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Archivio del Tag ‘democrazia’

  • La verità su Ert, il super-clan che domina i nostri politici

    Scritto il 15/11/13 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Accanto all’oscuro Carlo Bozotti, re della micro-elettronica che controlla l’infrastruttura web, siedono Paolo Scaroni dell’Eni e rampolli delle più importanti dinastie dell’élite italiana, da John Elkann del gruppo Fiat a Rodolfo De Benedetti della Cir. Sono gli onnipotenti signori della Ert, European Round Table, la super-lobby più potente della Terra. Fondata trent’anni fa su iniziativa di Reagan per controllare l’Europa, con la partecipazione di italiani come Umberto Agnelli e Carlo De Benedetti, la Ert è oggi la vera struttura di comando dell’Unione Europea, quella che “detta” le direttive ai vari Barroso e Van Rompuy, le quali poi – a catena – le passano agli ultimi esecutori periferici, che in Italia si chiamano Berlusconi e D’Alema, Letta e Monti. La notizia? «Ormai, convinti di aver vinto, si sono aperti il loro bravo sito dove si presentano per ciò che sono, suddivisi per settori di competenze e segmenti di mercato». Prova a smascherarli un documentario dirompente, “The Brussels Business”, diretto da Friedrich Moser e Mathieu Lieuthert, che verrà proiettato nelle principali città europee.
    Sono la vera cupola che sovrintende al destino degli europei, scrive il blogger Sergio Di Cori Modigliani: «Decidono chi governa e chi non lo fa, stabiliscono se l’Italia avrà le larghe intese, se la Germania avrà la grosse koalition e se è il caso che il Belgio abbia o non abbia un governo. Decidono quali leggi far passare in Italia e nel resto d’Europa. Decidono quanti disoccupati ci devono essere o non essere, e se le imprese italiane devono o non devono essere pagate. Sono tutti membri del più potente club del pianeta Terra. In confronto, il Bilderberg è folklore per nuovi ricchi a caccia di status sociale da esibire». La foto di gruppo dei fondatori parla chiaro: sul ponte di comando figurano i signori Thyssen, Siemens, Shell, Philips, Nestlé, Volvo, Renault. Oggi sono ancora più potenti, da quando Bruxelles ha centralizzato ogni decisione sul nostro futuro. Bce, Fmi, Commissione Europea, Eurozona. Siamo nelle loro mani. Hanno migliaia di funzionari, miliardi di budget. «Controllano il 75% della produzione mediatica europea», e inoltre presidiano «le borse, i mercati, gli investimenti industriali». Stabiliscono tutto: «Le assunzioni nelle corporation e nelle aziende statali strategiche, le commesse militari, chi deve andare su e chi giù, chi andrà a dirigere i canali televisivi, i giornali, le banche». Leggi, capitali, leader. Decidono tutto loro: «Parlare di Berlusconi o di Letta è inutile, sono persone che non contano nulla».
    Il documentario di Moser e Lieuthert li mette a nudo: «Loro sono i monarchi, noi siamo i loro sudditi. Per queste persone noi non esistiamo come esseri umani, siamo – come ha ben sintetizzato il grande sociologo Zygmunt Bauman – un danno collaterale». Il loro obiettivo, in questa fase? «Distruggere ogni tentativo di costruire modelli di cittadinanza attiva e di opposizione ai partiti che loro controllano e finanziano in Europa». E’ intorno a questo club che si gioca la partita d’Europa, continua Modigliani: è fondamentale quindi conoscerne la genesi, le modalità di comportamento e la strategia di impiego. Solo così potremo «cominciare a parlare delle questioni vere, sapendo chi sono gli interlocutori veri, di cui in televisione e sul cartaceo non sentirete mai neppure una parola al riguardo». Chiaro: «Sapere chi sono e cosa fanno è fondamentale per aumentare le possibilità statistiche di poter vincere la battaglia europea per fermare questo massacro e avviare un processo di rifondazione dell’Europa dei diritti civili, della cultura, della civiltà: se non sappiamo neppure chi sono, come possiamo minimamente pensare di essere in grado di poterli contrastare?».

    Accanto all’oscuro Carlo Bozotti, re della micro-elettronica che controlla l’infrastruttura web, siedono Paolo Scaroni dell’Eni e rampolli delle più importanti dinastie dell’élite italiana, da John Elkann del gruppo Fiat a Rodolfo De Benedetti della Cir. Sono gli onnipotenti signori della Ert, European Round Table of Industrialists, la super-lobby più potente della Terra. Fondata trent’anni fa su iniziativa di Reagan per controllare l’Europa, con la partecipazione di italiani come Umberto Agnelli e Carlo De Benedetti, la Ert è oggi la vera struttura di comando dell’Unione Europea, quella che “detta” le direttive ai vari Barroso e Van Rompuy, i quali poi – a catena – le passano agli ultimi esecutori periferici, che in Italia si chiamano Berlusconi e D’Alema, Letta e Monti. La notizia? «Ormai, convinti di aver vinto, si sono aperti il loro bravo sito dove si presentano per ciò che sono, suddivisi per settori di competenze e segmenti di mercato». Ora prova a smascherarli un documentario dirompente, “The Brussels Business”, diretto da Friedrich Moser e Mathieu Lieuthert, che verrà proiettato nelle principali città europee.

  • Gallino: banche e governi, colpo di Stato contro di noi

    Scritto il 13/11/13 • nella Categoria: idee • (4)

    Curare la recessione con diktat recessivi? E’ il paradosso dell’Unione Europea, dal 2010 in poi: costringere le vittime della crisi – milioni di cittadini – a pagare i danni che la stessa crisi ha provocato. Una colossale serie di errori commessa da governi ottusi? No, purtroppo: impossibile pensare che non sapessero che l’austerità sarebbe stata «una ricetta suicida dal punto di vista economico, se non anche da quello politico». In realtà, accusa Luciano Gallino, i governanti europei «sapevano e sanno benissimo che le loro politiche di austerità stanno generando recessioni di lunga durata». Il problema è un altro: «Il compito che è stato affidato loro dalla classe dominante, di cui sono una frazione rappresentativa, non è certo quello di risanare l’economia: è piuttosto quello di proseguire con ogni mezzo la redistribuzione del reddito, della ricchezza e del potere politico dal basso verso l’alto». Un meccanismo spietato, «in corso da oltre trent’anni». Gallino lo chiama: il colpo di Stato di banche e governi.
    Il nemico da smascherare è proprio l’élite, «messa in pericolo dal fallimento delle politiche economiche fondate sull’espansione senza limiti del debito e della creazione di denaro privato a opera delle banche, diventato palese con l’esplosione della crisi finanziaria nel 2007».  I cittadini europei e americani, scrive Gallino nel suo ultimo libro pubblicato da Einaudi e anticipato da “Micromega”, hanno già sopportato pesanti oneri, «prima per il processo di espropriazione cui sono stati sottoposti», e in seguito «per le conseguenze dirette della crisi». Il problema dei governi è diventato: stroncare qualsiasi opposizione allo smantellamento del welfare. Due le mosse decisive: incolpare lo Stato (spesa pubblica) per i guasti di una crisi innescata in realtà dal sistema bancario, e inchiodare i cittadini alla paura, nella logica dell’emergenza. «Così come in caso di guerra non si tengono elezioni per stabilire chi e come debba razionare i viveri, di fronte all’emergenza denominata “debito eccessivo dei bilanci pubblici” le misure da intraprendere per sopravvivere sono concepite da ristretti organi centrali: a partire dal Consiglio Europeo, formato dai capi di Stato o di governo degli Stati membri».
    Al “piano di guerra” collaborano la Commissione Europea (il cui presidente fa parte del Consiglio) e naturalmente la Bce, con l’immancabile apporto del Fmi. In altre parole, la Troika: quella che emana diktat che i governi dovranno semplicemente ratificare ed eseguire. «Cosi è avvenuto per molti documenti: il memorandum inviato alla Grecia, il pacchetto di misure – mirate espressamente a smantellare lo stato sociale – chiamato Euro Plus, il cosiddetto “patto fiscale” ovvero Trattato sulla stabilità, la creazione del Meccanismo Europeo di Stabilità». Il trucco: «Essendo l’approvazione “chiesta dall’Europa”, i Parlamenti obbediscono, come è costretto a fare un organo politico in situazione di emergenza». Così, grazie a una super-casta composta da «poche dozzine di persone», la democrazia in Europa è «in corso di rapido svuotamento».
    Persino il Trattato della Ue, più attento al “libero mercato” che non alla democrazia, ormai «appare aggirato sotto il profilo legale e costituzionale dai dispositivi autoritari messi in atto di recente dai governi e dalla Troika». La libertà è finita: «Alle centinaia di milioni di cittadini della Ue, ciò che quel ristretto gruppo decide è presentato come “alternativlos”, cioè privo di qualsiasi alternativa: pena, minacciano i governi, il crollo dell’euro, dei bilanci sovrani, dell’intera economia europea». Di fronte a simili minacce, «che i media ripropongono ogni giorno a tamburo battente», i cittadini degli Stati-cardine della Ue hanno finora «subito a capo chino gli interventi dell’autoritarismo emergenziale dei loro governi e della Troika di Bruxelles», che ormai stanno assumendo il profilo di «un colpo di Stato a rate».

    Curare la recessione con diktat recessivi? E’ il paradosso dell’Unione Europea, dal 2010 in poi: costringere le vittime della crisi – milioni di cittadini – a pagare i danni che la stessa crisi ha provocato. Una colossale serie di errori commessa da governi ottusi? No, purtroppo: impossibile pensare che non sapessero che l’austerità sarebbe stata «una ricetta suicida dal punto di vista economico, se non anche da quello politico». In realtà, accusa Luciano Gallino, i governanti europei «sapevano e sanno benissimo che le loro politiche di austerità stanno generando recessioni di lunga durata». Il problema è un altro: «Il compito che è stato affidato loro dalla classe dominante, di cui sono una frazione rappresentativa, non è certo quello di risanare l’economia: è piuttosto quello di proseguire con ogni mezzo la redistribuzione del reddito, della ricchezza e del potere politico dal basso verso l’alto». Un meccanismo spietato, «in corso da oltre trent’anni». Gallino lo chiama: il colpo di Stato di banche e governi.

  • Krugman: complotto contro Hollande, che sfida la Troika

    Scritto il 12/11/13 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Un piano per stroncare Hollande, che avrebbe osato tener testa alla Troika. Il killer incaricato: l’agenzia di rating “Standard & Poor’s”, pronta a declassare la Francia nonostante abbia i bilanci in ordine. Certo, il presidente socialista non si è spinto fino al punto da denunciare Bruxelles, contestando il Fiscal Compact e il meccanismo oligarchico del tritacarne europeo (tagli per tutti, tranne che per i super-ricchi). Ma a irritare gli eurocrati è bastato che Parigi scegliesse di “interpretare” il rigore in modo meno feroce, puntando a proteggere i francesi. Lo rivela un peso massimo dell’economia mondiale, Paul Krugman, sceso in campo dalle pagine del “New York Times” in favore del capo dell’Eliseo: proprio mentre i sondaggi bocciano Hollande e lanciano Marine Le Pen, che minaccia l’uscita dall’euro e addirittura dall’Ue, il Premio Nobel vicino ad Obama sostiene che il livello di intolleranza della Troika è tale da mettere al bando, ricorrendo addirittura a un complotto, l’unico governante europeo che abbia osato anche solo negoziare l’adozione dell’austerity.
    Per Krugman, il declassamento della solvibilità francese è una «manovra politica destabilizzante»: Wall Street punisce Hollande per aver “osato” salvaguardare il welfare francese. «E’ la prima volta che un economista di punta americano, nonché consulente della Casa Bianca, professore e maestro di colei che andrà a guidare la Federal Reserve Usa, sbugiarda i rating americani denunciandone l’uso politico», scrive Sergio Di Cori Modigliani nel suo blog. Per il “maestro” di Janet Yellen, erede di Benanke alla Fed, «la Repubblica di Francia e monsieur Hollande sono vittime di un complotto del mondo della finanza e delle oligarchie politiche europee perché la Francia è l’unica nazione d’Europa che sta diminuendo il proprio disavanzo pubblico, sta migliorando i propri conti, è perfettamente in linea con i parametri europei, ma ha un difetto grave che nessuno gli perdona: ha salvato, sta salvando e intende salvare lo Stato Sociale della sua nazione».
    Black out totale, in Italia, sulle enormi ripercussioni dello scontro: da noi, scrive Di Cori Modigliani, si è sorvolato sull’incontro tra Hollande e la Troika nel corso del quale il presidente francese ha chiesto (e ottenuto) il permesso di sforare il tetto del 3% della spesa pubblica «fino alla cifra che riterremo opportuna per gli interessi della Francia», rimandando il pareggio di bilancio al 2015. «L’ha fatto Hollande, lo potevano fare Mario Monti ed Enrico Letta: sarebbe stato sufficiente convocare la Troika, un mese fa – invece che farsi convocare – pretendere di rimandare la scadenza europea al 2015 avvalendosi del precedente francese e sostenere “o ci date una deroga e ci consentite quindi di investire 100 miliardi di euro per pagare i debiti alle piccole e medie imprese immediatamente oppure noi usciamo dall’euro domattina”». Per il blogger, «la Troika si sarebbe arresa». Ma, ovviamente, sarebbero stati necessari «attributi solidi, non quelli di plastica di cui è fornita la nostra classe dirigente», in realtà perfettamente organica (Bilderberg, Goldman Sachs) al “cerchio magico” del super-potere mondiale.
    In un incontro pubblico all’università di New York, lo stesso Krugman ha rivelato con dovizia di particolari i retroscena del «tragico incontro» che, circa due mesi fa, François Hollande ha avuto con Herman Van Rompuy e Olli Rehn, due sbiaditi politici europei (Belgio, Finlandia) trasformati in “serial killer politici” dal potere non-democratico di Bruxelles. La Francia aveva appena presentato i propri conti alla famigerata Commissione Europea: erano tutti a posto e in linea con le richieste. Ma sia Van Rompuy che Olli Rehn, rispettivamente presidente del Consiglio d’Europa e super-commissario all’economia Ue, contestarono le misure “per come erano state fatte”. Perché Hollande, dice Modigliani, «aveva alzato le tasse ai super-ricchi e quelle sulle rendite finanziarie, aveva dimezzato i costi della politica, aveva aggredito (decurtandoli) gli stipendi dei grossi manager pubblici». E il risparmio così ottenuto, «invece di investirlo per rifinanziare le proprie banche lo aveva dirottato nell’istruzione pubblica, nella ricerca scientifica, nella salvaguardia e cura del patrimonio artistico nazionale, avviando un piano di recupero del territorio e di sostegno per la disoccupazione intellettuale, quest’ultima (per la Francia) una priorità assoluta di cui occuparsi». Attenzione alla perversa sottigliezza della Troika: «Non vennero contestati i conti, che erano a posto, ma venne contestato il principio sulle modalità usate per ottenere il beneplacito della Commissione Europea».
    Per la Troika «non era accettabile l’idea che lo stato sociale venisse salvaguardato, addirittura implementato». Quindi, non c’entra lo stato di salute del bilancio: quello che davvero importa è che i conti siano a posto «solo e soltanto se contemporaneamente aumenta la disoccupazione e le risorse non vengono investite nei campi dell’istruzione pubblica, della sanità pubblica, della ricerca scientifica». In Italia il Movimento 5 Stelle spiega come e dove trovare in soldi per i 600 euro mensili del “reddito di cittadinanza”? Una proposta sicuramente indigesta, per figuri come Rehn e Van Rompuy: ecco perché Letta & colleghi non la prendono nemmeno in considerazione. «La vera guerra in corso – conclude Modigliani – è tra gli oligarchi del privilegio e la cittadinanza che lavora: il mondo ormai si divide tra chi fa la guerra contro i poveri e chi fa la guerra contro la povertà». Hollande sa che i francesi non accetterebbero di veder cancellato il proprio welfare? E allora la Troika lo fa “bastonare” dalle agenzie di rating. Ora lo difende Krugman, ben sapendo che in panchina si sta già scaldando madame Le Pen: in viste delle europee, il Front National annuncia che, di questo passo, per rimettere piede in Francia, personaggi come Rehn e Van Rompuy dovranno esibire i loro documenti alla polizia di frontiera.

    Un piano per stroncare Hollande, che avrebbe osato tener testa alla Troika. Il killer incaricato: l’agenzia di rating “Standard & Poor’s”, pronta a declassare la Francia nonostante abbia i bilanci in ordine. Certo, il presidente socialista non si è spinto fino al punto da denunciare Bruxelles, contestando il Fiscal Compact e il meccanismo oligarchico del tritacarne europeo (tagli per tutti, tranne che per i super-ricchi). Ma a irritare gli eurocrati è bastato che Parigi scegliesse di “interpretare” il rigore in modo meno feroce, puntando a proteggere i francesi. Lo rivela un peso massimo dell’economia mondiale, Paul Krugman, sceso in campo dalle pagine del “New York Times” in favore del capo dell’Eliseo: proprio mentre i sondaggi bocciano Hollande e lanciano Marine Le Pen, che minaccia l’uscita dall’euro e addirittura dall’Ue, il Premio Nobel vicino ad Obama sostiene che il livello di intolleranza della Troika è tale da mettere al bando, ricorrendo addirittura a un complotto, l’unico governante europeo che abbia osato anche solo negoziare l’adozione dell’austerity.

  • Pritchard: se resta nell’euro, nel 2014 l’Italia collassa

    Scritto il 12/11/13 • nella Categoria: idee • (7)

    Enrico Letta aspetta che sia la Merkel a salvare l’Italia? Be’, buonanotte. Secondo Ambrose Evans-Pritchard, l’Italia sta scherzando col fuoco: avanti di questo passo, sotto la sferza dell’euro-rigore, il nostro paese rischia il collasso già nel 2014. Il problema? L’euro, ovviamente. E il regime di Bruxelles, che taglia lo Stato imponendo sacrifici con un unico orizzonte: la catastrofe. «Quello che serve in Europa oggi è uno shock economico sul modello dell’Abenomics», dice il columnist economico del “Telegraph”, indicando come modello il Giappone di Shinzo Abe. Sovranità monetaria e deficit positivo, per risollevare l’economia. «Italia, Spagna, Grecia e Portogallo, insieme alla Francia devono smettere di fare finta di non avere un interesse in comune da tutelare». Attenzione: «Questi paesi hanno i voti necessari per forzare un cambiamento». In Francia, sarà risolutiva Marine Le Pen: magari non conquisterà l’Eliseo, ma costringerà i grandi partiti a cambiare agenda, imponendo loro di fare finalmente i conti con Bruxelles, Berlino e la Bce.
    Per l’Italia, il disastro è imminente: «Senza un cambio di strategia forte», si prevede lo tsunami già nel 2014. «Il paese ha un avanzo primario del 2,5% del Pil, e ciononostante il suo debito continua ad aumentare: il dramma dell’Italia non è morale, ma dipende dalla crisi deflattiva cui è costretta per la sua partecipazione alla zona euro», dice Pritchard nell’intervista concessa ad Alessandro Bianchi e ripresa da “Come Don Chisciotte”. «La politica è fatta di scelte e di coraggio. Fino ad oggi non si è agito per impedire che si dissolvesse il consenso politico dell’euro in Germania. Ma oggi c’è una minaccia più grande. E se Berlino non dovesse accettare le nuove politiche, può anche uscire dal sistema». Fuori dall’euro, dunque. «Il ritorno di Spagna, Italia e Francia ad una valuta debole è proprio quello di cui i paesi latini hanno bisogno. Del resto, la minaccia tedesca è un bluff e i paesi dell’Europa meridionale devono smascherarlo. L’ora del confronto è arrivata». E Letta? Non pervenuto. Pritchard l’ha incontrato a Londra. «Alla mia domanda sul perché non si facesse promotore di un cartello con gli altri paesi dell’Europa in difficoltà per forzare questo cambiamento, il premier italiano mi ha risposto che secondo lui sarà Angela Merkel a mutare atteggiamento nel prossimo mandato e venire incontro alle esigenze del sud».
    Per l’analista inglese, «si tratta di un approccio assolutamente deludente», perché «come anche Hollande in Francia, Letta è un fervente credente del progetto di integrazione europea e non riesce ad accettare che l’attuale situazione sia un completo disastro». Chi agita la paura dell’uscita dall’euro dice che la svalutazione produrrebbe iper-inflazione, e questo metterebbe ko la nostra industria di fronte alla concorrenza della Cina. E’ vero esattamente il contrario, dice Pritchard: Pechino ha gioco facile col super-euro proprio perché mantiene lo yuan sottovalutato. La moneta europea è il nostro vero handicap: «L’euro è un’autentica maledizione per le esportazioni, che dipendono dai prezzi e dal tasso di cambio». Da quando vige la moneta della Bce, l’Europa ha perso rilevanti quote di mercato e l’export italiano è crollato. E a chi sostiene che un’uscita disordinata dall’euro produrrebbe iper-inflazione e impennate nei prezzi, Pritchard risponde che già ora i prezzi sono fuori controllo. Eppure, continuiamo a farci del male: in Italia il rapporto debito-Pil in soli due anni è schizzato dal 120 al 133%. E’ la trappola che sta portando il paese al collasso: «Il problema da combattere oggi è la deflazione, e non l’inflazione».
    Dalla stessa trappola, ricorda il giornalista del “Telegraph”, la Gran Bretagna uscì due volte – negli anni ’30 del Gold Standard e poi durante la crisi dello Sme nel ’91-92 – con lo stesso strumento: rafforzamento della sovranità monetaria e svalutazione per stimolare la ripresa. Il fantasma-inflazione? Smentito dai fatti: lo stimolo monetario ha prodotto nuova economia, senza alcun “impazzimento” dei prezzi. Per cui, «se dovesse lasciare l’euro, l’Italia dovrebbe optare per un grande stimolo monetario da parte della Banca d’Italia, una svalutazione ed una politica fiscale sotto controllo: questa combinazione garantirebbe al paese una transizione tranquilla e nessuna crisi fuori controllo». Ritorsioni da Berlino? «Niente di più falso», replica Pritchard: «Nel caso di un deprezzamento fuori controllo della lira, ad esempio, il più grande sconfitto sarebbe Berlino: le banche e le assicurazioni tedesche che hanno enormi investimenti in Italia sarebbero a rischio fallimento». Inoltre, «le industrie tedesche non potrebbero più competere con quelle italiane sui mercati globali». Quindi, la Bundesbank correrebbe ad acquisire sui mercati valutari internazionali le lire, i franchi, pesos o dracme per impedirne un crollo.
    «Si tratta di un punto molto importante da comprendere: nel caso in cui uno dei paesi meridionali dovesse decidere di lasciare il sistema in modo isolato, è nell’interesse dei paesi economici del nord Europa, in primis la Germania, impedire che la sua valuta sia fuori controllo e garantire una transizione lineare. Tutte le storie di terrore su eventuali disastri che leggiamo non hanno alcuna base economica». Lo sanno bene gli economisti di Parigi che ispirano la svolta sovranista di Marine Le Pen, che a partire dalle europee 2014 potrebbe dare la scossa necessaria all’inversione di rotta. «Il programma di Le Pen è chiaro: uscita immediata dall’euro – con il Tesoro francese che proporrà un accordo con i creditori tedeschi: se questi non l’accetteranno, la Francia tornerà lo stesso al franco e le perdite principali saranno per la Germania». Poi c’è la proposta di un referendum sull’Ue sul modello inglese proposto da Cameron. Prima reazione a Bruxelles: gli inglesi sarebbero “stupidi suicidi”. «Argomentazioni ridicole», afferma Pritchard: tutti sanno che, senza Londra (più l’Olanda e la Scandinavia), l’Ue sarebbe finita, e salterebbe anche l’equilibrio tra Francia e Germania. «La decisione inglese è un enorme avviso a Bruxelles: l’integrazione è andata troppo oltre il volere popolare e le popolazioni vogliono indietro alcuni poteri».
    La Costituzione europea, continua Pritchard, è stata rigettata dai referendum in Francia e in Olanda. Trattati imposti contro la volontà popolare? «Questa fase in cui si procede senza consultare i cittadini è finita. Questo tipo di arroganza è finito». Problema fondamentale: la confisca della politica economica nazionale. A imporre le tasse e i tagli alla spesa non può essere un organismo non eletto democraticamente. «Non è un caso che la guerra civile inglese sia iniziata nel 1640 quando il re ha cercato di togliere questi poteri al Parlamento o che la rivoluzione americana sia scoppiata quando questo potere è stato tolto da Londra a stati come Virginia o il Massachusetts». Quello che sta facendo Bruxelles è «pericoloso e antidemocratico». L’alibi è la salvezza dell’euro? «E’ ridicolo. La federazione deve essere subordinata ai grandi ideali che plasmano una società e non alla salvezza di una moneta. I paesi devono tornare alla realtà sociale al più presto e non devono pensare a strumenti di ingegneria finanziaria per far funzionare qualcosa che non può funzionare».
    Con buona pace degli eurocrati alla Enrico Letta, l’orizzonte decisivo è quello delle europee 2014, col previsto boom degli euroscettici. «Oggi il pericolo maggiore per i paesi dell’Europa meridionale si chiama crisi deflattiva», cioè: mancanza di liquidità, tagli alla spesa, asfissia dell’economia. La recessione «potrebbe presto trasformarsi in una depressione economica, in grado di rendere fuori controllo la traiettoria debito-Pil: è un potenziale disastro». In questo contesto, per il giornalista inglese, la politica si deve porre l’obiettivo del ritorno di una serie di poteri sovrani delegati a Bruxelles. Le elezioni del maggio prossimo? «Saranno un evento potenzialmente epocale: i partiti scettici dell’attuale architettura istituzionale potrebbero essere i primi in diversi paesi – l’Ukip in Gran Bretagna, il Fronte Nazionale in Francia, il Movimento 5 Stelle in Italia, Syriza in Grecia». Parleranno i popoli: gli elettori potranno «esprimere la loro irritazione e frustrazione contro le scelte da Bruxelles». Così, «un blocco politico importante potrà distruggere questo “mito artificiale” che si è costruito: l’Ue non sarà più la stessa e sarà costretta ad essere meno ambiziosa e comprendere che molte delle sue prerogative devono tornare agli Stati nazionali». In altre parole: «I governi di Italia, Spagna e Francia devono riprendere il pieno controllo delle vite dei loro cittadini e non pensare all’allargamento all’Ucraina o alla Turchia. Si tratta dell’ultima battaglia».

    Enrico Letta aspetta che sia la Merkel a salvare l’Italia? Be’, buonanotte. Secondo Ambrose Evans-Pritchard, l’Italia sta scherzando col fuoco: avanti di questo passo, sotto la sferza dell’euro-rigore, il nostro paese rischia il collasso già nel 2014. Il problema? L’euro, ovviamente, e il regime di Bruxelles, che taglia lo Stato imponendo sacrifici con un unico orizzonte: la catastrofe. «Quello che serve in Europa oggi è uno shock economico sul modello dell’Abenomics», dice il columnist economico del “Telegraph”, indicando come modello il Giappone di Shinzo Abe. Sovranità monetaria e deficit positivo, per risollevare l’economia. «Italia, Spagna, Grecia e Portogallo, insieme alla Francia devono smettere di fare finta di non avere un interesse in comune da tutelare». Attenzione: «Questi paesi hanno i voti necessari per forzare un cambiamento». In Francia, sarà risolutiva Marine Le Pen: magari non conquisterà l’Eliseo, ma costringerà i grandi partiti a cambiare agenda, imponendo loro di fare finalmente i conti con Bruxelles, Berlino e la Bce.

  • Nato economica: giudici scavalcati, il business sarà legge

    Scritto il 11/11/13 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    «Vi ricordate di quel referendum sulla creazione di un mercato unico con gli Stati Uniti? Sapete, quello in cui ci è stato chiesto se le multinazionali dovrebbero avere il potere di annullare le nostre leggi? No, nemmeno io». Geroge Monbiot, sul “Guardian”, avverte: è in arrivo l’ennesimo attacco letale a quel che resta della nostra sovranità: «Dopo tutta quella lunga e penosa discussione sul fatto se dobbiamo o meno restare nell’Unione Europea, il governo non cederà la nostra sovranità a qualche organismo-ombra antidemocratico senza consultarci. O no?». Lo scopo della Ttip, “Transatlantic Trade and Investment Partnership”, nota anche come “la Nato economica”, è quello di eliminare le differenze normative tra Usa e paesi europei. Dettaglio fatale: il nuovo potere «concederebbe al grande business di citare in giudizio i governi che cercano di difendere i propri cittadini». Ovvero, «consentirebbe a una giuria formata da giuristi d’impresa che operano a porte chiuse di non tener conto della volontà del Parlamento e annullare le nostre protezioni legali». E ovviamente, «i difensori della nostra sovranità» (politici, governi, partiti) «non ci dicono nulla».
    Il meccanismo attraverso cui si arriva a tutto ciò, scrive Monbiot in un servizio ripreso da “Megachip”, è noto come “investor-State dispute settlement”, cioè: risoluzione delle controversie tra Stati e investitori. «E’ già utilizzato in molte parti del mondo per togliere di mezzo le regolamentazioni a tutela delle persone e del pianeta vivente». Primo esempio, l’Australia: dopo un lungo dibattito dentro e fuori del Parlamento, il governo ha deciso che le sigarette avrebbero dovuto essere vendute in semplici pacchetti, contrassegnati solo con delle scioccanti avvertenze per la salute. Decisione convalidata dalla Corte Suprema australiana. «Ma, in seguito a un accordo commerciale tra l’Australia e Hong Kong, la società del tabacco Philip Morris ha agito presso un tribunale offshore per ottenere una ragguardevole somma a titolo di risarcimento per la perdita di quella che definisce una sua proprietà intellettuale». Altro caso, l’Argentina: durante la crisi, in risposta alla rabbia popolare, Buenos Aires aveva imposto il congelamento delle tariffe dell’energia e dell’acqua. Anche lì, però, il governo è stato citato in giudizio da quelle stesse società (internazionali) decise a lucrare sui servizi. Morale: «L’Argentina è stata costretta a pagare più di un miliardo di dollari di risarcimento».
    Stesso copione nel Salvador, dove le comunità locali hanno pagato un caro prezzo (tre attivisti uccisi) per convincere il governo a rifiutare la concessione per una grande miniera d’oro che minacciava di contaminare le riserve idriche. «Una vittoria per la democrazia? Non per molto, forse», annota Monbiot. «La società canadese che aveva chiesto la concessione ora sta citando El Salvador per 315 milioni di dollari – per la perdita dei suoi profitti futuri». Dal Salvador al Canada: un tribunale aveva revocato due brevetti di proprietà della società americana Eli Lilly, perché la società non aveva prodotto prove sufficienti sui presunti effetti benefici dei suoi prodotti. Eli Lilly ora sta facendo causa al governo canadese per 500 milioni di dollari, e chiede che le leggi sui brevetti del Canada siano cambiate. «Queste aziende (insieme a centinaia di altre) stanno utilizzando le regole sulla risoluzione delle controversie investitore-Stato incorporate nei trattati commerciali firmati dai paesi», scrive il giornalista del “Guardian”. «Le regole sono applicate da giurie che non offrono nessuna delle garanzie assicurate nei nostri tribunali».
    Le audizioni si svolgono a porte chiuse e i giudici sono avvocati aziendali, molti dei quali lavorano per le stesse società che agiscono in giudizio. I cittadini e le comunità colpite dalle loro decisioni non hanno più alcun valore legale: attraverso quei “giudici del business”, le aziende «possono rovesciare la sovranità dei Parlamenti» e perfino le sentenze delle corti supreme nazionali. Ammette uno dei giudici di questi tribunali: «A tre individui privati è affidato il potere di rivedere, senza alcun limite e senza possibilità di appello, tutte le azioni dei governi, tutte le decisioni dei tribunali, e tutte le leggi di regolamentazione emanate dal Parlamento. Non ci sono dei corrispondenti diritti dei cittadini, osserva Monbiot. «Non possiamo agire in questi tribunali per chiedere una migliore protezione dall’avidità delle società». Come dice il Democracy Centre, questo è «un sistema di giustizia privatizzata per società globali». Parlando delle regole introdotte dal North American Free Trade Agreement, un funzionario del governo canadese rivela: «Ho visto lettere in arrivo da New York e da studi legali con sede a Washington, praticamente su tutte le nuove normative e proposte a tutela dell’ambiente degli ultimi cinque anni. Riguardano prodotti chimici per lavaggio a secco, prodotti farmaceutici, pesticidi, diritti dei brevetti. Praticamente tutte le nuove iniziative sono state prese di mira e la maggior parte non ha mai visto la luce del giorno».
    Tecnicamente, è la fine della democrazia. E questo, aggiunge Monbiot, è esattamente «il sistema che ci governerà se il trattato transatlantico va avanti». Gli Usa e la Commissione Europea? Entrambi “catturati” dalle multinazionali. Per Bruxelles, i tribunali nazionali non offrono alle aziende una protezione adeguata perché «potrebbero essere prevenuti o non indipendenti». E’ vero il contrario, scrive il “Guardian”: «E’ proprio perché i nostri tribunali generalmente non hanno pregiudizi e sono indipendenti che le imprese vogliono bypassarli». Così, le nuove regole sulle controversie tra investitori e Stati «potrebbero essere utilizzate per distruggere ogni tentativo di salvare il sistema sanitario nazionale dal controllo societario, di regolamentare di nuovo le banche, di frenare l’avidità delle compagnie energetiche, di rinazionalizzare le ferrovie, di lasciare i combustibili fossili nel terreno». Queste regole, sintetizza Monbiot, «distruggono le alternative democratiche» e «mettono fuorilegge le politiche di sinistra», decretando la fine del welfare e della sicurezza sociale, storico pilastro dell’Europa nella quale siamo tutti cresciuti. “Riforme” clandestine, sostenute di soppiatto dai nostri attuali politici: «Questo è il motivo per cui non vi è stato alcun tentativo da parte del governo britannico di informarci su questa mostruosa aggressione alla democrazia, per non parlare poi di fare una consultazione popolare». A tacere sono i politici che «sbuffano a sentir parlare di sovranità», conclude Monbiot. «Svegliamoci, gente: ci stanno fregando».

    «Vi ricordate di quel referendum sulla creazione di un mercato unico con gli Stati Uniti? Sapete, quello in cui ci è stato chiesto se le multinazionali dovrebbero avere il potere di annullare le nostre leggi? No, nemmeno io». Geroge Monbiot, sul “Guardian”, avverte: è in arrivo l’ennesimo attacco letale a quel che resta della nostra sovranità: «Dopo tutta quella lunga e penosa discussione sul fatto se dobbiamo o meno restare nell’Unione Europea, il governo non cederà la nostra sovranità a qualche organismo-ombra antidemocratico senza consultarci. O no?». Lo scopo della Ttip, “Transatlantic Trade and Investment Partnership”, nota anche come “la Nato economica”, è quello di eliminare le differenze normative tra Usa e paesi europei. Dettaglio fatale: il nuovo potere «concederebbe al grande business di citare in giudizio i governi che cercano di difendere i propri cittadini». Ovvero, «consentirebbe a una giuria formata da giuristi d’impresa che operano a porte chiuse di non tener conto della volontà del Parlamento e annullare le nostre protezioni legali». E ovviamente, «i difensori della nostra sovranità» (politici, governi, partiti) «non ci dicono nulla».

  • Sgonfiare il malcontento: è la truffa delle larghe intese

    Scritto il 11/11/13 • nella Categoria: idee • (1)

    Cosa sarebbe successo se in questi due anni di larghe intese ci fosse stato un governo Berlusconi o un governo Bersani? Siamo usciti dal G8, è esploso il debito pubblico, sono state amputate le pensioni, è cresciuta la pressione fiscale, hanno chiuso decine di migliaia di piccole aziende e i disoccupati sono ormai 6 milioni. Se quello che ha fatto Monti l’avesse fatto il Cavaliere, credete che il Pd sarebbe rimasto silente, insieme alla Cgil e i media “amici”, dalla “Repubblica” fino a Fazio e Ballarò? Viceversa, se i pessimi risultati del governo Letta-Brunetta fossero stati frutto di un governo Pd, i media di Berlusconi sarebbero stati così accondiscendenti o avrebbero “gonfiato” la crisi, intervistando licenziati e imprenditori disperati? Nulla di questo è accaduto, dice Massimo Ragnedda, perché – grazie ai governi di unità nazionale, tecnici e non – nessuno ha interesse a cavalcare la protesta, perché Pd e Pdl di fatto hanno le stesse responsabilità. Vero risultato: addormentare il paese, bloccando sul nascere la protesta.
    «Se il malcontento non ha voce la protesta si sgonfia, o meglio non nasce», scrive Ragnedda su “Tiscali Notizie”. Aumentano la rassegnazione, la sfiducia nei confronti delle istituzioni e della classe politica, così come «la disaffezione, il qualunquismo del “son tutti uguali”». E, naturalmente, l’astensionismo. «Aumentano pertanto i margini di manovra di chi impone, lontano dai riflettori e lontano dalle scelte democratiche, le regole che i governi “devono” seguire». E’ esattamente la strategia della Troika, braccio operativo dei poteri forti. Strategia che si diffonde in tutta Europa, e che «a casa nostra ci viene imposta da Napolitano». E’ lui che «ha fatto cadere Berlusconi nel 2011 per imporci il governo Monti, super-amato dal Fmi e dall’élite finanziaria internazionale», ed è sempre lui che «ha tramato dietro le quinte per scongiurare l’elezione di Rodotà come presidente della Repubblica» per poi imporci Enrico Letta, «uomo della Trilaterale, del gruppo Bildeberg e dell’élite internazionale».
    Napolitano è tutt’altro che super-partes, accusa Ragnedda: il capo dello Stato è il vero regista dei governi di unità nazionale che servono ai poteri forti. «Governi che scontentano tutti (nessun elettore né di centrodestra né di centrosinistra avrebbe voluto questo governo), ma che sono la felicità della Troika che per imporre le sue scelte impopolari (far pagare la crisi ai poveri) ha bisogno di governi di emergenza nazionale». Governi che, per definizione, arginano al massimo la protesta, «silenziano mediaticamente la crisi e impediscono che qualcuno, per ragioni strumentali, possa dar voce al malcontento che pur aleggia». Le larghe intese servono appunto a questo: “sgonfiare” la rabbia sociale, «perché quando una pessima manovra è imposta (anche) dal partito che sostieni è più facile giustificarla e accettarla. E così, da due anni, gli italiani accettano quasi tutto».

    Cosa sarebbe successo se in questi due anni di larghe intese ci fosse stato un governo Berlusconi o un governo Bersani? Siamo usciti dal G8, è esploso il debito pubblico, sono state amputate le pensioni, è cresciuta la pressione fiscale, hanno chiuso decine di migliaia di piccole aziende e i disoccupati sono ormai 6 milioni. Se quello che ha fatto Monti l’avesse fatto il Cavaliere, credete che il Pd sarebbe rimasto silente, insieme alla Cgil e i media “amici”, dalla “Repubblica” fino a Fazio e Ballarò? Viceversa, se i pessimi risultati del governo Letta-Brunetta fossero stati frutto di un governo Pd, i media di Berlusconi sarebbero stati così accondiscendenti o avrebbero “gonfiato” la crisi, intervistando licenziati e imprenditori disperati? Nulla di questo è accaduto, dice Massimo Ragnedda, perché – grazie ai governi di unità nazionale, tecnici e non – nessuno ha interesse a cavalcare la protesta, perché Pd e Pdl di fatto hanno le stesse responsabilità. Vero risultato: addormentare il paese, bloccando sul nascere la protesta.

  • Il chip Nato che spia gli scolari e fa schiantare le auto

    Scritto il 06/11/13 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Michael Hastings, giornalista investigativo pluripremiato, è morto tra le fiamme il 18 giugno 2013 a Los Angeles mentre guidava una Mercedes del 2013. La notte prima aveva chiesto a un’amica, Jordana Thigpen, di prestargli la sua Volvo, poiché credeva che la sua Mercedes C250 fosse stata manomessa. Secondo la vedova, Elise Jordon, Michael aveva cominciato a indagare la “nuova guerra alla stampa” del direttore della Cia, John Brennan. Facendo eco allo scandalo Watergate, Hastings ha sostenuto che la Cia, con o senza autorizzazione, abbia iniziato a usare sofisticate tecniche militari di guerra psicologica contro giornalisti e politici. Anche per l’ex coordinatore dell’antiterrorismo Usa, Richard Clarke, un incidente stradale come quello costato la vita a Michael Hastings sarebbe “coerente con un attacco informatico all’auto”. Come per gli infarti, dice Tony Gosling, si ritiene ormai che questi “incidenti” ai freni delle vetture siano i preferiti dal crimine organizzato e dai servizi di intelligence, dal momento che sono così facili da spacciare per fatali guasti tecnici.
    «Il nostro sistema giudiziario, la polizia e i nostri giornalisti investigativi – sostiene Gosling in un post su “Rt”, ripreso da “Come Don Chisciotte” – non sono capaci di capire la tecnologia complessa», in continua evoluzione, «per non parlare della raccolta di prove sufficienti a decidere se questi eventi disastrosi siano incidenti o omicidi». La strana morte di Hastings? Un monito: le nostre libertà stanno andando in frantumi. Succede, dice Gosling, perché «in Occidente la tecnocrazia sta lentamente rimpiazzando la democrazia». Da quando «i mercati finanziari e gli oscuri gnomi di Zurigo hanno cominciato a scegliere i nostri leader politici», i super-tecnocrati, «strozzini e simpatizzanti della Goldman Sachs, la piovra che sta venendo fuori quale vero potere del mondo occidentale», utilizzano anche compagnie poco note, che però «detengono brevetti di valore» e, come prestigiatori, «producono e immettono sul mercato nuovi sfavillanti dispositivi scientifici».
    Tecnologia che in mano pubblica sarebbe liberatoria, mentre in mano ai “predoni” può fare disastri. E senza che ce ne rendiamo conto: «Quando i nostri deputati, giornalisti e avvocati memorizzano i dati della loro rubrica telefonica usando un servizio di sincronizzazione, o fanno un backup di documenti su “The Cloud”, non hanno nessuna idea di dove vada a finire il loro prezioso lavoro. Condividono i loro dati senza pensarci troppo con aziende che potrebbero tranquillamente copiarli, rivenderli a terzi o perfino corromperli prima di farglieli riavere». I super-tecnocrati della “rivoluzione digitale”, continua Gosling, hanno precisi progetti per i prossimi decenni: «Rubano terreno ai governi eletti usando la “riservatezza commerciale” per tenere all’oscuro la stampa, i politici e il pubblico». E oggi, cioè nell’era della sorveglianza di massa, con l’opinione pubblica narcotizzata dal mainstream, «possono acquistare le informazioni per sapere ciò che i politici eletti stanno per fare, o perfino quello che hanno intenzione di fare, e investire così vaste risorse in contromosse».
    Tecnologia invisibile per controllare tutti. E anche per uccidere, per esempio chi è al volante della propria auto? A confermare indirettamente i pesanti sospetti sulla fine di Michael Hastings è la rivista “Autoweek Magazine”, che si domanda: «Chi è al controllo della tua auto? Governo e privati adesso possono controllarla a distanza». I computer di bordo sono penetrabili da hacker? E se il dispositivo si inchioda, causando un’accelerazione involontaria e un incidente mortale? «Più una tecnologia è poco visibile – aggiunge Gosling – e più è alta la probabilità che rimanga non regolamentata». Non solo: a utilizzarla saranno soprattutto giovani, portati ad accettarla «senza porsi troppe domande, in quanto “cool”». Tra le tecnologie segrete meno comprese e praticamente non regolamentate c’è l’insidioso chip Rfid, “Radio Frequency Identifcation”, che rileva i movimenti tramite le frequenze radio. «Si tratta di piccoli “trasponder” wireless a circuito stampato, usati perlopiù per tracciare i movimenti in magazzino, sebbene siano in aumento per quanto riguarda il pagamento tramite carte di credito “contactless”, senza contatto». Questi chip, continua Gosling, sono elettricamente attivi per anni, alcuni anche per tempi indefiniti.
    Dal settembre 2013, gli scolari inglesi sono schedati in modo digitale: il governo britannico ha eseguito la scansioni dell’iride oculare, del riconoscimento facciale, dell’impronta del dito e del palmo – in una parola, la “biometria” degli alunni. Solo che sta crescendo il numero di minori che rifiutano di sottoporsi alla schedatura, introdotta per automatizzare i sistemi di ingresso alle mense e alle biblioteche. Nel caso la “biometria” venisse abbandonata, assicura Gosling, è già pronta la tecnologia Rfid: «Dal 2010 al febbraio 2013, il West Cheshire College vicino Liverpool ha dato a tutti i suoi studenti dei cartellini da indossare con dei chip compatibili, 433 Mhz». Certo, quei cartellini «permettono agli studenti di usufruire dei servizi». Ma i sensori disseminati in tutta la scuola «consentono di tracciare i movimenti degli studenti nel campus, come dei puntini da seguire sullo schermo». Attenzione: quando un giornale nel febbraio 2013 chiese chiarimenti al preside, il fornitore dei chip li fece sparire dalla scuola, eliminando ogni traccia di sensori e cartellini.
    Quei sensori, forniti da un’azienda che si chiama Zebra, offrivano la possibilità di monitorare i ragazzi non solo da parte delle autorità scolastiche, ma anche dai militari: l’origine Nato della tecnologia, e quindi la necessità di proteggerne la segretezza, secondo “Rt” spiega la rapidità della “sparizione delle prove” dal college inglese usato come area-test. La Nato, racconta Gosling, dispone di un sistema Rfid riservato, chiamato “In Transit Visibility Network”, con sensori 433 Mhz sparsi in tutto il nord America e l’Europa occidentale. Una mappatura che serve a «tenere d’occhio le munizioni, i serbatoi e altri armamenti quando si spostano da un posto all’altro». Fin qui, tutto bene. A patto però che, a finire “microchippate” a nostra insaputa, già al momento della fabbricazione, non siano anche le nostre auto, insieme ai nostri telefoni, le carte di credito e magari anche «i nostri figli, quando durante il giorno vanno in giro innocentemente».
    Anziché proteggerci, conclude Gosling, la Nato e i tecnocrati dell’industria militare «stanno trasformando ogni singolo essere umano in un sospetto criminale». E questo, senza l’autorizzazione di nessun giudice. Più che una “rivoluzione digitale”, «la loro idea è quella di una gabbia digitale: mai gli incubi malati dei peggiori tiranni sono stati così vicini all’essersi realizzati». Il mondo civile ora deve assolutamente «bloccare i veicoli computerizzati e questa tecnologia Rfid, e renderla soggetta al consenso del singolo e dei genitori, così come ha fatto la Gran Bretagna con la “biometria”». Meglio agire in fretta, «prima che le nostre scuole e le nostre strade diventino prigioni digitali e i nostri figli siano seguiti dai militari ovunque vadano».

    Michael Hastings, giornalista investigativo pluripremiato, è morto tra le fiamme il 18 giugno 2013 a Los Angeles mentre guidava una Mercedes del 2013. La notte prima aveva chiesto a un’amica, Jordana Thigpen, di prestargli la sua Volvo, poiché credeva che la sua Mercedes C250 fosse stata manomessa. Secondo la vedova, Elise Jordon, Michael aveva cominciato a indagare la “nuova guerra alla stampa” del direttore della Cia, John Brennan. Facendo eco allo scandalo Watergate, Hastings ha sostenuto che la Cia, con o senza autorizzazione, abbia iniziato a usare sofisticate tecniche militari di guerra psicologica contro giornalisti e politici. Anche per l’ex coordinatore dell’antiterrorismo Usa, Richard Clarke, un incidente stradale come quello costato la vita a Michael Hastings sarebbe “coerente con un attacco informatico all’auto”. Come per gli infarti, dice Tony Gosling, si ritiene ormai che questi “incidenti” ai freni delle vetture siano i preferiti dal crimine organizzato e dai servizi di intelligence, dal momento che sono così facili da spacciare per fatali guasti tecnici.

  • Achtung Grillo, i nemici dell’Europa e quelli dell’Italia

    Scritto il 05/11/13 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Nell’Europa che ha in testa l’establishment, sintetizza Claudio Messora, «l’Italia diventa la Calabria e Helsinki la Lombardia». Ma per Eugenio Scalfari il problema non è questo, bensì Beppe Grillo: se vince, sostiene il fondatore di “Repubblica”, l’Italia «va a rotoli». Perché, ora dove sta andando? «In Grecia, a nuoto», per dirla con Giulietto Chiesa. Ma il mainstream tiene duro: in televisione, il solo Gianluigi Paragone dà fiato all’alternativa, ospitando economisti democratici e “guastatori” come Paolo Barnard, mentre la stessa Milena Gabanelli, su “Report”, continua a imputare alla sola “casta” italiana le colpe della crisi, senza “vedere” il disegno che da Bruxelles sta piegando il paese. La stessa grande paura accomuna tutti gli operatori che presidiano la comunicazione: guai se alle prossime elezioni europee – maggio 2014 – dovesse svegliarsi l’Europa, quella vera, incarnata dai popoli che si stanno ribellando alla crisi imposta dall’élite finanziaria globalizzatrice.
    A dare l’allarme è lo stesso Enrico Letta, uomo Bilderberg: «Se i populisti in Europa superassero una percentuale del 25% questo sarebbe molto preoccupante», dichiara il premier a “La Stampa”. «Il rischio che il Cinque Stelle risulti il primo partito alle europee è molto forte: non possiamo limitarci ad essere timidi con Grillo». Timore condiviso da un euro-oligarca come il tedesco Martin Schulz, secondo cui «la possibilità che nel prossimo Europarlamento ci sia tra un quarto e un quinto di deputati euroscettici o populisti è ormai più che probabile». Mai nessuno che si pronunci sulle cause del terremoto elettorale in arrivo. Eppure, aggiunge lo stesso Messora, basta ascoltare quello che Mario Monti (Bilderberg, Trilaterale, Goldman Sachs) ha appena detto alla Cnn: «Stiamo effettivamente distruggendo la domanda interna attraverso il consolidamento fiscale.  Quindi, ci deve essere una operazione di domanda attraverso l’Europa, un’espansione della domanda». Mai stato così chiaro, Monti. «Come si distrugge la domanda interna? Alzi le tasse e svaluti i salari», dice Messora, «così la gente non ha più soldi e compra di meno».
    Ma non basta: lo Stato potrebbe sempre alzare la spesa a deficit, cioè investire sui cittadini, mediante politiche sociali (reddito di cittadinanza) o creando lavoro. «E allora cosa facciamo? Semplice: inventiamo il pareggio di bilancio e lo mettiamo addirittura nella Costituzione, così da rendere impossibile qualunque ripensamento. Era l’equazione che ci avrebbe matematicamente reso più poveri: se costringi la somma delle entrate e delle uscite di uno Stato ad annullarsi a vicenda, allora se punti sulle esportazioni devi per forza massacrare i portafogli». E’ quello che ha fatto Monti. Più “domanda attraverso l’Europa” significa «diventare un centro di produzione a basso costo per i ricchi paesi del nord (Germania in testa), una specie di Cina europea, così da non essere costretti a comprare dai trafficanti di diritti di Pechino, per togliere il mercato all’oriente spregiudicato». A quel punto, la strada è obbligata: tagliare i costi di produzione. «E siccome le materie prime le paghiamo sempre uguale, bisogna pagare di meno gli stipendi e diminuire i diritti (vi dice niente la battaglia per la modifica dell’articolo 18?)».
    E come li costringi, i lavoratori, ad accettare uno standard di vita meno dignitoso? Ci si arriva per gradi: «Li getti nella crisi più nera, svendi tutto il patrimonio di economia nazionale e permetti ai nuovi padroni di delocalizzare all’estero. Gli togli le case con Equitalia. Costringi le fabbriche a chiudere: meno offerta di lavoro uguale più domanda, cioè milioni di persone senza reddito disposte a qualunque cosa pur di avere un tozzo di pane». Il paradiso dei tedeschi, affamati di aziende da comprare in saldo e di lavoro a basso costo per il loro export. «Venire a fare shopping in Italia è come andare all’outlet nel periodo dei saldi». Per Messora, non è irrilevante il risvolto geopolitico: un’Europa germanizzata può «limitare lo strapotere commerciale dei Brics, e magari togliere potere a quella Cina che detiene la maggior parte del debito americano».
    Funziona così: «Prendi un paese massacrato dal debito pubblico, ricattabile, ma anche industrializzato, dunque con le possibilità e le competenze produttive per soddisfare la tua domanda, e lo trasformi in una miniera a basso costo. Un piano iniziato negli anni ’80, ai tempi di Kohl e Mitterrand». Per Messora, non è altro che «un disegno criminoso, deciso sulla testa dei popoli, senza consultarli». Una strategia complessiva che fonda tutte le sue possibilità sull’onnipotenza di una élite che domina incontrastata, attraverso il controllo della meta-finanza europea la costruzione di un’unica, enorme, sovra-nazione «dove il controllo democratico è inesistente (e dove i think-tank sostituiscono i parlamenti)». A questo progetto oligarchico, «i socialismi europei hanno venduto l’anima». Certo, resta ancora «un’opinione pubblica da condizionare, da convincere che non esistono altre strade». E allora, bisogna «monitorare le comunicazioni nei paesi euroscettici, per identificare i temi più rilevanti e per assoldare una squadra di piccoli Goebbels in grado di reagire prontamente e fare una propaganda mirata», accusando di “populismo” chi contrasta l’oligarchia dominante.
    E’ il tema della crociata alle porte: «Bisogna combattere i “populismi”, cioè chiunque insista nel coltivare la convinzione che le élite non abbiano un mandato divino a governare sul cielo e sulla terra (né le loro soluzioni siano le migliori a prescindere), ma la sovranità appartenga al popolo». E’ quello che fa l’anziano Scalfari, tra una cena e l’altra con Napolitano e Draghi: l’importante è demonizzare Grillo, evitando accuratamente di spiegare le ragioni del suo successo, cioè il fallimento catastrofico della resa italiana agli euro-diktat. Nella sua replica, Grillo sfotte Scalfari: mi ha paragonato, dice, agli invasori marziani evocati da Orson Welles nel 1938. «Alla bufala di Welles credettero sei milioni di persone, a Scalfari non crede neppure più De Benedetti», scrive Grillo. «E’ il tempo della panchina lunga, caro Eugenio, magari al Pincio. Tu, l’Ingegnere e Napolitano a ricordare i vecchi tempi. Quando gli elettori, il cosiddetto popolo così tanto disprezzato non contava nulla. Bei tempi quelli, ma non torneranno più». Da Palazzo Chigi, Enrico Letta strepita: «Fermiamo i nemici dell’Europa». A partire dalle prossime europee, milioni di cittadini cercheranno invece di fermare, innanzitutto, i nemici dell’Italia.

    Nell’Europa che ha in testa l’establishment, sintetizza Claudio Messora, «l’Italia diventa la Calabria e Helsinki la Lombardia». Ma per Eugenio Scalfari il problema non è questo, bensì Beppe Grillo: se vince, sostiene il fondatore di “Repubblica”, l’Italia «va a rotoli». Perché, ora dove sta andando? «In Grecia, a nuoto», per dirla con Giulietto Chiesa. Ma il mainstream tiene duro: in televisione, il solo Gianluigi Paragone dà fiato all’alternativa, ospitando economisti democratici e “guastatori” come Paolo Barnard, mentre la stessa Milena Gabanelli, su “Report”, continua a imputare alla sola “casta” italiana le colpe della crisi, senza “vedere” il disegno che da Bruxelles sta piegando il paese. La stessa grande paura accomuna tutti gli operatori che presidiano la comunicazione: guai se alle prossime elezioni europee – maggio 2014 – dovesse svegliarsi l’Europa, quella vera, incarnata dai popoli che si stanno ribellando alla crisi imposta dall’élite finanziaria globalizzatrice.

  • Lerner: proni ai diktat Ue, il Grillo no-euro vi punirà

    Scritto il 04/11/13 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Unione Europea intoccabile? Chiunque la critichi da sinistra, chiedendo una revisione dei trattati-capestro per allentare il rigore in nome della giustizia sociale, viene subito bollato come sovversivo. Dunque poi non ci si lamenti, osserva Gad Lerner, se a fare il pieno di voti alle prossime europee sarà Beppe Grillo, che ora attacca Napolitano, «individuato come il garante della stabilità del nostro sistema di fronte all’establishment dell’Unione Europea». Parola d’ordine del terzo Vday: “L’Italia non deve più versare il suo tributo di sangue all’Europa”. Primo atto di una lunga campagna elettorale. Obiettivo: «Trasformare in plebiscito no-euro l’ostilità abbattutasi un po’ dappertutto sull’Ue, e liquidare come velleità riservata ai benestanti gli ideali della sinistra europeista». Molto probabile che, a maggio 2014, il “referendum contro l’Europa dell’euro” incoroni come partito di maggioranza relativa la formazione grillina, che avrà buon gioco «nell’indicare il governo delle larghe intese, e la sua sudditanza ai diktat di Bruxelles, come i responsabili della crescente sofferenza sociale».
    La stessa contrarietà dichiarata da Grillo all’abrogazione del reato di immigrazione clandestina, aggiunge Lerner, conferma che il leader del M5S «vuole assecondare la sindrome da invasione straniera, impersonata altrove dai partiti populisti e xenofobi antieuropei, per offrirsi così come punto di riferimento all’elettorato di destra in libera uscita». Sfumature “strumentali” a parte, il progetto di Grillo è ambizioso: «Mira infatti a una clamorosa bocciatura per via elettorale di quegli “stupidi” parametri con cui, vent’anni fa a Maastricht, si diede vita a una Unione prima finanziaria e monetaria che politica». Parametri «inaspriti ulteriormente, sotto i colpi della recessione, con i vincoli di bilancio pretesi dalla cancelleria di Berlino», e col rubinetto della liquidità creditizia gestito col contagocce dalla Bce. «Grillo sa di riscuotere vasto consenso quando parla di “tributo di sangue” imposto dall’Europa all’Italia. Nella sua propaganda, “Imu, Iva, Tarsu, Tares, Trise sono il frutto della religione dell’austerità”. Poi, nel 2016, entrerà in vigore il Fiscal Compact, col quale “siamo condannati a trovare ogni anno 50 miliardi per i prossimi vent’anni”. Senza peraltro che ciò garantisca il ripianamento del nostro debito pubblico».
    Ecco l’argomento anti-Ue grazie a cui Grillo confida di imporsi come maggioranza relativa in Italia: «Le enormi cifre che l’Europa ci impone di versare, da sole “basterebbero a riavviare la nostra economia e a fare del nostro paese uno Stato florido”. Dunque l’Europa sarebbe un impedimento anziché la levatrice della nostra rinascita». Per Lerner si tratta di «demagogia»: giudizio davvero sorprendente, e non spiegato. “Demagogia” comunque «efficacissima», quella di Grillo, specie se messa a confronto con l’uscita di Letta alla Sorbona: «Dirò qualcosa di impopolare, ma se non avessi avuto lo scudo comunitario, non avrei potuto dire no a chi in Italia faceva pressione per aumentare il debito». Se la contrapposizione resta frontale – Grillo che sconfessa i trattati europei e il governo che si trincera dietro lo “scudo comunitario” pur di non rivedere i vincoli di bilancio – l’esito delle elezioni europee è segnato, «col partito dell’austerità destinato alla sconfitta, Renzi o non Renzi», con in più l’incognita dei contraccolpi che causerebbe nell’Ue «la vittoria di un movimento antieuropeo in un grande paese come Italia».
    Più che antieuropeo, sarebbe meglio dire antieuropeista: cioè contro l’attuale gestione dell’Unione, frutto del disastroso europeismo finanziario dei suoi padri fondatori. Lerner giudica “drammatica”« l’irrilevanza cui sembra condannato il progetto sociale e politico di una sinistra europeista». E più che di irrilevanza, bisognerebbe parlare delle responsabilità primarie che partiti come il Pds-Ds-Pd, l’Spd e i socialisti francesi hanno assunto nell’interpretare la politica antisociale di Bruxelles – ruolo tutt’altro che irrilevante, purtroppo. Le conseguenze sono ben evidenziate dallo stesso Lerner: «Viviamo un passaggio storico cruciale in cui sembrerebbe che l’Europa dei cittadini indebitati, dei giovani disoccupati, del ceto medio impoverito, del Quinto Stato in cui confluiscono milioni di lavoratori parasubordinati, autonomi, precari, possa trovare solo nel populismo nazionalista uno sbocco politico al suo malessere».
    E’ come se all’analisi di Lerner mancasse un passaggio: il giornalista sembra non “vedere” l’abisso che separa «il cosmopolitismo sessantottino dei Cohn-Bendit, Langer, Fischer», da quella che chiama «la visione sociale di Delors e Prodi», cioè del “nonno” del rigore – massimo padrino europeo dell’euro-sciagura – e del super-tecnocrate professore dell’Ulivo, già presidente della Commissione Europea nonché advisor della famigerata Goldman Sachs. Grandi privatizzatori, demolitori delle fondamenta del welfare. Risultato? Quello attuale: il «vuoto di cultura della cittadinanza e del comune destino europeo», su cui in Italia giganteggia l’anziano Napolitano, «il principale interlocutore dei partner dell’Unione, e come tale appare proteso in un faticoso impegno di salvaguardia degli architravi comunitari vacillanti». La democrazia federale degli Stati Uniti d’Europa è rimasta nel grande sogno di Altiero Spinelli. «Sarebbe prezioso», conclude Lerner, che in campagna elettorale «emergesse una visione europeista disincagliata dai parametri di Maastricht e dal Fiscal compact». Non accadrà. Vincerà quello che Lerner chiama «il catastrofismo no-euro di Grillo, nutrito dai fallimenti di una tecnocrazia che s’illude ancora di trovare riparo dietro allo “scudo comunitario”».

    Unione Europea intoccabile? Chiunque la critichi da sinistra, chiedendo una revisione dei trattati-capestro per allentare il rigore in nome della giustizia sociale, viene subito bollato come sovversivo. Dunque poi non ci si lamenti, osserva Gad Lerner, se a fare il pieno di voti alle prossime europee sarà Beppe Grillo, che ora attacca Napolitano, «individuato come il garante della stabilità del nostro sistema di fronte all’establishment dell’Unione Europea». Parola d’ordine del terzo Vday: “L’Italia non deve più versare il suo tributo di sangue all’Europa”. Primo atto di una lunga campagna elettorale. Obiettivo: «Trasformare in plebiscito no-euro l’ostilità abbattutasi un po’ dappertutto sull’Ue, e liquidare come velleità riservata ai benestanti gli ideali della sinistra europeista». Molto probabile che, a maggio 2014, il “referendum contro l’Europa dell’euro” incoroni come partito di maggioranza relativa la formazione grillina, che avrà buon gioco «nell’indicare il governo delle larghe intese, e la sua sudditanza ai diktat di Bruxelles, come i responsabili della crescente sofferenza sociale».

  • Finiremo come il cavallo quando arrivò il treno a vapore

    Scritto il 03/11/13 • nella Categoria: idee • (1)

    S’intitola “Inequality for All” il film-documentario che in questi giorni porta nelle sale americane le lezioni universitarie in cui Robert Reich, docente di Berkeley ed ex ministro del lavoro di Bill Clinton, denuncia gli effetti sociali dirompenti dell’accentuazione delle diseguaglianze che si è verificata negli Usa: un fossato tra ricchi e resto della società di una profondità mai vista dagli anni ‘20 del Novecento. E mentre Obama promette posti di lavoro per un ceto medio che sta scomparendo, Sidney Blumenthal spiega che i democratici imposteranno la campagna presidenziale del 2016 proprio sulle diseguaglianze. Nelle librerie è appena arrivato “Average is Over”, un saggio di Tyler Cowen nel quale l’economista della George Mason University disegna scenari futuri allarmanti: i ceti intermedi scompariranno, e solo il 10-15% della popolazione resta al riparo dalla crisi, svolgendo professioni non intaccate dall’automazione o avendo imparato e dominare le macchine e a migliorarne il rendimento.
    Tutti gli altri, scrive Massimo Gaggi sul “Corriere della Sera”, troveranno impiego soltanto «negli interstizi della società robotizzata», oppure svolgeranno lavori che le macchine non potranno sostituire, come quelli nel settore sanitario. Una grande massa di cittadini dovrà imparare a vivere in modo più austero: «Un destino al quale, secondo Cowen, è inutile ribellarsi e col quale anche i meno fortunati impareranno a convivere, scoprendo che la frugalità ha anche aspetti positivi», annota Gaggi. Sarà una società diversa, “iper-meritocratica”, mentre «la memoria del mezzo secolo di rapida crescita, welfare generoso e prosperità, in Occidente dopo la Seconda guerra mondiale, si appannerà sempre più». L’epoca che abbiamo alle spalle «sarà catalogata come una sorta di incidente della storia, felice ma insostenibile e quindi irripetibile».
    Fino a ieri, l’opinione prevalente era che le difficoltà che affliggono i paesi industrializzati fossero legate allo strapotere della finanza e a una globalizzazione che ha creato di certo nuove opportunità, ma ha anche provocato un trasferimento di ricchezza senza precedenti dall’Occidente ai paesi emergenti, soprattutto quelli dell’Asia. La nuova economia digitale? E’ vero, taglia i vecchi posti di lavoro, ma aumenta l’efficienza del sistema producendo nuova ricchezza e, quindi, maggiori occasioni di lavoro. In fondo, ragionavano i “tecno-ottimisti”, nel 1790 il 93% degli americani viveva di agricoltura. Duecento anni dopo, nel 1990, la quota dei contadini era scesa al 2%, eppure gli Stati Uniti erano un paese prospero, che aveva raggiunto il pieno impiego. Siamo entrati in una nuova era di “distruzione creativa”, come quando il motore a vapore mandò in pensione il cavallo come mezzo di trasporto e l’economia che gli era cresciuta intorno? La ferrovia alimentò l’industria e un’economia ben più vasta di quella che malpagava i braccianti. Solo che, nell’era digitale, il lavoro è in via di estinzione.
    Secondo Robert Gordon, della Northwestern University, le tecnologie digitali non creano tanto lavoro quanto le rivoluzioni precedenti – vapore, elettricità, motore a scoppio. E Noah Smith, giovane economista della Michigan University, sostiene che il grande cambiamento riguarda la distribuzione del reddito: «Durante quasi tutta la storia moderna, i due terzi della ricchezza prodotta è servita per pagare i salari mentre il terzo rimanente è andato in dividendi, affitti e altri redditi da capitale». Ma dal 2000 – quindi ben prima della crisi prodotta dal crollo di Wall Street del 2008 – le cose sono cambiate: «La quota del lavoro ha cominciato a calare stabilmente fino ad arrivare al 60%, mentre i redditi da capitale sono cresciuti». La causa? E’ nella tecnologia: «In passato il progresso tecnico ha sempre aumentato le capacità dell’essere umano: un operaio con una motosega è più produttivo di uno che lavora con una sega a mano. Ma quell’era è passata. La nuova rivoluzione, quella dei computer e delle tecnologie digitali, riguarda le funzioni cognitive, non l’estensione delle capacità fisiche. E una volta che le capacità cognitive dell’uomo sono sostituite da una macchina, diventiamo obsoleti come i cavalli».
    Secondo David Autor, docente del Mit di Boston, sono al riparo dalle macchine solo i mestieri altamente creativi – manager, scienziati, medici, ingegneri e designer – oppure quei lavori manuali che richiedono interazioni, capacità di adattamento e osservazione: preparare un pasto, guidare un camion, pulire una stanza d’albergo. Uno studio della Oxford University svolto su 72 settori produttivi rivela che quasi la metà dei lavori ancora svolti dall’uomo (il 47%) verrà sostituito dalle macchine. Per Autor, alle macchine non c’è scampo: i lavori manuali saranno meno pagati, e questo aumenterà la polarizzazione dei salari e la divaricazione abissale tra ricchi e poveri. Gli economisti progressisti, scrive Gaggi, «non credono che un aumento delle disparità sia alla lunga sostenibile e temono per la tenuta delle democrazie». Mezzo secolo fa, conclude Gaggi, si immaginava un mondo nel quale avremmo lavorato poche ore alla settimana: scontato che le macchine avrebbero sostituito l’uomo, ma per far crescere la produttività a beneficio di tutti. Così non è stato, ed è indispensabile porvi rimedio prima che sia troppo tardi.

    S’intitola “Inequality for All” il film-documentario che in questi giorni porta nelle sale americane le lezioni universitarie in cui Robert Reich, docente di Berkeley ed ex ministro del lavoro di Bill Clinton, denuncia gli effetti sociali dirompenti dell’accentuazione delle diseguaglianze che si è verificata negli Usa: un fossato tra ricchi e resto della società di una profondità mai vista dagli anni ‘20 del Novecento. E mentre Obama promette posti di lavoro per un ceto medio che sta scomparendo, Sidney Blumenthal spiega che i democratici imposteranno la campagna presidenziale del 2016 proprio sulle diseguaglianze. Nelle librerie è appena arrivato “Average is Over”, un saggio di Tyler Cowen nel quale l’economista della George Mason University disegna scenari futuri allarmanti: i ceti intermedi scompariranno, e solo il 10-15% della popolazione resta al riparo dalla crisi, svolgendo professioni non intaccate dall’automazione o avendo imparato e dominare le macchine e a migliorarne il rendimento.

  • Della Luna: morte lenta, la nostra fine decisa all’estero

    Scritto il 02/11/13 • nella Categoria: idee • (5)

    «Italy is going the right way», dice l’umorista Obama al fido Enrico Letta. Solo che la “giusta via” ricorda la macellazione per dissanguamento: morte lenta. Così funziona la politica economica italiana, da qualche decennio al servizio di interessi stranieri: il trucco, sostiene Marco Della Luna, sta nello svuotare il paese di tutta la sua linfa, ma lentamente, in modo che non “muoia” e che non soffra troppo, perché potrebbe ribellarsi. All’avvio dell’euro, è bastato qualche anno di bassi tassi per la finanza pubblica, per gonfiare fabbisogno strutturale e debito. «Poi, di colpo, austerità e tassi alti (spread), per creare l’emergenza, imporre il presidenzialismo de facto e la “sospensione della democrazia” a tempo indeterminato». Ma già con la riforma monetaria del 1981-83 poi col Trattato di Maastricht, era stata scardinata la Costituzione: sovranità nazionale e primato del lavoro. «Fatto questo, tutto il resto è stato in discesa»: svuotare il paese di industrie pregiate, capitali e cervelli, in favore della finanza apolide e del suo feudatario-kapò europeo, la Germania.
    Si è tutto tragicamente avverato: lo dicono Pil, occupazione, flussi di capitale, investimenti, quote di mercato internazionale, qualità della scuola, prospettive per i giovani e per i pensionati. Una manovra che viene da lontano: blocco dei cambi, divieto di protezioni doganali, privatizzazione della gestione delle banche centrali, politiche di tagli e nuove tasse. «Queste mosse hanno prodotto e continuano a produrre esattamente i risultati opposti a quelli promessi e per cui erano stati imposti», scrive Della Luna nel suo blog. Ed è un declino “irreversibile”: «Il che dimostra che il vero fine per cui sono stati concepiti e imposti è molto diverso da quello dichiarato, probabilmente opposto, ossia di creare disperazione, paura, miseria, distruzione, la fine delle democrazie parlamentari, della responsabilità dei governanti verso i governati, della possibilità di un’opposizione e persino di un dissenso culturale, scientifico, giuridico».
    Lo stesso Fmi ha riconosciuto che, su 167 paesi colpiti da misure di “risanamento” e rigore, nessuno si è risanato né rilanciato, ma tutti sono peggiorati, soprattutto in quanto a Pil e debito pubblico. «I paesi che crescono sono quelli che non applicano questa ricetta e che mantengono il dominio della loro propria moneta: i Brics. La Russia ha superato l’Italia in fatto di Pil e ora l’Italia è nona, fuori dal G8». Già lo si era visto col primo aumento dell’Iva, quello di Monti, aumentata dal 20 al 21%: consumi scoraggiati, crollo della domanda, ulteriore recessione. Con Letta, obbligato a non sforare il tetto europeo del 3% per il deficit, l’Iva è al 22%. Risultato? Scontato: depressione. Che poi, per Della Luna, è esattamente l’obiettivo voluto, come già per Monti. Tutto a va a rotoli? Non è certo un caso: «I vent’anni di stagnazione, declino, delocalizzazioni ed emigrazioni, senza capacità di recupero, di questo paese, nonostante i diversi cambi di maggioranze parlamentari e di inquilini del Quirinale, sono un aspetto di questo processo di lungo termine. Vent’anni inaugurati dal Britannia Party e da Mani Pulite».
    A questo, continua Della Luna, sono serviti l’architettura dell’Ue, del mercato comune, dei parametri di convergenza, e soprattutto di quel sistema di blocco dei naturali aggiustamenti dei cambi monetari noto come “euro”. «A questo piano hanno lavorato molti governi e gli ultimi capi dello Stato: ne ho parlato ampiamente nei miei ultimi tre saggi, “Cimit€uro”, “Traditori al governo”, e “I signori della catastrofe”», pubblicati da Arianna-Macro Edizioni. E chi ha collaborato al piano di liquidazione dell’Italia «non ha mai avuto problemi giudiziari e, se ne aveva, gli sono stati risolti». Grande svendita del paese, a bordo del famoso panfilo inglese. Fine dell’Italia, altro che Ruby o diritti Mediaset. L’attuale governante Letta? Un continuatore: la sua finanziaria 2014 è pura «policy del dissanguamento lento e pacifico in favore dei paesi e dei capitali dominanti», e si basa sui due pilastri della politica italiana degli ultimi decenni: mantenere l’Italia sottomessa alla super-casta mondiale dell’élite finanziaria e, necessariamente, continuare a foraggiare la mini-casta nazionale incaricata di portare a termine la missione, agli ordini dell’euro-regime.
    «Una sorta di patto: tu, casta italiana, aiutaci a estrarre tutto quello che c’è di buono per noi in Italia, e ad annientare la capacità italiana di competere con noi sui mercati; in cambio, noi ti lasceremo continuare a mangiare come sei abituata sulle spalle della cosa pubblica, dei lavoratori, dei risparmiatori – ma non troppo voracemente, altrimenti il paese collassa o insorge, vanificando l’esecuzione del piano». Naturalmente l’operazione «deve apparire all’opinione pubblica come perfettamente legittima e democratica», meglio quindi se al governo ci sono larghe intese. Parliamoci chiaro: «Che cosa può mai fare, per rilanciare un paese, un governo che non può permettersi, nemmeno per fronteggiare una tragedia nazionale, di ridurre gli sprechi e le mangerie di una partitocrazia-burocrazia ladra e incapace quanto trasversale?». E’ una casta incompetente ma «selezionata, da decenni, solo per intercettare le risorse pubbliche». Non ci saranno svolte, ma solo promesse.
    Poi, continua Della Luna, l’Italia è invecchiata, tecnologicamente arretrata, sorpassata per le infrastrutture e in più sovra-indebitata, vessata da maxi-interessi. E infine devastata dalla disoccupazione. Il paese vacilla: «Non vi sono abbastanza giovani lavoratori per pagare le pensioni e le cure dei vecchi». Succede tutto questo perché l’Italia «è sottomessa a potenze straniere che la condizionano e la limitano». Lo profetizzò quarant’anni fa l’economista Nikolas Kaldor: bloccando i cambi e introducendo l’unione monetaria europea, sarebbe ulteriormente aumentato il vantaggio competitivo dei più forti, che avrebbero assorbito industrie, capitali e lavoratori dai paesi più fragili. Vent’anni fa ribadivano questa previsione economisti come Paul Krugman e Wynne Godley. Quindi, «tutti quelli che hanno architettato l’euro sapevano benissimo su che scogli era diretta la nave: il loro scopo era appunto quello di farla naufragare».
    Le previsioni continuano ad avverarsi in modo sempre più violento da almeno sette anni, ma non è stato introdotto alcun correttivo; al contrario, sono state inasprite le misure di squilibrio e sopraffazione. E chi ha osato anche solo accennare a un referendum sull’euro – Berlusconi, Papandreou – è stato «sostituito dalla Merkel», che ha imposto governi compiacenti (Monti, Letta) patrocinati dal Quirinale. Mentre in Gran Bretagna si fa largo l’Ukip di Nigel Farage e in Francia il Front National di Marine Le Pen, due formazioni fieramente all’opposizione di Bruxelles, «l’Italia si trova nella condizione di protettorato», quasi fosse tornata alla debolezza strutturale pre-unitaria, di entità politica «messa insieme artificialmente, per volontà straniera, mediante conquiste militari». Napolitano? «Si conferma un realista e un saggio disincantato». Inutile opporsi allo strapotere di forze soverchianti: «Poiché gli italiani sono in questa condizione, bisogna farli obbedire e agire anche contro il loro interesse, onde risparmiare loro un male peggiore». La consapevolezza? «Renderebbe la gente solo più infelice e inquieta» e anche «più esposta alle violenze repressive» se osasse ribellarsi. Come dice Obama, fiduciario del Washington Consensus e dei suoi super-banchieri, quella dell’Italia è proprio la “right way”.

    «Italy is going the right way», dice l’umorista Obama al fido Enrico Letta. Solo che la “giusta via” ricorda la macellazione per dissanguamento: morte lenta. Così funziona la politica economica italiana, da qualche decennio al servizio di interessi stranieri: il trucco, sostiene Marco Della Luna, sta nello svuotare il paese di tutta la sua linfa, ma lentamente, in modo che non “muoia” e che non soffra troppo, perché potrebbe ribellarsi. All’avvio dell’euro, è bastato qualche anno di bassi tassi per la finanza pubblica, per gonfiare fabbisogno strutturale e debito. «Poi, di colpo, austerità e tassi alti (spread), per creare l’emergenza, imporre il presidenzialismo de facto e la “sospensione della democrazia” a tempo indeterminato». Ma già con la riforma monetaria del 1981-83 poi col Trattato di Maastricht, era stata scardinata la Costituzione: sovranità nazionale e primato del lavoro. «Fatto questo, tutto il resto è stato in discesa»: svuotare il paese di industrie pregiate, capitali e cervelli, in favore della finanza apolide e del suo feudatario-kapò europeo, la Germania.

  • Web occulto: un algoritmo guida ogni nostro click

    Scritto il 01/11/13 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Libertà di espressione e discussione: sono le condizioni-base per un vero spazio aperto  secondo Jürgen Habermas, il padre del concetto di “sfera pubblica”. Siamo sicuri che il web sia corretto nel dare più spazio a certe informazioni rispetto ad altre? Niente affatto, rivela Francesca Musiani, perché a governare il digitale – e quindi noi, opinione pubblica – è soltanto un sistema di algoritmi. Secondo un giurista come Yochai Benkler, autore di studi sullo stato di salute democratica dei network, oggi viviamo in un “ordinamento globale” intrinseco alla Rete. Caratteristica centrale: la selezione decisiva delle informazioni più rilevanti non è più monopolio dei “gatekeepers” – giornalisti, bibliotecari, editori – ma è delegata agli utenti di Internet, editori essi stessi. Citandosi e raccomandandosi l’un l’altro in “nicchie conversazionali”, individui e gruppi selezionano l’informazione “di qualità” per gli algoritmi, i quali a loro volta la classificano e la ordinano per renderla disponibile attraverso i motori di ricerca. Così, l’ordinamento delle informazioni presenti sul web diventa una co-produzione degli utenti, inconsapevoli però della sintesi realizzata dagli algoritmi.
    Proprio agli algoritmi, spiega Francesca Musiani in un saggio pubblicato sull’“Internet Policy Review” e sintetizzato da “Doppiozero”, deleghiamo l’integrazione delle nostre conversazioni on-line. Gli argomenti vengono percepiti dal pubblico come “consenso universale implicito”, ma «hanno la debolezza di un’informazione che non può essere fatta risalire a nessun individuo specificamente», e al tempo stesso «la forza di un dato che si basa su un vasto aggregato di opinioni». I motori di ricerca costruiscono una gerarchia di visibilità dell’informazione, proponendola tra i primi risultati dell’indagine o dissimulandola tra gli ultimi. Decidendo, di fatto, “cosa dev’essere visto”, gli algoritmi di Google «possono scoraggiare o incoraggiare la discussione e la controversia», e di fatto contribuiscono a costruire l’agenda pubblica delle priorità politiche e sociali, selezionando gli interlocutori “che contano”. In particolare, grazie al quasi-monopolio di Google nel settore della ricerca web, l’algoritmo PageRank che ne è alla base è stato ampiamente esaminato come il nuovo gatekeeper e “dittatore benevolo” della sfera pubblica digitale.
    Secondo una ricetta che resta una sorta di segreto industriale, continua Musiani, quell’algoritmo-chiave comprende diversi criteri di misurazione, che valutano il grado di autorevolezza della fonte (secondo il numero di citazioni), l’ampiezza dell’audience (secondo il numero di visite o click), il livello di prossimità e di affinità (in base alle raccomandazioni) e la rapidità (dipendente dall’aggregazione dei risultati in real-time). In quanto “master switch” di Internet, proprio PageRank «centralizza e organizza la circolazione dell’informazione nella Rete, e per ogni interrogazione fatta al motore di ricerca, arbitra su ciò che è importante e rilevante». Milioni, miliardi di click: se siamo in cerca di informazioni siamo pilotati e manovrati, “governati” dall’intelligenza elettronica. Stessa storia per quanto riguarda l’e-commerce. Parla da solo il caso di Amazon, importante “prescrittore” che orienta il pubblico sulla base delle raccomandazioni dei clienti: lettori, ascoltatori, cinefili. Agli utenti registrati, il sito rivela quali sono gli altri acquisti fatti in passato da utenti che hanno acquisito lo stesso titolo.
    Acquisti raccomandati, consigli sistematizzati e condivisi per affinità: Amazon ha sviluppato un algoritmo particolarmente efficace, chiamato “filtraggio collaborativo elemento per elemento” (item-to-item collaborative filtering). Altro segreto industriale, dimostra ogni giorno la sua efficacia nel personalizzare le proprie raccomandazioni in base agli interessi di ciascuno dei clienti Amazon. Dietro a questo algoritmo, che “conosce” così bene i gusti dei clienti di Amazon, ci sono «anni di ricerca ed esperimenti in un recente campo dell’informatica le cui applicazioni pratiche sono sempre più diffuse, per quanto discrete: il data mining». Per i lettori, i “suggerimenti simili” formano un insieme di fonti d’informazioni personali, che alimentano un vasto database dove vengono combinate con altre “storie d’acquisto”, e finiscono per influenzare direttamente un numero considerevole di consumatori. «Viviamo in un mondo sempre più “algoritmico”», conclude Francesca Musiani, e le «invisibili strutture computazionali» che guidano il nostro accesso all’informazione e ai nostri acquisti «si estendono a numerosi altri contesti, dai software di riconoscimento facciale ai mercati finanziari».
    Come dimostra non solo la ricerca accademica, ma anche la più recente attualità, la relazione tra algoritmi e regole (diritto e politica) ha due facce, avverte la studiosa: «Da un lato, si tratta della regolazione degli algoritmi da parte delle istituzioni. La creazione di leggi riguardanti sistemi complessi e altamente automatizzati dovrebbe accordare una maggiore attenzione ai luoghi e ai tempi in cui si programmano gli algoritmi?». Una normativa più stringente dovrebbe essere applicata a contesti specifici? E nel caso: che forma prenderebbe, e quali sarebbero i suoi effetti? Quello di cui dobbiamo renderci assolutamente conto, insiste Misiani, è la vastità del “potere invisibile” degli algoritmi, in un mondo che ormai, di fatto, è largamente «gestito, regolato, governato» da essi. E se uno non fosse d’accordo? Sarebbe in grado di comprendere cosa significa, esattamente, “resistere” al dominio elettronico dei nuovi persuasori occulti?

    Libertà di espressione e discussione: sono le condizioni-base per un vero spazio aperto  secondo Jürgen Habermas, il padre del concetto di “sfera pubblica”. Siamo sicuri che il web sia corretto nel dare più spazio a certe informazioni rispetto ad altre? Niente affatto, rivela Francesca Musiani, perché a governare il digitale – e quindi noi, opinione pubblica – è soltanto un sistema di algoritmi. Secondo un giurista come Yochai Benkler, autore di studi sullo stato di salute democratica dei network, oggi viviamo in un “ordinamento globale” intrinseco alla Rete. Caratteristica centrale: la selezione decisiva delle informazioni più rilevanti non è più monopolio dei “gatekeepers” – giornalisti, bibliotecari, editori – ma è delegata agli utenti di Internet, editori essi stessi. Citandosi e raccomandandosi l’un l’altro in “nicchie conversazionali”, individui e gruppi selezionano l’informazione “di qualità” per gli algoritmi, i quali a loro volta la classificano e la ordinano per renderla disponibile attraverso i motori di ricerca. Così, l’ordinamento delle informazioni presenti sul web diventa una co-produzione degli utenti, inconsapevoli però della sintesi realizzata dagli algoritmi.

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