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Archivio del Tag ‘Difesa’

  • Incubo Fema: fronteggiare 6 milioni di ’superstiti’. Da cosa?

    Scritto il 23/3/17 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Campi di detenzione e soccorso, scorte di sopravvivenza, decine di migliaia di soldati addestrati alla guerra domestica, antisommossa. E poi enormi concentrazioni di mezzi blindati, caricati su treni. E persino bare multiple, per milioni di persone, dislocate negli Usa. Voci che sul web si riconcorrono da anni e si vanno infittendo, come segnala Gabriele Lombardo, che su “Seven Network” parla della Fema, la Federal Emergency Management Agency, e della «mega emergenza, tra campi, bare, scorte, mezzi e altre stanezze», attorno al presunto iper-attivismo della protezione civile americana. Fonti? Esclusivamente «in rete, tra siti governativi, di protesta contro i campi, e notizie che arrivano da tutti i fronti (compresi video che ci mostrano queste zone con riprese aeree)». Fantasie? Incubi? Nel romanzo “La strada”, Cormac McCarthy mette in scena gli ultimi superstiti di un’umanità livida e pericolosa, devastata da una catastrofe apocalittica. Qualcuno si sta preparando a qualcosa di simile? «Ormai – scrive Lombardo – sono anni che sentiamo parlare di campi di concentramento e detenzione, dell’acquisto di bare a sei posti, di intere aree di cimiteri, di razioni liofilizzate a milioni, mezzi speciali. Ma di cosa stiamo parlando, realmente?».
    La domanda: «Cosa c’è in moto, e a cosa servono tutti questi preparativi ed accantonamenti di materiale? A cosa servono tutti questi campi e l’approvvigionamento di scorte alimentari e di beni di prima necessità, soccorso, sopravvivenza e via discorrendo?». “Seven Network” individua tre tipologie di “campi” sul territorio Usa: «Il primo tipo, in effetti, come dicono le voci complottistiche, sembra un campo di prigionia classico, il secondo sembra un campo di protezione e il terzo sembra addirittura un agglomerato urbano indipendente». Nel campo di primo tipo, «già visto nei “lager”e “gulag” rispettivamente tedeschi e sovietici», l’area è delimitata da cerchi concentrici di filo spinato militare, invalicabile. Nella seconda tipologia, invece, «non ci sono le sporgenze con il filo spinato dal lato interno, cosa che dimostra che è chi sta dentro a dover essere protetto da chi invece sta fuori dal campo». L’ospite, protetto con torrette e postazioni per mitragliatrici, «non viene considerato un possibile fuggitivo-prigioniero o una minaccia». Nel terzo tipo di campi Fema, poi, non ci sono nemmeno recinzioni vere e proprie. Al suo interno, anziché baracche in legno come nei precedenti, si trovano mezzi bianchi, camper e roulotte, oppure case prefabbricate antivento, anche’esse bianche, dotate di ogni comfort e circondate da canali idrici e aree coltivabili.
    «Negli ultimi due tipi di campi di cui abbiamo parlato, è presente una struttura centrale fortificata che sembra essere costruita per la difesa urbana estrema, e soprattutto nel caso dei campi di protezione (i terzi descritti), la fortificazione interna sembra poter ospitare per giorni molti civili e militari, dove check-point con tanto di ingressi con sbarre rotanti automatizzate e cemento armato ovunque, impediscono l’ingresso a chi non ha permessi per entrare». Per Lombardo, sembra di osservare «un tipico punto di controllo e smistamento persone delle aree a rischio terrorismo, guerra urbana e rivolte armate, come quelli già visti nello Stato d’Israele o dopo le guerre di Afghanistan e Iraq». Deduzione: «È probabile che i tre tipi di campi abbiano tre scopi differenti», come se il governo avesse «preparato vari tipi di piani di emergenza per tipi differenti di situazione». I documenti di emergenza della protezione civile statunitense contemplano «terremoti devastanti, eruzioni vulcaniche cataclismatiche, attacchi terroristici nucleari, epidemie incontrollabili, pandemie globali, guerra chimica e batteriologica, impatto di una grande meteora, multi-impatto meteoritico, mega-tsunami, black-out totale prolungato, militarizzazione del sistema con legge marziale, impiego dell’esercito per disarmo forzato dei civili, e tanto altro ancora».
    In effetti, aggiunge “Seven Network”, è possibile che in ogni zona degli Stati americani sotto un unico comando abbiano creato strutture differenti sul territorio per diverse situazioni verificabili, «e questo spiegherebbe in buona parte anche l’incredibile dislocamento e concentramento in punti precisi di mezzi militari, di mezzi da escavazione, di gruppi elettrogeni, potabilizzatori di acqua, e molti altri veicoli». Non va dimenticato che negli Usa ci sono altissimi rischi di cataclisma: uragani, inondazioni e tifoni. Dunque, «alcune procedure del Fema, così come alcuni assembramenti di mezzi, potrebbero essere giustificate». A inquietare, ovviamente, sono i numeri: perché tante bare? «Alcune fonti», sempre su web, «parlano di 500.000 bare da 6 posti ciascuno, ovvero contenitori per tre milioni di corpi», mentre «altre fonti» (non precisate) parlano addirittura di 6 milioni di bare “multiple”, cioè riservate a 36 milioni di corpi. Le classiche “fake news”? Un risvolto non verificabile, né confermato da nessuna fonte ufficiale, riguarda le voci del “sequestro”, da parte dell’esercito, di intere aree cimiteriali. Più precise invece le informazioni sulle bare, in materiale plastico, prodotrte dall’azienda Polyguard & Co che si occupa specificatamente di bare “sicure”, asettiche ed ermetiche, al riparo da infiltrazioni di qualsiasi genere.
    «Un’altra stranezza assurda – aggiunge Lombardo – è l’acquisto da parte di alcuni Stati americani di ghigliottine automatiche; risulta infatti, da documenti, che alcuni Stati ne hanno comprate per un totale di 200 unità, e questo apre scenari sconcertanti ed enigmatici». Altra “stranezza”, «l’acquisto di migliaia di mezzi antisommossa, e l’addestramento da parte del governo Usa di oltre 30.0000 soldati in guerra urbana». Tra le priorità dell’addestramento ci sarebbero «l’irruzione in casa, il blocco di persone in fuga, il disarmo con uso della forza dei civili, l’abbattimento di persone che minacciano i militari o altri civili con armi, le irruzioni elicotteristiche su circuito urbano e in mezzo al traffico autostradale, il trasporto e la scorta di gruppi di civili con mezzi blindati e treni speciali, l’uso di munizioni ad ogiva forata». “Seven Network” riferisce di esercitazioni a Houston e Los Angeles, dove «gli elicotteri hanno terrorizzato le persone bloccate in autostrada durante un’esercitazione sparando munizioni a salve», nei primi mesi del 2013. «In questi episodi, si simulava un’incursione sopra i civili incolonnati e bloccati in autostrada».
    Altre esercitazioni si sarebbero svolte «in città degli Stati del Sud», dove i militari in assetto antiterrorismo «irrompevano in abitazioni civili per snidare uomini armati che facevano resistenza». Poi c’è la grande concentrazione di mezzi, cresciuta a dismisura sotto la presidenza Obama: «Le testimonianze di persone che hanno parlato attraverso i media o principalmente divulgato informazioni in rete attraverso foto e video, hanno largamente dimostrato la presenza di mezzi militari antisommossa non solo statunitensi ma anche di altre nazioni in molte città americane, di mezzi militari da difesa e combattimento schierati nel deserto del Nevada e in quello della California, di intere caserme e aree adiacenti a quelle metropolitane». Si parla di «quantità incredibili di pale meccaniche, gruppi elettrogeni, camion da trasporto materiali, ruspe, potabilizzatori d’acqua, mezzi per il monitoraggio dell’inquinamento, per le telecomunicazioni satellitari e tanti altri tipi di velivoli strani ed inconsueti». Quanto all’accumulo di provviste, si stima possa servire a milioni di persone, con anche «kit medici, acqua potabile, coperte termiche, cibo in scatola», il tutto destinato a “superstiti”.
    Secondo Lombardo, «i campi Fema possono ospitare 42-48 milioni di persone, le bare e le sepolture della stessa agenzia ne possono ospitare 6-36 milioni a seconda del reale numero, le scorte di sopravvivenza sono calcolate per 6 milioni di superstiti, quelle di cibo se consideriamo i 10 giorni di razionamento a persona (tre pasti giornalieri ciascuno come specificato proprio dall’ente governativo) abbiamo pasti per più di 6 milioni di superstiti». Lombardo considera “gonfiato” il numero di persone ospitabili nei campi: «Considerando la quantità di campi presenti negli Stati Uniti e la loro grandezza, e non per ultimo il numero approssimativo di strutture al loro interno, possiamo certamente scendere a circa 6 milioni di persone». E quindi: 6 milioni di superstiti, reclusi-ospiti-protetti, da sfamare e da seppellire? «Sarà solo una teoria strampalata oppure è una concreta possibilità?».

    Campi di detenzione e soccorso, scorte di sopravvivenza, decine di migliaia di soldati addestrati alla guerra domestica, antisommossa. E poi enormi concentrazioni di mezzi blindati, caricati su treni. E persino bare multiple, per milioni di persone, dislocate negli Usa. Voci che sul web si riconcorrono da anni e si vanno infittendo, come segnala Gabriele Lombardo, che su “Seven Network” parla della Fema, la Federal Emergency Management Agency, e della «mega emergenza, tra campi, bare, scorte, mezzi e altre stranezze», attorno al presunto iper-attivismo della protezione civile americana. Fonti? Esclusivamente «in rete, tra siti governativi, di protesta contro i campi, e notizie che arrivano da tutti i fronti (compresi video che ci mostrano queste zone con riprese aeree)». Fantasie? Incubi? Nel romanzo “La strada”, Cormac McCarthy mette in scena gli ultimi superstiti di un’umanità livida e pericolosa, devastata da una catastrofe apocalittica. Qualcuno si sta preparando a qualcosa di simile? «Ormai – scrive Lombardo – sono anni che sentiamo parlare di campi di concentramento e detenzione, dell’acquisto di bare a sei posti, di intere aree di cimiteri, di razioni liofilizzate a milioni, mezzi speciali. Ma di cosa stiamo parlando, realmente?».

  • De Benedetti: entro 5 anni l’Unione Europea sarà morta

    Scritto il 16/3/17 • nella Categoria: segnalazioni • (61)

    Per farsi un’idea dell’incertezza che aleggia sul destino dell’Unione Europea, basta leggere il “libro bianco” di Jean-Claude Juncker riguardo il futuro dell’Europa. Mercoledì questo documento del presidente della Commissione Europea è stato reso pubblico, e conteneva addirittura cinque possibili scenari per l’evoluzione dell’Ue da qui al 2025: “tirare avanti”, “nient’altro che il mercato unico”, “quelli che vogliono fare di più fanno di più”, “fare meno in maniera più efficiente” e “fare molto di più insieme”. La vaghezza e genericità del “libro bianco” è comprensibile. Mentre si avvicinano le elezioni in Olanda, Bulgaria, Francia, Germania e in Repubblica Ceca, non c’è praticamente nessun governo che abbia voglia di seguire le ambiziose iniziative di Juncker. Tuttavia, i governi si rendono conto che l’Europa sta creando rischi al mondo intero in una maniera che non si era più verificata dalla fine della guerra fredda negli anni 1989-91. Gli strateghi di politica estera a Berlino, Parigi e nelle altre capitali stanno rivedendo le loro posizioni a lungo condivise sull’inevitabilità dell’integrazione europea e la stabilità dell’alleanza Europa-Usa nell’ambito della sicurezza.
    L’Europa “a più velocità”, che incoraggia alcuni paesi a integrarsi più velocemente di altri, è tornata di moda. Questa idea, attraente in special modo per alcune parti dell’Europa occidentale, ha ricevuto sostegno da Jean-Marc Ayrault e Sigmar Gabriel, i ministri degli esteri di Francia e Germania. Un’altra idea è di aumentare la collaborazione nella difesa, in modo che in questo campo l’Ue diventi per gli Stati Uniti un partner più credibile. Al di là di queste proposte relativamente prudenti, alcuni responsabili politici e analisti indipendenti stanno pensando l’impensabile. Un esempio è il report di MacroGeo, una società di consulenza presieduta da Carlo De Benedetti, un veterano della comunità imprenditoriale italiana. Il report “L’Europa al tempo di Trump e della Brexit: disintegrazione e riorganizzazione”, arriva a conclusioni coraggiose. Afferma che l’Ue nella sua forma attuale con ogni probabilità va incontro alla decomposizione, anche se dovessero vincere le elezioni di quest’anno politici pro-integrazione come Emmanuel Macron, il centrista indipendente francese, e Martin Schulz, il socialdemocratico tedesco.
    «Per il ciclo elettorale 2021-22, l’Ue potrebbe entrare negli ultimi cinque anni della sua ‘reale’ esistenza», dice il report, che considera che le strutture legali formali dell’Unione con sede a Bruxelles potrebbero resistere più a lungo. Il report sostiene che, al di là di shock quali il voto britannico per l’uscita dall’Ue, i trend geopolitici di lungo termine stanno portando l’unione valutaria all’atrofia. Ai confini orientali e meridionali dell’Unione si affacciano molti problemi: l’immigrazione clandestina, Stati prossimi al fallimento, terrorismo, cambiamenti climatici e revisionismo russo. Nel frattempo, gli Stati Uniti si stanno lentamente disimpegnando dall’Europa per focalizzarsi sulla Cina e l’estremo oriente. La Germania non occuperà il posto degli Stati Uniti come potenza egemone di riferimento per l’Europa: non lascerà mai che l’eurozona diventi una “unione di trasferimenti fiscali” e, nonostante le speculazioni riguardo a un deterrente nucleare tedesco, il suo passato nel ventesimo secolo dice chiaramente che né la Germania né i suoi vicini vogliono che essa diventi la potenza militare dominante dell’Europa.
    La disintegrazione dell’Ue scatenerebbe «i pericolosi demoni nazionalistici del passato europeo», come teme Guy Verhofstadt, ex primo ministro belga? Gli autori del report di MacroGeo prevedono che non si avrà un’anarchica competizione tra gli Stati-nazione, bensì «l’affermazione di un nucleo centrale geoeconomico intorno alla Germania». Questo sarebbe formato dalla Germania e dai paesi che ne costituiscono la filiera industriale, cui si addice la cultura fiscale e monetaria tedesca. In maniera disarmante, gli autori suggeriscono che, «se l’Italia dovesse dividersi», l’Italia del Nord potrebbe unirsi al gruppo formato da Olanda, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e alcuni paesi scandinavi. Questa evoluzione presuppone la disgregazione dell’Eurozona a 19 paesi. I ministri delle finanze e i banchieri centrali europei ci ripetono che questo passo sarebbe devastante per le economie europee e per la stabilità finanziaria globale.
    Tuttavia, questa prospettiva è in discussione, e non solo nei circoli del partito di estrema destra francese, il Front National, o nel partito anti-estabilishment italiano M5S. Mediobanca, una banca d’investimenti che una volta era l’emblema del capitalismo del nord Italia, a gennaio ha pubblicato un rapporto controverso in cui suggeriva che, in termini di debito pubblico, l’Italia non soffrirebbe particolarmente lasciando l’Eurozona. Il mese scorso il Parlamento olandese ha votato per l’istituzione di una commissione d’inchiesta sui pro e contro dell’appartenenza olandese all’Eurozona, una mossa che riflette la frustrazione nei confronti della politica di tassi ultra-bassi e del programma Qe della Banca Centrale Europea. Nel valutare il futuro dell’Europa, questi sviluppi vanno presi attentamente in considerazione – forse più attentamente del “libro bianco” di Juncker.
    (Tony Barber, “L’Europa inizia a pensare l’impensabile, smantellare l’Eurozona”, dal “Financial Times” del 3 marzo 2017, articolo tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).

    Per farsi un’idea dell’incertezza che aleggia sul destino dell’Unione Europea, basta leggere il “libro bianco” di Jean-Claude Juncker riguardo il futuro dell’Europa. Mercoledì questo documento del presidente della Commissione Europea è stato reso pubblico, e conteneva addirittura cinque possibili scenari per l’evoluzione dell’Ue da qui al 2025: “tirare avanti”, “nient’altro che il mercato unico”, “quelli che vogliono fare di più fanno di più”, “fare meno in maniera più efficiente” e “fare molto di più insieme”. La vaghezza e genericità del “libro bianco” è comprensibile. Mentre si avvicinano le elezioni in Olanda, Bulgaria, Francia, Germania e in Repubblica Ceca, non c’è praticamente nessun governo che abbia voglia di seguire le ambiziose iniziative di Juncker. Tuttavia, i governi si rendono conto che l’Europa sta creando rischi al mondo intero in una maniera che non si era più verificata dalla fine della guerra fredda negli anni 1989-91. Gli strateghi di politica estera a Berlino, Parigi e nelle altre capitali stanno rivedendo le loro posizioni a lungo condivise sull’inevitabilità dell’integrazione europea e la stabilità dell’alleanza Europa-Usa nell’ambito della sicurezza.

  • Contro Trump il killer dei presidenti Usa, budget 100 milioni

    Scritto il 13/3/17 • nella Categoria: segnalazioni • (17)

    E’ in corso la campagna contro il nuovo presidente degli Stati Uniti, condotta dagli stessi sponsor di Barack Obama, Hillary Clinton e della distruzione del Medio Oriente. Dopo la marcia delle donne del 22 gennaio, è previsto che si tenga una marcia per la scienza non solo negli Stati Uniti, ma anche in tutto il mondo occidentale, il 22 aprile. L’obiettivo è dimostrare che Donald Trump non è solo un misogino, ma anche un oscurantista. Il fatto che sia l’ex-organizzatore del concorso di Miss Universo, e che sia sposato con una modella al suo terzo matrimonio è sufficiente, a quanto pare, a dimostrare che disprezza le donne. Che il presidente contesti il ruolo svolto da Barack Obama nella creazione della Borsa Climatica di Chicago (ben prima della sua presidenza) e che respinga l’idea che le perturbazioni climatiche siano causate dal rilascio di carbonio nell’atmosfera, attesta il fatto che non capisce nulla di scienza. Per convincere l’opinione pubblica statunitense della follia del presidente – un uomo che dice di desiderare la pace con i suoi nemici, e di voler collaborare con loro per la prosperità economica universale – uno dei più grandi specialisti di agit-prop (agitazione e propaganda), David Brock, ha messo in campo un dispositivo impressionante già prima dell’investitura di Trump.
    Al tempo in cui lavorava per i repubblicani, Brock lanciò contro il presidente Bill Clinton una campagna, che sarebbe poi diventata il Troopergate, la vicenda Whitewater, e il caso Lewinsky. Dopo aver voltato gabbana, è oggi al servizio di Hillary Clinton, per la quale ha già organizzato non solo la demolizione della candidatura di Mitt Romney, ma anche la sua replica nella vicenda dell’assassinio dell’ambasciatore Usa a Bengasi. Durante il primo turno delle primarie, è stato Brock a dirigere gli attacchi contro Bernie Sanders. “The National Review” ha qualificato Brock come «un assassino di destra che è diventato un assassino di sinistra». E ‘importante ricordare che le due procedure di destituzione di un presidente in carica, avviate dopo la Seconda Guerra Mondiale, sono state messe in moto a vantaggio dello Stato Profondo, e non certo per il bene della democrazia. Così il Watergate è stato interamente gestito da una certa “gola profonda” che, 33 anni più tardi, si è rivelato essere Mark Felt, l’assistente di J. Edgar Hoover, direttore dell’Fbi. Per quanto riguarda la vicenda Lewinsky, era semplicemente un modo di forzare Bill Clinton ad accettare la guerra contro la Jugoslavia.
    La campagna in corso è organizzata sottobanco da quattro associazioni. “Media Matters” (“i media contano”) ha il compito di dare la caccia agli errori di Donald Trump. Leggete ogni giorno il suo bollettino sui vostri giornali: il presidente non può essere attendibile, si è sbagliato su questo o su quel punto. “American Bridge 21st Century” (“Il ponte americano del XXI secolo”) ha raccolto più di 2.000 ore di video che mostrano Donald Trump nel corso degli anni, e più di 18.000 ore di altri video dei membri del suo gabinetto. Ha a sua disposizione sofisticate attrezzature tecnologiche progettate per il dipartimento della difesa, e presumibilmente fuori mercato, che le consentono di cercare le contraddizioni tra le loro dichiarazioni più datate e le loro posizioni attuali. Dovrebbe arrivare a estendere il suo lavoro a 1.200 collaboratori del nuovo presidente. “Citizens for Responsibility and Ethics in Washington – Crew” (“I cittadini per la responsabilità e l’etica a Washington”) è uno studio di giuristi di alto livello con il compito di monitorare tutto ciò che potrebbe fare scandalo nell’amministrazione Trump. La maggior parte degli avvocati di questa associazione lavorano gratis, per la causa. Sono loro ad aver preparato il caso di Bob Ferguson, il procuratore generale dello Stato di Washington, contro il decreto sull’immigrazione (“Executive Order 13.769”).
    “Shareblue” (“la condivisione blu”) è un esercito elettronico già collegato con 162 milioni di internauti negli Stati Uniti. Ha il compito di diffondere dei temi preordinati, ad esempio: Trump è autoritario e ladro; Trump è sotto l’influenza di Vladimir Putin; Trump è una personalità debole e irascibile, è un maniaco-depressivo; Trump non è stato eletto dalla maggioranza dei cittadini degli Stati Uniti, ed è quindi illegittimo; il suo vicepresidente, Mike Pence, è un fascista; Trump è un miliardario che sarà costantemente di fronte a conflitti di interesse tra i suoi affari personali e quelli dello Stato; Trump è un burattino dei fratelli Koch, i famosi elemosinieri dell’estrema destra; Trump è un suprematista bianco e una minaccia per le minoranze; l’opposizione anti-Trump continua a crescere fuori Washington; per salvare la democrazia, cerchiamo di sostenere i parlamentari democratici che stanno attaccando Trump, e cerchiamo di demolire quelli che stanno collaborando con lui; stessa cosa con i giornalisti; per rovesciare Trump ci vorrà del tempo, quindi cerchiamo di non indebolire la nostra lotta.
    Questa associazione produrrà newsletter e video di 30 secondi. Si appoggerà ad altri due gruppi: una società che realizza video documentari, “The American Independent”, e una unità statistica, Benchmark Politics (ossia “politica comparativa”). L’insieme di questo dispositivo – che è stato messo in campo durante il periodo transitorio, cioè prima dell’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca – dà già lavoro a oltre 300 specialisti a cui conviene aggiungere numerosi volontari. Il suo budget annuale, inizialmente previsto nella misura di 35 milioni di dollari, è stato aumentato fino a un livello di circa 100 milioni di dollari. Distruggere l’immagine – e quindi l’autorità – del presidente degli Stati Uniti, prima che abbia avuto il tempo di fare alcunché, può avere gravi conseguenze. Eliminando Saddam Hussein e Muammar Gheddafi, la Cia ha fatto precipitare questi due paesi in un lungo periodo di caos, e la “terra della libertà” potrebbe gravemente soffrire da una tale operazione. Questo tipo di tecnica di manipolazione di massa non era mai stata utilizzata contro il capofila del mondo occidentale. Per il momento, questo piano sta funzionando: nessun leader politico al mondo ha avuto il coraggio di felicitarsi dell’elezione di Donald Trump, con l’eccezione di Vladimir Putin e di Mahmud Ahmadinejad.
    (Thierry Meyssan, “Il dispositivo Clinton per screditare Donald Trump”, da “Megachip” del 5 marzo 2017).

    E’ in corso la campagna contro il nuovo presidente degli Stati Uniti, condotta dagli stessi sponsor di Barack Obama, Hillary Clinton e della distruzione del Medio Oriente. Dopo la marcia delle donne del 22 gennaio, è previsto che si tenga una marcia per la scienza non solo negli Stati Uniti, ma anche in tutto il mondo occidentale, il 22 aprile. L’obiettivo è dimostrare che Donald Trump non è solo un misogino, ma anche un oscurantista. Il fatto che sia l’ex-organizzatore del concorso di Miss Universo, e che sia sposato con una modella al suo terzo matrimonio è sufficiente, a quanto pare, a dimostrare che disprezza le donne. Che il presidente contesti il ruolo svolto da Barack Obama nella creazione della Borsa Climatica di Chicago (ben prima della sua presidenza) e che respinga l’idea che le perturbazioni climatiche siano causate dal rilascio di carbonio nell’atmosfera, attesta il fatto che non capisce nulla di scienza. Per convincere l’opinione pubblica statunitense della follia del presidente – un uomo che dice di desiderare la pace con i suoi nemici, e di voler collaborare con loro per la prosperità economica universale – uno dei più grandi specialisti di agit-prop (agitazione e propaganda), David Brock, ha messo in campo un dispositivo impressionante già prima dell’investitura di Trump.

  • Craig Roberts: golpe in vista, Trump è già un uomo morto

    Scritto il 01/3/17 • nella Categoria: idee • (26)

    «Non c’è nulla che l’establishment politico non farà e nessuna bugia che non dirà, per mantenere il proprio prestigio e potere a carico vostro». Parola di Donald Trump, prima delle elezioni. Il guaio è che oggi, pochi mesi dopo il voto, Trump è “un uomo morto”. «Lo sforzo del popolo americano di portare il governo nuovamente sotto il proprio controllo tramite Trump è stato sconfitto dallo Stato Profondo», sentenzia Paul Craig Roberts,  viceministro di Reagan negli anni ‘80, già sostenitore critico di “The Donald” e fiero avversario della “falsa sinistra” incarnata da Obama e Hillary, servitori del disegno “imperiale” del complesso militare-industriale, la “fabbrica della guerra”. Per John Schindler, ex spia della Nsa, Trump «morirà in carcere», vittima della «guerra nucleare» che lo “Stato Profondo” gli ha dichiarato. Cia, Pentagono, Wall Street, Fbi, industria degli armamenti. Il “grande nemico”, denunciato dal presidente Eisenhower nel suo ultimo discorso, avrebbe vinto ancora, secondo Craig Roberts: «Donald Trump ha sovrastimato il suo potere presidenziale? La risposta è sì. Steve Bannon, il principale consigliere di Trump, è politicamente inesperto? La risposta è sì». Trump ha sovrastimato le sue forze, ha sfidato il “mostro” e adesso pagherà un prezzo altissimo.
    Il “New York Times” riporta che «le agenzie di intelligence americane hanno cercato di capire se la campagna elettorale Trump era collusa con i russi sulla pirateria informatica o con altri sforzi per influenzare le elezioni». E’ l’offensiva del “Deep State”, che si sta riprendendo il potere. Trump in carcere? «E’ possibile che accadrà proprio questo», scrive Craig Roberts, in un post su “Sputnik News” tradotto da Costantino Ceoldo per “Come Don Chisciotte”. Il prestigioso analista americano, già “editor” del “Wall Street Journal”, ricorda che, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, il complesso militare e di sicurezza decise che «il flusso di profitti e potere derivante dalla guerra e dai pericoli di una guerra era troppo grande per essere ceduto», consegnato alla tranquillità di in un’era di pace. «Questo complesso ha manipolato un debole e inesperto presidente Truman in una gratuita guerra fredda con l’Unione Sovietica», basata sul nulla: «Fu creata la menzogna, accettata dal popolo americano credulone, che il comunismo internazionale voleva conquistare il mondo». Assurdo: Stalin aveva liquidato Trotskij e tutti gli alfieri della “rivoluzione permanente”, estesa a tutto il mondo, puntando invece sul “socialismo in un solo paese”.
    Ma l’establishment americano «ha abbozzato e contribuito all’inganno», gonfiando il super-potere dell’apparato militare-industriale fino a preoccupare Dwitght Eisenhower, che nel 1961 – nel suo ultimo discorso – mise in guardia il popolo contro la vocazione eversiva del business della guerra: «Tre milioni e mezzo di uomini e donne sono direttamente impegnati nell’apparato della difesa», disse. «Ogni anno spendiamo per la sicurezza militare più del reddito netto di tutte le società degli Stati Uniti. Questa congiunzione di un apparato militare immenso e di una grande industria degli armamenti è nuova, nell’esperienza americana. L’influenza totale – economica, politica, anche spirituale – si fa sentire in ogni città, ogni Parlamento, ogni ufficio del governo federale». Una necessità geopolitica con «gravi implicazioni», per Eisenhower: «Dobbiamo guardarci dall’acquisizione di una influenza ingiustificata, visibile o invisibile, da parte del complesso militar-industriale. Il potenziale per l’ascesa disastrosa di un potere fuori luogo esiste e persisterà. Non dobbiamo mai lasciare che il peso di questa combinazione metta in pericolo le nostre libertà o i nostri processi democratici».
    E ancora: «Non dovremmo mai dare nulla per scontato. Solo una cittadinanza vigile e competente può costringere il corretto ingranamento del grande apparato industriale e militare di difesa con i nostri metodi e gli obiettivi pacifici, in modo che la sicurezza e la libertà possano prosperare insieme». Gli avvisi di Eisenhower, osserva Craig Roberts, erano centrati. «Tuttavia, erano basati su “una cittadinanza vigile e competente”, che gli Stati Uniti non hanno. La popolazione americana è in gran parte stupida e si sta dirigendo, in tutto lo spettro ideologico da sinistra a destra, all’autodistruzione». I media, stampa e televisione, che «servono da propagandisti per il potere del complesso militar-industriale e le élite di Wall Street», ormai «si accertano che gli americani non abbiano nulla se non informazioni false ed orchestrate: ogni famiglia e persona che accende la Tv o si legge un giornale è programmata per vivere in una realtà falsa ed orchestrata che serve quei pochi che comprendono l’apparato di governo». L’altro problema? «Trump ha sfidato questo apparato, senza rendersi conto che è più potente di un semplice presidente degli Stati Uniti».
    Durante il secondo mandato di Obama, la Russia e il suo presidente «sono stati demonizzati dal complesso militar-industriale e dai neoconservatori utilizzando i media “presstitute”», scrice Craig Roberts. «La demonizzazione ha facilitato la capacità dei media “presstitute” controllati, come il “New York Times”, il “Washington Post”, Cnn, Msnbc ed il resto, di associare il contatto con la Russia e gli articoli che mettevano in discussione le tensioni orchestrate tra Stati Uniti e Russia, con attività sospette, forse anche tradimento». Trump e i suoi consiglieri? «Erano troppo inesperti per rendersi conto che la conseguenza del licenziamento di Flynn è stata quella di validare questa associazione orchestrata della presidenza Trump con l’intelligence russa». E ora abbiamo «le puttane dei media e le puttane della politica» impegnate a porre la stessa domanda utilizzata per infangare il presidente Nixon e forzarne le dimissioni: “Che cosa sapeva il presidente e quando lo sapeva?”. Trump sapeva che il generale Flynn aveva parlato con l’ambasciatore russo settimane prima che Trump abbia detto che lo aveva fatto? Flynn ha fatto l’indicibile, parlare con un russo: perché Trump gli ha detto di farlo?
    I fornitori di false notizie, cioè i grandi media «bugiardi spregevoli», secondo Craig Roberts «stanno usando insinuazioni irresponsabili per intrappolare il presidente Trump in una rete di tradimento». Ecco il titolo del “New York Times”: «Gli assistenti della campagna di Trump hanno avuto contatti ripetuti con l’intelligence russa». Quello a cui stiamo assistendo, insiste l’analista, è una campagna da parte dello Stato Profondo, «che usa le sue puttane dei media per organizzare l’impeachment di Trump». In altre parole, «quelli al lavoro per ribaltare le elezioni presidenziali del 2016 sono così sicuri del loro successo che dichiarano pubblicamente la loro preferenza per un colpo di Stato sulla democrazia». Ad esempio, «il guerrafondaio neoconservatore sionista Bill Kristol ha espresso la sua preferenza per un colpo di Stato». Craig Roberts lo definisce «liberale progressista di sinistra, allineato con l’Uno Percento contro la “razzista, misogina, omofobica” classe operaia, i “deplorevoli” che hanno eletto Trump». In campo anche gli artisti, come «il musicista disinformato Moby», il quale «si è sentito in dovere di scrivere sciocchezze ignoranti su Facebook», per dire che «il dossier russo su Trump è reale», il presidente «è ricattato dal governo russo, non solo per essersi fatto pisciare addosso da prostitute russe, ma per cose molto più nefaste». In più, «l’amministrazione Trump è in collusione con il governo russo, e lo è stata fin dal primo giorno».
    Aggiunge Craig Roberts: «Ora che Trump è stato contaminato dalle “associazioni con lo spionaggio russo” i repubblicani idioti, secondo “Bloomberg”, si sono  “uniti alle chiamate dei democratici per uno sguardo più approfondito sui contatti tra la squadra del presidente Trump e gli agenti dello spionaggio russo», cosa che «indica un crescente senso di pericolo politico all’interno del partito qualora emergessero nuovi rapporti su ampi contatti tra i due». Naturalmente – puntualizza Craig Roberts – non vi è alcuna prova di tali contatti: sono solo insinuazioni, su cui si basa la campagna per deporre Trump. Il licenziamento di Flynn, il generale “sacrificato” nel tentativo di placare le polemiche, ha solo peggiorato la situazione: viene presentato come un’ammissione di colpevolezza, mentre la Cia «continua a passare notizie false alle “presstitute”». Conclude Craig Roberts, amaramente: «Fin dall’inizio ho avvertito che Trump mancava dell’esperienza e delle conoscenze per scegliere un governo che gli stesse accanto e servisse la sua agenda. Trump ha ora licenziato l’unica persona su cui avrebbe potuto contare. La conclusione più ovvia è che Trump è carne morta».
    Negli Usa, «continua a guadagnare credibilità la tesi di Chris Hedges secondo la quale la rivoluzione è l’unico modo con cui gli americani possono rivendicare il proprio paese». Trump è stato crocifisso alle parole pronunciate alla vigilia delle elezioni, quando disse: «L’establishment di Washington, e le grandi aziende finanziarie e dei media che lo finanziano, esiste per una sola ragione: per proteggersi ed arricchirsi». Questo, aggiunse, «è un crocevia della storia della nostra civiltà che determinerà se noi, il popolo, recupereremo il controllo sul nostro governo». L’establishment politico, il Deep State: «Sta tentando di tutto per fermarci», disse Trump. Ed è «lo stesso gruppo responsabile per i nostri trattati commerciali disastrosi, la massiccia immigrazione illegale e le politiche estere che hanno fatto sanguinare questo paese fino a prosciugarlo». La classe politica «ha portato alla distruzione delle nostre fabbriche e dei nostri posti di lavoro, che fuggono in Messico, Cina e altri paesi in tutto il mondo». Un nemico potentissimo: «Si tratta di una struttura di potere globale che è responsabile per le decisioni economiche che hanno derubato la nostra classe operaia, spogliato il nostro paese della sua ricchezza e messo quei soldi nelle tasche di un pugno di grandi aziende ed entità politiche». Parole a cui oggi lo Stato Profondo sta inchiodando Trump, a colpi di finti scandali mediatici, verso l’impeachment.

    «Non c’è nulla che l’establishment politico non farà e nessuna bugia che non dirà, per mantenere il proprio prestigio e potere a carico vostro». Parola di Donald Trump, prima delle elezioni. Il guaio è che oggi, pochi mesi dopo il voto, Trump è “un uomo morto”. «Lo sforzo del popolo americano di portare il governo nuovamente sotto il proprio controllo tramite Trump è stato sconfitto dallo Stato Profondo», sentenzia Paul Craig Roberts,  viceministro di Reagan negli anni ‘80, già sostenitore critico di “The Donald” e fiero avversario della “falsa sinistra” incarnata da Obama e Hillary, servitori del disegno “imperiale” del complesso militare-industriale, la “fabbrica della guerra”. Per John Schindler, ex spia della Nsa, Trump «morirà in carcere», vittima della «guerra nucleare» che lo “Stato Profondo” gli ha dichiarato. Cia, Pentagono, Wall Street, Fbi, industria degli armamenti. Il “grande nemico”, denunciato dal presidente Eisenhower nel suo ultimo discorso, avrebbe vinto ancora, secondo Craig Roberts: «Donald Trump ha sovrastimato il suo potere presidenziale? La risposta è sì. Steve Bannon, il principale consigliere di Trump, è politicamente inesperto? La risposta è sì». Trump ha sovrastimato le sue forze, ha sfidato il “mostro” e adesso pagherà un prezzo altissimo.

  • Chi vuol tenere Lapo Elkann fuori dagli affari di famiglia?

    Scritto il 21/2/17 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Lapo Elkann nella bufera a causa dei suoi eccessi? Un rampollo di casa Agnelli non finisce sui giornali senza un preciso piano per distruggerlo. Lo sostiene Andrea Camaiora sull’“Huffington Post”, domandandosi: «Chi vuole tenere Lapo Elkann fuori degli affari di famiglia?». Una lettura precisa, sui retroscena di una vicenda che illuminerebbe aspetti del vero potere italiano, legato al capitalismo familiare dei signori della Fiat. «La storia recente della dinastia Agnelli dice che Lapo, genio e sregolatezza, è mal sopportato come componente del cda Ferrari ed è stato per un certo periodo in ballo anche come presidente della Juventus». Ma la galassia di famiglia non si ferma a questo, aggiunge Camaiora: c’è ovviamente il fondo Exor, la “cassa” degli Agnelli, che porta dritta dritta a Fca, la “creatura” di Sergio Marchionne il cui leader è il fratello di Lapo, John Elkann. «Di questo potrebbero scrivere più precisamente giornalisti esperti in economia e finanza. A noi interessa osservare qualcos’altro, ovvero che Lapo Elkann – l’unico nipote di Gianni Agnelli che ha creato qualcosa di proprio fuori del core business familiare, Italia independent e Garage Italia Customs – diventa periodicamente protagonista delle cronache nazionali con un’altalena infinita di belle e brutte figure».
    L’11 ottobre 2005, ricorda il giornalista, Lapo viene ricoverato in gravissime condizioni presso il reparto di rianimazione dell’ospedale Mauriziano di Torino, a causa di un’overdose per un mix di oppiacei dopo una notte in compagnia di più transessuali, tra cui la celebre trans Patrizia. Più recentemente il “sequestro” «dai profili poco credibili» che lo ha visto nuovamente in compagnia di un transgender, questa volta a New York, «per una cifra ridicola per la famiglia Agnelli: 10 mila euro». E qui, ricorda Camaiora, tutti si sono domandati: c’era proprio bisogno che la famiglia portasse questa vicenda al disonore della ribalta? «Un interrogativo che si rafforza visto che più che sequestrato, Lapo era stato in qualche modo trattenuto e che poi – superato lo strepitus mediatico – anche il profilo penale della vicenda si è subito smontato, con la procura che ha riconosciuto che Lapo non ha affatto organizzato un finto rapimento». Cadute le accuse, dunque, «ma screditamento pienamente realizzato». L’analista del “Post” dice di tenersi alla larga dal complottismo, ma sostiene che «a indurre una riflessione sulla regia mediatica degli scandali di cui è in qualche modo vittima Lapo c’è un’ultima curiosa coincidenza», ovvero: le dichiarazioni di Lapo, a bufera finita, sul futuro delle sue attività extra-Fiat.
    Prosciolto dalla giustizia americana in tempi record per il nostro sistema giudiziario, il giovane Elkann ha usato parole misurate ma in qualche modo anche combattive: «Ho attraversato un momento difficile che però mi ha dato il tempo e il silenzio necessari per riflettere e soprattutto per rinforzare ciò che voglio fare in futuro». E anche: «So che voglio proseguire il lavoro che ho fatto su di me in queste settimane, per raccogliere nuove energie e mettere una consapevolezza diversa nella mia vita e nel mio lavoro». Ha quindi precisato che intende «sostenere le aziende cui ho dato vita e portare avanti i tanti progetti di collaborazione avviati con il massimo impegno». Così si è espresso alla fine di gennaio. Ma non era ancora finita, la tempesta contro di lui: «Il 7 febbraio – scrive Camaiora – il “Corriere.it” ha rilanciato, con il titolo “Vi racconto quelle notti a Torino”, l’intervista al trans Patrizia che la trasmissione condotta da Luca Telese, “Bianco e Nero”, aveva nei giorni precedenti mandato in onda e che si riferiva al caso di undici anni prima». Conclude Camaiora: «Per Elkann speriamo di sbagliarci, ma non è solo e non tanto in tribunale che deve difendersi, se non vuole essere tenuto sempre a debita distanza dagli affari di famiglia. Sempre che, naturalmente, la cosa gli interessi».

    Lapo Elkann nella bufera a causa dei suoi eccessi? Un rampollo di casa Agnelli non finisce sui giornali senza un preciso piano per distruggerlo. Lo sostiene Andrea Camaiora sull’“Huffington Post”, domandandosi: «Chi vuole tenere Lapo Elkann fuori degli affari di famiglia?». Una lettura precisa, sui retroscena di una vicenda che illuminerebbe aspetti del vero potere italiano, legato al capitalismo familiare dei signori della Fiat. «La storia recente della dinastia Agnelli dice che Lapo, genio e sregolatezza, è mal sopportato come componente del cda Ferrari ed è stato per un certo periodo in ballo anche come presidente della Juventus». Ma la galassia di famiglia non si ferma a questo, aggiunge Camaiora: c’è ovviamente il fondo Exor, la “cassa” degli Agnelli, che porta dritta dritta a Fca, la “creatura” di Sergio Marchionne il cui leader è il fratello di Lapo, John Elkann. «Di questo potrebbero scrivere più precisamente giornalisti esperti in economia e finanza. A noi interessa osservare qualcos’altro, ovvero che Lapo Elkann – l’unico nipote di Gianni Agnelli che ha creato qualcosa di proprio fuori del core business familiare, Italia independent e Garage Italia Customs – diventa periodicamente protagonista delle cronache nazionali con un’altalena infinita di belle e brutte figure».

  • Craig Roberts: gli uomini di Trump già si piegano al potere

    Scritto il 18/1/17 • nella Categoria: idee • (4)

    «Uno dei motivi per cui la Russia ha salvato la Siria dai rovesci che voleva Washington è stato che la Russia ha compreso che il prossimo obiettivo di Washington sarebbe stato l’Iran; e che un terrorismo, sconfitto in Iran, si sarebbe spostato nella vicina Federazione Russa». Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan, lancia un allarme sulla demenziale propaganda anti-russa alla quale gli uomini di Trump si stanno piegando, forse anche solo in chiave tattica, per tranquilizzare la Cia e il Congresso, rassicurando l’establihsment sulla immutata vocazione “imperiale” della Casa Bianca. E’ comunque un errore grave, per Craig Roberts, quello commesso da Rex Tillerson e James Mattis: «Se il presidente della Exxon e un generale non sono in grado di tener testa a un Congresso imbecille, vuol dire che non sono adatti al compito che gli hanno assegnato». L’America non può scherzare col fuoco, perché «c’è un asse tra i paesi minacciati dagli Stati Uniti con il sostegno dato al terrorismo: Siria, Iran, Russia, Cina». Trump dice che vuole normalizzare le relazioni con la Russia, aprendo opportunità di business anziché conflitti? «Ma per normalizzare le relazioni con la Russia si devono anche normalizzazione i rapporti con l’Iran e con la Cina».
    A giudicare dalle dichiarazioni pubbliche, scrive Craig Roberts in un intervento su “Information Clearing House” che Bosque Primario ha tradotto per “Come Don Chisciotte”, il governo annunciato di Trump ha preso di mira l’Iran come paese da destabilizzare. «Tutti gli uomini nominati da Trump – il consigliere per la sicurezza nazionale, il segretario della difesa e il direttore della Cia – considerano l’Iran, in modo non corretto, uno Stato terrorista che deve essere rovesciato». Ma la Russia, aggiunge Craig Roberts, «non può permettere a Washington di rovesciare il governo di un Iran stabile, e non lo permetterà». E gli investimenti della Cina sul petrolio iraniano «portano alla conclusione che nemmeno la Cina permetterà un rovesciamento dell’Iran da parte di Washington». La Cina, ricorda Craig Roberts, ha già sofferto per i suoi investimenti persi nel petrolio libico, «come risultato del rovesciamento del governo libico fatto dal regime di Obama». Realisticamente parlando, quindi, «sembra che la presidenza Trump risulti già sconfitta dai suoi stessi uomini, indipendentemente dalla ridicola e incredibile propaganda mandata in giro dalla Cia e ritrasmessa da tutti i media negli Usa, nel Regno Unito e nel resto d’Europa».
    La “Reuters” riferisce che truppe americane composte da 2.700 soldati e da carri armati si stanno muovendo dalla Polonia verso il confine con la Russia. Il colonnello Christopher Norrie, comandante del 3° Armoured Brigade Combat Team, ha dichiarato: «L’obiettivo principale della nostra missione è deterrenza e prevenzione delle minacce». Una grossolana e pericolosa provocazione: l’Urss di Stalin fu colta di sorpresa ma seppe respingere il più grande esercito d’Europa, quello di Hitler, mentre «la Russia di Putin è pronta».  Aggiunge Craig Roberts: «E’ incredibile che l’esercito americano stia portando avanti una esercitazione tanto provocatoria e tanto in contraddizione con la futura politica del presidente entrante. I militari americani, la Cia, e le loro puttane dei media Usa stanno anti-democraticamente seguendo una propria agenda, indipendente della politica che vorrà fare il presidente eletto». Secondo il quotidiano israeliano “Haaretz”, agenti dell’intelligence Usa hanno chiesto al governo israeliano di non condividere nessuna informazione di intelligence con l’amministrazione Trump, perché Putin avrebbe mezzi per far “pressione” su Trump e Trump dovrebbe svelare informazioni sensibili a Russia e Iran.
    «Possiamo vedere come tutto il complesso si muova per sabotare tutta la politica militare e della security di Trump», aggiunge Craig Roberts. «Accuse continue hanno costretto Trump a dire che forse i russi sarebbero stati coinvolti in un attacco che non c’è mai stato, né da parte della Russia né da parte di nessun altro». Il segretario di Stato designato, Tillerson, «ha dovuto dichiarare che la Russia è una minaccia nel corso della sua udienza di conferma per poter essere confermato». Idem il candidato di Trump al ruolo di segretario della difesa, Mattis: «Ha dovuto dire nella sua udienza di conferma che gli Stati Uniti devono essere pronti a confrontarsi militarmente con la Russia». Solo “un osso” gettato alla Cia? «E’ chiaro che il Congresso degli Stati Uniti è in balia dei soldi che vengono dalle donazioni del complesso militare e della security», da qui “l’obbligo” di decretare Russia “una minaccia”. Male: «L’establishment che domina gli Usa sta facendo perdere la speranza e sta mettendo dei dubbi nello stesso governo russo». Ma, si domanda Craig Roberts, dov’è finita la coscienza morale della sinistra “liberal”? «Per quale motivo questa sinistra liberale sta aiutando il complesso militare e la security pur di delegittimare Trump e di incastrarlo in modo che la sua agenda sia già morta in partenza e che la guerra termonucleare rimanga comunque una possibilità?».
    In altre parole: Trump è già finito? «Stiamo già perdendo fiducia, se non (ancora) in lui, in quelli che ha scelto per comporre il suo governo, ancora prima che si insedi ufficialmente». Gravissime, per Craig Roberts, le dichiarazioni di Tillerson, futuro ministro degli esteri, sulla Cina, identiche a quelle rese, a suo tempo, da Hillary Clinton, quando dichiarava che il Mar Cinese Meridionale è una zona di dominio degli Stati Uniti. Nella sua audizione di conferma, Rex Tillerson ha detto che l’accesso della Cina al proprio Mar Cinese Meridionale non sarà permesso: «Dobbiamo mandare alla Cina un chiaro segnale che, per prima cosa, devono fermare le loro costruzioni sulle isole e poi che nemmeno l’accesso a quelle isole sarà tollerato», ha detto. La risposta della Cina? Immediata, e a tono: «Tillerson – ha replicato il governo cinese – non dovrebbe essere indotto a pensare che Pechino avrà paura delle sue minacce. Se la diplomazia di Trump continuerà a mantenere i futuri rapporti tra gli Stati Uniti e la Cina a livello attuale, sarà meglio che le due parti si preparino a uno scontro militare». Nel qual caso, «Tillerson farebbe meglio a cercare di capire cosa significhi strategia nucleare, se vuol provare a far ritirare una grande potenza nucleare dai propri territori».
    Così, scrive Craig Roberts, Trump non è nemmeno arrivato al suo insediamento che «un idiota che ha nominato segretario di Stato ha già creato un rapporto di animosità con due potenze nucleari capaci di distruggere completamente tutto l’Occidente per l’eternità». Forse, conclude l’analista statunitense, queste dichiarazioni non sono altro che fumo negli occhi: enunciano azioni che non saranno messe in atto. Ma perché piegarsi al Congresso, rinunciando completamente alle proprie idee, se diverse da quelle esposte? «Il fatto che non sappiano stare in piedi da soli – dice Craig Roberts degli uomini scelti dal neopresidente – è una chiara indicazione che non hanno quella forza di cui Trump ha bisogno, se vuole imporre un cambiamento dall’alto». E il pericolo è reale: «Se Trump non sarà in grado di cambiare la politica estera americana, una guerra termonucleare e la distruzione della Terra sono inevitabili».

    «Uno dei motivi per cui la Russia ha salvato la Siria dai rovesci che voleva Washington è stato che la Russia ha compreso che il prossimo obiettivo di Washington sarebbe stato l’Iran; e che un terrorismo, sconfitto in Iran, si sarebbe spostato nella vicina Federazione Russa». Paul Craig Roberts, già viceministro di Reagan, lancia un allarme sulla demenziale propaganda anti-russa alla quale gli uomini di Trump si stanno piegando, forse anche solo in chiave tattica, per tranquillizzare la Cia e il Congresso, rassicurando l’establihsment sulla immutata vocazione “imperiale” della Casa Bianca. E’ comunque un errore grave, per Craig Roberts, quello commesso da Rex Tillerson e James Mattis: «Se il presidente della Exxon e un generale non sono in grado di tener testa a un Congresso imbecille, vuol dire che non sono adatti al compito che gli hanno assegnato». L’America non può scherzare col fuoco, perché «c’è un asse tra i paesi minacciati dagli Stati Uniti con il sostegno dato al terrorismo: Siria, Iran, Russia, Cina». Trump dice che vuole normalizzare le relazioni con la Russia, aprendo opportunità di business anziché conflitti? «Ma per normalizzare le relazioni con la Russia si devono anche normalizzazione i rapporti con l’Iran e con la Cina».

  • Cancellare i fatti: Obama e il nuovo Ministero della Verità

    Scritto il 16/1/17 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Vi ricordate il ritornello della canzone di Battiato di vent’anni fa? Strani giorni, viviamo strani giorni… Beh, quei giorni saranno stati forse strani, ma mai come quelli che stiamo vivendo oggi, dove la sovrabbondanza di notizie e la manipolazione incessante da parte dei media fa in modo che la gente non recepisca il ‘peso specifico’ di una notizia rispetto alle altre. Manipolare le coscienze non è solo scrivere il falso o negare il vero; basta semplicemente dare ad una notizia di importanza del tutto trascurabile lo stesso ‘peso’ (corpo tipografico o tempo dedicato nei Tg) di un fatto di grande rilevanza. Questa manipolazione costante produce nel lettore/spettatore una perdita di riferimento, un disorientamento della coscienza; è come se rispetto alla nostra vita noi dessimo pari importanza ad un mal di pancia rispetto ad un ictus. O, meglio, come se interpretassimo i sintomi dell’ictus con la stessa leggerezza con cui osserviamo quelli del mal di pancia… In effetti, i sintomi di questi strange days ci sono tutti, se solo li guardassimo con attenzione, senza farci disorientare da chi ci dovrebbe orientare, vale a dire dai media. A cosa mi riferisco?
    Prima di tutto all’ultima trovata delle governance mondiali e dei loro “presstitutes” (geniale sintesi che definisce la stampa prostituita al potere) vale a dire la crociata contro le fake news o post-verità, che via web rappresenterebbero una minaccia per le istituzioni. Pensate che il termine originale inglese, post-truth, è stato eletto parola dell’anno 2016 dall’Oxford Dictionary! Queste fake news irritano così tanto l’establishment che da diverse parti si invoca addirittura una sorta di commissione di controllo sulle opinioni espresse in rete. Un Ministero della Verità, insomma, di orwelliana memoria. Ora, considerando la costante e instancabile manipolazione che i mezzi d’informazione esercitano da sempre sull’opinione pubblica attraverso menzogne, falsificazioni dei fatti, mezze verità e fantasie, fa davvero sorridere che si identifichi nelle bufale – indubitabilmente presenti in rete – un rischio per la democrazia. Il fatto è che fino a poco tempo fa il fenomeno del cosiddetto ‘complottismo’ era confinato ad una nicchia di persone che iniziavano a fiutare odore di marcio proveniente dai media e cercavano quindi – visti i mezzi messi a disposizione dalla rete – di capire meglio certe situazioni quando i conti proprio non tornavano.
    Il fact-checking ha permesso allora a milioni di utenti del web di smascherare le vere e proprie bufale messe in onda dalle televisioni di mezzo mondo. Ma ad un certo punto, questo fenomeno del complottismo, della Conspiracy Theory, ha iniziato a diffondersi sempre di più, tracimando dalla rete ed entrando anche nei salotti buoni dei media mainstream. Fenomeno naturalmente irriso, denigrato e oggi criminalizzato. Certamente grazie anche a tutte le reali bufale presenti sul web, inserite ad arte da falsi idioti o da idioti autentici. Così Obama ha iniziato a fare pressioni su Google e Facebook che dovrebbero – a suo dire – esercitare un controllo su notizie false o presunte tali diffuse in rete. Ora, se i mezzi d’informazione ufficiali diffondessero sempre e solo notizie vere la preoccupazione del presidente americano uscente avrebbe una qualche credibilità ma, dato che è vero esattamente il contrario, questa operazione ha proprio l’aria di un intervento a gamba tesa su tutte quelle comunità virtuali che, collegate tra loro, iniziano a nutrire seri dubbi sulle versioni ufficiali. Pensate che io esageri affermando che “è vero esattamente il contrario”? Bene, allora state a sentire, e parlo solo delle fake news più recenti messe in giro dai media.
    Negli ultimi mesi i mezzi d’informazione del cosiddetto ‘mondo libero’ hanno ripetuto incessantemente che vi erano tra 250 mila e 300 mila civili intrappolati tutto i bombardamenti russi e siriani ad Aleppo Est, nonostante che le fonti d’informazioni siriane avessero più volte ribadito che il numero delle persone intrappolate non superava un terzo di quella cifra. Ebbene, una volta liberata la parte orientale di Aleppo è emerso che il numero dei civili che erano stati bloccati era inferiore alle 90 mila unità. Pensate che i media occidentali si siano peritati di riconoscere l’errore? No, neppure una riga. L’affermazione secondo la quale hacker russi avrebbero cercato di influenzare le elezioni americane è stata smentita sia da Assange che da Craig Murray – ex ambasciatore inglese in Uzbekistan che si è giocato la carriera quando ha accusato la Cia di complicità nelle torture nell’ex-repubblica sovietica – che ha fatto risalire a due fonti americane, una delle quali ha incontrato personalmente, il leak delle email che hanno inguaiato la Clinton. Risultato? Nessuno: Assange e Murray sono stati definiti spie russe. Così il presidente Obama ha appena firmato una legge di Difesa Nazionale che prevede un investimento di 160 milioni di dollari per nuove operazioni di propaganda Usa, dichiaratamente intese a contrastare la “propaganda russa”.
    Altre due prove di disinformazione da parte dei media: il risultato delle elezioni presidenziali americane e la Brexit. Nel primo caso non c’è stato un solo mezzo di informazione che non abbia ripetuto ad nauseam che non c’erano dubbi sulla vittoria della Killary. Gli esiti sono sotto gli occhi di tutti. Quanto a Brexit (anch’essa data per inverosimile) le catastrofiche previsioni della vigilia sono state – a oltre sei mesi di distanza – ampiamente contraddette dai fatti. Mentre la quasi totalità degli economisti profetizzavano una flessione immediata, con relativi crolli di Borsa, l’economia britannica è cresciuta negli ultimi mesi, registrando un incremento del Pil rispettivamente dello 0,3% e dello 0,6% nei primi due trimestri del 2016, e dello 0,6% e dello 0,5% negli ultimi due, vale a dire nel semestre successivo all’esito del referendum grazie al quale il Regno Unito è uscito dalla Ue. Che ne dite, ci sono o no buoni motivi per diffidare delle fake news dei media?
    Ma i mezzi ufficiali d’informazione non ne vogliono sapere – loro non possono sbagliare per definizione – e così oggi ci troviamo di fronte ad una prima spinta censoria mirata direttamente a ostacolare quella libertà di pensiero e di espressione che oggi inizia a preoccupare l’establishment. Il quale non si sporca le mani con divieti palesi ma subdolamente e vigliaccamente interviene su motori di ricerca e social media. Ora, se il loro obiettivo fosse raggiunto, la ratio menzogna/verità dipenderebbe non dalla nostra personale indagine, ma da un algoritmo. In sostanza da una macchina. Questo non vi dice nulla? La seconda questione che mi riporta agli strange days è collegata ad alcuni avvenimenti la cui estrema gravità è passata – e continua a passare – quasi inosservata. Mi riferisco agli eventi che hanno contrassegnato le ultime elezioni americane. Ora, quanto è avvenuto e sta avvenendo sull’altra riva dell’Atlantico è qualcosa di assolutamente nuovo nella storia americana. Mai, neppure nei periodi peggiori della guerra fredda con l’allora Unione Sovietica si è visto un tale palese odio e disprezzo verso la Russia come quello che oggi dilaga sui media americani.
    Neppure nei giorni più oscuri del trentennio che va dagli anni ’50 agli ’80 presidenti come Eisenhower, Nixon, Reagan si sono rivolti ad un presidente russo con termini come quelli che oggi usano politici come Obama, la Clinton, McCain, Clapper. Quell’Obama, su cui ironizza Ron Paul affermando che il Premio Nobel per la pace è il giusto riconoscimento per un presidente che ha bombardato 7 nazioni ed è stato il primo nella storia degli Stati Uniti ad essere stato in guerra ogni singolo giorno dei suoi otto anni di mandato. Mai una elezione fu così piena di colpi bassi come questa che ha portato The Donald alla Casa Bianca. Mai – anche se è risaputo che vi sono delle aspre rivalità tra i servizi di intelligence Usa – si era verificato uno scontro aperto tra Cia e Fbi come quello che abbiamo sotto gli occhi oggi. E ancora: mai un presidente eletto aveva pubblicamente screditato le motivazioni dei rapporti di intelligence di una delle più potenti strutture di potere come la Cia, affermando che alla base della conferma del presunto hackeraggio da parte dei russi che avrebbero influenzato le elezioni americane ci sono solo “ragioni politiche”.
    Si tratta di macro-eventi che indicano un cambio globale nella direzione che l’establishment americano sta imboccando, evidentemente obtorto collo. Un cambio di rotta che non viene digerito dalle strutture di potere consolidato che cercano freneticamente di intralciare e sabotare la nuova direzione della Casa Bianca. In tale chiave va vista l’ultima aggressione verbale a Putin con relativa espulsione di diplomatici. E i media mainstream come si sono comportati di fronte a questi veri e propri terremoti politici globali? Minimizzando la magnitudo degli eventi e distogliendo l’attenzione della gente dalle enormi implicazioni a livello mondiale. Attraverso delle vere e proprie armi di distrazione di massa, dunque. Ma al tempo stesso si fanno megafono di una chiamata alle armi contro le fake news. Quelle degli altri, naturalmente.
    (Piero Cammerinesi, “Strange days”, riflessione pubblicata da “Altrogiornale” il 12 gennaio 2017).

    Vi ricordate il ritornello della canzone di Battiato di vent’anni fa? Strani giorni, viviamo strani giorni… Beh, quei giorni saranno stati forse strani, ma mai come quelli che stiamo vivendo oggi, dove la sovrabbondanza di notizie e la manipolazione incessante da parte dei media fa in modo che la gente non recepisca il ‘peso specifico’ di una notizia rispetto alle altre. Manipolare le coscienze non è solo scrivere il falso o negare il vero; basta semplicemente dare ad una notizia di importanza del tutto trascurabile lo stesso ‘peso’ (corpo tipografico o tempo dedicato nei Tg) di un fatto di grande rilevanza. Questa manipolazione costante produce nel lettore/spettatore una perdita di riferimento, un disorientamento della coscienza; è come se rispetto alla nostra vita noi dessimo pari importanza ad un mal di pancia rispetto ad un ictus. O, meglio, come se interpretassimo i sintomi dell’ictus con la stessa leggerezza con cui osserviamo quelli del mal di pancia… In effetti, i sintomi di questi strange days ci sono tutti, se solo li guardassimo con attenzione, senza farci disorientare da chi ci dovrebbe orientare, vale a dire dai media. A cosa mi riferisco?

  • La guerra segreta di Trump contro chi comanda da 30 anni

    Scritto il 13/1/17 • nella Categoria: segnalazioni • (5)

    E’ sempre più interessante questo momento politico negli Usa. Non solo per le polemiche politiche quanto, soprattutto, per la capacità di Trump di spiazzare l’establishment, di rompere le regole non scritte che hanno accomunato dagli anni Ottanta a oggi il partito democratico e quello repubblicano. Ho già spiegato in altre occasioni come funziona la democrazia americana: la rivalità tra i due partiti sui temi che contano – difesa, politica estera, finanza, globalizzazione – è più apparente che reale. Il sistema presidenziale ha funzionato in modo tale da garantire che alla fine si affrontassero due candidati – uno di destra e uno di sinistra – che, a dispetto dell’apparente fortissima rivalità, in realtà condividevano le scelte di fondo e l’appartenenza al ristretto establishment  che governa davvero l’America e che funziona come una sorta di “Rotary”: che vincesse il candidato progressista o quello conservatore poco importava, entrambi erano membri dello stesso club. Le elezioni del 2016, invece, hanno segnato una rottura con questo schema perché alle primarie sono emersi ben due candidati in grado di strappare la nomination: Sanders tra i democratici e Trump tra i repubblicani.
    Sanders sono riusciti a fermarlo con i brogli, che hanno costretto alle dimissioni il presidente del partito Debbie Wasserman Schultz; con Trump hanno fallito, sebbene abbiano tentato in ogni modo di farlo deragliare. Ed è significativo che molti leader repubblicani si fossero schierati con Hillary Clinton durante l’ultima fase della campagna, a cominciare dalla famiglia Bush. Di fronte al rischio di perdere la Casa Bianca, l’establishment ha fatto saltare le apparenze: anche la destra “mainstream” era per Hillary. Come tutte le celebrities di Hollywood. Come tutta la stampa. Demonizzare Trump, distruggere la sua immagine, attaccare la persona prima ancora delle idee, screditarlo in ogni modo. Questo era lo schema, peraltro già usato in passato e non solo negli Stati Uniti. Ma non è bastato. Trump ha vinto. E non sembra intenzionato a recedere dai propri propositi. E’ un uomo che spiazza sempre. Lo ha fatto esternando la sua ammirazione per Putin per non aver risposto all’espulsione dei 35 diplomatici; ha continuato a ritenere non credibili le accuse di ingerenza russe nella campagna elettorale, smontando e relativizzando le insinuazioni provenienti dall’amministrazione Obama e dalla Cia.
    Nell’ambito di questa polemica ha dimostrato un’ottima conoscenza delle tecniche di spin dentro le istituzioni, che è la forma più insidiosa di manipolazione delle notizie; perché viola un concetto fondamentale in democrazia: quello dell’autorevolezza e dell’attendibilità delle fonti che provengono dall’istituzione stessa. O meglio: abusa di questa autorevolezza per diffondere informazioni che hanno l’aura della veridicità, che appaiono comprovate, e che invece sono strumentali, parziali e talvolta totalmente inventate. Quando scrive in un tweet “Chiederò ai capi delle commissioni di Camera e Senato di indagare sulle informazioni top secret condivise con l’Nbc”, facendo riferimento al rapporto d’intelligence per il presidente Barack Obama sugli attacchi hacker russi, a cui “Nbc News” ha avuto accesso in anticipo, in plateale violazione del segreto di Stato, accende un faro su una tecnica di spin doctoring diffusa e molto insidiosa. Chi conosce come viene gestita la comunicazione alla Casa Bianca, sa che questi non sono scoop giornalistici ma fughe pilotate e concordate al massimo livello. A cui Trump dice basta, rompendo ancora una volta la tacita consuetudine bipartisan, che induceva i due partiti a non indagare mai su quelle che talvolta erano vere e proprie frodi, come le motivazioni della guerra in Iraq.
    Rapporto d’intelligence che, peraltro, ha non lo convince come afferma pubblicamente, parlando di “caccia alle streghe” e rompendo un altro tabù: mai nella storia recente americana un presidente si era permesso di mettere in dubbio il lavoro dei vertici dei servizi segreti, di cui non si fida e che intende ridimensionare nei primissimi mesi della propria presidenza. Salteranno tante teste e la struttura dell’intelligence verrà completamente rivista. E’ un’operazione di un’audacia senza precedenti e che spiega il grande nervosismo di Obama e della ristretta élite che ha governato fino ad oggi l’America e il mondo. Non è un caso che proprio quell’establishment abbia tentato nelle ultime settimane di imporre la censura su Internet e sui social media, lanciando una campagna coordinata in più Stati, inclusa l’Unione Europea e Italia, sempre prontissime nel recepire i desiderata di Washington o meglio della Washington che sta uscendo di scena. Il web ha permesso a Trump (e prima di lui al britannico Farage) di scardinare un sistema che sembrava perfetto e intramontabile. Per questo l’establishment globalista tenta, con un colpo di  coda, di silenziare l’informazione alternativa online, usando qualunque pretesto: gli hacker russi, l’Isis, le fake news. Non può riuscirci, non deve riuscirci.
    (Marcello Foa, “La guerra segreta di Trump contro chi governa davvero l’America”, dal blog di Foa su “Il Giornale” del 7 gennaio 2017).

    E’ sempre più interessante questo momento politico negli Usa. Non solo per le polemiche politiche quanto, soprattutto, per la capacità di Trump di spiazzare l’establishment, di rompere le regole non scritte che hanno accomunato dagli anni Ottanta a oggi il partito democratico e quello repubblicano. Ho già spiegato in altre occasioni come funziona la democrazia americana: la rivalità tra i due partiti sui temi che contano – difesa, politica estera, finanza, globalizzazione – è più apparente che reale. Il sistema presidenziale ha funzionato in modo tale da garantire che alla fine si affrontassero due candidati – uno di destra e uno di sinistra – che, a dispetto dell’apparente fortissima rivalità, in realtà condividevano le scelte di fondo e l’appartenenza al ristretto establishment  che governa davvero l’America e che funziona come una sorta di “Rotary”: che vincesse il candidato progressista o quello conservatore poco importava, entrambi erano membri dello stesso club. Le elezioni del 2016, invece, hanno segnato una rottura con questo schema perché alle primarie sono emersi ben due candidati in grado di strappare la nomination: Sanders tra i democratici e Trump tra i repubblicani.

  • Tank sul fronte russo, comincia l’ultima guerra di Obama

    Scritto il 05/1/17 • nella Categoria: segnalazioni • (7)

    La notizia ha dell’incredibile, ma è vera: per la stampa tedesca, stiamo assistendo alla più grande operazione di riposizionamento dell’esercito Usa in Germania dal 1990. «Più di 2.000 carri armati, obici, jeep e automezzi stanno per essere impiegati nelle esercitazioni Nato nell’Europa dell’Est che dureranno nove mesi», scrive Johannes Stern. Lo stato maggiore della Bundeswehr conferma: colossale dislocazione di forse Usa e Nato in Polonia e negli Stati baltici, proprio mentre Obama tenta – anche con la “guerra delle spie” – di incendiare la frontiera orientale, alla vigilia dell’insediamento di Donald Trump, ostacolato in ogni modo. La situazione starebbe precipitando, dopo l’impegno della Russia per la liberazione di Aleppo, a lungo ostaggio di milizie “Isis” capeggiate da leader del Caucaso e dai combattenti di Al-Nusra, altrimenti detta “Al-Qaeda in Siria”, formazione creata, protetta e armata dall’intelligence occidentale. Persa la Siria, ora si enfatizza l’operazione “Atlantic Resolve”, spettacolare (e pericolosa) provocazione alle frontiere con la Russia, cui Obama non perdona l’aver reagito al golpe americano in Ucraina mantenendo il controllo della Crimea.
    A scandire le news, nei primissimi giorni del 2017, sono le fonti delle forze armate tedesche, racconta Stern in un articolo su “Wsws” ripreso da “Come Don Chisciotte”: oltre 2.500 mezzi militari Usa hanno appena raggiunto la Germania «per essere trasportati in Polonia ed in altri paesi dell’Europa Centrale e dell’Est». Il materiale deve «arrivare nel periodo compreso fra il 6 e l’8 gennaio a Bremerhaven via mare e quindi essere trasferito in Polonia per via ferroviaria e convogli militari a partire approssimativamente dal 20 gennaio», cioè il giorno in cui dovrebbe finalmente installarsi Trump alla Casa Bianca. Sempre secondo comunicati diffusi dall’esercito statunitense in Europa, continua Stern, altri 4.000 militari e 2.000 carri armati «contribuiranno a rafforzare la forza di dissuasione e difesa dell’alleanza». Il colonnello Todd Bertulis dell’Eucom, il comando Usa in Europa di stanza a Stoccarda, ha affermato che l’operazione assicurerà che «la potenza di fuoco necessaria verrà schierata in Europa nel posto giusto al momento giusto». E il generale Frederick “Ben” Hodges, comandante delle forze americane in Europa, aggiunge: «E’ una risposta all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ed alla sua illegale annessione della Crimea».
    Il che è palesemente falso, ricorda Johannes Stern: «In Ucraina non è la Russia l’aggressore, ma lo sono Usa e Nato», dal momento che «Washington e Berlino, in stretta collaborazione con le forze fasciste, hanno organizzato un colpo di Stato contro il presidente filorusso, Viktor Yanukovych, agli inizi del 2014, insediando a Kiev un regime nazionalista, fanaticamente antirusso». Mossa che «ha fatto esplodere la ribellione separatista da parte delle regioni russofone nella parte orientale del paese». Una rivolta che Mosca ha sostenuto, e che il governo di Kiev, sorretto dalle armi e dai soldi occidentali, ha tentato senza successo di reprimere con la forza. «Quanto successo in Ucraina è stato sfruttato dagli Usa, dall’Unione Europea e dalla Nato per imporre sanzioni economiche e diplomatiche alla Russia ed espandere drammaticamente le forze militari della Nato lungo il suo confine occidentale». E ora, «volendo giocare d’anticipo rispetto al 20 gennaio, inizio del mandato del nuovo presidente eletto Usa Donald Trump», che ha chiesto di abbassare il livello della tensione con la Russia, «forze contrarie all’interno dell’intelligence militare Usa e dell’establishment politico stanno cercando un’escalation nel confronto con Mosca».
    Ad aprire il fuoco è lo stesso generale Hodges, secondo cui la Russia si starebbe «preparando per la guerra», con «ministeri già mobilitati». Nulla di inevitabile, per ora, «ma Mosca si sta preparando per questa evenienza». Lo spiegamento delle truppe da combattimento Usa, osserva Stern, fa parte della preparazione della Nato per una possibile guerra contro la Russia, «il culmine di una continua espansione della Nato verso est», in aperta violazione degli storici accordi conclusi con Gorbaciov in cambio del ritiro dell’Urss dall’Est Europa. Evidente l’altra guerra, sotterranea, in corso a Washington: mentre Trump scoraggia il futuro della Nato in chiave anti-russa, il senatore John McCain (fotografato tempo fa in Siria con il “Califfo” Abu-Bark Al-Baghdadi) ha appena visitato gli Stati Baltici per rassicurarli sul fatto che il supporto degli Stati Uniti continuerà. In un’intervista alla radio dell’Estonia, McCain ha chiesto un ulteriore rafforzamento delle forze Nato contro la Russia. E ha dichiarato che ogni «membro credibile» del Congresso americano vede il presidente russo Vladimir Putin «per quello che è», ovvero «un delinquente, un prepotente e un agente del Kgb».
    Nella pericolosa escalation nei confronti della potenza nucleare Russia, che pone le premesse per una Terza Guerra Mondiale, la Bundeswehr ha un ruolo centrale, osserva Stern: «Senza il supporto delle forze armate tedesche non possiamo andare da nessuna parte», ha affermato il generale Hodges. E il generale Peter Bohrer, vicecapo del Joint Support Service, è d’accordo: «In passato la Germania era uno Stato di frontiera, oggi siamo una zona di transito ed uno dei compiti-chiave è fornire un comune supporto». Aggiunge Stern, con un occhio alla storia: «La Germania, che avanzò sull’Europa dell’Est nella sua guerra di sterminio 75 anni fa, si prepara a mandare truppe da combattimento nei paesi baltici». In un’intervista al giornale militare “Bundeswehr Aktuell”, il generale Volker Wieker ha confermato che la Germania ha concordato con Stati Uniti, Canada e Gran Bretagna al summit della Nato tenutosi a Varsavia di «prendere il comando con chi formasse un gruppo di battaglia». Si conta di «acquisire la cosiddetta “capacità operativa completa” per la metà dell’anno”». Un video riportato dal “Frankfurter Allgemeine Zeitung” mostra le manovre di un battaglione tedesco a Grafenwöhr, contro «un attacco nemico al confine russo-lituano». Ancora pochi giorni, per capire se Trump – qualora riuscisse a insediarsi davvero nello Studio Ovale – spegnerà rapidamente l’incendio.

    La notizia ha dell’incredibile, ma è vera: per la stampa tedesca, stiamo assistendo alla più grande operazione di riposizionamento dell’esercito Usa in Germania dal 1990. «Più di 2.000 carri armati, obici, jeep e automezzi stanno per essere impiegati nelle esercitazioni Nato nell’Europa dell’Est che dureranno nove mesi», scrive Johannes Stern. Lo stato maggiore della Bundeswehr conferma: colossale dislocazione di forze Usa e Nato in Polonia e negli Stati baltici, proprio mentre Obama tenta – anche con la “guerra delle spie” – di incendiare la frontiera orientale, alla vigilia dell’insediamento di Donald Trump, ostacolato in ogni modo. La situazione starebbe precipitando, dopo l’impegno della Russia per la liberazione di Aleppo, a lungo ostaggio di milizie “Isis” capeggiate da leader del Caucaso e dai combattenti di Al-Nusra, altrimenti detta “Al-Qaeda in Siria”, formazione creata, protetta e armata dall’intelligence occidentale. Persa la Siria, ora si enfatizza l’operazione “Atlantic Resolve”, spettacolare (e pericolosa) provocazione alle frontiere con la Russia, cui Obama non perdona l’aver reagito al golpe americano in Ucraina mantenendo il controllo della Crimea.

  • Apocalisse: in arrivo oltre 300 milioni di rifugiati climatici

    Scritto il 18/11/16 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    «Se pensate che i migranti di oggi siano un problema, non avete ancora visto nulla. E questo lo dico con un rispetto angosciante per le stragi nel Mediterraneo», afferma Paolo Barnard. «Vi sembrano troppi 1 milione di arrivi via mare in Europa nel 2015? Ce ne sono 300 milioni in India che prima o poi partiranno. Dieci milioni in Bangladesh, come minimo. E in Africa del nord e Sahel le stime sono talmente alte che gli esperti non sanno quantificarle oggi». E cosa spingerà questo tsunami di migranti inimmaginabile verso di noi? La guerra? «No, è la causa secondaria», come la povertà? Il vero motivo – che porta con sé guerra e fame – è un altro: il cambiamento climatico. «E’ provato oltre ogni dubbio», scrive Barnard sul suo blog. «Basta sfogliare le relazioni presentate all’Accordo di Parigi sul Clima nel dicembre 2015, e i dati sono tutti lì. E sono orrore liquido». Perfino in Siria, il “climate change” viene prima – molto prima – del conflitto, come causa di esodo. E’ «il vero inizio della crisi demografica» in quel matoriato paese. Crisi climatica, innanzitutto, «che poi ha alzato le tensioni per sfociare in guerra».
    Dal 2006 al 2011, racconta Barnard, una siccità senza precedenti nella storia del paese (mai visto un fenomeno così, dicono gli esperti di clima) spinse 2 milioni di contadini verso le città per non morire di fame. «Assad non seppe gestire la crisi, e le tensioni esplosero in conflitti armati locali, per poi essere dirottati nella guerra civile. Il clima, altro che Isis». Ma la vera emergenza riguarda «il resto della marea umana» prossimamente in partenza verso di noi, a causa dell’impazzimento del clima. «I 300 milioni di indiani in movimento fuggono dalla mancanza di acqua, è stato detto a Parigi, perché i ghiacciai dell’Himalaya si stanno riducendo». Dal Bangladesh «fuggono dall’allagamento di milioni di ettari delle loro coste alla velocità del lampo». E gli africani «dalle siccità, o straripamenti, o proliferazione di parassiti fuori controllo, oppure ondate di calore impossibili, che distruggono le fonti di cibo e acqua: “climate change”, ancora».
    All’allarme «immane», stavolta, «ci sono arrivati anche i cosiddetti ‘cattivi’ cioè il Pentagono e il Dipartimento della Difesa americana». Documenti ufficiali: il Pentagono ha definito il cambiamento climatico «un moltiplicatore di rischio globale», additandolo come la vera causa di «guerre per l’acqua, che spediranno oceani di migranti verso nord». In un summit svoltosi a fine agosto in Alaska, continua Barnard, John Kerry è stato esplicito: «L’effetto serra ha creato una bomba demografica chiamata “rifugiati del clima». E ha aggiunto: «Voi per caso pensate che quello che vedete oggi sia un problema europeo causato dall’estremismo? Non avete ancora visto nulla, aspettate quando mancherà l’acqua, il cibo, e i popoli si faranno guerre per questo». Quindi, conclude Barnard, centinaia di milioni di persone ci arriveranno addosso per sfuggire alle “guerre da effetto serra”, «quelle per accaparrarsi un pezzo di fiume rimasto, una montagna dove ancora cresce da mangiare». Per Francesco Femia, del Centre for Climate and Security di Washington, «affrontare questa catastrofe alla radice non significa fermare le guerre, ma fermarle prima che scoppino, e questo significa affrontare l’effetto serra».

    «Se pensate che i migranti di oggi siano un problema, non avete ancora visto nulla. E questo lo dico con un rispetto angosciante per le stragi nel Mediterraneo», afferma Paolo Barnard. «Vi sembrano troppi 1 milione di arrivi via mare in Europa nel 2015? Ce ne sono 300 milioni in India che prima o poi partiranno. Dieci milioni in Bangladesh, come minimo. E in Africa del nord e Sahel le stime sono talmente alte che gli esperti non sanno quantificarle oggi». E cosa spingerà questo tsunami di migranti inimmaginabile verso di noi? La guerra? «No, è la causa secondaria», come la povertà? Il vero motivo – che porta con sé guerra e fame – è un altro: il cambiamento climatico. «E’ provato oltre ogni dubbio», scrive Barnard sul suo blog. «Basta sfogliare le relazioni presentate all’Accordo di Parigi sul Clima nel dicembre 2015, e i dati sono tutti lì. E sono orrore liquido». Perfino in Siria, il “climate change” viene prima – molto prima – del conflitto, come causa di esodo. E’ «il vero inizio della crisi demografica» in quel matoriato paese. Crisi climatica, innanzitutto, «che poi ha alzato le tensioni per sfociare in guerra».

  • Putin: chi terremota il mondo vi sta portando via il futuro

    Scritto il 07/11/16 • nella Categoria: idee • (1)

    «Tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ‘90, c’è stata la possibilità non solo di accelerare il processo di globalizzazione, ma anche di dare ad esso una diversa qualità e renderlo più armonico e sostenibile. Ma alcuni paesi che si vedevano vincitori della Guerra Fredda hanno colto l’occasione per rimodellare l’ordine politico ed economico globale solo per soddisfare i propri interessi». A parlare è il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, di fronte ai 150 rappresentanti di 53 paesi che hanno partecipato alla riunione annuale del Club Valdai, uno dei più prestigiosi spazi internazionali di confronto e analisi tra l’élite economica e culturale russa e quella del resto del mondo. Il discorso di Putin va letto con attenzione perché rappresenta non solo un atto di accusa diretto alle politiche dell’Occidente, ma anche un’analisi realista e in qualche caso ironica di ciò che l’egemonia americana sta imponendo. Questi paesi, ha continuato Putin, «nella loro euforia, hanno sostanzialmente abbandonato dialogo e parità con gli altri attori della vita internazionale, hanno scelto di non migliorare né di creare istituzioni universali, ma di portare il mondo sotto le loro organizzazioni, le loro norme e le loro regole».
    Putin si scaglia contro l’Occidente, contro le sue guerre umanitarie e i suoi tentativi di esportare la democrazia fuori da una cornice multipolare: le guerre in Serbia, in Iraq, in Afghanistan e in Libia «spesso condotte senza le relative decisioni del Consiglio di Sicurezza Onu»; e poi ancora hanno deciso «di spostare l’equilibrio strategico a proprio favore distaccandosi dal quadro giuridico internazionale che proibisce l’implementazione di nuovi sistemi di difesa missilistica»; hanno «creato gruppi terroristici le cui azioni hanno generato milioni di profughi, e gettato intere regioni nel caos». Putin definisce la “minaccia militare russa” con cui l’Occidente sta costruendo la nuova Guerra Fredda, un «business redditizio da utilizzare per pompare denaro fresco nei bilanci della difesa, espandere la Nato fino ai nostri confini». Il leader russo è categorico: Mosca «non ha intenzione di attaccare nessuno»; pensarlo è «sciocco e irrealistico. I paesi membri della Nato insieme con gli Stati Uniti hanno una popolazione totale di 600 milioni circa; la Russia solo 146. E’ semplicemente assurdo concepire anche tali pensieri».
    Poi Putin ironizza sulla «isteria degli Stati Uniti circa una presunta ingerenza russa nelle elezioni presidenziali americane»; e rivolgendosi alla platea, «lo chiedo a voi: qualcuno seriamente pensa che la Russia possa in qualche modo influenzare la scelta del popolo americano? Cos’è l’America? Una Repubblica delle Banane o un grande potenza?». Ma la denuncia più violenta di Putin è contro l’élite tecnocratica che sta scippando il valore della sovranità. Nelle democrazie più avanzate «la maggioranza dei cittadini non ha alcuna reale influenza sul processo politico e sul potere». Le persone avvertono «un divario sempre crescente tra i loro interessi e quelli dell’élite che governa i processi». E quando, attraverso le elezioni o i referendum, i cittadini scelgono in maniera diversa rispetto a quello che l’élite vorrebbe, ecco che essa trasforma la volontà popolare in “anomalia” o immaturità o incapacità di scegliere. E ciò che in maniera sprezzante viene definito populismo, per Putin è «gente comune, cittadini che stanno perdendo fiducia nella classe dirigente».
    Sembra che le élite non vedano il dissesto profondo nella società e «l‘erosione della classe media, mentre allo stesso tempo, esse impiantano ideologie distruttive per l’identità culturale e nazionale». Putin avverte: «E’ la sovranità la nozione centrale di tutto il sistema delle relazioni internazionali. Il rispetto per essa e il suo consolidamento contribuirà a sottoscrivere la pace e la stabilità sia a livello nazionale e internazionale». Quello di Putin è un monito a chi si diverte a disegnare un nuovi ordini mondiali sulla pelle di nazioni e popoli; un avvertimento agli alchimisti della finanza globale e ai guerrafondai umanitari che alimentano le rivoluzioni colorate, le guerre civili e il terrorismo per generare il caos funzionale ai propri progetti egemonici. Quella di Putin è l’analisi realista della deriva dell’Occidente ed una prospettiva anche per l’Europa: disegnare un sistema multipolare che metta «fine alla divisione del mondo in vincitori e vinti permanenti». L’unica speranza per scongiurare una crisi internazionale senza ritorno.
    (Giampaolo Rossi, “Putin il realista”, dal blog “L’Anarca” su “Il Giornale” del 2 novembre 2016).

    «Tra la fine degli anni ‘80 e i primi anni ‘90, c’è stata la possibilità non solo di accelerare il processo di globalizzazione, ma anche di dare ad esso una diversa qualità e renderlo più armonico e sostenibile. Ma alcuni paesi che si vedevano vincitori della Guerra Fredda hanno colto l’occasione per rimodellare l’ordine politico ed economico globale solo per soddisfare i propri interessi». A parlare è il presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, di fronte ai 150 rappresentanti di 53 paesi che hanno partecipato alla riunione annuale del Club Valdai, uno dei più prestigiosi spazi internazionali di confronto e analisi tra l’élite economica e culturale russa e quella del resto del mondo. Il discorso di Putin va letto con attenzione perché rappresenta non solo un atto di accusa diretto alle politiche dell’Occidente, ma anche un’analisi realista e in qualche caso ironica di ciò che l’egemonia americana sta imponendo. Questi paesi, ha continuato Putin, «nella loro euforia, hanno sostanzialmente abbandonato dialogo e parità con gli altri attori della vita internazionale, hanno scelto di non migliorare né di creare istituzioni universali, ma di portare il mondo sotto le loro organizzazioni, le loro norme e le loro regole».

  • Gli Usa truccano gli F-18 da aerei russi, false flag in arrivo?

    Scritto il 12/10/16 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Vuoi vedere che “si travestono da russi” per combinare qualche disastro, utile a incolpare Mosca? Il precedente, spaventoso, è quello dell’attacco con gas leatali a Ghouta, periferia di Damasco: un massacro, condotto da jihadisti armati dall’Occidente ma a lungo attribuito all’esercito siriano, nell’estate 2013. Corollario: il conto alla rovescia per il bombardamento Nato, fermato in extremis dalla fermezza di Putin che schierò la flotta del Mar Nero davanti alla Siria, mentre il Papa organizzò una clamorosa giornata di preghiera per scongiurare l’escalation. Ora ci risiamo? C’è chi lo sospetta. Un giornalista canadese, Christian Borys, ha postato su Facebook alcune foto decisamente strane: caccia americani F-18 “truccati” da Sukhoi-27 russi. Stessa, identica livrea bianco-azzurra. «Addestramento standard», precisa il reporter, «però interessante». Eccome. Specie dopo il recente bombardamento americano che ha colpito “per errore” le postazioni dell’esercito siriano, provocando un’ottantina di morti tra i soldati di Damasco e facendo precipitare la situazione in zona pericolo: il Cremlino ha annunciato che d’ora il poi la Russia abbatterà qualsiasi velivolo minacci le truppe siriane impegnate contro l’Isis.
    A volte, scrive Maurizio Blondet sul suo blog, l’Us Air Force dipinge i suoi aerei dei colori “nemici” per abituare i suoi piloti durante delle simulazioni. Ma il fatto è che si è diffusa (anche sulla Cnn) una conversazione del ministro degli esteri John Kerry, il primo ottobre, captata nei locali della delegazione olandese all’Onu, a margine della assemblea plenaria. Kerry parla con non meglio identificati esponenti della “resistenza” siriana, e dice loro, esasperato: ho perso ogni argomento per poter utilizzare la forza militare americana contro Assad. Parla, evidentemente, di una discussione che si è tenuta nella cerchia presidenziale, dove sostiene di essere stato messo in minoranza: «Io ho sostenuto l’uso della forza. Sono quello che ha annunciato che stavamo per attaccare Assad», riferisce ai suoi interlocutori siriani, probabilmente pensando al “conto alla rovescia” innescatosi dopo l’attacco “false flag” del 2013 con le armi chimiche. «Abbiamo un Congresso che non autorizzerebbe», continua Kerry. E spiega che in Siria “loro”, i russi, «sono stati invitati, noi no». Sicchè, «la sola ragione che ci  è rimasta per volare sulla Siria è che stiamo dando la caccia all’Isis. Se andassimo a dar la caccia ad Assad, dovremmo liquidarne tutta la difesa aerea, e non abbiamo la giustificazione legale per far questo».
    Ma quel che la Cnn ha taciuto, rileva Blondet, è che l’intercettazione continua. Al minuto 11.18, l’interprete traduce dall’arabo all’inglese le frasi di uno dei ribelli, che si ritiene essere Raed Saleh, il rappresentante dei cosiddetti Elmetti Bianchi – quelli che “documentano” il “martirio di Aleppo” a fianco dei jihadisti sul terreno. «La Russia bombarda i civili siriani, i mercati e anche noi, la  protezione civile», dice Kerry. Poi domanda: «Avete dei video degli aerei che attaccano? Possiamo avere i video che i nostri agenti hanno chiesto?». Precisa un collaboratore di Kerry: «Dei video autentici degli aerei stessi, ecco quel che ci occorre». Video di aerei russi, o che sembrino russi? Sembrano le premesse per un drammatico remake dell’attacco con il Sarin, che – come chiarì l’indagine di Carla del Ponte, la magistrata svizzera incaricata dall’Onu – fu dovuto a ordigni «forniti dai servizi segreti turchi a una delle tante bande di “ribelli” al soldo dell’Occidente e delle petromonarchie». Lo riconobbe persino la Bbc, ricorda Blondet. Ma adesso Kerry chiede ai “suoi” jihadisti siriani video di aerei russi che commettono atrocità.
    «Che gli occidentali siano alla disperata  ricerca di un pretesto per aiutare i loro terroristi, che stanno cedendo sotto  l’offensiva russo-siriana e iraniana, ce l’ha mostrato un altro episodio», racconta Blondet. Il 28 settembre, la missione di Parigi all’Onu ha lanciato l’allarme: due ospedali ad Aleppo Est sono stati bombardati. Un Tweet e una foto di edifici distrutti. «La palese menzogna è stata immediatamente ripresa da Kerry, in dichiarazione congiunta con il collega ministro francese Jean Marc Ayrault». Colpa dei russi, ovviamente. Solo che «nessuno dei gruppi d’opposizione (non erano stati istruiti prima)  ha confermato la tragica notizia», nemmeno il notorio Osservatorio Siriano sui Diritti Umani, gestito dal Regno Unito da un solo “investigatore”,  un oppositore di Assad, si basa su contatti telefonici. «Sicchè nella conferenza stampa seguente, il portavoce del Dipartimento di Stato, tempestato da un giornalista non asservito, non ha confermato, anzi ha ammesso che può essersi trattato di “un onesto errore” da parte di Kerry».
    Dunque non erano russi, gli aerei su Aleppo? E non c’è nemmeno una prova che quegli ospedali siano stati davvero colpiti? Conclusione di Blondet: «Forse, dipingere  i caccia Usa coi colori dei bombardieri russi è “standard exercise”. Ma se avviene un bombardamento da parte di aerei azzurrini nelle prossime ore, su  un bersaglio di civili indifesi, bambini e donne, vi abbiamo documentato i preparativi di un “false flag”». Peraltro, sarebbe solo una delle tante operazioni “false flag” di cui la storia dell’interventismo americano è piena. «E magari, avvertire in anticipo contribuisce a sventarla». Non c’è pericolo, comunque, che queste notizie si affaccino al telegiornale: «Qualcuno avverta la Botteri: ci sono intercettazioni più  scottanti dei discorsi grassocci di Trump sulle donne». Che ne dice, l’inviata Rai negli Usa, «di mandare il servizio di Kerry che parla coi “siriani” e vuole dei video “veri” di aerei russi che bombardano civili?».

    Vuoi vedere che “si travestono da russi” per combinare qualche disastro, utile a incolpare Mosca? Il precedente, spaventoso, è quello dell’attacco con gas leatali a Ghouta, periferia di Damasco: un massacro, condotto da jihadisti armati dall’Occidente ma a lungo attribuito all’esercito siriano, nell’estate 2013. Corollario: il conto alla rovescia per il bombardamento Nato, fermato in extremis dalla fermezza di Putin che schierò la flotta del Mar Nero davanti alla Siria, mentre il Papa organizzò una clamorosa giornata di preghiera per scongiurare l’escalation. Ora ci risiamo? C’è chi lo sospetta. Un giornalista canadese, Christian Borys, ha postato su Twitter alcune foto decisamente strane: caccia americani F-18 “truccati” da Sukhoi-27 russi. Stessa, identica livrea bianco-azzurra. «Addestramento standard», precisa il reporter, «però interessante». Eccome. Specie dopo il recente bombardamento americano che ha colpito “per errore” le postazioni dell’esercito siriano, provocando un’ottantina di morti tra i soldati di Damasco e facendo precipitare la situazione in zona pericolo: il Cremlino ha annunciato che d’ora il poi la Russia abbatterà qualsiasi velivolo minacci le truppe siriane impegnate contro l’Isis.

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