestatore di ultima istanza” non fu certo il bieco Berlusconi, all’epoca non ancora “sceso in campo”, ma furono il governatore Carlo Azeglio Ciampi e il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta, esponente di quella sinistra Dc che mirava – insieme ai politici del futuro centrosinistra – a consegnare a Bruxelles la cassaforte del paese, per sottrarla alla nomenklatura dei Craxi, degli Andreotti e dei Forlani. A più di trent’anni dal “misfatto” del 1981, oggi si ammette che solo una banca centrale in grado di emettere moneta sovrana potrebbe finanziare il governo e gli investimenti produttivi, sostenere la spesa pubblica strategica, controllare i movimenti di capitali, convogliare il risparmio nazionale verso lo sviluppo del paese.
    Per Grazzini, «bisognerebbe copiare l’esperienza dei paesi emergenti, come Cina e Brasile, che mantengono vincoli forti sulla finanza e la valuta ma incentivano gli investimenti industriali esteri». E attenzione: «Bisognerebbe nazionalizzare – anche con difficili misure di prestito forzoso – il debito pubblico, in modo che la nazione sia indebitata quasi esclusivamente con se stessa (come il Giappone, che ha il più alto debito al mondo ma lo sostiene perché è debito interno)». Il problema maggiore, aggiunge Grazzini, verrebbe però dal debito privato pagabile solo in euro, e soprattutto dal debito estero delle grandi banche. Dunque, «occorrerebbe nazionalizzare le maggiori banche anche per rilanciare il credito verso le piccole e medie aziende». Di pari passo, «per proteggere i salari e gli stipendi e rilanciare la domanda interna bisognerebbe ripristinare meccanismi analoghi alla scala mobile e agganciare automaticamente i salari all’inflazione e alla crescita della produttività».
    Un percorso impervio, tenendo conto del personale politico italiano: partiti e leader sono stati completamente “colonizzati” dal capitale finanziario straniero, da cui dipende la protezione delle loro carriere. La parola chiave, dunque, è democrazia: solo nuove leve e nuovi politici, non ancora presenti sulla scena odierna, potrebbero progettare l’uscita dall’euro mettendo a punto innanzitutto una politica di alleanze internazionali, «non solo con gli altri paesi del sud Europa e la Francia, ma anche con le banche centrali dei paesi extraeuropei». Servirebbe anche «una moneta comune (ma non più unica, come l’euro) contro la speculazione internazionale», come l’euro-bancor proposto da Keynes «come moneta comune europea da fare valere verso il dollaro e le altre valute internazionali».
    Qualcuno lo vede, un governo italiano in grado di compiere questi difficili passi? «Non solo non esiste attualmente – ammette Grazzini – ma è molto dubbio che esisterà mai». Un governo anti-euro, cioè di salvezza nazionale, «dovrebbe avere un grande consenso sociale, la capacità di imporre sacrifici temporanei ai ceti medi e soprattutto vincoli stretti ai settori privilegiati. Dovrebbe essere autonomo dalle élite dei potenti e dall’alta finanza e avere l’appoggio di gran parte della società civile e dei sindacati». Abbiamo una sola certezza: così non si può andare avanti. «Non è possibile che le politiche economiche vengano decise a Berlino, Francoforte, Bruxelles e Washington. I governi nazionali, come quello di Matteo Renzi, agiscono sempre più sotto dettatura».

    Cercasi politica per uscire dall’euro. Servirebbe un premier. Ci vorrebbe un governo dalla parte degli italiani, non asservito ai poteri forti tecno-finanziari, quelli che impongono il rigore, il suicidio a rate dello Stato, la privatizzazione di tutto. Moneta sovrana, unica arma per la ricostruzione dell’economia. Domanda: si può uscire dalla trappola dell’euro e dell’Europa a guida tedesca o saremo costretti a rimanere per sempre legati alle catene dell’Eurozona, cioè dell’euro-marco che affossa l’Italia? La risposta, ammette Enrico Grazzini, è squisitamente politica: «Dopo il dollaro, l’euro è la seconda valuta di riserva per le banche centrali di tutti i paesi del mondo e la sua rottura potrebbe provocare non solo la crisi della Ue ma una crisi geopolitica internazionale». Non a caso l’euro è sostenuto, in quanto valuta internazionale non competitiva nei confronti del dollaro, anche dall’amministrazione Obama. Peccato che, per noi europei, la moneta unica della Bce sia una autentica tragedia. L’ingresso nell’euro? «Un errore enorme e grossolano».

  • Isis: demolire la Siria e poi far esplodere il Caucaso russo

    Scritto il 10/10/14 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Terza Guerra Mondiale, istruzioni per l’uso. Ne parla George Friedman sul newsmagazine “Strafor”: tra Ucraina e Iraq, si dipana la “Strategia nel Mar Nero”. «Mentre altri analisti scrivevano dei “valori europei” che dovrebbero prender piede in Ucraina, quali ad esempio la “democrazia” e la “società aperta”, Friedman si è invece dedicato al posizionamento strategico, alla pianificazione militare e alla politica del petrolio e del gas della Russia», prende nota Arkady Dziuba. Friedman «ammette apertamente» che gli Usa abbiano pilotato la crisi ucraina per «infliggere un colpo strategico alla sicurezza nazionale russa». Nel complesso, è una «geo-strategia volta a precipitare il mondo nel caos». Notizia: «Nelle élites degli Stati Uniti sta cambiando la percezione degli eventi, che cominciano ad essere interpretati come parte di una “guerra mondiale” in corso». Conferma Giulietto Chiesa: «I fronti si vanno moltiplicando giorno dopo giorno». La campagna contro l’Isis? «E’ di fatto un nuovo tentativo di abbattere Assad, scompaginando definitivamente la Siria». E stavolta «la Russia non può intervenire direttamente perché è sotto attacco».
    Erdogan, scrive Chiesa su “Facebook”, continua nella sua linea “ottomana”, «puntando a far fuori i curdi in primo luogo, ma sapendo benissimo che aiuta Israele e l’Arabia Saudita, entrambi con l’obiettivo di riprendere l’offensiva contro l’Iran». Attenzione: «La Cina si muove per ora lentamente, ma si muove». Esempio clamoroso, «le recenti esercitazioni congiunte nel Golfo Persico, tra Cina e Iran». Intanto, «la crisi ucraina è completamente aperta e il peggio deve ancora venire». Dettaglio: «Quasi nessuno connette tutti questi fili. Hong Kong è l’inizio dell’offensiva americana contro Pechino. Siamo già su un piano inclinato che va verso un conflitto di enormi dimensioni». Il termine “guerra mondiale” è impressionante, ammette  Arkady Dziuba in un post su “Strategic Culture”, tradotto da “Come Don Chisciotte”, «ma non c’è niente di veramente nuovo nel pensare in questi termini: la precedente crisi economica mondiale, paragonabile per dimensioni a quella presente, è stata superata grazie ad una “guerra mondiale”».
    A ben vedere, «una “guerra mondiale” permette di ridisegnare la mappa del mondo, di accedere a nuovi mercati, di cancellare i vecchi debiti e di stabilire, infine, nuove regole del gioco negli affari internazionali. Ed è questo il fattore più importante per gli Stati Uniti». Aggiunge Dziuba: «Giocare secondo quelle regole che la stessa America aveva stabilito in passato non serve a mantenere la leadership mondiale, ma soltanto a cederla ad una Cina arrembante». Secondo George Friedman, il problema più critico per gli Usa è quello di creare un unico piano integrato, che tenga conto delle sfide più urgenti. «Potrebbe non essere possibile, operativamente, coinvolgere in contemporanea tutti gli avversari ma, concettualmente, è essenziale pensare nei termini di un coerente centro di gravità per tutte le operazioni». Per Friedman, è sempre più chiaro che questo centro di gravità è costituito dal Mar Nero. In senso militare sono attualmente attivi due teatri, entrambi dotati di un’ampia importanza potenziale. Uno è costituito dall’Ucraina, l’altro dalla regione posta fra Siria e Iraq, dove le forze dell’Isis hanno lanciato un’offensiva, progettata come minimo per controllare quei due paesi, e come massimo per dominare tutta l’area mediorientale, fino all’Iran. Due teatri connessi fra loro, attraverso il Caucaso russo.
    Mentre la Russia ha continui problemi nell’Alto Caucaso, allo stesso tempo alcuni report parlano di «consulenti ceceni che lavorano con lo “Stato Islamico”». Secondo Friedman, gli gli americani non useranno il loro potere militare su vasta scala: prevedono di raggiungere gli obiettivi a spese degli alleati regionali (Turchia e Romania costituiscono, in questo senso, due paesi-chiave). Per Thomas Donnelly, analista militare, la fase aerea non è assolutamente sufficiente e gli Stati Uniti saranno coinvolti in Iraq per più di dieci anni. Secondo Friedman, tuttavia, la combinazione di aviazione e forze speciali non comporterà l’eliminazione dello “Stato Islamico”. «Considerando che gli Stati Uniti non metteranno “gli stivali sul terreno” (dichiarazioni del presidente Obama), questo significa che qualcun altro dovrà inviare delle forze di terra al posto loro». L’alleato naturale sarebbe l’Iran, ma il fatto sarebbe inaccettabile per Washington. Così, se l’America resterà a guardare – limitandosi a bombardamenti isolati – l’Isis potrà «passare gradualmente nel Caucaso Settentrionale, facendo emergere le forze sotterranee presenti in quell’area e aprendo un nuovo fronte», ovviamente contro Mosca. Lo “Stato Islamico”, conclude Dziuba, ha già dichiarato che la Russia è il suo principale nemico. Uno dei leader dell’Isis, Omar al Shishani, è in effetti di etnia cecena. E Dmitry Yarosh, leader del partito neonazista ucraino “Pravy Sektor” (settore destro), tempo fa aveva invitato Doku Umarov, leader di “Imarat Kavkaz” (Emirato del Caucaso) a unirsi nella lotta contro la Russia, benché Umarov fosse morto due mesi prima. E’ la “Strategia del Mar Nero”: l’Iraq non è mai stato tanto vicino a Mosca, e per combattere contro la Russia a quanto pare c’è chi recluta anche i fantasmi.

    Terza Guerra Mondiale, istruzioni per l’uso. Ne parla George Friedman sul newsmagazine “Strafor”: tra Ucraina e Iraq, si dipana la “Strategia nel Mar Nero”. «Mentre altri analisti scrivevano dei “valori europei” che dovrebbero prender piede in Ucraina, quali ad esempio la “democrazia” e la “società aperta”, Friedman si è invece dedicato al posizionamento strategico, alla pianificazione militare e alla politica del petrolio e del gas della Russia», prende nota Arkady Dziuba. Friedman «ammette apertamente» che gli Usa abbiano pilotato la crisi ucraina per «infliggere un colpo strategico alla sicurezza nazionale russa». Nel complesso, è una «geo-strategia volta a precipitare il mondo nel caos». Notizia: «Nelle élites degli Stati Uniti sta cambiando la percezione degli eventi, che cominciano ad essere interpretati come parte di una “guerra mondiale” in corso». Conferma Giulietto Chiesa: «I fronti si vanno moltiplicando giorno dopo giorno». La campagna contro l’Isis? «E’ di fatto un nuovo tentativo di abbattere Assad, scompaginando definitivamente la Siria». E stavolta «la Russia non può intervenire direttamente perché è sotto attacco».

  • Il Fmi vuole il nostro sangue, e Renzi glielo darà

    Scritto il 07/10/14 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Salari più bassi, meno assistenza, tagli alle pensioni. Il programma dei governi nazionali? Lo scrive la Troika, ed è stupefacente che qualcuno ancora ne dubiti, specie “a sinistra”. Così, ad ogni periodico report, sono i pilastri della stessa Troika a ricordarcelo: di recente è toccato al Fmi, che ha rivisto anche al ribasso le previsioni di crescita per l’Italia, ovvero di recessione: -0,1%, secondo l’istituto internazionale guidato da Christine Lagarde. Le previsioni per gli anni successivi (+1,1 nel 2015, + 1,3 nel 2016) «appartengono al “wishful thinking” più che alle stime scientifiche», secondo Claudio Conti, «perché è ormai chiaro che le variabili macro-globali sono fuori dal controllo di qualsiasi ente». Semplicemente, «nessuno sa come andrà: si incrociano le dita e si sparano “ricette” a seconda degli interessi che si rappresentano». Dato che il Fmi è una sorta di braccio armato del capitalismo finanziario multinazionale, con preponderanza anglo-statunitense, «se l’obiettivo è trasferire quote di ricchezza dalle popolazioni alla finanza multinazionale, ecco che i “consigli” del Fondo assumono toni granguignoleschi».
    La chiave di volta resta il debito pubblico, scrive Conti su “Contropiano”: la finanza globale ama soltanto quello privato, ovvero fondamentalmente il proprio debito, e si scaglia contro quello “pubblico”, pretendendo trasferimenti diretti verso le proprie casse. Il debito italiano, come ormai ammette anche il ministro Padoan, è destinato a salire anche a dispetto (o meglio, a causa) dei tagli di spesa: toccherà il 136,4% del Pil entro fine 2014, per poi scendere progressivamente, ma restando comunque sopra il 130% fino al 2017. «Trattandosi di una proporzione e non di una cifra assoluta – osserva Conti – se a un governo vengono “consigliate” manovre recessive, il risultato sarà una contrazione del Pil». Dunque, la relazione debito-Pil «resterà negativa anche tagliando alla grande il debito». Di conseguenza, sentenzia il Fmi, il tasso di disoccupazione in Italia è destinato a salire ancora: 12,6%, il più alto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
    E qui arrivano i primi “complimenti” al governo Renzi, la cui “riforma del mercato del lavoro”, con tanto di precarizzazione universale e contrazione dei salari, «è vista come condizione ottimale per aumentare la quantità di persone da mettere al lavoro a salari da fame». Dunque la riforma Renzi «va nella giusta direzione», ma il premier deve «muoversi rapidamente sulle riforme». Bene anche l’idea di un «singolo contratto di lavoro», con «il 70% dei nuovi contratti a tempo determinato», nonché «ulteriore flessibilità». Tradotto: la precarietà è utile per le produzioni o le imprese “marginali” (piccole o piccolissime), ma l’attacco va condotto direttamente contro il nucleo centrale dell’occupazione «stabile e a tempo indeterminato», in modo da comprimere violentemente e una volta per tutte il costo del lavoro anche nei comparti-chiave dell’economia italiana.
    Benedizioni quindi anche per uno «strumento importante» come la “spendig review”, non a caso affidata a Carlo Cottarelli, un economista dello stesso Fmi, che ad ottobre rientrerà nei ranghi dell’organismo sovranazionale. Ma al Fondo sanno fare i conti, aggiunge “Contropiano”: per quanto si possa tagliare la spesa pubblica toccando le varie «sacche di inefficienza» o spreco, non si arriverà mai a sforbiciare abbastanza da riportare il debito pubblico entro quel 60% indicato dagli accordi di Maastricht. Come si può fare, allora?  «Ulteriori risparmi saranno difficili senza affrontare l’elevata spesa per le pensioni» e anche la spesa sanitaria. «Bingo! Il Fmi dice fuori dai denti che è ora di far fuori un po’ di anziani, riducendo le loro “aspettative di vita” grazie a pensioni ancora più basse e minori prestazioni sanitarie», scrive Conti. «Non serve, insomma, “tagliare gli sprechi”, il Fondo consiglia (prescrive? ordina?) di tagliare la carne viva della gente fino all’osso e anche oltre». Viceversa, ammonisce il Fmi, l’Italia rimarrà «vulnerabile a una perdita di fiducia del mercato» e al «contagio finanziario», diventando «fonte di contagio per il resto del mondo».
    «Per tutte queste ragioni – continua “Contropiano”– il Fmi promuove “l’ambiziosa agenda di riforme” del governo Renzi, suscitando la poco divertente impressione del burattinaio che dice “bravo!” alla marionetta». Il Fondo Monetario non ha dubbi: «Attuare le riforme strutturali simultaneamente genererebbe significative sinergie di crescita». Quanto sia “invasiva” la logica del Fondo, osserva Conti, è dimostrato da una delle tante raccomandazioni non direttamente economche: il progetto di legge elettorale delineato dall’“Italicum” è considerato un’ottima idea, perché «aiuta il sostegno e l’attuazione delle riforme». Chiosa Claudio Conti: «Non servirebbe la traduzione, ma ve la diamo egualmente: un programma di “riforme” così sanguinose e infami non avrebbe alcuna possibilità di esser approvato anche elettoralmente; bene dunque l’idea di escludere che il parere dei cittadini possa rallentare – o, orrore!, “impedire” – l’attuazione del programma. La democrazia non serve più al capitale, ergo si può e si deve metterla da parte».

    Salari più bassi, meno assistenza sanitaria, tagli alle pensioni. Il programma dei governi nazionali? Lo scrive la Troika, ed è stupefacente che qualcuno ancora ne dubiti, specie “a sinistra”. Così, ad ogni periodico report, sono i pilastri della stessa Troika a ricordarcelo: di recente è toccato al Fmi, che ha rivisto anche al ribasso le previsioni di crescita per l’Italia, ovvero di recessione: -0,1%, secondo l’istituto internazionale guidato da Christine Lagarde. Le previsioni per gli anni successivi (+1,1 nel 2015, + 1,3 nel 2016) «appartengono al “wishful thinking” più che alle stime scientifiche», secondo Claudio Conti, «perché è ormai chiaro che le variabili macro-globali sono fuori dal controllo di qualsiasi ente». Semplicemente, «nessuno sa come andrà: si incrociano le dita e si sparano “ricette” a seconda degli interessi che si rappresentano». Dato che il Fmi è una sorta di braccio armato del capitalismo finanziario multinazionale, con preponderanza anglo-statunitense, «se l’obiettivo è trasferire quote di ricchezza dalle popolazioni alla finanza multinazionale, ecco che i “consigli” del Fondo assumono toni granguignoleschi».

  • Caro Renzi, niente ripresa con moneta presa a credito

    Scritto il 06/10/14 • nella Categoria: idee • (1)

    «Alla luce dei fallimenti sistematici degli ultimi governi rispetto alle loro promesse», secondo Marco Della Luna ogni premier dovrebbe pubblicamente svolgere un “compito in classe” di economia politica. E’ in grado di spiegare, Renzi, con quali misure sia possibile mantenere l’equilibrio finanziario di uno Stato nelle condizioni di quello italiano? Bollettino di guerra: il rifinanziamento del debito pubblico si avvale solo dei titoli di Stato e quindi dei mercati speculativi, il debito pubblico supera il 130% del Pil ed è in costante crescita, la spesa pubblica è oltre il 50% del prodotto interno lordo e anche la pressione fiscale è sopra il il 50. Senza contare la disoccupazione che galoppa superando il 12%, la situazione di declino economico pluriennale in accelerazione, il costo dell’energia e della pubblica amministrazione superiore ai paesi concorrenti, la fuga di imprese e capitali. Pesa come un macigno l’impossibilità di aggiustamento del cambio valutario, bloccato a livelli elevati grazie all’euro. Ha qualche idea, il signor Renzi?
    Domanda: come mai lo Stato stringe la cinghia ormai da diversi anni, anche se da un paio d’anni beneficia di bassi rendimenti sul suo debito pubblico e per giunta realizza costanti aumenti del gettito tributario? Come mai, nonostante questo, il debito pubblico continua a crescere? Quali sono le voci di spesa che lo gonfiano? Della Luna cita l’impegno per l’assistenza dei migranti, le spese per le indennità di disoccupazione, «generosamente concesse per mettere una toppa (che può reggere solo nel breve termine) alla scelta di lasciar costantemente aumentare la disoccupazione per effetto della deindustrializzazione e della desertificazione economica, frutto della indiscriminata apertura delle frontiere commerciali nonché del blocco dell’aggiustamento dei cambi». Che ne dice, Renzi? Spieghi, almeno, «come in questa situazione si possa “rilanciare” abolendo l’elettività del Senato e dei consigli provinciali, nonché di quel poco che resta dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (già sostanzialmente svuotato da Monti), o con la ventitreesima riforma del processo civile in 23 anni, o togliendo ai magistrati qualche settimana di vacanze».
    Al punto in cui siamo arrivati, aggiunge Della Luna, l’unico modo per fermare il disastro in tempi brevi – cioè far ritornare la fiducia azzerata e le imprese fuggite, e far davvero ripartire l’economia nazionale, «affrancandosi dai soldi che dovrebbero arrivare dall’estero» – sarebbe che lo Stato, «con l’Eurozona se ci sta, senza se non ci sta», si mettesse a stampare moneta senza indebitarsi. Emissione di moneta sovrana, dunque, «per far lavorare la gente e le imprese, per fare gli investimenti utili a innescare gli investimenti privati e la domanda interna, nonché per dimezzare la pressione fiscale e contributiva subito». Libera moneta, senza più debiti col mercato finanziario. Viceversa, nessuna soluzione funzionerà: «Chiunque dica di voler rimettere in corsa il paese senza fare ciò, non merita alcuna fiducia, ma calci nel sedere, perché o è un bugiardo o è uno stolto».

    «Alla luce dei fallimenti sistematici degli ultimi governi rispetto alle loro promesse», secondo Marco Della Luna ogni premier dovrebbe pubblicamente svolgere un “compito in classe” di economia politica. E’ in grado di spiegare, Renzi, con quali misure sia possibile mantenere l’equilibrio finanziario di uno Stato nelle condizioni di quello italiano? Bollettino di guerra: il rifinanziamento del debito pubblico si avvale solo dei titoli di Stato e quindi dei mercati speculativi, il debito pubblico supera il 130% del Pil ed è in costante crescita, la spesa pubblica è oltre il 50% del prodotto interno lordo e anche la pressione fiscale è sopra il il 50. Senza contare la disoccupazione che galoppa superando il 12%, la situazione di declino economico pluriennale in accelerazione, il costo dell’energia e della pubblica amministrazione superiore ai paesi concorrenti, la fuga di imprese e capitali. Pesa come un macigno l’impossibilità di aggiustamento del cambio valutario, bloccato a livelli elevati grazie all’euro. Ha qualche idea, il signor Renzi?

  • Di finanza si muore: ed ecco la bolla finale della Bce

    Scritto il 04/10/14 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Le bolle finanziarie obbediscono a una legge ferrea: più crescono e più si avvicina la loro fine. Così, annunciando misure per sostenere la bolla, Mario Draghi ne ha appena avvicinato lo scoppio. Le misure annunciate sono la riduzione del tasso Bce allo 0,05%, un “Quantitative Easing” (Qe) nella forma di acquisti di cartolarizzazioni (“Asset-Backed Securities”) e di “covered bonds” da parte della Bce a cominciare dal quarto trimestre. Poi un’altra ondata di Ltro, prestiti di fatto gratis alle banche. L’ultima misura è chiamata “funding for lending” e dovrebbe servire ad aumentare il credito al settore produttivo. «In realtà fallirà l’obiettivo», secondo “Movisol”, «come lo ha fallito il modello originale, applicato in Gran Bretagna». L’intento della Bce è descritto con franchezza in uno studio di 104 pagine pubblicato dallo stratega di Deutsche Bank, Jim Reid, l’11 settembre: il sistema finanziario, scrive Reid, è un’unica, gigantesca bolla, che deve essere continuamente pompata per non collassare.
    «Negli ultimi due decenni, l’economia globale è passata da una bolla all’altra con eccessi che non sono mai stati pienamente rivelati. Invece, una politica aggressiva ha incoraggiato il rifinanziamento con nuove bolle. Ciò ha discutibilmente fatto del sistema finanziario moderno, così come lo conosciamo, una preoccupazione costante», si legge nel rapporto. La bolla è ora “migrata” nel mercato obbligazionario, ed è diventata «una condizione necessaria per mantenere in piedi il superindebitato sistema finanziario». Non c’è più un luogo dove migrare, visto che ora la bolla è nelle mani dei governi e delle banche centrali, i prestatori di ultima istanza, e perciò «pensiamo che questa bolla vada mantenuta per assicurare la solvibilità dell’attuale sistema finanziario». Prevedibilmente, azioni e obbligazioni sono salite dopo l’annuncio di Draghi. Secondo alcune fonti, non sono solo i privati a speculare, ma le stesse banche centrali starebbero acquistando “futures” e altri titoli derivati per sostenere direttamente il mercato.
    Mentre non è certo quale sarà la domanda di Ltro, il pezzo forte della Bce è il programma di acquisto di Abs. Il 12 settembre lo stesso Juncker ha dichiarato che una delle priorità della nuova Commissione Europea sarà rivitalizzare il mercato Abs. La Bce si è avvalsa della consulenza del colosso statunitense BlackRock, a sua volta grande possessore di titoli Abs, delineando quindi un «leggero conflitto di interessi». Ma la Bce, avverte “Movisol”, non vuole rischiare in proprio: «Sta già pensando di scaricare il peso degli Abs tossici sulle spalle del contribuente». Benoit Coeure, membro dell’esecutivo di Francoforte, ha chiarito: perché un programma di acquisti di Abs raggiunga tutto il suo potenziale, i governi devono garantire almeno parte del debito. «L’Europa si trova ad affrontare una scelta fondamentale se vuole muoversi verso un mercato Abs che abbia la stessa profondità e la liquidità del mercato americano», ha detto Coeure in un’intervista alla rivista “Risk”, distribuita dalla Bce.
    «Per raggiungere questo obiettivo», aggiunge Coeure, «il mercato delle cartolarizzazioni richiederà una quantità significativamente maggiore di sostegno pubblico di quella attuale». In altre parole, riassume “Movisol”, «la Bce pompa la bolla finale, in parte stampando soldi, in parte con soldi pubblici (i contribuenti), in una mossa futile e disperata che non impedirà alla bolla di scoppiare ma piuttosto ne accelererà la fine». Nel frattempo, «la recessione nell’Ue sta rivelandosi una depressione». Infatti, «la disoccupazione di massa ha raggiunto livelli da anni Trenta e in alcuni casi le istituzioni democratiche sono state compromesse irreversibilmente». E’ il “capolavoro” della moneta non-sovrana, che mette in crisi gli Stati e le economie nazionali, obbligandole a elemosinare credito presso il mercato finanziario internazionale attraverso il sistema bancario privato. E la Bce è il gestore dell’euro-regime, il braccio armato della grande crisi. «Liberiamoci del pilota pazzo ai comandi!», conclude “Movisol”.

    Le bolle finanziarie obbediscono a una legge ferrea: più crescono e più si avvicina la loro fine. Così, annunciando misure per sostenere la bolla, Mario Draghi ne ha appena avvicinato lo scoppio. Le misure annunciate sono la riduzione del tasso Bce allo 0,05%, un “Quantitative Easing” (Qe) nella forma di acquisti di cartolarizzazioni (“Asset-Backed Securities”) e di “covered bonds” da parte della Bce a cominciare dal quarto trimestre. Poi un’altra ondata di Ltro, prestiti di fatto gratis alle banche. L’ultima misura è chiamata “funding for lending” e dovrebbe servire ad aumentare il credito al settore produttivo. «In realtà fallirà l’obiettivo», secondo “Movisol”, «come lo ha fallito il modello originale, applicato in Gran Bretagna». L’intento della Bce è descritto con franchezza in uno studio di 104 pagine pubblicato dallo stratega di Deutsche Bank, Jim Reid, l’11 settembre: il sistema finanziario, scrive Reid, è un’unica, gigantesca bolla, che deve essere continuamente pompata per non collassare.

  • Wall Street, gli amici nazisti e il solito bersaglio: la Russia

    Scritto il 28/9/14 • nella Categoria: segnalazioni • (13)

    Criminali, bugiardi, complici. Non ci fa una bella figura, l’ipocrita Occidente, nemmeno rileggendo la Seconda Guerra Mondiale: furono americani e inglesi a scommettere su Hitler. Ne finanziarono l’ascesa in modo decisivo, incaricandolo – già allora – di una missione che ossessiona gli anglosassoni: colpire la Russia e affondarla. Lo ricorda Yuriy Rubtsov, alla luce degli attuali drammatici sviluppi in Ucraina: «I denti del drago devono essere conficcati ancora una volta nella carne viva dell’Europa», come già fu in passato. Lo conferma «la storia segreta dei rapporti fra Wall Street e la Germania nazista». Storia che nessuno ha voglia di rievocare, e che fu seppellita dalla solennità del Processo di Norimberga, che inchiodava la Germania sconfitta come unica colpevole, senza alleati atlantici. Se oggi sono in molti a definire “nazista” il golpe di Kiev costruito dagli Usa utilizzando l’estrema destra ucraina, Rubtsov chiarisce: «Per quanto ne sappiamo, l’Ucraina di oggi non può essere paragonata alla Germania di Hitler». Ma attenzione: «Non dimentichiamo che la folle corsa del nazismo ebbe inizio da uno sconosciuto caporale che predicava xenofobia e vendetta».
    L’altra verità, fondamentale, è che quel caporale non sarebbe andato molto lontano, senza i suoi amici d’oltreoceano. «E’ un “segreto di pulcinella” il fatto che Hitler sia stato sostenuto dagli Stati Uniti», scrive Rubtsov in un post tradotto da “Come Don Chisciotte”. «La penetrazione commerciale e finanziaria statunitense, e in particolare la cooperazione con l’industria bellica tedesca, è stata fin dall’inizio molto significativa». Nel 1933, l’anno del boom elettorale nazista, «gli Stati Uniti controllavano alcuni settori-chiave dell’economia tedesca, ma anche diverse grandi banche, come ad esempio la Deutsche Bank e la Dresdner Bank». Le grandi imprese cominciarono a fidarsi di Hitler, continua Rubtsov. E molti fondi esteri presero ad affluire in quel paese. Per esemoio, grazie alle donazioni del gruppo di Fritz Thyssen, che comprendeva la “Vereinigte Stahlwerke Ag” e la “Interessen-Gemeinschaft Farbenindustrie Ag”. E poi i soldi del magnate dell’industria mineraria Emil Kirdorf. Risultato: 6,4 milioni di tedeschi votarono per Hitler. Non sapevano, però, quanto denaro gli angloamericani avessero investito nel futuro del loro capo.
    L’economista Hjalmar Schacht, banchiere e politico liberale, nonché co-fondatore nel 1918 del “Partito Democratico Tedesco”, diventò il collegamento fra l’industria tedesca e gli investitori stranieri, ricorda Rubtsov. A quel punto, «anche il mondo commerciale e bancario britannico cominciò a canalizzare importanti donazioni verso il partito nazista: il 4 gennaio 1932 Montague Norman, governatore della Banca d’Inghilterra dal 1920 al 1944, incontrò Hitler e il cancelliere tedesco Franz von Papen, per stringere un accordo segreto volto al finanziamento di quel partito». Alla fatidica riunione erano rappresentati anche gli Stati Uniti, coi fratelli Dulles, anche se «gli storici occidentali evitano di menzionare questa circostanza», accusa Rubtsov. John Foster poi segretario di Stato, suo fratello Allen direttore della Cia. «Erano due avvocati politicamente collegati a Wall Street, servi di quelle corporations che hanno gettato gli Stati Uniti nella guerra invisibile che ha forgiato il mondo di oggi. Negli anni ‘50, in piena guerra fredda, proprio i due fratelli Dulles, immensamente potenti, guidarono gli Stati Uniti in una lunga serie di avventure all’estero, i cui effetti stanno ancora scuotendo il mondo».
    Nel ‘33, continua Rubtsov, il nuovo governo tedesco fu trattato molto favorevolmente dai circoli dominanti degli Usa e del Regno Unito: «Non casualmente le democrazie occidentali tacquero, quando Berlino si rifiutò di pagare le riparazioni di guerra», relative al primo conflitto mondiale. Lo stesso Schacht, divenuto presidente della Reichsbank e ministro dell’economia, il 30 maggio di quell’anno andò negli Stati Uniti per incontrare il presidente Roosevelt e i principali banchieri di Wall Street. Alla Germania fu concesso un credito pari ad 1 miliardo di dollari. Un mese dopo, durante una visita al banchiere centrale di Londra, Montague Norman, Schacht chiese un prestito aggiuntivo pari a 2 miliardi di dollari, nonché la riduzione e l’eventuale cessazione del pagamento dei vecchi prestiti. «I nazisti ottennero, in conclusione, qualcosa che i precedenti governi avevano chiesto invano». E nell’estate del 1934 la Gran Bretagna firmò l’“Anglo-German Transfer Agreement”, che diventò uno dei princìpi fondamentali della politica britannica nei riguardi del Terzo Reich. Negli anni successivi il Regno Unito diventò il primo partner commerciale della Germania: la “Banca Schroeder” divenne l’agente principale per gli affari fra Berlino e Londra, e nel 1936 la sua filiale di New York si fuse nella Holding Rockefeller, per creare la banca d’investimento “Schroeder, Rockfeller e Co.”, che il “New York Times” descrisse come «il perno economico-propagandistico dell’asse Berlino-Roma».
    Già nell’agosto del ‘36 Hitler aveva redatto un “Memorandum Segreto”, dei cui contenuti solo pochi alti dirigenti nazisti erano a conoscenza. Il memorandum, scrive Rubtsov, stabiliva che entro quattro anni la Germania avrebbe dovuto dotarsi di forze armate pronte al combattimento. Di conseguenza, l’economia tedesca avrebbe dovuto mobilitarsi per supportare l’imminente sforzo bellico. Di qui l’annuncio, a Norimberga, del “Piano Quadriennale” di investimenti strategici. «Il credito estero costituiva la base finanziaria necessaria», quindi «tutto ciò non aveva sollevato il minimo allarme»: il Terzo Reich si stava semplicemente preparando a fare il “lavoro” per il quale era stato profumatamente pagato. «Nel mese di agosto del 1934 il gigante petrolifero americano Standard Oil acquistò 730.000 ettari di terreno in Germania, per costruirci delle grandi raffinerie di petrolio, per rifornire di carburante i nazisti. Allo stesso tempo altre corporations statunitensi rifornirono la Germania delle più moderne attrezzature per la costruzione di aerei civili, che in realtà davano copertura alla produzione di aerei militari».
    La Germania, aggiunge Rubtsov, fu in grado di utilizzare un gran numero di brevetti provenienti da società americane, tra le quali la Pratt & Whitney, la Douglas e la Bendix Corporation. «Il bombardiere “Junkers-87”, ad esempio, fu costruito utilizzando esclusivamente delle tecnologie americane». Così, quando la guerra scoppiò, «i monopoli americani si attaccarono alla vecchia e buona regola del “niente di personale, si tratta solo di affari”». Nel 1941, quando la Seconda Guerra Mondiale era ormai in pieno svolgimento, «gli investimenti americani nell’economia tedesca furono pari a 475 milioni di dollari dell’epoca: la Standard Oil, da sola, aveva investito 120 milioni di dollari, la General Motors 35 milioni, la Itt 30 milioni, la Ford 17,5 milioni». Quali motivazioni aveva l’Occidente per far crescere la forza della Germania nazista? «L’obiettivo era quello di far dirigere Hitler ad Est, verso l’invasione tedesca della Russia. La conquista dello “spazio vitale” costituiva, per Hitler ed il resto dei nazionalsocialisti, il più importante obiettivo di politica estera».
    Al suo primo incontro con i principali generali e ammiragli del Reich, il 3 febbraio 1933, Hitler parlò infatti della «conquista dello spazio vitale» a Est e della spietata «germanizzazione» come dei due «obiettivi finali» della sua politica estera. Per Hitler, la terra che avrebbe fornito sufficiente “spazio vitale” alla Germania era costituita dall’Unione Sovietica, che agli occhi di Hitler era un paese dotato di ricchi e vasti terreni agricoli, abitato da «slavi sub-umani» governati da una banda di «rivoluzionari ebrei», assetati di sangue ma grossolanamente incompetenti. Queste persone non erano “germanizzabili”, ma la loro terra sì. «Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, che si opponevano con fermezza alla crescita del comunismo sovietico, avevano tacitamente avallato la “conquista dello spazio vitale a Est” da parte di Hitler, che egli stesso aveva preannunciato nel “Mein Kampf”». Lo scrisse, Hitler, nel suo manifesto programmatico: «Vogliamo cominciare da dove abbiamo finito, sei secoli fa. Se fermiamo la perpetua marcia tedesca verso il Sud e l’Ovest dell’Europa, avremo sotto ai nostri occhi i paesi che si trovano ad Est». Quella era «la direzione della politica territoriale del futuro». Per chi non avesse capito: «Sia chiaro, comunque, che quando parliamo di “nuove terre” in Europa, parliamo soprattutto della Russia e dei paesi al confine orientale».
    A partire dal 1930, ricorda Rubtsov, i paesi occidentali attuarono verso la Germania una politica di “appeasement”, nel contesto generale costituito dalla piena cooperazione economica e finanziaria fra anglo-americani e Germania nazista, anche se Berlino si era appena ritirata dalla Società delle Nazioni e dalla conferenza di Ginevra sul disarmo mondiale. Da lì in poi, una sequenza ininterrotta di provocazioni e aggressioni. Prima la rioccupazione della Renania, smilitarizzata dopo il Trattato di Versailles. Poi l’annessione dell’Austria. «In nessun caso l’Occidente reagì». Nel 1937, il piano per invadere la Cecoslovacchia, pure protetta dal Patto di Monaco: subito dopo aver firmato l’accordo di non aggressione, insieme ad Arthur Neville Chamberlain, Edouard Daladier e Benito Mussolini, nel 1938 Hitler decise di marciare comunque su Praga e poi su Memel, il porto baltico che dal 1923 faceva parte della Lituania. Quindi nel marzo del 1939 l’ultimatum alla Polonia per ottenere il corridoio di Danzica, che divideva la Prussia Orientale dal resto della Germania. «Hitler era consapevole del fatto che nessuno, in Occidente, aveva intenzione di fermarlo: così, nell’aprile del 1939, ordinò segretamente che la Polonia doveva essere attaccata il successivo 1° settembre».
    Con l’occupazione della Cecoslovacchia, continua Rubtsov, il fine della politica di Hitler diventò il classico “segreto di pulcinella” anche per i politici e i diplomatici meno lungimiranti. Tutti sapevano che l’Unione Sovietica accarezzava la speranza di poter costruire un sistema di sicurezza collettivo in Europa. Mosca «riuscì a dar inizio, in effetti, a dei colloqui con Londra e Parigi, per la creazione di un’efficace alleanza in grado di contrastare l’aggressore. Ma quei colloqui rivelarono che i partner occidentali erano piuttosto riluttanti ad ostacolare la politica espansionistica di Hitler verso l’Oriente». Lo conferma il britannico Sir Alexander Cadogan, sottosegretario agli esteri: «Riferì in seguito che Chamberlain avrebbe preferito dimettersi (dalla premiership), piuttosto che stringere un accordo con i sovietici». Quando Hitler fece esplodere la Seconda Guerra Mondiale invadendo la Polonia, i leader occidentali preferirono puntare il dito contro l’accordo difensivo che Berlino appena firmato con Mosca. «Supportati dal coro della propaganda, dissero che la colpa per aver scatenato la guerra non era da attribuire alla politica di “appeasement” portata avanti dai paesi occidentali, ma piuttosto al “patto di non aggressione” fra l’Urss e la Germania».
    «Nonostante fossero chiaramente sulla strada che portava alla Seconda Guerra Mondiale – continua Rubtsov – né Londra, né Washington, né Parigi vollero lasciar spazio alla verità, in relazione a quegli eventi storici». Domanda: «Com’è possibile che questi paesi abbiano firmato il verdetto del “Processo di Norimberga”, che ha giudicato la Germania colpevole di crimini molto gravi (aver violato il “diritto internazionale” e le “leggi di guerra”), senza riconoscere chi c’era dietro alla Germania nazista?». In realtà, «le élites politiche e finanziarie degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e della Francia erano direttamente coinvolte nella promozione del regime nazista: hanno incitato Hitler a muoversi verso Est». Di fatto, «l’Occidente non ha mai riconosciuto la proprie responsabilità per aver dato sostegno al regime di Hitler». E oggi, nel 2014, «sta facendo del suo meglio», ancora una volta, «per impedire il ritorno della Russia sulla scena mondiale». Nessun imbarazzo, nele capitali occidentali, per il nazismo e la xenofobia del regime di Kiev. Si preferisce «far circolare la storia, inventata da Washington e imposta all’Europa, dell’aggressione russa contro l’Ucraina». Un classico: «La Russia viene prima provocata e poi demonizzata, per coinvolgerla direttamente nel conflitto interno ucraino». Attenzione: «L’ulcera del nazismo, combinata con le spinte russofobiche, sta guadagnando slancio». Già in passato, gli apprendisti stregoni dell’Occidente non riuscirono più a controllare il mostro che avevano contribuito a creare. Oggi va forte lo slogan “l’Ucraina innanzitutto”, un sinistro remake del motto nazista “Deutschland über Alles”. «Il motto “Ukraine über Alles” viene costantemente utilizzato per giustificare i crimini commessi dalle forze ucraine in Novorossiya».

    Criminali, bugiardi, complici. Non ci fa una bella figura, l’ipocrita Occidente, nemmeno rileggendo la Seconda Guerra Mondiale: furono americani e inglesi a scommettere su Hitler. Ne finanziarono l’ascesa in modo decisivo, incaricandolo – già allora – di una missione che ossessiona gli anglosassoni: colpire la Russia e affondarla. Lo ricorda Yuriy Rubtsov, alla luce degli attuali drammatici sviluppi in Ucraina: «I denti del drago devono essere conficcati ancora una volta nella carne viva dell’Europa», come già fu in passato. Lo conferma «la storia segreta dei rapporti fra Wall Street e la Germania nazista». Storia che nessuno ha voglia di rievocare, e che fu seppellita dalla solennità del Processo di Norimberga, che inchiodava la Germania sconfitta come unica colpevole, senza alleati atlantici. Se oggi sono in molti a definire “nazista” il golpe di Kiev costruito dagli Usa utilizzando l’estrema destra ucraina, Rubtsov chiarisce: «Per quanto ne sappiamo, l’Ucraina di oggi non può essere paragonata alla Germania di Hitler». Ma attenzione: «Non dimentichiamo che la folle corsa del nazismo ebbe inizio da uno sconosciuto caporale che predicava xenofobia e vendetta».

  • Cremaschi: Jobs Act, l’atroce legge del regime in arrivo

    Scritto il 27/9/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Il governo Renzi concede alle imprese libertà di spionaggio sui dipendenti, con telecamere e quant’altro. E questa violazione elementare dei diritti della persona viene da quegli stessi politici che si indignano di fronte a intercettazioni telefoniche della magistratura che tocchino loro o le loro amicizie. Con il demansionamento si afferma la licenza di degradare il lavoratore dopo una vita di fatiche per migliorarsi. E questo lo sostengono coloro che ogni secondo sproloquiano sulla necessità di premiare il merito. Con la riforma degli ammortizzatori sociali si tagliano la cassa integrazione e l’indennità di disoccupazione e per il futuro le si dimensiona in rapporto alla anzianità di lavoro effettivo. Cioè i giovani e le donne prenderanno meno degli anziani maschi. E questo in nome di un modello sociale scandinavo sbandierato dagli estensori del Jobs Act per ignoranza o per pura menzogna. Infine si aggiunge agli altri contratti precari, che al di là delle chiacchiere restano e con i voucher si estendono, quello a “tutele crescenti” per i nuovi assunti.
    Costoro in realtà nella loro crescita non incontreranno mai più l’articolo 18, quindi il loro contratto a tempo indeterminato in realtà sarà finto, perché essi saranno licenziabili in qualsiasi momento. Un contratto a termine al minuto, una ipocrita beffa. L’articolo 18 resterà come patrimonio personale dei vecchi assunti, quindi non solo mano mano si ridurrà la platea di chi usufruisce di quel diritto, ma saranno la stesse imprese a essere poste in tentazione di accelerare il ricambio dei loro dipendenti. Perché tenersi il lavoratore che ha ancora la tutela dell’articolo 18, quando se ne può assumere uno senza, pagato un terzo in meno? Renzi non fa niente di nuovo, anzi applica il principio classico degli accordi di concertazione: il “doppio regime”. I diritti contrattuali, le retribuzioni, le condizioni di orario e le qualifiche, l’accesso alla pensione, son stati negli ultimi trenta anni ridotti per tutti, ma ai nuovi assunti venivano negati completamente, a quelli con più anzianità di lavoro invece un poco restavano.
    I diritti non potevano più essere trasmessi da una generazione all’altra, ma diventavano una sorta di rendita personale per le generazioni che abbandonavano il lavoro. Questi accordi, sottoscritti dai sindacati confederali e applauditi dagli innovatori ora fan di Renzi, hanno creato l’apartheid. Renzi stesso mente sapendo di mentire quando sostiene di voler abolire la disparità di diritti, invece tutti i suoi provvedimenti la rafforzano ed estendono. Il Jobs Act aggiunge ferocia a ferocia, non cambierà nulla nelle dimensioni della disoccupazione, anzi i disoccupati aumenteranno, come è avvenuto in Grecia e Spagna che hanno per prime seguito la via oggi percorsa dal governo. Il Jobs Act non risolverà uno solo dei problemi produttivi delle imprese, soprattutto di quelle più piccole che non hanno mai avuto l’articolo 18, ma che sono in crisi più delle grandi. E allora perché si fa?
    Perché come scrivevano il 5 agosto 2011 Draghi e Trichet e come aggiungeva nel 2013 la banca Morgan, la protezione costituzionale del lavoro è un lusso che l’Italia non può più permettersi. I padroni d’Europa e della finanza vogliono un lavoro low cost in una società low cost, e tutto ciò che si oppone a questo loro disegno va trattato come un nemico. Cgil, Cisl e Uil in questi anni han lasciato passare tutto, sono state di una passività che il presidente del consiglio Monti arrivò persino a vantare all’estero. Eppure a Renzi non basta ancora, per lui i sindacati devono generosamente suicidarsi per fare spazio al nuovo. E questa è la seconda vera ragione del Jobs Act e del fanatismo con cui viene sostenuto: il valore simbolico reazionario dell’attacco all’articolo 18, che Renzi fa proprio per mettersi a capo di un regime.
    Un regime che non è il fascismo del secolo scorso, ma è un sistema autoritario che nega la sostanza sociale della nostra Costituzione e riduce la democrazia ad una parvenza formale, fondata sul plebiscitarismo mediatico e sull’assenza di diritti veri. Il Jobs Act è parte di una restaurazione sociale e politica peggiore di quella della signora Thatcher, perché fatta trent’anni dopo. Una restaurazione con la quale si pensa di affrontare la crisi economica per rendere permanenti le politiche di austerità, che, secondo la signora Lagarde direttrice del Fondo Monetario Internazionale, in Europa non son neppure cominciate. Una restaurazione che nel paese del gattopardo richiede un ceto politico avventuriero disposto a interpretarla come il nuovo che avanza. Per questo il governo Renzi è il governo della menzogna e l’affermazione della verità è il primo atto di resistenza contro il regime che vuole costruire.
    (Giorgio Cremaschi, “Jobs Act, un manifesto della malafede”, da “Micromega” del 22 settembre 2014).

    Il governo Renzi concede alle imprese libertà di spionaggio sui dipendenti, con telecamere e quant’altro. E questa violazione elementare dei diritti della persona viene da quegli stessi politici che si indignano di fronte a intercettazioni telefoniche della magistratura che tocchino loro o le loro amicizie. Con il demansionamento si afferma la licenza di degradare il lavoratore dopo una vita di fatiche per migliorarsi. E questo lo sostengono coloro che ogni secondo sproloquiano sulla necessità di premiare il merito. Con la riforma degli ammortizzatori sociali si tagliano la cassa integrazione e l’indennità di disoccupazione e per il futuro le si dimensiona in rapporto alla anzianità di lavoro effettivo. Cioè i giovani e le donne prenderanno meno degli anziani maschi. E questo in nome di un modello sociale scandinavo sbandierato dagli estensori del Jobs Act per ignoranza o per pura menzogna. Infine si aggiunge agli altri contratti precari, che al di là delle chiacchiere restano e con i voucher si estendono, quello a “tutele crescenti” per i nuovi assunti.

  • Italia affondata dall’euro, ma non per Grillo e Travaglio

    Scritto il 25/9/14 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    «Chi è oggi, cosa dice, cosa fa la sinistra italiana nel momento in cui la destra annaspa e dimostra di non essere la dispensatrice di miracoli che forse molti elettori avevano creduto che fosse? Si decide ad assumere un nome, un volto, un programma, oppure vuol continuare a fare (sia pure, bisogna riconoscerlo, sottovoce e urbanamente) delle prove d’orchestra alla Fellini? Sono domande che non aspettano risposte perché nessuno, purtroppo, ha i titoli per darne, ma che mezza Italia si pone. È vero che forse anche l’altra mezza. Ma non è una consolazione». Così Indro Montanelli, sul “Corriere” del 7 giugno 2001, un mese e mezzo prima di lasciarci, chiudeva quello che sarebbe stato il suo penultimo editoriale. S’intitolava “Il tricheco di sinistra” e, nel momento del massimo consenso berlusconiano, «profetizzava il declino del Caimano inseguito dalle sue bugie», scrive Marco Travaglio, «ma anche l’atavica incapacità della sinistra di proporre un progetto alternativo per le sue divisioni, compromissioni e confusioni». Oggi, «Grillo, Casaleggio e gli eletti M5S farebbero bene a leggerselo e a rifletterci».
    Il successo dei “5 Stelle”, continua Travaglio sul “Fatto Quotidiano”, «nasce proprio dal tradimento del centrosinistra», gravato da «inciuci e malaffari» e colpevole di aver «abbandonato i temi della legalità, dell’ambiente, dell’equità, della trasparenza e della partecipazione, regalando immense praterie ai “grillini”». Nella visione di Travaglio, tra le imputazioni a carico del centrosinistra, manca però la più importante, l’unica che pesi davvero nella grande crisi: l’analisi della situazione economica, la consegna dello Stato all’élite finanziaria per tramite dell’Unione Europea e del suo braccio armato, l’euro. Mai una denuncia chiara e inequivocabile, né da Travaglio né dai grillini. Alla vigilia delle europee, addirittura, Casaleggio dichiarò proprio a Travaglio: «Non siamo contro l’euro», testualmente. «Dopo sei mesi di campagna elettorale, Renzi è finalmente costretto a fare delle scelte e a misurare le sue slide con la dura realtà dei conti che non tornano e dei soldi che non ci sono», scrive Travaglio il 19 settembre sul suo giornale, ancora una volta senza domandarsi perché “i soldi non ci sono”.
    Il giornalista preferisce attaccare la propaganda di Renzi: «L’atterraggio dell’empireo dei tweet e dei selfie sulla terraferma dei numeri è tutt’altro che indolore». E aggiunge: «Il 99% degli annunci sono balle, ma soprattutto molte delle poche cose fatte non funzionano perché sono sbagliate. E qualcuno comincia a capire che la ripresa era una leggenda metropolitana e che a fare i sacrifici saranno i soliti noti: i lavoratori, un’altra volta scippati dei loro diritti; i contribuenti onesti, spremuti da un’evasione spaventosa che il governo non vuole neppure solleticare; e i cittadini, sempre più espropriati del diritto di voto (per il Senato e le Province, e pure per la Camera dei nominati)». Vero, in Parlamento i “5 Stelle” si sono battuti. «Ciò che manca però è un progetto complessivo che risulti credibile e autorevole», insiste Travaglio. Un progetto magari un po’ più solido delle sortite goliardiche di Grillo. Visibilità: manca «una figura credibile e autorevole» che ogni sera spieghi in televisione «la posizione della prima e spesso unica forza di opposizione». Quello che conta, però, i grillini non l’hanno ancora detto, né in aula né sui media. E cioè che, con l’euro – costosa moneta “straniera” presa a credito – nessuna uscita dalla crisi è possibile.

    «Chi è oggi, cosa dice, cosa fa la sinistra italiana nel momento in cui la destra annaspa e dimostra di non essere la dispensatrice di miracoli che forse molti elettori avevano creduto che fosse? Si decide ad assumere un nome, un volto, un programma, oppure vuol continuare a fare (sia pure, bisogna riconoscerlo, sottovoce e urbanamente) delle prove d’orchestra alla Fellini? Sono domande che non aspettano risposte perché nessuno, purtroppo, ha i titoli per darne, ma che mezza Italia si pone. È vero che forse anche l’altra mezza. Ma non è una consolazione». Così Indro Montanelli, sul “Corriere” del 7 giugno 2001, un mese e mezzo prima di lasciarci, chiudeva quello che sarebbe stato il suo penultimo editoriale. S’intitolava “Il tricheco di sinistra” e, nel momento del massimo consenso berlusconiano, «profetizzava il declino del Caimano inseguito dalle sue bugie», scrive Marco Travaglio, «ma anche l’atavica incapacità della sinistra di proporre un progetto alternativo per le sue divisioni, compromissioni e confusioni». Oggi, «Grillo, Casaleggio e gli eletti M5S farebbero bene a leggerselo e a rifletterci».

  • Il golpe dei mille giorni, Renzi continua a prenderci in giro

    Scritto il 24/9/14 • nella Categoria: idee • (6)

    In una situazione di emergenza nazionale in cui sia indispensabile compiere determinate mosse, è legittimato un governo emergenziale transitorio, privo di mandato popolare, che si insedii per fare immediatamente quelle poche cose necessarie, diciamo in cento giorni, e poi si vada alle elezioni, per passare dalla legittimazione emergenziale a quella democratica, che è quella normale. Un governo così non è più legittimo, ma commette un colpo di Stato, se non fa quelle cose ma converte il proprio termine da cento giorni a mille giorni oltre quelli che è già stato in carica, cioè se si converte da governo transitorio in governo di legislatura e medio termine, come se avesse avuto il mandato popolare. Ancor più ciò è vero se quel governo è il terzo governo emergenziale di fila senza mandato popolare. Aggiungiamo che questo governo emergenziale e non eletto è anche il terzo governo di fila che persegue certe determinate politiche economiche e sotto cui i fondamentali dell’economia stanno peggiorando, assieme alle prospettive economiche.
    Aggiungiamo ancora che tutti questi governi sono stati nominati e sostenuti specificamente nelle loro politiche economiche dal medesimo Capo dello Stato, sia pure su indicazioni o direttive straniere; onde qualora anche questo governo dovesse fallire e andarsene, quel medesimo Capo di Stato dovrebbe andarsene insieme ad esso, perdendo la faccia. Perciò è da temersi che farà di tutto per difenderlo nonostante i suoi insuccessi e la sempre più chiara illegittimità politica del suo premier. Renzi o chi per lui ha impostato la sua politica su due tempi: nel primo tempo, fino alle elezioni europee, l’obiettivo era raccogliere quanto più consenso popolare possibile suscitando aspettative a brevissimo termine; per poi usare, nel secondo tempo, questo consenso così ottenuto come legittimazione per restare a lungo al potere pur avendo tradito quelle aspettative.
    Così abbiamo avuto, nel primo tempo: a) la promessa di una grande riforma al mese – poi irrealizzata; b) la promessa di cambiare le regole dell’Ue soprattutto in punto di vincoli di bilancio – poi tradita con la piena adesione al rigore merkeliano e alla linea di Monti; c) l’attrazione di voti con la mancia degli 80 euro, che ora si scopre finanziata con prelievi da altre parti; d) la promessa di estensione a tutti di questa mancia, che ora Renzi ammette irrealizzabile; e) la promessa di rottamare i vecchi e di adottare le primarie come metodo per le elezioni degli enti territoriali – nettamente tradita con le nomine e conferme di uomini di apparato, senza primarie, ma con logica “ripartitoria”, soprattutto in Toscana; f) l’immagine vincente di attivismo, forza, sicurezza di sé, velocità – che ora si scoprono come modi per svolazzare intorno ai problemi, dando l’impressione di averli in pugno tutti ma senza affrontarne e trattarne realmente alcuno: l’unica possibilità per un inetto; g) la promessa di dimettersi se non avesse mantenuto le suddette promesse.
    Tutte queste ingannevoli promesse hanno nondimeno prodotto un raccolto di voti europei per il Pd, grazie a cui oggi Renzi può dire: è andata come è andata, i tempi si allungano, ma comunque io ho avuto il 41% dei consensi, quindi sono legittimato a governare; passiamo al passo dopo passo, ci prendiamo (ulteriori) mille giorni da oggi, realizzeremo il programma, giudicateci dopo. E questo si chiama barare. Quanti voti avresti preso, Renzi, se la gente avesse saputo che avresti tradito tutte le promesse in base alle quali ti votava? E poi: i voti per il Parlamento Europeo, come fai a convertirli in voti politici nazionali? E anche: che maggioranza avresti ora, e avresti avuto ieri in Senato, se Berlusconi non avesse il guinzaglio elettrico dei suoi processi e dell’affidamento in prova al servizio sociale, se cioè fosse politicamente libero? E’ grazie a questi fattori a dir poco anomali, a dir poco incostituzionali, che resti ancora sulla poltrona e che sei riuscito a mettere le mani sulla Costituzione, cincischiando con riforme sterili, mentre l’economia si sfascia sempre di più.
    (Marco Della Luna, “Il golpe dei mille giorni”, dal blog di Della Luna del 4 settembre 2014).

    In una situazione di emergenza nazionale in cui sia indispensabile compiere determinate mosse, è legittimato un governo emergenziale transitorio, privo di mandato popolare, che si insedii per fare immediatamente quelle poche cose necessarie, diciamo in cento giorni, e poi si vada alle elezioni, per passare dalla legittimazione emergenziale a quella democratica, che è quella normale. Un governo così non è più legittimo, ma commette un colpo di Stato, se non fa quelle cose ma converte il proprio termine da cento giorni a mille giorni oltre quelli che è già stato in carica, cioè se si converte da governo transitorio in governo di legislatura e medio termine, come se avesse avuto il mandato popolare. Ancor più ciò è vero se quel governo è il terzo governo emergenziale di fila senza mandato popolare. Aggiungiamo che questo governo emergenziale e non eletto è anche il terzo governo di fila che persegue certe determinate politiche economiche e sotto cui i fondamentali dell’economia stanno peggiorando, assieme alle prospettive economiche.

  • Attac: una rivolta dei sindaci contro l’esproprio dei servizi

    Scritto il 17/9/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Renzi peggio di Berlusconi. Se quest’ultimo, a non più tardi di due mesi dalla straordinaria vittoria referendaria sull’acqua del giugno 2011, aveva provato a rimettere in campo l’obbligatorietà della privatizzazione dei servizi pubblici locali (bocciata l’anno successivo dalla Corte Costituzionale), Renzi con il “pacchetto 12” contenuto nello “Sblocca Italia” fa molto di più: questa volta non si parla “solo” di privatizzazione, bensì di obbligo alla quotazione in Borsa. Entro un anno dall’entrata in vigore della legge, gli enti locali che gestiscono il trasporto pubblico locale o il servizio rifiuti dovranno collocare in Borsa o direttamente il 60%, oppure una quota ridotta, a patto che privatizzino la parte eccedente fino alla cessione del 49,9%. Se non accetteranno il diktat, scrive Marco Bersani, entro un anno dovranno mettere a gara la gestione dei servizi; se soccomberanno otterranno un prolungamento della concessione di ben 22 anni e 6 mesi. Che aspettano, i Comuni italiani, a ribellarsi? Primo passo: sfilarsi dall’Anci presieduta da Piero Fassino, che “tifa” per la fine del servizio pubblico.
    Come già Berlusconi, continua il portavoce di “Attac Italia”, anche Renzi si mette la foglia di fico di non nominare l’acqua fra i servizi da consegnare ai capitali finanziari. Ma a parte il fatto che il referendum non riguardava solo l’acqua, bensì tutti i servizi pubblici locali, è evidente l’effetto domino del provvedimento, sia sulle società multi-utility che già oggi gestiscono più servizi (acqua compresa), sia su tutti gli enti locali che verrebbero inevitabilmente spinti a privatizzare tutto, anche per poter usufruire delle somme derivanti dalla cessione di quote, che il governo pensa bene di sottrarre alle tenaglie del Patto di Stabilità. In fondo, è la direzione nella quale procedono il Ttip, il Trattato Transatlantico sul commercio Usa-Ue, e l’analogo Tisa, trattato sui servizi pubblici, al quale spalancherebbe una breccia definitiva la manomissione del Titolo V della Costituzione, spacciata come “riforma”, per impedire a Comuni e Regioni di continuare a gestire i servizi nell’interesse pubblico.
    «Nel pieno della crisi sistemica – scrive Bersani – ecco dunque il cambio di verso dello scattante premier: non più l’obsoleta privatizzazione dei servizi pubblici locali, bensì la loro diretta consegna agli interessi dei grandi capitali finanziari, che da tempo attendono di poter avviare un nuovo ciclo di accumulazione, attraverso “mercati” redditizi e sicuri (si può vivere senza beni essenziali?) e gestiti in condizione di monopolio assoluto (per un solo territorio vi è un solo acquedotto, un solo servizio rifiuti)». Da queste norme, «traspare in tutta evidenza l’idea non tanto dell’eliminazione del “pubblico” – quello è bene che rimanga, altrimenti chi potrebbe organizzare il controllo sociale autoritario delle comunità? – bensì della sua trasformazione da erogatore di servizi e garante di diritti, con un’eminente funzione pubblica e sociale, in veicolo per l’espansione della sfera d’influenza degli interessi finanziari sulla società».
    Ancora una volta, aggiunge Bersani, sarà la Cassa Depositi e Prestiti ad essere utilizzata per questo enorme «disegno di espropriazione dei beni comuni». Infatti, «come già per la dismissione del patrimonio pubblico degli enti locali, è già allo studio un apposito fondo per finanziare anche la privatizzazione dei servizi pubblici locali». Secondo l’esponente di “Attac”, emerge – oggi più che mai – la necessità di una «nuova, ampia e inclusiva mobilitazione sociale», che deve «assumere la riappropriazione della funzione pubblica e sociale dell’ente locale come obiettivo di tutti i movimenti in lotta per l’acqua e i beni comuni». Serve «una nuova finanza pubblica e sociale», ovviamente impensabile sotto il regime dell’euro, «a partire dalla socializzazione della Cassa Depositi e Prestiti». E se il disegno di espropriazione dei servizi pubblici locali «viene portato avanti con il pieno consenso dell’Anci, espresso a più riprese dal suo presidente Fassino», una domanda sorge spontanea: «Non è il momento per i molti sindaci che ancora non hanno abdicato al proprio ruolo di primi garanti della democrazia di prossimità per le comunità locali, di iniziare a ragionare su un’aggregazione alternativa degli enti locali, fuori e contro un’Anci al servizio dei poteri forti?».

    Renzi peggio di Berlusconi. Se quest’ultimo, a non più tardi di due mesi dalla straordinaria vittoria referendaria sull’acqua del giugno 2011, aveva provato a rimettere in campo l’obbligatorietà della privatizzazione dei servizi pubblici locali (bocciata l’anno successivo dalla Corte Costituzionale), Renzi con il “pacchetto 12” contenuto nello “Sblocca Italia” fa molto di più: questa volta non si parla “solo” di privatizzazione, bensì di obbligo alla quotazione in Borsa. Entro un anno dall’entrata in vigore della legge, gli enti locali che gestiscono il trasporto pubblico locale o il servizio rifiuti dovranno collocare in Borsa o direttamente il 60%, oppure una quota ridotta, a patto che privatizzino la parte eccedente fino alla cessione del 49,9%. Se non accetteranno il diktat, scrive Marco Bersani, entro un anno dovranno mettere a gara la gestione dei servizi; se soccomberanno otterranno un prolungamento della concessione di ben 22 anni e 6 mesi. Che aspettano, i Comuni italiani, a ribellarsi? Primo passo: sfilarsi dall’Anci presieduta da Piero Fassino, che “tifa” per la fine del servizio pubblico.

  • A cena con l’assassino: così il Ttip ci avvelena il menù

    Scritto il 15/9/14 • nella Categoria: segnalazioni • (7)

    Meno sicurezza alimentare significa più veleni, e quindi più malattie. E’ il grande business del colosso agroalimentare che sta facendo la parte del leone nelle trattative segrete tra Usa e Ue per il Ttip, il Trattato Transatlantico sul commercio destinato a sconvolgere l’equilibrio europeo delle tutele, frutto di mezzo secolo di leggi e conquiste. In questa partita epocale, condotta a porte chiuse sulla testa di mezzo miliardo di europei, il giornalista indipendente inglese Colin Todhunter svela il ruolo decisivo dei grandi industriali del cibo, decisi a fare piazza pulita degli «ostacoli normativi inutili». In altre parole: vogliono «indebolire le condizioni lavorative, sociali, ambientali e le norme a tutela dei consumatori». L’idea è dell’“High Level Working Group on Jobs and Growth”, super-lobby tecnocratica euroatlantica che dichiara di occuparsi di “crescita”. Oltre al settore delle biotecnologie, i gruppi di pressione per raggiungere l’accordo includono Toyota, General Motors, l’industria farmaceutica, Ibm e la Camera di Commercio degli Stati Uniti, massima lobby americana. Ma la fetta più grossa sarà quella dell’industria del cibo.
    “Business Europe”, la principale organizzazione che rappresenta i datori di lavoro in Europa, presentò la propria strategia in un trattato economico e commerciale Ue-Usa nei primi mesi del 2012, ricorda Todhunter in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”. I suoi “suggerimenti” furono ampiamente inclusi nella bozza di mandato dell’Ue. «L’accordo potrebbe autorizzare le società a sfidare legalmente una vasta gamma di regolamenti che esse non gradiscono». Il piano: «Guidare l’attività decisionale “sottobanco”, evitando in tal modo il controllo democratico e permettendo alle aziende di “tenere in ostaggio” i processi normativi». In pratica, l’Ue dovrebbe “riconoscere” le leggi Usa, che in fatto di tutela sono quasi inesistenti, specie in settori come l’agricoltura. «La lobby del cibo “Food and Drink Europe” ha richiesto l’agevolazione della presenza di un livello minimo di colture geneticamente modificate», oggi non autorizzate in Europa. «Ciò viene anche appoggiato dai giganti commerciali dei mangimi e dei cereali, tra cui Cargill, Bunge, Adm e la grande lobby agricola Copa-Cogeca».
    E il peggio è che «i negoziati per questo accordo sono avvolti nel mistero». Associazioni, sindacati e Ong? Tutti «estromessi, a favore di un agenda guidata dalle aziende». E’ il sintomo «dell’etica generale e delle pratiche dei burocrati e funzionari di Bruxelles», scrive Todhunter: se fosse approvato, il Ttip cementerebbe «la progressiva ristrutturazione delle economie a favore degli interessi delle élite». E l’altra pessima notizia – per la salute degli europei – è che «nessun settore ha esercitato più pressioni sulla Commissione Europea» di quello agroalimentare, attraverso il “Dg Trade”, cioè la direzione generale del commercio Ue. Secondo il Ceo, “Corporate Europe Observatory”, «le multinazionali del cibo, i commercianti agricoli e i produttori di sementi hanno avuto più contatti con il dipartimento» che non «i lobbisti della farmaceutica, della chimica, dell’industria finanziaria e delle auto messi insieme». Dei 560 incontri con le lobby che “Dg Trade” ha tenuto per preparare i negoziati, 520 (il 92%) sono stati con i lobbisti aziendali, mentre solo 26 (il 4%) con i gruppi di interesse pubblico. Per ogni incontro con un sindacato o gruppo di consumatori, ve ne sono stati 20 con le aziende e le federazioni industriali.
    Come rivela Pia Eberhardt, attivista per la parte commerciale nel Ceo, «“Dg Trade” ha attivamente coinvolto gli affaristi delle lobby nel redigere la posizione dell’Ue per il Ttip tenendo a bada i “fastidiosi” sindacalisti e altri gruppi di interesse pubblico». Risultato: nell’agenda «viene prima di tutto il business, che mette in pericolo molte conquiste per le quali le persone in Europa hanno a lungo lottato, dalle norme di sicurezza alimentare alla tutela dell’ambiente». E in prima fila, nell’assalto alle normative europee, c’è proprio l’industria dell’alimentazione. Lo conferma Nina Holland, attivista nel settore agroalimentare in ambito Ceo: «Le lobby del settore agroalimentare, come l’industria dei pesticidi, hanno fortemente dato una spinta ai loro programmi tramite i negoziati del Ttip con l’obiettivo di minare le vigenti normative alimentari dell’Ue. Strumenti commerciali come il “mutuo riconoscimento” e la “cooperazione regolamentare” rischiano di portare a un’erosione degli standard di sicurezza alimentare nel lungo periodo. L’industria sta anche cercando di utilizzare il Ttip per far deragliare importanti iniziative comunitarie come quella di affrontare il problema delle sostanze chimiche che alterano il sistema endocrino».
    Nella “grande abbuffata” ovviamente non mancano le telecomunicazioni e l’It (Information Technology), l’industria automobilistica, l’ingegneria e il settore chimico. A decidere, accanto agli statunitensi, sono soprattutto i colossi inglesi e tedeschi, rappresentati da “BusinessEurope” e dallo “European Service Forum”, una lobby a corredo di grandi società di servizi come Deutsche Bank e The City Uk. I dati, aggiunge Todhunter, rivelano poi che oltre il 30% (94 su 269) dei gruppi di interesse del settore privato che hanno esercitato pressioni sulla “Dg Trade” per il Ttip sono assenti dal Registro per la Trasparenza dell’Ue: tra questi, vi sono grandi aziende come Wal-Mart, Walt Disney, General Motors, France Telecom e Maersk. Alcune delle associazioni industriali che premono più duramente per il Ttip, come la Camera di Commercio degli Stati Uniti e “Transatlantic Business Council”, stanno esercitrando pressioni anche sotto il radar del registro delle lobby. E, a quanto pare, il boccone più grosso sarà quello che consentirà all’agribusiness di scegliere il nostro futuro menù, a scapito della qualità e della sicurezza di ciò che avremo nel piatto.

    Meno sicurezza alimentare significa più veleni, e quindi più malattie. E’ il grande business del colosso agroalimentare che sta facendo la parte del leone nelle trattative segrete tra Usa e Ue per il Ttip, il Trattato Transatlantico sul commercio destinato a sconvolgere l’equilibrio europeo delle tutele, frutto di mezzo secolo di leggi e conquiste. In questa partita epocale, condotta a porte chiuse sulla testa di mezzo miliardo di europei, il giornalista indipendente inglese Colin Todhunter svela il ruolo decisivo dei grandi industriali del cibo, decisi a fare piazza pulita degli «ostacoli normativi inutili». In altre parole: vogliono «indebolire le condizioni lavorative, sociali, ambientali e le norme a tutela dei consumatori». L’idea è dell’“High Level Working Group on Jobs and Growth”, super-lobby tecnocratica euroatlantica che dichiara di occuparsi di “crescita”. Oltre al settore delle biotecnologie, i gruppi di pressione per raggiungere l’accordo includono Toyota, General Motors, l’industria farmaceutica, Ibm e la Camera di Commercio degli Stati Uniti, massima lobby americana. Ma la fetta più grossa sarà quella dell’industria del cibo.

  • Ue, sogno massonico: la rivincita storica dei Templari

    Scritto il 14/9/14 • nella Categoria: idee • (11)

    E’ un caso che il cittadino europeo oggi non abbia più alcun potere, visto che il suo governo è sottomesso a Bruxelles a partire dai conti pubblici? Ovviamente no, si tratta di un piano. Ben sintetizzato dal più singolare “mostro” giuridico dell’Ue, il Trattato di Lisbona, 400 pagine di leggi «scritte in una forma volutamente pesante e incomprensibile». I Parlamenti le hanno ratificate senza discuterle, senza neppure leggerle. Quel corpus giuridico, per l’avvocato Paolo Franceschetti «rappresenta una delle ultime tappe del coronamento del sogno massonico del Nuovo Ordine Mondiale», cioè la fine delle sovranità nazionali e la centralizzazione assoluta del potere, a cominciare dal rafforzamento dell’Ue e dalla «creazione di una moneta unica elettronica». Studioso di storia esoterica, Franceschetti tira in ballo la massoneria: istituzione a cui dobbiamo moltissimo, precisa, perché contrastò l’oscurantismo secolare del Vaticano. Ma, aggiunge, se non se ne conosce la vicenda storica – con le sue “deviazioni” – non si può comprendere l’origine della pulsione egemonica e oligarchica delle élite che, di fatto, oggi hanno preso il potere nell’indifferenza generale.
    Secondo Franceschetti, il Trattato di Lisbona è uno strumento perfetto di questo progetto di dominio, perché aumenta i poteri del Consiglio Europeo, organismo «che nessuno conosce», e dispone «la diminuzione dei poteri del Parlamento Europeo» insieme alla «ulteriore perdita di sovranità degli Stati centrali in alcune materie chiave». Che c’entrano massoneria e Rosacroce con tutto questo? Suggestioni storico-leggendarie? Niente affattato, sostiene Franceschetti, secondo cui tutto comincia molti secoli fa, addirittura coi Templari, di cui il Trattato di Lisbona sarebbe «la vendetta ideale», dopo la fine dell’ordine cavalleresco all’inizio del ‘300. Vendetta che il capo dei Templari, Jacques de Molay, giurò contro il Papa e l’imperatore. «Se Jacques de Molay fosse vivo sarebbe senz’altro soddisfatto: la sua vendetta si realizza ogni giorno di più e tra pochi anni sarà completa», scrive Franceschetti, ripercorrendo la storia dell’ordine cristiano creato da nel 1139 da Ugo De Payns.
    Strano ordine: i Templari erano abili guerrieri, chiamati a proteggere le rotte dei pellegrini in Terra Santa, ma erano anche monaci e vivevano seguendo la regola dell’estrema povertà, poi codificata da San Bernardo. In più, erano onestissimi: per questo, ricevevano in custodia il denaro dei ricchi, dei nobili e dei sovrani. Diventeranno così «i primi banchieri al mondo». I Templari, continua Franceschetti, crearono «il primo sistema bancario mondiale», tanto da essere considerati «gli inventori del bancomat». Chiunque, infatti, «poteva depositare beni presso i centri templari che si impegnavano a custodirli». Al momento della consegna del denaro, «i Templari rilasciavano un attestato che dichiarava l’avvenuto deposito». Così, chi avesse depositato valori a Parigi poteva poi recuperarli anche in Italia, in Germania o in un qualsiasi altro centro templare, «che gli avrebbe rilasciato una identica quantità di oro».
    Sui Templari si è scritto di tutto, ma «quel che è certo è che acquisirono delle conoscenze e una sapienza particolari per quell’epoca», grazie al contatto con l’Oriente che permise loro di sviluppare «un patrimonio di conoscenze tratte sia dalla cultura cattolica ufficiale europea che dalla cultura cabalistica orientale». Divennero potenti, i Templari: troppo potenti. Alla fine del 1200, erano il super-potere dell’Europa cristiana: rispettati dagli imperatori, rispondevano solo al Papa. A decretarne la fine fu il sovrano francese Filippo il Bello, a corto di soldi, deciso a impossessarsi del “tesoro” dei cavalieri. Il Papa, Clemente V, non si oppose. Anzi, «soppresse l’ordine templare, depredò i loro beni e mandò al rogo migliaia di appartenenti all’ordine». Jacques de Molay, l’ultimo dei maestri templari, venne arso vivo il 18 marzo 1314. «Maledì il Papa e l’imperatore, i quali morirono nello stesso anno in circostanze “misteriose”».
    Molti Templari si rifugiarono in Svizzera, dove «crearono l’attuale sistema bancario» elvetico, continua Franceschetti. Nella Confederazione, «difesero le frontiere dagli invasori e continuarono la loro attività di banchieri». Nelle epoche successive, «molti sovrani depositavano in Svizzera i loro beni, e questa è la ragione della secolare neutralità svizzera durante tutta la storia europea: nessun sovrano avrebbe distrutto una nazione ove lui stesso aveva interessi economici». Non a caso, aggiunge l’avvocato Franceschetti, molti cantoni elvetici – e la stessa bandiera svizzera – recano «le insegne templari, o degli Ospitalieri di San Giovanni», “erranti” come gli stessi Cavalieri di Malta. Di fatto, i Templari perseguitati dalla Chiesa «conservarono la loro struttura, che sopravvisse in segreto».
    Struttura, continua Franceschetti, dalla quale «germinò la maggior parte delle società segrete che esistono anche oggi: Templari, Rosacroce, Massoneria, “Skull and Bones”, Illuminati». I Rosacroce, «la massoneria più potente e segreta», secondo lo studioso «altro non è che un ordine templare a cui apparteneva anche Dante Alighieri, che infatti è considerato un po’ il padre dei Rosacroce attuali». Non a caso, aggiunge l’avvocato, indagatore di molti “misteri irrisolti” della nostra storia recente, gli «omicidi massonici» vengono compiuti tutt’oggi con la regola del contrappasso dantesco: «Povero Dante! Se sapesse come è stata interpretata la sua “Divina Commedia” probabilmente si suiciderebbe da solo, e forse per la prima volta avremmo un suicidio vero, in questa Italia».
    Per Franceschetti, in ogni caso, ricostruire i passaggi-chiave della storia esoterica europea è fondamentale per capire meglio la storia ufficiale, fino alle attuali convulsioni sempre più autoritarie dell’Ue. Per questo è bene tener d’occhio i Templari, che “risorsero” in segreto nel 1313 in Scozia, con un nuovo emblema raffigurante un uccello, il pellicano, che è «uno dei simboli dei Rosacroce». All’interno della Chiesa Templare, «approvato dal Papa», nacque poi il “Sacro Collegio dei 33 Frati Maggiori della RosaCroce”, continua Franceschetti. Ma il «silenzio secolare» dei Rosacroce è rotto solo nel 1614, quando «entrano in scena ufficialmente, pubblicano il loro primo manifesto, la “Fama Fraternitas”, e si fanno conoscere in tutta Europa».
    Nel 1717, continua l’avvocato, i Rosacroce e i Templari «danno vita alla massoneria moderna, quella per così dire ufficiale». Mezzo secolo dopo, nel 1776, nasce l’ordine degli Illuminati «ad opera di Adam Weishaupt», ma secondo molti storici «questi altro non sono che un particolare ramo dei Rosacroce». Tutta l’Europa di quei secoli, dice Franceschetti, «è intrisa di cultura rosacrociana e massonica: basti pensare che sono “Rosacroce” Leonardo Da Vinci, Paracelso, Nostradamus, Bacone, Galileo, Giordano Bruno, Comenio, Cartesio, Newton, Leibniz, ma anche scrittori e romanzieri come Bram Stocker, Mary Shelley e Giulio Verne». Si badi: il fenomeno «è assolutamente positivo per la società di quel tempo: solo grazie ai Rosacroce, infatti, la ricerca scientifica e alchemica poté proseguire senza la persecuzione dei Papi e degli imperatori».
    Sono infatti «i ricercatori massonici, rosacrociani e templari» a battersi per lo sviluppo “eretico”, cioè libero, della conoscenza. Ovviamente, con tutte le cautele del caso: «Per sfuggire alle persecuzioni papali e imperiali, i Templari e i Rosacroce dovettero operare in segreto». Sullo sfondo, due avversari storici, da abbattere: la Chiesa cattolica, nemica del progresso dell’umanità, e il suo grande alleato, l’assolutismo monarchico nemico della libertà. Secondo Franceschetti, «molti Rosacroce, primo tra tutti Dante», coltivavano propositi più che altro riformisti, ma «il Rosacrocianesimo, come movimento mondialista anticattolico, ha potuto accogliere sotto le sue ali sia movimenti e idee positivi, come il buddismo, sia i movimenti satanisti o praticanti un esoterismo “nero”, come l’attuale Ordine della Rosa Rossa e della Croce d’oro, ovverossia la “Rosa Rossa”». Attraverso i secoli, la Chiesa ha dovuto quindi lottare per difendere la sopravvivenza del suo potere. «A un certo punto, resasi conto che non poteva vincere in un attacco frontale con la Chiesa, la massoneria decise per la strategia più ovvia: corrompere la Chiesa dall’interno, affiliando alla massoneria vescovi, cardinali e anche Papi».
    Sempre secondo Franceschetti, si può leggere anche come «il coronamento del sogno massonico» la decisione di Paolo VI di abolire la scomunica ai massoni. «E chissà che risate deve essersi fatto, il nostro Jacques de Molay, quando Paolo VI aprì le porte del Vaticano a Licio Gelli e Umberto Ortolani, i due padri della P2, nonché a Sindona». Ortolani venne addirittura nominato “Gentiluomo di Sua santità”, «onorificenza che gli permetteva di accedere alla residenza papale in qualsiasi momento, senza preavviso», mentre Gelli fu nominato commendatore “de equitem ordinis Sancti Silvestri Papae” nel 1965. Gelli e Ortolani «facevano entrambi parte dei Cavalieri di Malta, l’unico ordine cavalleresco ufficialmente riconosciuto dalla Chiesa». Il colpo mortale al Vasticano? «C’è stato con lo Ior, la banca vaticana», quando «la massoneria ha fatto affluire nella casse dello Ior ad opera delle banche Rotschild e Chase Manhattan ingenti flussi di denaro», trasformandolo in «un centro di riciclaggio del denaro per la criminalità organizzata di tutto il mondo, con un vincolo di segretezza superiore addirittura a quello delle banche svizzere».
    Spietata nemesi: «La corruzione, la violenza e l’intolleranza che la Chiesa ha dimostrato nei secoli, hanno permesso l’infiltrazione della massoneria per minare alla base il potere ecclesiale». Ma attenzione, «nessun fenomeno esiste se non ci sono i presupposti culturali e politici perché quel fenomeno cresca», con complicità ad ogni livello. Di massoneria, si sa, era intriso il Risorgimento: «Garibaldi e Mazzini furono due Maestri del Grande Oriente d’Italia». Abbattute le monarchie, però, «l’opera era solo all’inizio: occorreva realizzare quella comunità mondiale che era nel progetto rosacrociano». Per il passo successivo, in sostanza, serviva qualcosa come l’Unione Europea. Ci si arriva più facilmente con l’adozione del bipolarismo, che sforna pochi leader “controllabili” eliminando il “rischio” della democrazia reale. «Questo risultato in Italia è stato raggiunto mediante la cosiddetta strategia della tensione», sostiene Franceschetti: «Tutte le stragi degli anni di piombo, rosse e nere, fino alla stragi del ‘92, avevano infatti la regia unica di Gladio e della P2, con l’intento di trasformare il sistema-Italia da multipartitico a bipartitico».
    Facile osservare come la maggior parte del piano sia stata ormai realizzata, conclude Franceschetti: il bipolarismo introdotto nella maggioranza degli Stati e il Trattato di Lisbona che riduce l’Europa a un unico super-Stato. Che ne penserà il vecchio Jacques De Molay? «Avevano abbattuto e massacrato i suoi Templari perché stavano costituendo una specie di Stato sovranazionale pericoloso per gli imperi di allora; ma oggi la massoneria, che è la vera erede del sapere e delle tradizioni templari, ha ripreso il controllo della situazione creando un’organizzazione che è al di sopra degli Stati e che, anzi, ha in pugno gli Stati e i governanti». Un potere che, «come allora, ha il suo cuore nelle banche centrali», come la Bce, che non risponde neppure al Parlamento Europeo. Stati, governi, Parlamenti? Ridotti a pura rappresentanza, perché il potere è ormai «detenuto dalle banche» e la politica è completamente asservita alla finanza. A loro volta, banche e politica «sono controllate dalla massoneria», dice Franceschetti. «I Templari, insomma, hanno ricreato se stessi nel segreto, e oggi sono più potenti che mai», anche si mantengono “invisibili” (solo in Italia, le sigle riconducibili al mondo massonico sono tantissime: Grande Oriente, Gran Loggia Regolare, Umsoi, Stella D’Oriente, Roundtable, Cavalieri di Malta).
    C’è una storia parallela, sostiene Franceschetti, che resta sempre nell’ombra: come la militanza massonica di personaggi come Dante, Freud, Jung, Mozart. E’ tutto molto paradossale: anche grazie alla massoneria, «siamo transitati dal vecchio ordine mondiale fondato sul Papato e sugli imperi assoluti, a quello attuale». Purtroppo, in Italia, il transito verso la modernità liberale è stata pagata a caro prezzo: «Le stragi di Stato, i testimoni dei processi morti in modo inspiegabile, i poliziotti e i magistrati uccisi perché credevano di vivere in un sistema libero». E’ come se fossero stati sistematicamente uccisi «tutti quelli che in qualche modo si avvicinavano alla verità e arrivavano al cuore del sistema». E questo, perché i due grandi antagonisti – Vaticano e massoneria – «hanno avuto un curioso destino, praticamente identico». Sono nati «da due messaggi meravigliosi, quello di Cristo da una parte e quello del libero pensiero dall’altra», ma poi sono stati entrambi manipolati da «alcuni personaggi», decisi a trasformarli in «strumenti di potere», arrivando anche a usare «il crimine e la sopraffazione», quindi «rinnegando il messaggio originale».
    Non resta che sperare che, «da entrambi gli schieramenti, gli uomini più “illuminati” pongano fine a questa situazione per cercare nuove vie politiche, culturali, economiche, che siano più a misura d’uomo». Nel frattempo, mentre i “negazionisti” dominano la scena, il disegno oligarchico avanza incontrastato. Di Nuovo Ordine Mondiale, ricorda Franceschetti, parlava già nel 1600 il celebre Comenio, «teologo e filosofo rosacrociano». Oggi siamo a questo: abolire la sovranità nazionale degli Stati e sottometterli all’autorità di organizzazioni internazionali. E tra le “previsioni” degli ordinovisti non manca la guerra mondiale: esito evocato apertemente nel lontano 1870, lungo le pagine del carteggio tra Mazzini e Albert Pike. In quei documenti, sintetizza Franceschetti, se ne prefigurano addirittura tre: una prima guerra mondiale, per abbattere lo zarismo e instaurare il comunismo, anche in chiave anti-cattolica. Poi una seconda guerra mondiale per consentire, tra le altre cose, la creazione dello Stato di Israele. E infine una terza, originata dallo scontro tra sionismo e mondo islamico. Tutto questo, un secolo e mezzo fa. Studiare la storia della massoneria, insiste Franceschetti, ci permette di capire meglio cosa sta succedendo oggi.

    E’ un caso che il cittadino europeo oggi non abbia più alcun potere, visto che il suo governo è sottomesso a Bruxelles a partire dai conti pubblici? Ovviamente no, si tratta di un piano. Ben sintetizzato dal più singolare “mostro” giuridico dell’Ue, il Trattato di Lisbona, 400 pagine di leggi «scritte in una forma volutamente pesante e incomprensibile». I Parlamenti le hanno ratificate senza discuterle, senza neppure leggerle. Quel corpus giuridico, per l’avvocato Paolo Franceschetti «rappresenta una delle ultime tappe del coronamento del sogno massonico del Nuovo Ordine Mondiale», cioè la fine delle sovranità nazionali e la centralizzazione assoluta del potere, a cominciare dal rafforzamento dell’Ue e dalla «creazione di una moneta unica elettronica». Studioso di storia esoterica, Franceschetti tira in ballo la massoneria: istituzione a cui dobbiamo moltissimo, precisa, perché contrastò l’oscurantismo secolare del Vaticano. Ma, aggiunge, se non se ne conosce la vicenda storica – con le sue “deviazioni” – non si può comprendere l’origine della pulsione egemonica e oligarchica delle élite che, di fatto, oggi hanno preso il potere nell’indifferenza generale.

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