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Archivio del Tag ‘dopoguerra’

  • Ledeen, l’amico americano che tiene al guinzaglio il Pd

    Scritto il 18/8/14 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Se ieri le nostre piazze saltavano in aria perché l’Italia era lo scudo occidentale contro il comunismo sovietico, e si doveva impedire a tutti i costi che il Pci di Berlinguer andasse al governo con Moro, oggi la situazione dello Stivale è persino peggiorata, dato il progressivo esaurimento delle risorse fossili. Questo spiega l’instabilità sul fronte est (lo scontro tra Usa e Russia in Ucraina) e quella sul fronte sud (il massacro di Gaza, motivato anche dall’enorme giacimento di gas, il “Leviatano”, nelle acque palestinesi). «Gli interessi geopolitici del “Gruppo di Georgetown” e del Mossad, quindi, sono identici», sostiene Stefano Ali, mentre «gli interessi economici e militari della destra conservatrice e interventista Usa in Italia sono sensibilmente incrementati», come dimostra l’installazione del Muos a Niscemi o anche l’insistenza sull’acquisto dei disastrosi F-35. «Continuiamo ad essere un paese anomalo, servo della Nato e solo apparentemente democratico, ad opera degli stessi spettri del passato». Da Kissinger a Renzi, passando per Michael Ledeen, indicato come consigliere-ombra del giovane premier per la politica estera.
    In un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, Ali evoca una lobby come il “Gruppo di Georgetown”, capitanato da quel Kissinger che definì Napolitano «il mio comunista preferito», corretto immediatamente da Napolitano (ex comunista, prego). «E Renzi. Matteo Renzi con la sua rete di amicizie internazionali, attraverso Marco Carrai. Davide Serra (con forti interessi in Israele e che porta in dote i legami con la Morgan Stanley), Marco Bernabè (sempre con Tel Aviv con il fondo Wadi Ventures e il padre, Franco, e le sue dorsali telefoniche Italia-Israele), Yoram Gutgeld (israeliano e suo consulente economico – porta in anche dote l’esperienza McKinsey di cui era socio anziano fino al marzo 2013)». Ma sopratutto Ledeen, cioè «la figura più inquietante», che «si allunga dietro tutte le stragi, tutti i depistaggi che hanno attraversato l’Italia e non solo». L’ammiraglio Fulvio Martini, all’epoca capo del Sismi, lo definì «non gradito all’Italia». Ledeen, racconta Ali, fu «sdoganato da Berlusconi appena giunto al potere», e così «imperversò nelle sue televisioni sotto la forma di “commentatore politico internazionale”».
    Secondo Ali, Ledeen è stato in grado di «ordinare a Matteo Renzi» la cessione degli aeroporti toscani al magnate argentino Eduardo Eurnekian. Secondo il blogger, «Henry Kissinger, Michael Ledeen e le strutture israeliane sono di nuovo (e da sempre) i padroni della scena». C’è chi dice che il Pd è la nuova Dc? Peggio: il partito fondato da Veltroni «ha ormai da tempo tradito le origini, ma con il binomio Renzi-Napolitano è diventato l’antitesi della storia della sinistra». Secondo Stefano Ali, «è l’erede di tutto quel fronte anticomunista che si asservì e asservì l’Italia alla destra conservatrice Usa di Kissinger e Ledeen e del Mossad». Il “muro di gomma” delle stragi impunite? Frutto del blocco di potere «“garante” della subalternità e della sottomissione dello Stato italiano agli interessi del “Gruppo di Georgetown”». Linea diretta coi rottamatori? «Per le referenze su Federica Mogherini, Renzi dice: “Chiedete a John Kerry”». L’esponente Pd fu «ammessa agli incontri segreti con agenti Usa sin dal 2006», scrive Ali, che illumina il retroterra del presunto potere occulto di ieri e di oggi basandosi anche sul testimonianze come quelle del senatore Giovanni Pellegrino, fino al 2001 presidente della Commissione Stragi, autore del libro-denuncia “Segreto di Stato”.
    «Ciò che può sembrare intreccio di fantascienza complottistica è solo il frutto di un lavoro certosino fatto dalla Commissione Stragi», avverte Ali. «Teniamolo sempre a mente, anche quando sembra di precipitare nelle allucinazioni ansiogene». Nella sua analisi, Pellegrino parte da una premessa ancora attuale: l’Italia non è mai stata una democrazia “normale”, perché – dal Trattato di Yalta – è stata sempre considerata “marca di frontiera”, al doppio crocevia est-ovest e nord-sud. Sovranità limitata: «Una specie di portaerei Nato nel Mediterraneo». A questo, oltre alla pesante presenza del Vaticano, si aggiunga «una spaccatura verticale interna, determinata da post-fascismo e post-Resistenza», tra italiani «anticomunisti» e italiani «antifascisti». Tutta la storia del dopoguerra, secondo Pellegrino, va interpretata in quest’ottica. E’ per questo che certi fili non si spezzano: l’attuale capogruppo del Pd al Senato, Luigi Zanda, figlio dell’ex capo della polizia e allora giornalista dell’“Espresso”, secondo un report del Sisde risalente al lontano 1984 ebbe «rapporti molto stretti» con Ledeen, dopodiché fu promosso consigliere di amministrazione dell’“Editoriale L’Espresso” e ricoprì l’incarico di addetto stampa di Francesco Cossiga durante il sequestro Moro. Stefano Ali parla di connessioni sotterranee con la P2, che faceva da tramite col super-potere Usa, di cui il Mossad israeliano sarebbe stato un braccio operativo nella stagione della strategia della tensione, fra attentati e depistaggi.
    Se la stagione della guerra fredda aveva permesso lo sviluppo della cosiddetta “Gladio Rossa”, formata da “Lotta Continua”, “Potere Operaio” e le prime Brigate Rosse, fino cioè all’arresto di Curcio e Franceschini, «con la svolta parlamentare del Pci, l’isolamento di Secchia e soprattutto la morte di Feltrinelli», di fatto l’eversione “rossa” «si dissolse, per confluire nelle Brigate Rosse», che però finirono sotto il controllo di Mario Moretti, scampato alla retata che fruttò la cattura dei fondatori grazie a Silvano Girotto, in arte “Frate Mitra”, un classico infiltrato. Da quel momento, scrive Ali, al di là della facciata “di sinistra” delle Br di Moretti, «connotazione ideologica utilizzata solo per fomentare i militanti», i vertici delle strutture “eversive” passarono – tutti – sotto il controllo «degli ambienti della destra repubblicana Usa». Versione controversa: secondo altri analisti, rimase forte anche l’influenza dell’Urss, attraverso la Stasi, l’intelligence della Germania Est. L’Italia, in ogni caso, era un campo di battaglia. E gli attori – sulla sponda occidentale – sono ormai noti. La notizia? Un vecchio arnese come Ledeen, molto «vicino» a Zanda in quegli anni secondo il Sisde, è un super-consigliere di Renzi.
    «Mossad e destra repubblicana Usa – continua Ali – erano già riusciti a instaurare (in Grecia, Spagna e Portogallo) regimi fascisti». Le stragi italiane, fino al 1969 dovevano quindi servire «affinché, nel dicembre del 1969, Mariano Rumor dichiarasse lo “stato d’emergenza” che ne consentisse l’instaurazione anche in Italia». Rumor, però, non dichiarò lo stato d’emergenza. E il tentato “golpe Borghese” del 1970 fu l’ultimo tentativo, anche quello andato a vuoto. «Da notare che già dagli anni ‘60 la P2 di Gelli era molto attiva: con la sua rete di iscritti soprattutto nelle forze armate e nei servizi segreti, era nelle condizioni di garantire tutta la copertura necessaria». Secondo Ali, da vari documenti risulta che Kissinger e Ledeen «fossero iscritti alla P2 nel “Comitato di Montecarlo” (o “Superloggia”)», un “braccio” della P2 «che si occupava di traffico internazionale di armi e al quale venne fatta risalire in modo diretto l’organizzazione della strage di Bologna». Se Gelli era «solo una sorta di segretario», significa che «le “menti” stavano altrove». Il vero leader? Rimasto nell’ombra, fino ad oggi. In compenso, conclude Ali, molti nomi di allora sono rimasti al loro posto. E qualcuno, oggi, è vicinissimo al governo Renzi. Pronti a tutto, nel caso gli eventi precipitassero in Ucraina con l’offensiva Usa contro la Russia di Putin?

    Se ieri le nostre piazze saltavano in aria perché l’Italia era lo scudo occidentale contro il comunismo sovietico, e si doveva impedire a tutti i costi che il Pci di Berlinguer andasse al governo con Moro, oggi la situazione dello Stivale è persino peggiorata, dato il progressivo esaurimento delle risorse fossili. Questo spiega l’instabilità sul fronte est (lo scontro tra Usa e Russia in Ucraina) e quella sul fronte sud (il massacro di Gaza, motivato anche dall’enorme giacimento di gas, il “Leviatano”, nelle acque palestinesi). «Gli interessi geopolitici del “Gruppo di Georgetown” e del Mossad, quindi, sono identici», sostiene Stefano Ali, mentre «gli interessi economici e militari della destra conservatrice e interventista Usa in Italia sono sensibilmente incrementati», come dimostra l’installazione del Muos a Niscemi o anche l’insistenza sull’acquisto dei disastrosi F-35. «Continuiamo ad essere un paese anomalo, servo della Nato e solo apparentemente democratico, ad opera degli stessi spettri del passato». Da Kissinger a Renzi, passando per Michael Ledeen, indicato come consigliere-ombra del giovane premier per la politica estera.

  • Mein Kampf: ora i tedeschi potranno rileggere Hitler

    Scritto il 03/8/14 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    La Germania ha dovuto, ancora una volta, guardare in faccia il suo passato. In discussione questa volta non sono i fatti, ma le parole di Adolf Hitler e la prevista ripubblicazione del suo famigerato manifesto-autobiografia “Mein Kampf”, un libro che è stato ufficialmente bandito dal paese dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Ma anche se la prospettiva che le parole del Führer ricomincino a circolare liberamente sul mercato tedesco potrebbe scioccare qualcuno, non dovrebbe esserci nessun pericolo. L’aver cresciuto l’ultima generazione inoculandole il bacillo anti-nazista, vaccinandola con un confronto aperto sulle parole di Hitler, è servito molto più che non lasciare che queste parole restassero sottaciute, nascoste furtivamente tra le ombre dell’illegalità. Hitler scrisse la prima bozza della sua ideologia profondamente antisemita, sul concetto di razza nel 1924, mentre era in prigione per aver guidato un fallito colpo di Stato; al momento della sua morte, 21 anni dopo, aveva venduto 10 milioni di copie.
    Da allora, anche se “Mein Kampf” è rimasto sempre presente nell’ombra – negli scaffali più nascosti delle bancarelle di libri usati e delle librerie e, più recentemente, in rete – il titolare del copyright, lo Stato della Baviera, ha rifiutato di autorizzare che l’opera venisse ripubblicata, creando così un alone di tabù intorno al libro. Tutto questo sta per cambiare. Il copyright della Baviera scade alla fine del 2015 e poi chiunque potrà pubblicare il libro: un editore di libri di qualità o uno che pubblica libri economici, ma potrebbe pubblicarlo anche un gruppo neo-nazista. Rimettere in circolazione “Mein Kampf” nel flusso del sangue della cultura tedesca costituirà sicuramente un momento di eccezionale importanza. In una nazione dove ancora si comprano avidamente i libri – e che ama discuterne in pubblico – questa pubblicazione accenderà nuovi dolorosi dibattiti intergenerazionali nei talk show e sulle pagine culturali su come genitori e nonni si lasciarono fuorviare tanto ciecamente.
    Come successe con il clamore creato nel 1996 da Daniel Jonah Goldhagen con il suo controverso libro “I carnefici volontari di Hitler”, che accusava i tedeschi, in generale, di essere tutti capaci di ammazzare gli ebrei in massa, questo evento editoriale potrebbe incidere sulla politica contemporanea e rinvigorire il radicato pacifismo del dopoguerra tedesco. Il coinvolgimento – o il non-coinvolgimento – della Germania nelle crisi internazionali come Kosovo, Afghanistan, Libia e, più recentemente, Mali, è profondamente influenzato da un appassionato dibattito su questo argomento. «La Germania è una terra stregata, dove vivono ancora le ombra di Hitler», mi ha detto recentemente lo scrittore ebreo tedesco Henryk M. Broder.
    Il primo a prepararsi per la corsa alla pubblicazione del libro è l’Istituto di Storia Contemporanea, un rinomato Centro di ricerca per lo studio del nazismo, a Monaco, che dispone già di un team di cinque studiosi che stanno preparando una “edizione critica ragionata” sulle 700 pagine di Hitler. La versione dell’istituto raddoppierà le dimensioni del libro e servirà come riferimento accademico per tutti i futuri studiosi del testo base dell’hitlerismo, ha detto il leader del team, Christian Hartmann. Le ampie annotazioni del libro – ha aggiunto – serviranno per “delimitare” le linee del racconto di Hitler con una “serie di commenti” che demistificheranno e decodificheranno, con un sottotesto alternativo, il contesto storico raccontato, spogliandolo del suo presunto potere ipnotico.
    Non sorprende che il progetto “Mein Kampf” abbia suscitato clamore in alcuni ambienti ebraici. Charlotte Knobloch, presidente della comunità di cultura israelita di Monaco e dell’Alta Baviera , ha detto che «esiste ancora il pericolo» di catalizzare i sentimenti dell’estrema destra. Uri Chanoch, un israeliano di 86 anni, superstite dell’Olocausto, ha aggiunto che i tedeschi «da qualche parte nei loro cuori covano ancora odio per noi», e si è prodigato in una aggressiva campagna contro la riedizione del libro, chiedendo che anche dall’estero si faccia pressione sulla Baviera per bloccarne la ristampa. Dopo l’eco ricevuto da questo tipo di sentimenti, il premier bavarese Horst Seehofer, durante il suo viaggio in Israele, ha deciso di togliere il suo patrocinio al progetto “Mein Kampf” e di cancellare i fondi per la ricerca che erano stati stanziati (684.000 dollari). Questa decisione, a sua volta, ha scatenato una levata di scudi tra gli accademici e tra la legislatura bavarese, che in precedenza aveva approvato il progetto.
    Anche qualche leader ebreo è stato preso alla sprovvista. «Sono rimasto stupito da questa decisione», ha detto Salomon Korn, il leader della forte comunità ebraica di Francoforte, 7.000 persone. «Avremmo già dovuto avere una edizione critica del “Mein Kampf”». E allora, come in un goffo balletto, il governo di Seehofer è stato costretto a riconsiderare la sua riconsiderazione e si è accordato per non riprendersi i soldi ma togliendo il suo sigillo di approvazione governativa. Questa foglia di fico, d’altro canto, potrebbe placare o non placare chi la pensa in modo diverso, soprattutto in Israele, che ormai già credeva di essere già riuscito a bloccare la ristampa del libro. Ma con il finanziamento in mano, l’istituto sta procedendo e la sua edizione servirà ad uno scopo politico di contrasto all’impatto negativo sull’immagine della Germania e sulla cultura politica che potrebbe portare una ristampa incontrollata di un libro che potrebbe inondare il mercato.
    Indipendentemente da qualsiasi altra pubblicazione, comunque, sarà l’edizione accademica la più autorevole, soprattutto nelle scuole e nelle università. Questo sarà un effetto positivo. Sessantanove anni dopo la Seconda Guerra Mondiale, non ha più senso per i tedeschi non avere ancora libero accesso ad un libro che può essere facilmente acquistato in tanti altri paesi. Mantenere viva una triste diatriba, spesso incomprensibile, per paura di una rinascita nazista, fuori luogo, è una reazione troppo esagerata: l’unico partito pseudo-nazista tedesco in Germania ha ricevuto 1% alle ultime elezioni del Parlamento Europeo; in Francia, l’estrema destra ha preso quasi il 25%. Nel 1959, il primo presidente tedesco del dopoguerra della Germania Ovest, Theodor Heuss, raccomandò di ripubblicare “Mein Kampf”, come monito per il popolo tedesco, ma forse era troppo presto e la popolazione non era ancora pronta per un tale confronto e l’establishment politico dell’epoca lo ignorò. Oggi, 55 anni dopo e 10 presidenti più tardi, la bella idea di Heuss sta finalmente arrivando a compimento.

    La Germania ha dovuto, ancora una volta, guardare in faccia il suo passato. In discussione questa volta non sono i fatti, ma le parole di Adolf Hitler e la prevista ripubblicazione del suo famigerato manifesto-autobiografia “Mein Kampf”, un libro che è stato ufficialmente bandito dal paese dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Ma anche se la prospettiva che le parole del Führer ricomincino a circolare liberamente sul mercato tedesco potrebbe scioccare qualcuno, non dovrebbe esserci nessun pericolo. L’aver cresciuto l’ultima generazione inoculandole il bacillo anti-nazista, vaccinandola con un confronto aperto sulle parole di Hitler, è servito molto più che non lasciare che queste parole restassero sottaciute, nascoste furtivamente tra le ombre dell’illegalità. Hitler scrisse la prima bozza della sua ideologia profondamente antisemita, sul concetto di razza nel 1924, mentre era in prigione per aver guidato un fallito colpo di Stato; al momento della sua morte, 21 anni dopo, aveva venduto 10 milioni di copie.

  • Basta Ue: sovranità nazionale, per salvare la democrazia

    Scritto il 24/7/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Rivendicare la sovranità nazionale e disobbedire al Patto di Stabilità imposto dalla Troika:
    «Occorre una rottura, un bagno di realismo e uno scatto di coraggio di fronte a questa crisi e a questa Unione Europea che opprime e disunisce i popoli europei». L’ideologia dell’europeismo lubrifica il diktat economico dell’Ue, vera causa della catastrofe, mentre le ultime elezioni rivelano i sentimenti di un’opinione pubblica che «diventerà prevedibilmente sempre più anti-Unione Europea», avverte Enrico Grazzini. Senza una rivolta politica radicale la musica non cambierà, perché «alla base della politica europea e tedesca dell’austerità senza fine, della deflazione e della disoccupazione di massa ci sono i trattati di Maastricht, e poi del Fiscal Compact, del Two Pack e Six Pack», già sottoscritti dai governi di centrodestra e centrosinistra. «Senza modificare o ripudiare questi trattati-capestro è praticamente impossibile rilanciare la spesa pubblica e invertire l’attuale rotta europea», che ci sta portando al disastro.
    Sono proprio quei trattati-sciagura che la Merkel impugna per imporre la sua politica «suicida e insostenibile», con «regole rigidissime sui limiti ai deficit pubblici», in una situazione già drammatica in cui «gli investimenti privati e i consumi sono in caduta libera». E’ storia: «Grazie all’Ue, l’Europa è diventata da anni il malato grave dell’economia mondiale, e non riesce a vedere la fine del tunnel». L’Unione Europea uscita da Maastricht, scrive Grazzini su “Micromega”, «non è la patria degli europei», ma solo un’istituzione intergovernativa oppressiva. Modificare i trattati è pressoché impossibile, perché servirebbe l’unanimità degli Stati? «L’unica possibilità è allora di ripudiarli, di uscire da queste regole rovinose: disconoscere i trattati significa percorrere una strada difficile e dolorosa, piena di rischi, ma probabilmente non esistono alternative», anche se nemmeno la Lista Tsipras se n’è ancora resa conto: «La sinistra è culturalmente succube di un europeismo federalista che oggi ormai è completamente fuori dalla realtà».
    Parlano i fatti: il Parlamento Europeo, eletto solo dal 40% della popolazione del continente, è dominato da una coalizione pro-austerità ancora più larga di quella prevista prima delle elezioni: democristiani, socialisti e liberali. La Commissione Europea verrà guidata dal lussemburghese Juncker, che «rappresenta da sempre gli interessi della grande finanza europea». In ogni caso saranno i governi, «quello tedesco su tutti», a decidere le questioni economiche e politiche di sostanza. Tsipras sperava che i socialisti europei cambiassero la loro politica pro-Merkel, svoltando verso la crescita dell’occupazione? Per questo volevano Martin Schulz come presidente, ma «il compagno Schulz», è stato confermato alla guida del Parlamento Europeo «da democristiani e liberali», e quindi non cambierà politica, senza contare che Strasburgo «può poco o nulla in materia economica, monetaria e fiscale».
    I trattati come il Fiscal Compact riguardano direttamente i governi, e quello tedesco determina le politiche economiche dell’Unione e dell’Eurozona: «La Germania non mollerà sugli eurobond e non prende neppure in considerazione la possibilità di una maggiore solidarietà europea», continua Grazzini. «E ovviamente Germania, Francia e naturalmente la Gran Bretagna, nonostante i bei discorsi di Renzi, si oppongono a ogni lontanissima ipotesi di federazione europea». Anche Syriza dovrà rivedere la sua linea: in Grecia ha vinto, ma non al punto da conquistare il governo. La situazione greca resta disperata: il debito esplode e il paese è virtualmente fallito, a causa «dell’ingordigia delle banche tedesche e francesi che in tempi di vacche grasse hanno prestato enormi somme a governi corrotti». Quest’anno Atene ha raggiunto una bilancia commerciale in attivo e un avanzo di bilancio pubblico, quindi non ha più bisogno di capitale estero: secondo alcuni analisti, alla Grecia comviene dichiarare default, tornare alla moneta nazionale e svalutare per recuperare competitività verso l’estero. Una strada senza alternative, per un paese strangolato: «Se anche vendesse il Partenone, il suo debito pubblico continuerebbe ad aumentare a causa del pagamento degli interessi sul debito estero».
    Se la destra finanziaria tedesca impone un neoliberismo neo-feudale al resto d’Europa, all’appello manca – disastrosamente – la sinistra, assente o addirittura complice della “dittatura” tecnocratica. In altre parole, dice Grazzini, questa Unione Europea è semplicemente antieuropea. Per cui, «al posto di nutrirsi, come il giovane Renzi, di nobili e vacue illusioni federaliste sugli Stati Uniti d’Europa, la sinistra europea dovrebbe riconoscere una realtà sempre più evidente: l’Unione Europea nata a Mastricht non è e non sarà mai l’Unione dei popoli europei», ma solo un organismo intergovernativo «che intende garantire la sottomissione degli Stati europei agli imperativi della grande finanza tedesca e internazionale». La Ue «è prona ai diktat dei mercati finanziari e non ascolta il grido di dolore dei cittadini: se mai c’è una istituzione che, come anticipava Marx, rappresenta il “comitato d’affari” del grande capitale, questa è proprio la Ue».
    Per capire la Ue è meglio leggere Machiavelli piuttosto che Mazzini o Spinelli, aggiunge Grazzini. Bruxelles è un mostro giuridico, che ha tradito le aspettative dei leader del dopoguerra, da De Gasperi a Adenauer, mentre «la politica federalista di Spinelli era già fallita a causa del nazionalismo francese». Il quadro europeo è cambiato di colpo con la caduta del Muro di Berlino, la nascita della nuova potenza tedesca e la creazione dell’euro. E attenzione: «Due socialisti hanno cambiato (in peggio) la storia d’Europa: il francese Mitterrand e il tedesco Schroeder. Il primo ha imposto la moneta unica alla Germania, accettando però che l’euro fosse fin dalla nascita un marco mascherato; il secondo ha creato, con la deregolamentazione del mercato del lavoro in Germania, con l’introduzione dei mini-jobs e la sua politica pro-business e pro petrolio russo, le condizioni della supremazia tedesca. Da allora, la storia europea è dominata dall’economia e dagli interessi tedeschi».
    L’euro di Maastricht «ha reso impossibili le svalutazioni e le rivalutazioni», e con la crisi globale del 2008 stava per saltare: «Lo ha salvato la Merkel, concedendo che la Bce di Mario Draghi intervenisse in sua difesa “con tutti i mezzi possibili”», ma «solo perché conveniva alla Germania che l’euro non finisse nel caos». Questa moneta unica, di cui gli Stati non hanno più il controllo, non elimina solo la sovranità nazionale: «Divide strutturalmente le economie e impedisce uno sviluppo sostenibile. E’ una gabbia rigida e stupida, e mortale per le nazioni meno competitive». Infatti, l’impossibilità di svalutare all’esterno i prezzi dei prodotti nazionali – come invece fanno «senza vergogna e con successo» gli Usa, la Cina e il Giappone – comporta automaticamente la necessità di «svalutare internamente il lavoro e il proprio patrimonio pubblico e privato», e infine di «offrirsi in vendita ai paesi creditori per ripagare i debiti».
    La crisi ha reso evidenti i limiti della gabbia monetaria disegnata a Maastricht, continua Grazzini. «Dilagano la disoccupazione e la deindustrializzazione a favore del capitale estero, mentre continuano ad aumentare i debiti pubblici degli Stati periferici, come l’Italia». Prevedibilmente, la Ue non cambierà politica, anzi «diventerà sempre più rigida nel chiedere il rispetto del Fiscal Compact», intervenendo «in maniera sempre più autoritaria» nelle economie dei singoli paesi, «dettando le sue ricette anche a livello fiscale e di spesa pubblica». Bruxelles impone il taglio della spesa sociale, più tasse sui consumi, la privatizzazione del welfare e dei beni comuni, la deregolamentazione selvaggia del mercato del lavoro con i mini-job alla tedesca e la messa sul mercato delle industrie strategiche nazionali, amputando anche il risparmio dei cittadini e delle banche. La stessa Unione Bancaria «è funzionale alla politica di centralizzazione dei capitali». Idem «le controriforme di Renzi», anch’esse «funzionali al disegno europeo e agli imperativi dei mercati finanziari».
    Ma, anche se Renzi riuscisse a fare i “compiti a casa”, «cioè a ottenere un Senato debole e non eletto dai cittadini, una legge elettorale ultra-maggioritaria, l’introduzione dei mini-job a 400 euro al mese», il premier «non avrà nulla dall’Ue: in cambio delle (contro)riforme italiane otterrà dall’Europa ancora più austerità», a parte «qualche briciola di investimento che però non modificherà la drammatica situazione italiana». Vie d’uscita? Una: far saltare il banco e rivendicare la sovranità nazionale, che non si capisce per quale motivo debba essere considerata “di destra”. Stati Uniti d’Europa? Implicherebbero «la sottomissione dei paesi europei ad ulteriori regole sempre più centralizzate e oppressive, per integrare l’Europa su base tedesca». Sicché, «al posto di reclamare una impossibile (e comunque autoritaria) Federazione Europea, la sinistra farebbe invece bene a proporre una politica aggressiva di denuncia per destrutturare questa Unione, ridare voce all’opposizione di massa a questa Ue della finanza e della tecnocrazia».
    Sovranità nazionale, certo, perché «solo a livello nazionale è possibile che i popoli riescano a incidere democraticamente sull’economia e sull’occupazione», sottolinea Grazzini. «E’ una favola sciocca che il nazionalismo sia solo di destra: anche Garibaldi e i partigiani erano nazionalisti e patrioti. Anche Enrico Mattei era un patriota». Sovranità nazionale oggi significa solidarietà e democrazia, «sviluppo sostenibile orientato alla piena occupazione, alla garanzia di un salario minimo e di un reddito garantito per chi non ha lavoro». Aggiunge Grazzini: «L’autodeterminazione dei popoli contro la globalizzazione selvaggia implica una dura lotta per ristabilire l’autonomia nazionale contro i poteri sovranazionali di stampo neo-coloniale. La brutta novità di questo decennio è che, anche grazie alla Ue, il neocolonialismo monetario ed economico per la prima volta colpisce direttamente le più avanzate nazioni europee e non solo gli Stati del Terzo Mondo».
    Per questo motivo, è «folle e suicida» lasciare la rivendicazione sovranista alla «destra populista», che non a caso oggi «occupa lo spazio popolare che la sinistra ha colpevolmente abbandonato». L’iniziativa del referendum italiano contro il Fiscal Compact, avviata da Riccardo Realfonzo? Ottima, da sostenere: «La sinistra dovrebbe proporre di cambiare o ripudiare i trattati europei, di ristrutturare i debiti pubblici, di avviare politiche espansive mirate a combattere la disoccupazione e a reprimere la speculazione. E dovrebbe ridiscutere radicalmente la moneta unica che conviene solo alla Germania». Riaprire i giochi: «Proporre di concordare il ritorno alle monete nazionali con cambi fissi aggiustabili, e creare una moneta comune (ma non unica) europea verso il dollaro, lo yuan e lo yen». Forse allora «l’Europa potrebbe rinascere», ma per questo servirebbe un terremoto politico. E servirebbe una sinistra onesta e coraggiosa, di cui in Italia non c’è più traccia da troppi anni.

    Rivendicare la sovranità nazionale e disobbedire al Patto di Stabilità imposto dalla Troika: «Occorre una rottura, un bagno di realismo e uno scatto di coraggio di fronte a questa crisi e a questa Unione Europea che opprime e disunisce i popoli europei». L’ideologia dell’europeismo lubrifica il diktat economico dell’Ue, vera causa della catastrofe, mentre le ultime elezioni rivelano i sentimenti di un’opinione pubblica che «diventerà prevedibilmente sempre più anti-Unione Europea», avverte Enrico Grazzini. Senza una rivolta politica radicale la musica non cambierà, perché «alla base della politica europea e tedesca dell’austerità senza fine, della deflazione e della disoccupazione di massa ci sono i trattati di Maastricht, e poi del Fiscal Compact, del Two Pack e Six Pack», già sottoscritti dai governi di centrodestra e centrosinistra. «Senza modificare o ripudiare questi trattati-capestro è praticamente impossibile rilanciare la spesa pubblica e invertire l’attuale rotta europea», che ci sta portando al disastro.

  • Pareggio di bilancio, tasse e crisi: Renzi si piega all’Ue

    Scritto il 01/7/14 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Più tasse, più crisi, meno lavoro: l’Italia dovrà affrontare nuovi “sacrifici umani” per piegarsi alla legge del pareggio di bilancio entro il 2015. Gli elettori che hanno votato il Pd di Renzi alle europee sono serviti: lo schermo della propaganda è crollato col verdetto dell’Ecofin, dopo l’inutile presenza del premier italiano all’ultimo vertice di Bruxelles. Almeno altri 2 miliardi di euro da trovare, a partire dalla finanziaria di ottobre. «Mentre il presidente del Consiglio era a Bruxelles per negoziare, a parole, maggiori margini di flessibilità all’interno del rispetto dei trattati esistenti – scrive “Libero” – contemporaneamente lo stesso vertice sanciva nero su bianco la bocciatura alla prima e unica richiesta formale fatta dal governo di deroga ai patti europei». Di fatto, sono state vanificate le richieste del ministro Padoan, che voleva far slittare dal 2015 al 2016 il pareggio di bilancio strutturale. Ora, con la bocciatura dell’Ue, l’Italia avrà un anno in meno per comprimere ulteriormente la spesa pubblica e mettere in croce famiglie e aziende.
    Per rispettare il trattato-capestro, continua il quotidiano milanese, servono coperture per il bonus Irpef, i famosi 80 euro. Soprattutto, al governo occorrono le risorse per rendere strutturale il bonus, ma all’appello mancano 20 miliardi. Il guaio è che il pareggio di bilancio, aberrazione tecnocratica che deprime l’economia devastando il tessuto produttivo del paese, è stato inserito nella Costituzione italiana già nel 2012 col voto unanime di Pd, Pdl e terzo polo: da quel momento, solo «eventi eccezionali» possono giustificare il «ricorso all’indebitamento», ricorda “Pagina 99”. La catastrofe discende dal Trattato di Maastricht, di impronta “feudale” e neoliberista, che mira ad azzerare la sovranità pubblica per sabotare la missione socio-economica dello Stato, storico garante del benessere diffuso, lasciando mano libera al super-potere dell’élite finanziaria e delle sue multinazionali. Determinante l’adozione della moneta unica, che sottrae allo Stato la capacità di far fronte alla spesa sociale e sostenere gli investimenti strategici – welfare, istruzione, sanità, infrastrutture – che hanno guidato lo sviluppo del dopoguerra in tutto l’Occidente grazie al ricorso al deficit positivo, la leva strategica e democratica del debito pubblico.
    A partire da Maastricht, l’oligarchia che condiziona i politici insediati a Bruxelles ha disposto la storica limitazione del 3% nel rapporto tra deficit e Pil. Cinque anni dopo, nel 1997, il tetto del 3% – che non corrisponde ad alcun criterio economico ma è solo un’indicazione politica per indebolire gli Stati, esponendoli allo strapotere delle corporation – è stato recepito nel Patto di Stabilità e Crescita. «Le cose sono cambiate con il grande crack del 2008», aggiunge “Pagina 99”. «Che la crisi dei debiti sovrani europea sia stata figlia di finanze pubbliche fuori controllo è una tesi più controversa di quanto possa sembrare ad un primo sguardo: può forse attagliarsi al caso della Grecia, ma assai meno – ad esempio – a quello dell’Irlanda, dove il debito pubblico è stato gonfiato proprio dagli interventi a soccorso del settore finanziario privato». In ogni caso, continua il giornale, i piani di salvataggio varati dall’Unione Europea per gli Stati maggiormente in difficoltà hanno determinato la richiesta di una contropartita da parte del paese che più ha contribuito, in termini finanziari, alla loro realizzazione: la Germania.
    Da qui, l’imposizione di regole sempre più stringenti sulla finanza pubblica: dal 13 dicembre 2011 è in vigore il cosiddetto Six-pack, un pacchetto di regolamenti ripresi successivamente anche dal Fiscal Compact, che punta ad azzerare il deficit. «Il disavanzo strutturale è differente dal semplice rapporto deficit-Pil», precisa “Pagina 99”, perché corretto dall’impatto del ciclo economico e delle misure una tantum e temporanee: «Ad esempio, nel caso dell’Italia, il Def appena approvato dal Parlamento riferisce che l’indebitamento netto strutturale sarà del -0,6% nel 2014, a fronte di un rapporto deficit-Pil del -2,6%». È la prima di queste due variabili che doveva essere azzerata entro il 2015, secondo quanto programmato dal governo Letta. Ed è a questo medesimo dato che ha fatto riferimento Padoan nella sua missiva indirizzata alla Commissione Europea, sonoramente bocciata. «Il Fiscal Compact ha ulteriormente irrigidito questo percorso, imponendo ai paesi sottoscrittori di inserire il pareggio di bilancio nei rispettivi ordinamenti nazionali, ad un livello costituzionale».
    Comunque, osserva Daniele Basciu sul blog “Economia Mmt”, era tutto già scritto nel Def varato da Renzi ad aprile 2014: nel documento, messo a punto da un ministro come Padoan (tecnocrate iper-liberista proveniente dall’Ocse, con alle spalle “ricette” per indebolire gli Stati a vantaggio dei colossi finanziari) il governo aveva già previsto, da qui al 2018, di aumentare le tasse e l’avanzo primario, «cioè preleverà più tasse di quanto spenderà». In presenza di risparmio sulla spesa pubblica, ricorda Basciu, è necessario che ci siano dei deficit a controbilanciare il risparmio stesso, perchè ci sia la piena occupazione. Viceversa, senza più deficit, la strada della disoccupazione è segnata. «Il governo Renzi aveva quindi già deciso di non fare deficit, cioè aveva deciso di impegnarsi ad aumentare i disoccupati e i fallimenti delle aziende, che chiuderanno per diminuzione di clienti in grado di spendere e fare acquisti». Con buona pace degli ingenui elettori di Renzi, che «sono completamente all’oscuro del funzionamento di un’economia moderna».
    Per Basciu, seguace della Modern Money Theory di Warren Mosler introdotta in Italia da Paolo Barnard, quella degli elettori Pd è «una specie di tribù convinta che, recitando certe litanie e formule su “Sky” e sul “Corriere della Sera”, l’economia magicamente si rimetta in moto: sono i flagellanti delle processioni sacre, che mentre il celebrante recita i riti si battono sulla schiena con dei giunchi per propiziarsi la divinità». Ma questa non è più economia, protesta il blogger: è antropologia. «Il Def è il testo sacro, subordinato a Trattato di Maastricht e al Fiscal Compact, testi sacri di ordine superiore in cui sono scritte le regole. Il ruolo dell’officiante è trovare le formule per rivolgersi alle masse». Così Renzi dichiara: «O l’Europa cambia direzione di marcia o non esiste possibilità di sviluppo e crescita», ma si contraddice nello stesso discorso, aggiungendo: «Noi non chiediamo di violare la regola del 3%». Ergo, «Renzi farà l’austerity, come i testi sacri prescrivono», e di fatto «promette meno deficit, quindi più disoccupati».
    Ma l’elettore di Renzi che ha in casa un figlio disoccupato o un parente artigiano che chiude perchè non ha più clienti? Niente paura, «assiste alla celebrazione del rito ed è felice, sta bene: “C’è qualcuno”, pensa, “che si prende cura di me”». Qualcuno della “scuola” di Padoan, beninteso, che tratta lo Stato come se fosse una famiglia o un’azienda, cioè un soggetto economico per il quale il risparmio è virtù, mentre il debito è un problema. Fingendo di non sapere che tra famiglie e aziende il denaro può solo passare di mano in mano, mentre lo Stato sovrano il denaro lo crea in quantità teoricamente illimitata, per far fronte ai bisogni della società, tenendo conto della salute del sistema produttivo. In teoria, la missione dello Stato democratico è la piena occupazione: quella che i neoliberisti vogliono cancellare dalla storia, inserendo anche nelle nostre Costituzioni il cancro del pareggio di bilancio, cui ora l’Unione Europea obbliga l’Italia di Renzi, senza sconti.

    Più tasse, più crisi, meno lavoro: l’Italia dovrà affrontare nuovi “sacrifici umani” per piegarsi alla legge del pareggio di bilancio entro il 2015. Gli elettori che hanno votato il Pd di Renzi alle europee sono serviti: lo schermo della propaganda è crollato col verdetto dell’Ecofin, dopo l’inutile presenza del premier italiano all’ultimo vertice di Bruxelles. Almeno altri 2 miliardi di euro da trovare, a partire dalla finanziaria di ottobre. «Mentre il presidente del Consiglio era a Bruxelles per negoziare, a parole, maggiori margini di flessibilità all’interno del rispetto dei trattati esistenti – scrive “Libero” – contemporaneamente lo stesso vertice sanciva nero su bianco la bocciatura alla prima e unica richiesta formale fatta dal governo di deroga ai patti europei». Di fatto, sono state vanificate le richieste del ministro Padoan, che voleva far slittare dal 2015 al 2016 il pareggio di bilancio strutturale. Ora, con la bocciatura dell’Ue, l’Italia avrà un anno in meno per comprimere ulteriormente la spesa pubblica e mettere in croce famiglie e aziende.

  • Pritchard: così l’euro-sinistra ha svenduto i popoli all’élite

    Scritto il 25/5/14 • nella Categoria: idee • (2)

    «Per un terribile rovescio del destino, la politica della sinistra europea sostiene la politica economica più reazionaria: i grandi partiti socialisti europei del dopoguerra sono rimasti intrappolati nella dinamica corrosiva dell’unione monetaria, apologeti della disoccupazione di massa e di un regime deflazionistico stile anni ‘30 che, sottilmente, favorisce gli interessi delle élite». In poche righe, Ambrose Evans-Pritchard fotografa la tragedia europea: i partiti che “inventarono” il sistema di welfare migliore del mondo sono oggi i migliori interpreti del rigore escogitato per demolire proprio quel welfare, il frutto migliore che la sinistra europea sia stata capace di creare dopo la Seconda Guerra Mondiale. Fino a cancellare la stessa idea di Europa come patria comune, traguardo civile di convivenza. E’ stato il centrosinistra europeo a far ingoiare l’amara medicina dell’oligarchia finanziaria, abusando della fiducia storicamente ottenuta dalle fasce popolari e dall’elettorato progressista.
    «Uno dopo l’altro, la stanno pagando tutti», scrive Pritchard sul “Telegraph”, in un’analisi ripresa da “Come Don Chisciotte”. Primo esempio, i Paesi Bassi: «Il partito laburista olandese che diede vita al “Polder Model” e amministrò l’Olanda per mezzo secolo ha perso i suoi bastioni a Amsterdam, Rotterdam e Utrecht, i suoi sostenitori sono scesi al 10% per aver timidamente approvato le politiche di austerità che hanno portato alla deflazione e ad un abbattimento del valore immobiliare tanto da arrivare a ipoteche sul 25% di patrimoni netti negativi». Le politiche recessive «sono velenose per i paesi che già hanno problemi». L’indebitamento delle famiglie olandesi è passato dal 230% al 250% del reddito disponibile dal 2008 a oggi, mentre il debito dei britannici (che si sono tenuti la sterlina) è sceso da 151% al 133% nello stesso periodo. E’ tutta colpa del rigore imposto da Bruxelles, ma il partito laburista olandese «non può fare nessuna critica coerente, perché il suo orientamento pro-Ue lo costringe quasi al silenzio».
    «Il Partito Socialista non ha mai creduto nell’euro e non ci crediamo nemmeno adesso: dobbiamo quindi smettere di chiedere sempre più sacrifici per mantenerlo», ha detto Dennis de Jong, il leader del partito a Strasburgo che si appella a un “Piano B” per smantellare l’unione monetaria in modo ordinato». In Grecia, il socialista Pasok che ha guidato il paese verso la democrazia dopo la dittatura dei “colonnelli”, è sceso al 5,5%: un guscio svuotato da Syriza, che ora con il 25% di voti promette di strappare Atene dalle grinfie della Troika Ue. «Il Pasok si è meritato il suo annientamento», scrive il notista del “Telepgraph”: «Ha cospirato nel colpo di stato fatto nel retrobottega a novembre 2011, ancora una volta accettando le richieste dell’Ue per rovesciare il proprio primo ministro e per annullare il referendum della Grecia sul bail-out. Rinunciò, allora, ad una prova di forza catartica e necessaria con Bruxelles, per la troppa paura di rischiare l’espulsione dall’euro. Questo referendum si farà adesso: Tsipras ha trasformato le elezioni europee di questa settimana in un verdetto sulla servitù del debito».
    Se si può capire la paura della sinistra nei paesi periferici, aggiunge Evans-Pritchard, «il mistero è il motivo per cui un presidente socialista francese, con una maggioranza parlamentare, debba subire passivamente le politiche che stanno fiaccando la linfa vitale dell’economia francese e che stanno distruggendo la sua presidenza». François Hollande ha vinto due anni fa puntando sulla crescita e promettendo di bocciare il Fiscal Compact. Da quando è in carica, però, la disoccupazione francese è salita dal 10,1 al 10,4%, la crescita del Pil è scesa a zero e anche nell’ultimo trimestre la Francia ha perso 23.600 posti di lavoro, dopo i 57.000 perduti nel 2013. Sicché, secondo l’ultimo sondaggio Ifop, l’indice di gradimento di Hollande è crollato sotto il 18%: il peggiore da sempre per un leader francese. «La sua retorica del New Deal non ha portato a niente». Hollande «è capitolato sul Fiscal Compact, accettando una camicia di forza che obbliga la Francia a tagliare il debito pubblico ogni anno per un importo fisso per due decenni, fino a quando non sarà scesi al 60% del Pil, a prescindere dalla demografia o dal gap che esista nel settore privato o dalle esigenze di investimento dell’economia».
    La sua presidenza? «E’ stata tutto uno spettacolo dell’orrore di pacchetti di austerità, uno dopo l’altro, un circolo vizioso di maggiori imposte che fanno abortire qualsiasi recupero e lo debilitano con un effetto moltiplicatore che peggiora la situazione». Inasprimento fiscale nonostante il disavanzo: è la ricetta per il suicidio, se la Bce non interviene per compensare con iniezioni di denaro. «La risposta di Hollande è stata un raddoppio del rigore per infiocchettare il pacchetto: ha ceduto alle richieste di Bruxelles per altri 50 miliardi di euro di austerità nei prossimi tre anni». Questa volta, «la scure cadrà sulla spesa pubblica, arrivata al 57% del Pil». Inoltre, «ci saranno radicali riforme del lavoro, una variante della terapia-shock Hartz IV che servì per fottere i salari tedeschi dieci anni fa». In altre parole: se il socialista Hollande ha fatto pace con le grandi imprese, «sarà l’austerità a farlo a fette».
    Hollande si era prodigato per una “alleanza latina” per contrastare i deflattori quando presero il potere e per costringere la Germania a mettere il veto sulle azioni della Bce. Quella momentanea dimostrazione di grinta aveva spinto Draghi verso un piano di retromarcia sul debito italiano e spagnolo nel mese di agosto 2012, aiutato molto da Washington, ma poi non è andato avanti «e la Spagna ha continuato per la sua strada, come se fosse una Prussia del Sud o una nuova Tigre latina». La Bce? «Ancora una volta ha continuato a rigirarsi i pollici, incurante della deflazione». Francoforte «ha lasciato che i vincoli negativi bloccassero il bilancio francese facendolo ridurre di 800 miliardi, mentre l’euro si è rivalutato dell’ 8% contro lo yuan e del 15% contro lo yen, in un anno». Mentre gran parte del mondo sta cercando di tener basso il cambio delle valute e la deflazione delle esportazioni, l’Europa «è rimasta l’unica e tenersi tutto il pacco sulle spalle».
    I francesi non possono accettare di morire per asfissia economica: «La Francia è il cuore pulsante dell’Europa, l’unico paese con una statura di civiltà capace di condurre una rivolta e di prendersi carico della macchina politica dell’Unione Monetaria. Ma per scoprire il bluff della Germania, con una minima credibilità, Hollande dovrebbe essere pronto a rovesciare tutto il progetto dalle sue fondamenta e persino a rischiare una rottura sull’euro». Ed è quello che non farà mai. «Tutta la sua vita politica, da Mitterrand a Maastricht, è stata intessuta negli affari europei». Hollande «è prigioniero dell’ideologia di questo progetto, convinto come è che un condominio franco-tedesco rimanga la leva del potere francese e che sia l’euro a tenere legati i due paesi». Lo statista francese Jean-Pierre Chevenement confronta l’acquiescenza di Hollande con il corso rovinoso dei decreti deflazionistici di Pierre Laval nel 1935 durate il Gold Standard, cioè «l’ultima volta che un leader francese pensò di dover cavare sangue dal suo paese per difendere il vezzo di un cambio fisso».
    E’ la verità brutale, aggiunge Evans-Pritchard: «I socialisti francesi pensavano di non avere nulla da temere dall’ascesa del Fronte Nazionale, un partito che si prepara a sfruttare la furia prorompente dalla “France Profonde”, con l’impegno di ripristinare il controllo sovrano francese su tutto ciò che conta nella nazione, e che ha messo l’euro al primo posto tra i suoi compiti». I socialisti pensavano che il Fn avrebbe tolto voti ai gollisti, dividendo la destra? Errore: Marine Le Pen «sta dilaniando, con lo stesso vigore, anche le loro proprie roccaforti della classe operaia». Hanno sottovalutato la Le Pen, ora quotata al 24%, e sono scivolati al terzo posto, travolti dal “lepenismo di sinistra”, nuovo guardiano del welfare francese. I socialisti «non hanno nessuna risposta» da opporre agli attacchi del Fn sulla “austerità insensata” e “le politiche monetarie folli della Bce”, che continuano a intaccare il nucleo industriale della Francia. La Le Pen ripete che il prgetto dell’euro coincide con la disoccupazione di massa? «E’ tutto vero», dice Evans-Pritchard, ed è per questo che Hollande non sa cosa rispondere a Marine Le Pen.
    Tutto cominciò con il “referendum rubato”, la fatidica decisione di approvare il Trattato di Lisbona senza farlo votare, dopo che il popolo francese aveva già respinto un testo quasi identico chiamato “Costituzione europea”. «Nella scelta di ignorare la scelta del popolo del maggio 2005 – scrive Evans-Pritchard – i leader francesi hanno anticipato tutto quello che stiamo vedendo ora in Europa», ovvero «le scosse di assestamento di quel terremoto anti-democratico in Europa», per dirla con Coralie Delaume e il suo “Gli Stati Disuniti d’Europa”. «I socialisti dicono che è un oltraggio rifiutare un referendum su Lisbona, ma quando venne il momento di votarlo in parlamento, 142 deputati e senatori si astennero, e 30 votarono a favore del Trattato e diedero al presidente Nicolas Sarkozy la maggioranza dei tre quinti», ricorda Evans-Pritchard. «Le élite pensavano di essersela cavata con le loro prestidigitazioni su Lisbona? Non se l’erano cavata affatto», ma è ormai storia lo squallore del centrosinistra europeo, senza il quale l’oligarchia neoliberista non arebbe mai potuto imporre la crisi, attraverso il progetto neo-feudale chiamato euro.

    «Per un terribile rovescio del destino, la politica della sinistra europea sostiene la politica economica più reazionaria: i grandi partiti socialisti europei del dopoguerra sono rimasti intrappolati nella dinamica corrosiva dell’unione monetaria, apologeti della disoccupazione di massa e di un regime deflazionistico stile anni ‘30 che, sottilmente, favorisce gli interessi delle élite». In poche righe, Ambrose Evans-Pritchard fotografa la tragedia europea: i partiti che “inventarono” il sistema di welfare migliore del mondo sono oggi i più inflessibili interpreti del rigore escogitato per demolire proprio quel welfare, il traguardo più avanzato che la sinistra europea sia stata capace di centrare dopo la Seconda Guerra Mondiale. Fino a cancellare la stessa idea di Europa come patria comune, traguardo civile di convivenza. E’ stato il centrosinistra europeo a far ingoiare l’amara medicina dell’oligarchia finanziaria, abusando della fiducia storicamente ottenuta dalle fasce popolari e dall’elettorato progressista.

  • L’euro di Hitler, una moneta unica per l’Europa nazista

    Scritto il 22/5/14 • nella Categoria: idee • (7)

    Sembra che la Grande Germania, ritornata soggetto geopolitico egemone in Europa, stia realizzando attualmente la prospettiva immaginata dai politici e dagli economisti nazisti per il loro dopoguerra vittorioso: di rendersi esportatrice netta di merci verso una periferia monetariamente subalterna ad una moneta unica che allora sarebbe stato il marco e adesso è l’euro. Alla metà degli anni ’30 la stabilità degli scambi commerciali con l’estero era stata raggiunta in Germania mediante accordi bilaterali di clearing che consentivano di scambiare le merci senza “consumare” moneta perché le importazioni, non coperte da esportazioni, venivano contabilizzate in una “stanza di compensazione” e rinviate al futuro, senza interessi, in attesa d’essere saldate con esportazioni a venire. A seguito dei successi militari del 1940 una sua evoluzione venne ritrovata nella compensazione multilaterale tra le nazioni progressivamente alleate o conquistate, così che se la Germania si trovava con un debito verso A ma pure con un credito verso B, B pagava A e la Germania era libera dal debito senza nessun movimento di valuta.
    Nasceva in questo modo l’idea di costituire un Grande Spazio di scambi commerciali europei di cui la Germania sarebbe stata il centro, come nel 1940 spiegava una nota della Cancelleria del Reich: «I grandi successi della Wehrmacht tedesca hanno creato i fondamenti per il Nuovo Ordine Economico Europeo sotto il dominio tedesco. La Germania, dopo aver concentrato negli ultimi anni le proprie forze principalmente sul riarmo militare, potrà seguire in futuro anche la strada della crescita economica e dello sviluppo delle proprie forze produttive su ampia base e una grossa crescita del tenore di vita ne sarà la conseguenza». Questo Nuovo Ordine Economico Europeo sarebbe però nato asimmetrico, perché gli stati aderenti si sarebbero collocati in due diversi gironi d’importanza: un “cerchio interno” composto dalla Germania allora impinguata dell’Austria e dei Sudeti, dal Protettorato di Boemia e Moravia, dal Governatorato Generale polacco e da Danimarca, Norvegia, Olanda, Belgio e Lussemburgo in quanto nazioni razzialmente affini ma pure economicamente omogenee, tanto da potersi pensare ad un unico livello dei prezzi, dei redditi e dei salari; ed un “cerchio esterno” in cui avrebbero gravitato Svezia, Svizzera e poi Portogallo, Italia, Grecia e Spagna (i Pigs, i paesi “maiali” già previsti!) con estensione all’Unione Sovietica (quando sconfitta), alla Turchia e all’Iran per proiettare il Grande Spazio fino al Pacifico e al Golfo Persico.
    Qui però prezzi e salari sarebbero stati mantenuti più bassi per favorire le esportazioni verso il cerchio interno. Il marco avrebbe dovuto diventare la moneta comune (in mancanza, «la fissazione di tassi di cambio stabili sarebbe assolutamente necessaria»), mentre sarebbe stata istituita una Banca Centrale Europea con sede a Vienna, che allora era tedesca, per il conteggio incrociato dei saldi tra i paesi associati «in cui, naturalmente, la Germania deve essere predominante». Tanto progetto d’unificazione commerciale e monetaria europea non ha però mai visto la luce, travolto dal rovesciamento delle sorti della guerra dal 1942 in poi. Ma si può avanzare il legittimo sospetto che, dopo la costituzione della Unione Monetaria, la Germania post-1989 abbia ripreso con determinazione l’idea del Grande Spazio europeo partendo dall’adozione di una  politica commerciale lucidamente “mercantilistica” per compensare con l’esportazione all’estero il rigore fiscale e la moderazione salariale interne (e qualcuno ha scritto che «se non ci fossero state le robuste esportazioni verso l’Europa periferica, la Germania sarebbe scivolata dalla bassa crescita alla stagnazione»).
    Ma il disavanzo commerciale che si veniva a formare in periferia, non più correggibile con le “svalutazioni competitive” di un tempo per il vincolo della moneta unica, come sarebbe stato coperto? A sostenere la capacità di spesa dei paesi “maiali” sono  intervenuti i prestiti di capitale dal centro; per cui, se quelli s’indebitavano, questo otteneva il doppio vantaggio di guadagnare interessi sul denaro prestato, assicurandosi contemporaneamente un mercato di sbocco privilegiato perché privo di rischio di cambio. Il gioco non è tuttavia senza difetto perché, mentre la periferia si deindustrializza per l’invasione delle merci straniere, il centro si fa partecipe della sua progressiva instabilità finanziaria per quell’indebitamento crescente di cui è creditore. E così quando, e ai primi casi d’insolvibilità periferica (in Grecia, ma soprattutto a Cipro), il centro ha temuto che i propri crediti potessero venire “ripudiati”, è corso ai ripari richiedendone alla periferia il rientro, almeno in parte, coatto. Sta in questo il senso del Trattato per la stabilità, il coordinamento e la governance, sinteticamente noto come “Fiscal Compact”, approvato il 23 luglio 2012 dal Parlamento italiano.
    Con esso si sono a tal punto irrigiditi i vincoli di bilancio pubblico e di debito sovrano da poter essere giudicato, dopo il Trattato di Maastricht (1991) ed il Trattato di Lisbona (1999), come «il terzo atto della storia dell’euro che radicalizza in maniera inedita i principi neoliberisti che hanno caratterizzato fin dall’inizio la costruzione della moneta unica», anche a rischio di realizzare una forma di austerità perpetua che potrebbe fare esplodere l’Unione Monetaria Europea. Il Fiscal Compact richiede all’articolo 3 che le spese statali vengano integralmente coperte da imposte e tasse (al netto di variazioni minimali emergenziali); in caso contrario è previsto «un meccanismo automatico di correzione» che di fatto priva i paesi colpevoli d’infrazione d’ogni potere decisionale proprio. L’articolo 4 impone invece il rientro del debito pubblico al 60% del Pil a partire dal 2015 (un impegno confermato dalla “Agenda Monti” del 24 dicembre 2013), il che significherebbe per l’Italia, che ha un debito pubblico del 134% su di un Pil di oltre 2.000 miliardi di euro, un aggravio sul bilancio statale e per vent’anni di una quota di restituzione del debito di oltre 50 miliardi all’anno.
    Ma perché un simile provvedimento è stato introdotto? Chi l’ha pensato si è affidato a certe stime del Fondo Monetario Internazionale, secondo le quali ad un punto di “contrazione fiscale” (più imposte e tasse e/o meno spesa pubblica) corrisponderebbe un calo del Pil dello 0,5%, e quindi una riduzione del rapporto debito-Pil. Però all’inizio del 2013 lo stesso Fmi ha convenuto che quella stima funziona soltanto in caso di crescita economica, perché in recessione la riduzione del Pil sale all’1,7%, aumentando (e non diminuendo) il rapporto debito-Pil e quindi costringendo ad ulteriori interventi d’austerità che peggiorano il rapporto e così via seguitando (come s’è visto in Italia con le manovre di riduzione del debito dei governi Monti e Letta che, invece di diminuirlo, lo hanno aumentato). Ma se tutto questo succede in periferia, che capita al centro? Di fronte ad un eventuale collasso economico periferico, esso vedrebbe restringersi l’area privilegiata d’esportazione dovendo ricercare altri sbocchi fuori dalla zona-euro, dove però il rischio di cambio esiste.
    E qui, a fronte di un euro troppo rivalutato, la sostituzione delle esportazioni potrebbe non risultare “a somma zero”, come sta già succedendo alla Germania: calano le esportazioni verso i paesi Ue, ma «Berlino sbaglierebbe davvero molto se d’ora in poi potesse pensasse di poter puntare tutte le sue carte solo sul resto del mondo. Con una domanda interna tendenzialmente debole e senza la vecchia Europa che torni a comprare il “made in Germany”, il suo attivo rischia di non correre più come quello di un tempo, sicché nel 2012 la somma del saldo complessivo Ue ed extra-Ue ha fatto segnare soltanto quota 185 miliardi, un livello ancora lontano, dopo cinque anni, dal record storico di 194 miliardi toccato nel 2007». Quale soluzione allora ci sarebbe per il centro se non quella di una svalutazione competitiva dell’euro per guadagnare maggiori quote di mercato? Ma questa decisione, favorevole agli industriali, danneggerebbe il sistema finanziario, che vedrebbe minacciato quell’euro forte difeso fino ad ora a spada tratta. Ecco perché non è da escludere l’alternativa di un arroccamento su di un euro del nord che abbandoni al proprio destino i paesi “maiali” per riciclare il centro come luogo privilegiato d’importazione di capitali invece che di esportazione di merci. E’ quest’ultima una soluzione praticabile? L’antagonismo tra finanza e industria è un tema ricorrente nella storia economica.
    (Giorgio Gattei, “L’euro dei nazi e il nostro”, da “Economia e Politica” del 24 aprile 2014).

    Sembra che la Grande Germania, ritornata soggetto geopolitico egemone in Europa, stia realizzando attualmente la prospettiva immaginata dai politici e dagli economisti nazisti per il loro dopoguerra vittorioso: di rendersi esportatrice netta di merci verso una periferia monetariamente subalterna ad una moneta unica che allora sarebbe stato il marco e adesso è l’euro. Alla metà degli anni ’30 la stabilità degli scambi commerciali con l’estero era stata raggiunta in Germania mediante accordi bilaterali di clearing che consentivano di scambiare le merci senza “consumare” moneta perché le importazioni, non coperte da esportazioni, venivano contabilizzate in una “stanza di compensazione” e rinviate al futuro, senza interessi, in attesa d’essere saldate con esportazioni a venire. A seguito dei successi militari del 1940 una sua evoluzione venne ritrovata nella compensazione multilaterale tra le nazioni progressivamente alleate o conquistate, così che se la Germania si trovava con un debito verso A ma pure con un credito verso B, B pagava A e la Germania era libera dal debito senza nessun movimento di valuta.

  • Ragazzi, eravamo ricchissimi. E vi hanno rubato tutto

    Scritto il 18/5/14 • nella Categoria: idee • (5)

    Questo è per voi, il giovane, la giovane, italiani. Vi guardate intorno persi nella nebbia perché milioni di voi già dai 16 anni hanno capito che semplicemente il futuro non c’è. Liceo, università, specializzazione, quello che vi pare, ma la strada finisce in un mini-job part-time verticale, apprendistato gratis, i fortunati 800 euro al mese. Cioè: Albania, Romania, o Tanzania. Ma vi faccio questa domanda: qualcuno di voi si è mai… VOLTATO INDIETRO voltato indietro? Voltatevi indietro un attimo, per favore, ecco, così: cosa si vede? Si vede un paese, l’Italia, le cui donne 70 anni fa non avevano le calze, sedevano su cumuli di macerie e si chiedevano perché le truppe americane non facessero rumore quando camminavano. Povere donne, non conoscevano l’esistenza della scarpe di gomma. Non c’era nulla, l’Italia aveva il Pil del Bangladesh.
    Poi cosa si vede? Si vede che i vostri nonni, padri e madri HANNO FATTO I COMPITI A CASA hanno fatto i compiti a casa. Dopo 35 anni dai cumuli di macerie, e dai mandarini solo due volte all’anno in tavola, l’Italia diventa la quinta potenza mondiale, il primo paese al mondo per risparmio privato e per ricchezza privata pro-capite. Scese Cristo e moltiplicò i pesci? No, no. Tuo nonno e tuo padre fecero i compiti a casa. E arriviamo al 1994, quando le agenzie di rating ci definivano “Economia leader d’Europa”, quando stracciavamo la Germania sia in produzione che export. Ricchi, ricchissimi. E arrivate voi. I giovani italiani si presentano dal Notaio dopo il 1994 per reclamare LA GIUSTA EREDITA’ la giusta eredità del quinto paese più ricco del mondo, quindi lavoro garantito, stipendi per casa, matrimonio e bei risparmi. No? Il Notaio apre le carte e dice: NON C’E’ PIU’ NULLA, MI DISPIACE Non c’è più nulla, mi dispiace.
    Nulla? Eh???? DOVE SONO FINITI I SOLDI, IL  5° PIL DEL MONDO, GLI ENORMI RISPARMI, LA 1a RICCHEZZA PRIVATA DEL MONDO, IL LAVORO, CIOE’ TUTTA L’EREDITA’ DEI 70 ANNI DI LAVORO DI TUO NONNO E DI TUO PADRE? Dove sono finiti i soldi, il 5° Pil del mondo, gli enormi risparmi, la 1a ricchezza privata del mondo, il lavoro, cioè tutta l’eredità dei 70 anni di lavoro di tuo nonno e di tuo padre? Ancora giratevi indietro, ragazzi. Cosa si vede? Si vede che i padri fondatori dell’Italia si erano seduti sulle macerie della guerra e avevano scritto la PIU’ AVANZATA COSTITUZIONE la più avanzata Costituzione nell’interesse pubblico del mondo. Anno 1948. Diritti garantiti, Stato sovrano, Parlamento sovrano, Costituzione sovrana. Una legislazione del lavoro che era invidiata da tutto il pianeta. I giovani italiani si presentano oggi dal Notaio per reclamare LA SECONDA GIUSTA EREDITA’ la seconda giusta eredità: si chiama DIRITTI DELLA COSTITUZIONE ITALIANA GA-RAN-TI-TI diritti della Costituzione italiana ga-ran-ti-ti. Il Notaio apre le carte e dice: NON C’E’ PIU’ NULLA, MI DISPIACE Non c’è più nulla, mi dispiace.
    Nulla? Eh???? Sì, nulla. Non vi avevano detto che nel 1993 dei tecnocrati europei che nessun italiano ha mai eletto avevano creato il Trattato di Maastricht, poi nel 2007 quello di Lisbona, che hanno esautorato il Parlamento del tutto, hanno tolto all’Italia la sovranità monetaria, e hanno persino soppresso la nostra Costituzione. Risultato: NON AVETE NESSUN DIRITTO CHE L’ITALIA POSSA OGGI DIFENDERE PER VOI Non avete nessun diritto che l’Italia possa oggi difendere per voi. Shock. Ricapitoliamo: Esistevano per voi giovani, DUE EREDITA’ CAPITALI due eredità capitali, costruite per voi dai vostri nonni, padri, madri, e Padri Fondatori, che vi avrebbero garantito il futuro di dignità e prosperità e democrazia. Erano lì fino al 1999! Oggi non ci sono più. MA COME E’ POSSIBILE Ma come è possibile? Come accade che 70 anni di lavoro per voi svaniscano nel nulla negli ultimi 5 minuti?
    Chi vi ha… RUBATO IL FUTURO E LA VITA STESSA QUANDO VI SPETTAVA DI DIRITTO IN EREDITA’ DOPO 70 DI LAVORO, VITA, LOTTA E MORTE DEI VOSTRI NONNI, GENITORI E PADRI FONDATORI rubato il futuro e la vita stessa quando vi spettava di diritto in eredità dopo 70 anni di lavoro, vita, lotta e morte dei vostri nonni, genitori e padri fondatori? Risposta: Unione Europea dei Tecnocrati non eletti che lavorano per un pugno di speculatori Neofeudali, primi fra tutti i tedeschi, che vogliono divorare l’Italia. Chi vi scrive pubblica da 5 anni le prove su prove su prove di questo crimine contro di voi, perpetrato attraverso la creazione dell’Eurozona coi suoi Trattati di cui sopra.
    Soluzione: LE DUE EREDITA’ SONO VOSTRE! RIPRENDETELE, IN DUE MODI: le due eredità sono vostre! Riprendetele, in due modi: a) Assediare il Parlamento, che s’inginocchi a chiedere scusa agli italiani, stracci i Trattati Ue della rapina storica contro l’Italia, riporti la sovranità monetaria e costituzionale in Italia; b) Gridare alle forze armate della Repubblica di arrestare Giorgio Napolitano, principale complice della rapina storica in Italia, dissolvere il governo di Renzi servo dei tedeschi distruttori dell’Italia, e che riportino la sovranità monetaria, parlamentare e costituzionale in Italia. Fuori dall’Eurozona. Le forze armate hanno giurato fedeltà alla Costituzione, devono farlo. Poi tornate dal Notaio e reclamate le vostre EREDITA’ eredità, questa volta nel nome dei vostri nonni, padri e madri, che ve l’avevano lasciata. Alzate la testa, ragazzi, la piazza è vostra, ma non per fare casino. Per reclamare CIO’ CHE VI SPETTA IN EREDITA’ ciò che vi spetta in eredità.
    (Paolo Barnard, “Giovani, se capite questo farete le barricate”, dal blog di Barnard del 3 maggio 2014).

    Questo è per voi, giovani italiani. Vi guardate intorno persi nella nebbia perché milioni di voi già dai 16 anni hanno capito che semplicemente il futuro non c’è. Liceo, università, specializzazione, quello che vi pare, ma la strada finisce in un mini-job part-time verticale, apprendistato gratis, i fortunati 800 euro al mese. Cioè: Albania, Romania, o Tanzania. Ma vi faccio questa domanda: qualcuno di voi si è mai… voltato indietro? Voltatevi indietro un attimo, per favore, ecco, così: cosa si vede? Si vede un paese, l’Italia, le cui donne 70 anni fa non avevano le calze, sedevano su cumuli di macerie e si chiedevano perché le truppe americane non facessero rumore quando camminavano. Povere donne, non conoscevano l’esistenza della scarpe di gomma. Non c’era nulla, l’Italia aveva il Pil del Bangladesh.

  • Cina, gli operai-schiavi rialzano la testa (grazie al web)

    Scritto il 13/5/14 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Sul piano legislativo i lavoratori cinesi godono di una serie di diritti, ancorché più limitati di quelli di cui dispongono i loro colleghi occidentali. Purtroppo tali diritti restano quasi sempre sulla carta, sia perché le imprese si guardano bene dal rispettarli, sia perché il Partito Comunista e i sindacati di stato non muovono un dito per farli rispettare. Ecco perché la Yue Yuen Industrial Holdings, azienda taiwanese che è considerata il più grande produttore mondiale di scarpe sportive (fra i suoi commettenti può vantare marchi di prestigio come Nike e Adidas) non ha versato per anni i contributi per la pensione ai suoi dipendenti. Mal gliene è incolto, perché non ha tenuto conto dell’evoluzione culturale delle nuove generazioni di operai cinesi, animate da una rabbia e uno spirito combattivo sconosciuti alle precedenti generazioni, e della loro abilità nell’usare i social network come strumenti di organizzazione e mobilitazione dal basso.
    Il risultato, come racconta il “New York Times”, è stato uno dei più lunghi e partecipati scioperi della storia recente del paese: 40.000 operai hanno bloccato le linee di produzione per due settimane, infliggendo all’azienda 27 milioni di danni. Alla fine il governo cinese, non riuscendo a bloccare la vertenza, si è rassegnato a intervenire e a costringere la Yue Yuen Industrial Holdings ad accettare un accordo. Pur in assenza di sindacati indipendenti (vietati dalla legge cinese) i lavoratori cinesi, secondo lo stesso articolo, hanno effettuato ben 1100 scioperi e proteste dal giugno del 2011 alla fine del 2013, mentre se ne registrano 200 solo negli ultimi due mesi.
    Lo strumento che ha favorito queste imponenti mobilitazioni, che hanno strappato consistenti aumenti salariali e altre concessioni, è stato un software di messaggistica chiamato Weixin (conosciuto anche con il nome inglese We Chat) che ha trecento milioni di utenti in grande maggioranza giovani: gli operai lo usano sistematicamente per scambiare informazioni, coordinare le azioni e estendere le lotte attraverso il passaparola. Ma attribuire tutto questo fermento sociale alla Rete sarebbe un errore non meno pacchiano di quello che ha indotto i media occidentali ad appioppare alla “primavera araba” l’etichetta di Twitter Revolution – una semplificazione su cui hanno giustamente ironizzato autori come Evgenij Morozov.
    Per capire le radici di questa ondata di lotte di classe è meglio andarsi a leggere il bel libro della sociologa cinese Pun Ngai, tradotto in Italia da Jaca Book con il titolo “La società armoniosa”. Pun Ngai analizza la cultura dei quasi trecento milioni di migranti interni che si sono riversati dalle campagne nelle grandi città dove vivono e lavorano in condizioni di sfruttamento spaventoso, paragonabili solo a quelle della classe operaia inglese dell’800 descritte da Engels. Sfruttati ma anche dotati di conoscenze, curiosità e competenze assai più avanzate di quelle dei loro genitori e quindi meno disposti a sopportare quelle condizioni disumane. Una massa operaia che, al pari di quella riversatasi dal nostro Sud a Torino e Milano negli anni ‘60 del ‘900, si sta rivelando poco propensa a chinare la testa e decisa a strappare redditi e condizioni di lavoro e di vita migliori. Quando la tecnologia incontra il capitale sono dolori per le classi subordinate, ma quando invece la tecnologia incontra la classe operaia sono dolori per i padroni.
    (Carlo Formenti, “Se gli operai cinesi rialzano la testa”, da “Micromega” del 5 maggio 2014).

    Sul piano legislativo i lavoratori cinesi godono di una serie di diritti, ancorché più limitati di quelli di cui dispongono i loro colleghi occidentali. Purtroppo tali diritti restano quasi sempre sulla carta, sia perché le imprese si guardano bene dal rispettarli, sia perché il Partito Comunista e i sindacati di stato non muovono un dito per farli rispettare. Ecco perché la Yue Yuen Industrial Holdings, azienda taiwanese che è considerata il più grande produttore mondiale di scarpe sportive (fra i suoi commettenti può vantare marchi di prestigio come Nike e Adidas) non ha versato per anni i contributi per la pensione ai suoi dipendenti. Mal gliene è incolto, perché non ha tenuto conto dell’evoluzione culturale delle nuove generazioni di operai cinesi, animate da una rabbia e uno spirito combattivo sconosciuti alle precedenti generazioni, e della loro abilità nell’usare i social network come strumenti di organizzazione e mobilitazione dal basso.

  • Barnard: Ttip, ricatto finale. Ora siamo davvero finiti

    Scritto il 12/5/14 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Se fino a ieri una multinazionale americana poteva chiedere a Washington di denunciare un singolo governo europeo per i “mancati profitti” provocati da una legge che tutela il lavoro, l’ambiente, la salute o la sicurezza alimentare, con l’entrata in vigore del Ttip siamo alla fase-2 della globalizzazione, quella terminale: saranno le mega-aziende a denunciare direttamente i nostri governi, e lo faranno presso tribunali speciali, off shore, gestiti da avvocati d’affari che ai governi potranno infliggere sanzioni così salate da scoraggiare in partenza qualsiasi forma di resistenza a tutela di cittadini, aziende e lavoratori. “Merito” dell’oligarchia che si è messa in moto, «la solita lobby d’élite finanziaria e grande industriale», cioè «i mastini del Vero Potere», quelli che «non si fermano mai». Proprio lei, la super-lobby, secondo Paolo Barnard «ha fatto quello che doveva fare: vincere». Si chiama S2B, acronimo dell’inglese “Seattle to Bruxelles Network”. «Ci trovate: J.P. Morgan, Chevron, Bnp Paribas, Microsoft, Uniliver, Philip Morris, Glaxo, Ford, Shell, Monsanto, Goldman Sachs… devo continuare?».
    Barnard, il primo in Italia a segnalare in televisione gli abusi della mondializzazione selvaggia con servizi come “I globalizzatori” trasmessi da “Report”, oggi parla di «un orribile risveglio, che suona così: noi non molliamo mai, noi siamo infermabili, non sentiamo fatica, coscienza, rimorso, pietà, e alla fine vinciamo sempre. Firmato: il Vero Potere». La «nuova offensiva» chiamata Transatlantic Trade and Investment Partnership o Trattato Transaltantico «è micidiale, potenzialmente devastante come mai prima per l’esistenza stessa di democrazia e interesse pubblico». Nel 1999, all’epoca delle primissime denunce sui pericoli della globalizzazione, «intesa proprio come sistema di accordi segreti e potentissimi creato da una élite di capitalisti per ricacciare indietro decenni di progressi democratici a favore del pubblico, nelle aree dei commerci, della finanza e dei servizi», il “mostro” si muoveva, mastodontico, nella stanze di Ginevra del Wto.
    In pratica, il Trattato di Marrakech del Wto «stabiliva regole di potere superiore alle leggi degli Stati aderenti che, ad esempio, avrebbero potuto limitare qualsiasi intervento della politica in campo economico e finanziario se esso avesse rappresentato una barriera al Libero Commercio, al Libero Profitto, ai diritti delle Corporations». Ad esempio: «Se una multinazionale americana riteneva che le leggi italiane le impedissero di vendere in Italia un suo prodotto contenente una plastica per noi tossica, poteva chiedere al governo Usa di denunciare Roma al tribunale del Wto, per ottenere l’abolizione della legge italiana», ritenuta “una barriera” al libero sviluppo del loro business. Stessa storia in caso di gare d’appalto per un servizio pubblico: «Qualsiasi mega-corporation mondiale dei servizi poteva reclamare lo stesso diritto a partecipare di un’azienda locale, quando magari il Comune avrebbe preferito dar lavoro e reddito a italiani locali».
    Col Trattato di Marrakech, sovranazionale e quindi sovrastante le leggi dei singoli Stati, «l’ignorante politica del mondo occidentale aveva firmato e ratificato regole micidiali tutte a favore delle mega-corporations e tutte a sfavore di qualsiasi intervento politico nazionale o anche locale per proteggere i lavoratori, le famiglie, le aziende nazionali, le cooperative, i Comuni», ricorda Barnard. «L’Italia ratificò Marrakech con un solo politico – uno solo! – che l’avesse letto, fra Camera e Senato». Segretamente, cioè «sotto il naso disattento di milioni di cittadini», questo sistema «ha fatto danni immensi alle economie nazionali ma soprattutto ai distretti piccolo-medi industriali italiani che ci fecero ricchi dopo la II guerra mondiale, con valanghe di fallimenti e licenziati a cascata», dice Barnard. «Danni anche ai diritti dei cittadini alla tutela della salute, per non parlare dell’orrore inflitto al Terzo Mondo». C’era però ancora una clausola: la multinazione di turno avrebbe dovuto chiedere al governo Usa di fare causa al governo italiano presso il tribunale del Wto, non poteva agire direttamente. Ora, l’ostacolo è stato superato. Le multinazionali avranno pieni poteri: il loro imperio sovrasterà la sovranità democratica degli Stati.
    Obiettivo dichiarato: “armonizzare” le regole del commercio e della finanza fra Usa e Ue, liberalizzando gli scambi ed eliminando le barriere all’interno dell’area di libero scambio Usa-Ue, dove avviene «almeno un terzo degli scambi globali». Dalle stime della stessa Commissione Europea, aggiunge Barnard, si deduce che alle promesse del Ttip non crede neppure Bruxelles: secondo il commissario europeo al commercio, Karel de Gught, l’impatto dell’accordo sul Pil europeo è di appena lo 0,01%. Già il “meno peggio” del Ttip, per Barnard, è «una tragica porcheria», in tre atti. Primo: «In Europa verranno imposte le miserrime regole di protezione dell’ambiente e dei consumatori degli Usa, e in America verrà imposta la miserrima regolamentazione della finanza che abbiamo noi europei. Quindi una gara al ribasso ovunque». Secondo: Il Ttip propone la totale liberalizzazione del settore dei servizi pubblici – sanità, asili e scuole, assistenza anziani, trasporti, acqua potabile. Terzo: fine di quel che resta dei diritti sindacali europei.
    Risultato: «I lavoratori italiani, che già oggi con la bastardata dell’euro devono vedersela con una deflazione dei redditi da incubo, domani saranno anche in gara a tagliarsi i diritti del lavoro per competere con i lavoratori Usa, dove licenziare è più facile che fare un peto. Tutto questo – sottolinea Barnard – per il solito infame motivo che dipendiamo tutti dagli “investitori” per avere economia, e gli “investitori” investono quasi sempre dove i diritti sono minori». Tutto questo ci prepara (si fa per dire) al “peggio” del Ttip, ovvero: le mega-aziende denunciano direttamente gli Stati, e lo fanno presso tribuinali speciali, fuori dalla giurisdizione nazionale. «Significa che abbiamo centinaia di multinazionali che possono aggredire con cause costosissime il nostro paese (gli studi legali per questo tipo di affari prendono parcelle da 3.000 euro al giorno per ciascun avvocato e sono in media una quindicina, per tempi biblici, e moltiplicateli per una pioggia di cause infinita) senza limiti di sorta, imponendoci spese di Stato rovinose, e di fronte alle quali un governo finisce quasi sempre per cedere e cambiare la legislazione d’interesse pubblico».
    Il ricatto è micidiale, insiste Barnard, perché «con il dogma economico neoclassico (vedi Eurozona) non è più lo Stato che può intervenire con la sua spesa a dar lavoro, reddito e protezione a cittadini e aziende: oggi quel “pane” a tutti ce lo danno i “mercati”, cioè quelle corporations di beni e finanza». Per cui, ecco la minaccia: «Se perdono le cause ritireranno gli investimenti (il pane) dalle nostre tavole nazionali e noi siamo fottuti». Per Barnard, «già a questo stadio un governo finisce per cedere, ma c’è di peggio». E cioè: nei futuri tribunali internazionali, per gli Stati europei sarà praticamente impossibile difendersi. «In tutti gli aspetti del vivere – governati, o anche solo lambiti dai commerci di beni e servizi – il Ttip può divenire letale per famiglie, cittadini, piccole medie aziende, democrazia e Stato stesso. Ancora un’altra mazzata catastrofica all’idea di Mondo Migliore che tanti di noi sognavano o sognano per i propri bambini. Noi che sappiamo queste cose, noi che capiamo cosa fa e come si comporta il Vero Potere, noi che Renzi, i tagli Irpef, le europee, Grillo, Confindustria e i sindacati sappiamo essere fuffa, zero, nulla in grado di proteggerci da nulla. Good luck».

    Se fino a ieri una multinazionale americana poteva chiedere a Washington di denunciare un singolo governo europeo per i “mancati profitti” provocati da una legge che tutela il lavoro, l’ambiente, la salute o la sicurezza alimentare, con l’entrata in vigore del Ttip siamo alla fase-2 della globalizzazione, quella terminale: saranno le mega-aziende a denunciare direttamente i nostri governi, e lo faranno presso tribunali speciali, off shore, gestiti da avvocati d’affari che ai governi potranno infliggere sanzioni così salate da scoraggiare in partenza qualsiasi forma di resistenza a tutela di cittadini, aziende e lavoratori. “Merito” dell’oligarchia che si è messa in moto, «la solita lobby d’élite finanziaria e grande industriale», cioè «i mastini del Vero Potere», quelli che «non si fermano mai». Proprio lei, la super-lobby, secondo Paolo Barnard «ha fatto quello che doveva fare: vincere». Si chiama S2B, acronimo dell’inglese “Seattle to Bruxelles Network”. «Ci trovate: J.P. Morgan, Chevron, Bnp Paribas, Microsoft, Uniliver, Philip Morris, Glaxo, Ford, Shell, Monsanto, Goldman Sachs… devo continuare?».

  • Tutto il potere alle multinazionali: è la legge del Ttip

    Scritto il 03/5/14 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    La crisi sovverte il quadro geopolitico internazionale, rimettendo in discussione egemonie storiche. Potenze emergenti come Brasile, India, Sudafrica e Messico continuano a crescere, rivelandosi difficilmente controllabili dai vecchi Forum internazionali come il G20 e creando nuove aree commerciali regionali sottratte all’influenza statunitense, come in America Latina. E nel Pacifico, l’asse tra Cina e Russia si va affermando come epicentro degli equilibri asiatici, verso una leadership globale. Secondo recenti statistiche, osserva Marco Bersani, il Pil di Brasile, Cina e India supererà entro il 2020 la produzione di Canada, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti, ed entro il 2030 più dell’ 80% della classe media del mondo vivrà a sud. Con l’Europa intrappolata nella spirale dell’austerità, «lo stanco impero statunitense affila le unghie» per riconquistare l’egemonia vacillante e punta tutto sul Ttip per smantellare le residue barriere – commerciali, giuridiche, politiche – al libero commercio.
    Insieme al Trattato Trans-Pacifico, il Ttip punta a creare «la più grande area di libero scambio del pianeta, che comprenderà economie per circa il 60% del prodotto interno lordo mondiale, interamente governata dalle più potenti multinazionali economiche e finanziarie, agli interessi delle quali andranno sacrificati tutti i diritti sociali e del lavoro, i beni comuni e la stessa democrazia», scrive Bersani in un’analisi sul sito di “Attac”, ripresa da “Micromega”. «Se per gli Usa il Ttip rappresenta la necessità di “legare” alla propria economia il massimo numero di aree geo-politiche e commerciali possibili, per l’Unione Europea si tratta della più evidente e definitiva dichiarazione di resa di un continente che, già da tempo, attraverso la scelta della via rigorista e monetarista in economia, ha deciso di rinunciare alla propria originalità – quella di uno stato sociale, frutto del compromesso fra capitale e lavoro del secondo dopoguerra – per consegnarsi alle leggi dell’impresa».
    Se già ieri l’Europa si era presentata «come un continente che, lungi dal proteggere le popolazioni dalla globalizzazione neoliberista, si candidava ad assumerne la guida», oggi – con l’adesione ai negoziati per il Trattato Transatlantico, l’Unione Europea «dichiara il fallimento di quella strategia e, nel contempo, rinuncia ad ogni tentativo di esercitare un proprio protagonismo sociale, per giocare la partita di una competizione internazionale, tutta giocata al ribasso in tema di diritti del lavoro, di beni comuni e servizi pubblici, di diritti sociali e ambientali». Dietro la strategia di riconquista della scena internazionale da parte dei vecchi padroni del mondo (Usa, Ue e Giappone), traspare «il totale protagonismo politico delle grandi multinazionali, non più “relegate” ad un ruolo di influenza e pressione esterna sulle istituzioni politiche, bensì sedute a pieno titolo e in posizione privilegiata nei tavoli di negoziazione». Per la prima volta, attraverso il Ttip, l’élite transnazionale «supera i confini tradizionali fra Stato e privati, tra governi e imprese, e si sottrae ad ogni possibile controllo democratico».
    Di fatto, e se approvato, secondo Bersani il Ttip realizzerebbe l’utopia delle multinazionali: «Un pianeta al loro completo servizio, fino al punto di poter chiamare in giudizio presso una corte speciale, composta da tre avvocati d’affari rispondenti alle normative della Banca Mondiale, un qualsiasi paese firmatario», da minacciare con sanzioni temibili nel caso le leggi garantissero i diritti civili a scapito dei profitti. Per le élites dell’Ue, il Ttip «rappresenterebbe anche la possibilità di superare in avanti, attraverso un “meta-trattato” strutturale, l’attuale difficoltà nell’imporre, Stato per Stato e governo per governo, le politiche di austerità e di smantellamento dello stato sociale, artificialmente indotte dalla crisi del debito pubblico». L’opposizione radicale al Trattato Transatlantico è dunque l’unica via percorribile da parte dell’Europa dei popoli, quella dei beni comuni, dei diritti e della democrazia.

    La crisi sovverte il quadro geopolitico internazionale, rimettendo in discussione egemonie storiche. Potenze emergenti come Brasile, India, Sudafrica e Messico continuano a crescere, rivelandosi difficilmente controllabili dai vecchi Forum internazionali come il G20 e creando nuove aree commerciali regionali sottratte all’influenza statunitense, come in America Latina. E nel Pacifico, l’asse tra Cina e Russia si va affermando come epicentro degli equilibri asiatici, verso una leadership globale. Secondo recenti statistiche, osserva Marco Bersani, il Pil di Brasile, Cina e India supererà entro il 2020 la produzione di Canada, Germania, Italia, Regno Unito e Stati Uniti, ed entro il 2030 più dell’ 80% della classe media del mondo vivrà a sud. Con l’Europa intrappolata nella spirale dell’austerità, «lo stanco impero statunitense affila le unghie» per riconquistare l’egemonia vacillante e punta tutto sul Ttip per smantellare le residue barriere – commerciali, giuridiche, politiche – al libero commercio.

  • Suicidare la Francia: i veri obiettivi di Hollande e Valls

    Scritto il 02/5/14 • nella Categoria: idee • (1)

    François Hollande ha ricevuto all’Eliseo Peter Hartz, l’ex consigliere del cancelliere tedesco Gerhard Schröder: «L’ex direttore del personale della Volkswagen era stato condannato a due anni di prigione per aver corrotto i sindacalisti della sua impresa pagandoli con 2,6 milioni di euro in prostitute e viaggi esotici», scrive Thierry Meyssan. «Non è precisato se il presidente Hollande desideri seguire l’esempio di Peter Hartz fino alla sua quarta riforma, che limita a tre mesi la durata delle assicurazioni contro la disoccupazione». Per Meyssan, comunque, anche l’incontro con Hartz – insieme al nuovo governo di Manuel Valls, creato con l’alibi della débacle elettorale alle comunali – testimonia la volontà dell’Eliseo di puntare su un nuovo colonialismo per facilitare le grandi aziende francesi, sull’esempio del suo “maestro” Jules Ferry, che già a fine ‘800 difese gli interessi del grande capitale francese mentre sviluppava il colonialismo, forgiando gli insegnanti perché «formassero i giovani in modo che diventassero i soldati dell’espansione coloniale e della Prima Guerra Mondiale».
    Non a caso, osserva Meyssan in un’analisi ripresa da “Megachip”, la prima parte del mandato di Hollande è stata caratterizzata dal rilancio della guerra in Siria e dagli interventi militari in Mali e nella Repubblica Centrafricana, tutte «avventure» che sarebbero state «coordinate presso l’Eliseo – sovente contro il parere dello stato maggiore e del ministro della difesa – dal capo di gabinetto militare, il generale tradizionalista Benoît Puga». La seconda parte del quinquennio di Hollande – annunciata già il 14 gennaio, ben prima delle elezioni comunali – si vuole “socialdemocratica”, nel senso dell’Agenda 2010 del cancelliere Schröder: reindirizzare la produzione, agevolando le grandi aziende. «Intrapresa un decennio fa, questa politica facilitò il governo federale, rese più competitive le imprese esportatrici ma aumentò considerevolmente le disparità sociali e la povertà».
    L’opinione pubblica francese, intanto, ha accolto con scetticismo l’avvicendamento alla guida del governo. «Mai, nella storia della Francia – scrive Meyssan – le elezioni comunali erano sfociate in un cambio di governo: sembrava infatti impossibile trarre conclusioni nazionali da elezioni esclusivamente locali». Tuttavia, se consideriamo i 788 Comuni con più di 50.000 abitanti (che corrispondono al 23% della popolazione), si osserva «un record di astensionismo, soprattutto tra gli elettori che avevano votato due anni prima per François Hollande». L’estensione della sfiducia è stata tale, aggiunge Meyssan, che numerosi Comuni tradizionalmente ancorati a sinistra sono passati alla destra, a favore dell’Ump. Da qui la mossa di Hollande: l’incarico a Valls per formare un nuovo governo «coeso, coerente e saldo», in realtà votato alla realizzazione dei grandi obiettivi annuciati il 14 gennaio, ad oltre due mesi da voto.
    «Il presidente – continua Meyssan – pensa così di seguire le orme di François Mitterrand che, nel luglio 1984, congedò il suo primo ministro operaista Pierre Mauroy, abbandonò le sue 101 proposte e designò un esponente dell’alta borghesia, Laurent Fabius, affinché conducesse una politica più “realistica”». E’ il “vizietto” storico della sinistra europeista: assorbire e neutralizzare le istanze popolari, per meglio imporre le politiche neoliberiste della destra economica e tecnocratica. Non tutti appreazzano, naturalmente: «Così come i comunisti si rifiutarono di partecipare al governo Fabius accusato di liquidare le promesse sociali dell’elezione presidenziale, anche i Verdi si ritirano dal governo Valls, rifiutando di condividere il suo prevedibile fallimento».
    Per Meyssan, «così come Mitterrand aveva scelto un primo ministro ebreo e sionista per placare l’ostilità di Israele, allo stesso modo François Hollande ha scelto una delle persone più impegnate in favore della colonizzazione della Palestina». E se Fabius era un primo ministro «troppo giovane e inesperto per imporsi dopo il machiavellico Mitterrand», anche Manuel Valls «non ha avuto la capacità di formare da solo il suo governo e ha dovuto adeguarsi ai suggerimenti presidenziali». Tuttavia, mentre Mitterrand aveva operato un vero cambio di politica e di uomini nel 1984, Hollande intende proseguire la politica avviata nel primo anno di mandato. Così il nuovo governo comprende le stesse persone del precedente, con due eccezioni: Ségolène Royal, la madre dei figli di Hollande, e il suo vecchio amico François Rebsamen. «Possiamo da ciò concludere che il suo obiettivo non sia quello di abbandonare la scia di Jules Ferry, ma di aggiungervi l’esempio delle relazioni con il grande capitale di Gerhard Schröder».
    Valls si è attenuto alle direttive presidenziali: “patto di responsabilità” con il Medef, la Confindustria francese, “transizione energetica” per compiacere i Verdi e “patto sociale” per le classi popolari. «Ma i bisogni della Francia sono facili da stabilire: da molti anni lo Stato rinuncia ai suoi mezzi d’intervento, abbandonando la sua moneta per esempio, aumentando gli strati amministrativi, le sue leggi e i suoi regolamenti. Alla fine, il potere si è impigliato nella propria burocrazia e ha perduto ogni efficacia». Uno status quo deludente, che «pochi pensano di cambiare davvero». Il grande suggeritore, aggiunge Meyssan, è la superpotenza Usa: smarcare Parigi da Washington «richiederebbe una grave crisi politica internazionale, come quella aperta nel 1966 da Charles De Gaulle quando improvvisamente espulse la Nato dalla Francia». Se ne guardano bene Hollande e Valls, che annunciano una colossare riforma per tagliare gli enti locali, dimezzare il numero delle Regioni e accorpare i piccoli Comuni.
    «Se tutti sono d’accordo nel considerare che questa “millefoglie” era indigesta e costosa – sostiene Meyssan – la scelta degli strati da sopprimere non corrisponde alla storia politica francese, bensì al progetto di transizione dagli Stati-nazione all’Unione Europea». Questo progetto, «instillato dagli Stati Uniti durante il Piano Marshall», sostituirebbe gli attuali Stati-nazione con delle macroregioni, trasferendo i poteri sovrani a un’entità burocratica come la Commissione Europea: l’esatto contrario del progetto gollista di regionalizzazione del 1969. «Risulta perlomeno sorprendente vedere questa riforma trattata dal primo ministro come una semplice variabile di aggiustamento economico, mentre il suo obiettivo finale è la scomparsa dello Stato francese, e quindi della Repubblica francese, a vantaggio della burocrazia di Bruxelles (Unione Europea e Nato)», scrive Meyssan. Di fatto, «il cambio di governo non risponde al voto dei francesi», ma alle mire neo-coloniali dell’industria.  «Questa politica ha una sua logica: in tempi di crisi, è impossibile aumentare lo sfruttamento della classe operaia, occorre cercarsi dei super-profitti all’estero, presso popoli che non hanno i mezzi per difendersi». Così, «il sangue continua a scorrere in Siria e in Africa, mentre la povertà continuerà a espandersi in Francia».

    François Hollande ha ricevuto all’Eliseo Peter Hartz, l’ex consigliere del cancelliere tedesco Gerhard Schröder: «L’ex direttore del personale della Volkswagen era stato condannato a due anni di prigione per aver corrotto i sindacalisti della sua impresa pagandoli con 2,6 milioni di euro in prostitute e viaggi esotici», scrive Thierry Meyssan. «Non è precisato se il presidente Hollande desideri seguire l’esempio di Peter Hartz fino alla sua quarta riforma, che limita a tre mesi la durata delle assicurazioni contro la disoccupazione». Per Meyssan, comunque, anche l’incontro con Hartz – insieme al nuovo governo di Manuel Valls, creato con l’alibi della débacle elettorale alle comunali – testimonia la volontà dell’Eliseo di puntare su un nuovo colonialismo per facilitare le grandi aziende francesi, sull’esempio del suo “maestro” Jules Ferry, che già a fine ‘800 difese gli interessi del grande capitale francese mentre sviluppava il colonialismo, forgiando gli insegnanti perché «formassero i giovani in modo che diventassero i soldati dell’espansione coloniale e della Prima Guerra Mondiale».

  • Il guaio è che Matteo Renzi ha paura della democrazia

    Scritto il 07/4/14 • nella Categoria: idee • (1)

    «Scansare gli ingombri della democrazia è una tentazione ormai antica, in Italia. Cominciò la P2, poi seguita da Berlusconi», osserva Barbara Spinelli. «Ma il pericolo di una bancarotta dello Stato e i costi di una politica colpita dal discredito hanno dato più forza a queste idee, seducendo governi tecnici e anche il Pd». Memorabile la dichiarazione di Monti allo “Spiegel” il 5 agosto 2012, sul tema dei veti opposti dai paesi nordici alle decisioni dell’Ue: «Capisco che debbano tener conto del loro Parlamento, ma ogni governo ha anche il dovere di educare le Camere». E ancora: «Se i governi si lasciano totalmente ingabbiare dalle decisioni dei Parlamenti senza preservare la propria libertà di agire, avremmo lo sfaldamento dell’Europa». Renzi dunque «completa ragionamenti già in circolazione, e li trasforma in “spirito del tempo”», traduce Spinelli, allarmata dalla tesi secondo cui «la democrazia deve cambiare forma e rimpicciolirsi, a causa della crisi».
    E’ esattamente il contrario della via scelta dal cancelliere tedesco Willy Brandt nel 1969: «Quel che vogliamo è osare più democrazia», disse, promettendo metodi di governo «più aperti ai bisogni di critica e informazione» espressi dalla società, «più discussioni in Parlamento» e una permanente concertazione «con i gruppi rappresentativi del popolo, in modo che ogni cittadino abbia la possibilità di contribuire attivamente alla riforma dello Stato e della società». Non sembra vadano in questo senso le riforme costituzionali del premier Pd, né le parole di chi gli è vicino, che sostiene che «per governare efficacemente nel XXI secolo serve soprattutto velocità: approvazione o bocciatura rapida dei disegni di legge e capacità di mantenere la sintonia con tutti i componenti della squadra». Velocizzare, semplificare, dilatare i poteri dell’esecutivo: questi gli imperativi, prende nota Barbara Spinelli in un’analisi su “Repubblica” ripresa da “Micromega”.
    Certo, l’Italia non è l’unica democrazia debilitata dalla crisi: «Ovunque i governi sentono che la terra trema, sotto di loro, e imputano il terremoto a una democrazia troppo lenta, a elezioni troppo frequenti. Denunciano a ragione la fatica dell’azione, ma si guardano dallo smascherarne i motivi profondi», che sono «la perdita di sovranità e il trasferimento dei poteri reali verso entità internazionali spoliticizzate», e non certo gli equilibri interni, oggi definiti “lacci”, cioè «la Costituzione, i sindacati, addirittura il suffragio universale». Il farmaco? «Non è la velocità in sé, ma il cambio di prospettiva», come chiarisce un sociologo come Zygmunt Bauman. «Renzi non smaschera i mali autentici, quando propone l’accentramento crescente dei poteri in mano all’esecutivo, la diminuzione degli organi eletti dal popolo, lo svigorimento di istituzioni e associazioni nate dalla democrazia: Senato in primo luogo, ma anche sindacati e perfino soprintendenze (il cui scopo è quello di occuparsi del patrimonio artistico italiano resistendo ai privati)».
    Se Cgil o Confindustria si oppongono, dice Renzi, «ce ne faremo una ragione». Dunque i traumi ci saranno, «ma alla lunga la loro razionalità sarà chiara: c’è una differenza, fra la sua accelerazione e quella di Brandt». Quel che non aveva previsto, continua Spinelli, era la critica che sarebbe venuta dal presidente del Senato Pietro Grasso, oltre che l’allarme creatosi fra costituzionalisti come Gustavo Zagrebelsky e Stefano Rodotà. La riforma potrebbe indebolire la democrazia, sostiene Grasso. Mutare il ruolo del Senato e abolire le Province è importante, ma qui si stanno facendo altre cose: il Senato resta, solo che cessa di essere elettivo. E restano di fatto le Province, anch’esse non più elettive ma governate da dirigenti comunali. «L’ambizione è liberare l’Italia dai lacci che l’imbrigliano, ma la paralisi decisionale non si supera riducendo gli organi intermedi creati per servire l’interesse generale, o rendendoli non elettivi. Tantomeno può imbarcarsi in simile impresa un Parlamento certo legale, ma che la Consulta ha sostanzialmente delegittimato giudicando incostituzionale il modo in cui è stato eletto».
    Soprattutto, insiste Barbara Spinelli, «l’impotenza dei governi non si sormonta ignorando il male scatenante, che è appunto la loro dipendenza dai mercati, e cioè da forze anonime, non elette, quindi non licenziabili. Sono loro a decidere il lecito e l’illecito». È stata la Jp Morgan, in un rapporto del 28 maggio 2013, a sentenziare che “l’intralcio”, nel Sud Europa, viene da Costituzioni troppo influenzate dall’antifascismo postbellico: Costituzioni «caratterizzate da esecutivi e Stati centrali deboli, dalla protezione dei diritti del lavoro, dal diritto di protesta contro ogni mutamento sgradito dello status quo». Così come dalla crisi europea si esce con “più Europa”, continua Spinelli, anche dalla crisi delle democrazie si esce con più democrazia. «Lo disse fin dall’800 Tocqueville, esaminando i difetti delle società democratiche: si esce ampliando i sistemi del check and balance, dei controlli e contrappesi: frenando con altri poteri la tendenza del potere a straripare».
    I continui conflitti sociali e istituzionali? «Sono un rischio delle democrazie, non una maledizione. Sbarazzarsene con leggi elettorali non rappresentative o eludendo le obiezioni (“ce ne faremo una ragione”) sfocia nel contrario esatto di quel che si vuole: i conflitti inacidiscono, l’opposizione non ascoltata disimpara a trattare». Alla fine, resta solo «il rapporto diretto fra leader e popolo, non dissimile dall’“unzione” plebiscitaria di Berlusconi». Inoltre, aggiunge Barbara Spinelli, «Renzi neppure è un premier eletto: quando parla di “promesse fatte agli italiani”, non si sa bene a cosa si riferisca». Il dramma è la mancanza di democrazia nell’Unione Europea, per «governare poteri già sconnessi dalle sovranità territoriali: gli interessi finanziari e commerciali, l’informazione, il commercio della droga e delle armi, la criminalità, il terrorismo». Manca un potere democratico che li controlli, uno “spirito cosmopolita della democrazia”: «L’Europa potrebbe incarnarlo, se agisse come argine contro le crisi delle democrazie nazionali, e al contempo contro l’arbitrio dei mercati. Più democrazia e più governabilità non si escludono a vicenda, non si conquistano “in sequenza”: o si realizzano insieme, o perderemo l’una e l’altra».

    «Scansare gli ingombri della democrazia è una tentazione ormai antica, in Italia. Cominciò la P2, poi seguita da Berlusconi», osserva Barbara Spinelli. «Ma il pericolo di una bancarotta dello Stato e i costi di una politica colpita dal discredito hanno dato più forza a queste idee, seducendo governi tecnici e anche il Pd». Memorabile la dichiarazione di Monti allo “Spiegel” il 5 agosto 2012, sul tema dei veti opposti dai paesi nordici alle decisioni dell’Ue: «Capisco che debbano tener conto del loro Parlamento, ma ogni governo ha anche il dovere di educare le Camere». E ancora: «Se i governi si lasciano totalmente ingabbiare dalle decisioni dei Parlamenti senza preservare la propria libertà di agire, avremmo lo sfaldamento dell’Europa». Renzi dunque «completa ragionamenti già in circolazione, e li trasforma in “spirito del tempo”», traduce Spinelli, allarmata dalla tesi secondo cui «la democrazia deve cambiare forma e rimpicciolirsi, a causa della crisi».

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