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Archivio del Tag ‘dopoguerra’

  • Rottamano la Costituzione perché hanno paura di noi

    Scritto il 27/3/14 • nella Categoria: idee • (2)

    Pessima trovata, abolire il Senato. Segno di una politica senza idee, che ha paura degli elettori. E tenta di rifarsi il trucco per nascondere la sua incapacità di affrontare i veri problemi che abbiamo di fronte: «La concentrazione del potere economico e gli andamenti della finanza mondiale, l’impoverimento e il degrado del pianeta, le migrazioni di popolazioni. Ne subiamo le conseguenze, senza poter agire sulle cause». E la classe dirigente? «Non dirige un bel niente», accusa Gustavo Zagrebelsky. «Non tenta di mettere la testa fuori. Per far questo, occorrerebbe avere idee politiche e almeno tentare di metterle in pratica». Così, resta solo «il formicolio della lotta per occupare i posti migliori nella rete dei piccoli poteri oligarchici», un formicolio «che allontana e disgusta la gran parte che ne è fuori». Pura «autoconservazione del sistema di potere e dei suoi equilibri». Dietro ai tweet di Matteo Renzi, il giurista torinese vede «il blocco d’una politica che gira a vuoto, funzionale al mantenimento dello status quo».
    Una volta, ricorda Zagrebelsky, Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani definirono “razza padrona” un certo equilibrio oligarchico del potere. «Oggi, piuttosto riduttivamente, la chiamiamo “casta”. Un’interpretazione è che un sistema di potere incartapecorito e costretto sulla difensiva, avesse bisogno di rifarsi il maquillage. Se questo è vero, è chiaro che occorrevano accessori, riverniciature: il renzismo mi pare un epifenomeno». La classe dirigente italiana? «E’ decaduta a un livello culturale imbarazzante. La ragione è semplice: di cultura politica, la gestione del potere per il potere non ha bisogno. Sarebbe non solo superflua, ma addirittura incompatibile», dice il presidente onorario della Consulta alla giornalista Silvia Truzzi del “Fatto Quotidiano”. Sgomenta la memoria degli uomini che gestirono la ricostruzione del paese nel dopoguerra: Parri, Nenni, De Gasperi, Einaudi, Togliatti. «Non è che avessero le stesse idee, ma ne avevano: e le idee davano un senso politico alla loro azione».
    Le cose che oggi vengono dette e fatte dai politici «sono pezze, rattoppi d’emergenza necessari per resistere, non per esistere. Non è politica. Nella migliore delle ipotesi, se non è puro “potere per il potere”, è gestione tecnica». Attenzione: «La tecnica guarda indietro, la politica dovrebbe guardare avanti». Esempio, il governo Monti, cioè «la tecnica come surrogato della politica: un’illusione». Lancinante, l’assenza di politica, proprio nei momenti di massima crisi. «Basta essere nuovi e giovani? No. Quello che conta è la struttura dei poteri cui si fa riferimento e di cui si è espressione». Oggi, «in questo vuoto politico-sociale che cosa esiste e prospera? La rete degli interessi più forti. È questa rete che esprime i dirigenti attraverso cooptazioni. La democrazia resiste come forma, ma svuotata di sostanza. Se la si volesse rinvigorire, occorrerebbe una società capace di auto-organizzazione politica, ciò che una volta sapevano fare i partiti. Oggi, invece, sono diventati per l’appunto, canali di cooptazione, per di più secondo logiche di clan e di spartizione dei posti. Così, non si promuove il tanto necessario e sbandierato rinnovamento, ma si “allevano” giovani uguali ai vecchi».
    Ecco la parola: «Il rinnovamento sembra molto spesso un “allevamento”. Il resto è apparenza: velocità, fattività, decisionismo, giovanilismo, futurismo, creativismo. Tutte cose ben note e di spiegabile successo, soprattutto in rapporto con l’arteriosclerosi politica che dominava. Ma la novità di sostanza dov’è? La “rottamazione” a che cosa si riduce?». Magari al consueto refrain della necessità di modificare l’assetto costituzionale. «Le istituzioni possono sempre essere migliorate e rese più efficienti, ma mi pare che siano diventate il capro espiatorio di colpe che stanno altrove», sottolinea Zagrebelsky. Il vero problema: «Le difficoltà che incontra un aggregato di potere che sempre più difficoltosamente riesce a mediare e tenere insieme il quadro delle compatibilità, in presenza di risorse pubbliche da distribuire sempre più scarse». Ai tempi di Berlusconi, continua Zagrebelky, l’insofferenza nei confronti della Costituzione derivava «dalle esigenze di un potere aggressivo». Oggi, invece, «l’atteggiamento è piuttosto difensivo», perché i fautori delle “ineludibili” modifiche costituzionali dicono: c’è bisogno di cambiamenti per governare meglio, con più efficienza. Ma il vero scopo è difendersi dai cittadini, dalla democrazia: «Il terrore delle elezioni, la vanificazione dei risultati elettorali, i “congelamenti” istituzionali in funzione di salvaguardia vanno nella stessa direzione».
    Gli italiani avevano archiviato il Cavaliere? Ecco che Renzi l’ha prontamente riesumato. La Consulta ha definito il Parlamento illegittimo, eletto dall’incostituzionale Porcellum? Pazienza, si fa finta di niente. E proprio a parlamentari così “nominati” si chiede di manomettere la Costituzione. Larghe intese, quindi, per paura di Grillo. «Le larghe intese sono la negazione della dimensione politica», continua Zagrebelsky. «Sono il regime della paralisi, della stasi». Sicché, oggi «sembra che si viva in un eterno presente, in cui una posta di natura politica non esiste. Se non ci sono scelte, non c’è politica, e se non c’è politica non c’è democrazia, ma solo conflitti personali, di gruppo o di clan per posti, favori e, nel caso peggiore, garanzie d’immunità». Quindi siamo senza futuro? Sì, «finché la palude non viene smossa». Sfiducia, astensionismo. «Perché i cittadini vanno sempre meno a votare? Una volta si diceva “son tutti uguali”, intendendo “sono tutti corrotti”. Ma oggi è peggio, si pensa: “tanto non cambia nulla”. È un effetto della stasi politica».
    Il Movimento 5 Stelle, riconosce Zagrebelky, è nato col dichiarato intento di “smuovere la palude”, addirittura di «investirla con una burrasca che rovesci tutto», anche se la politica «deve contenere anche un intento costruttivo», perché «la tabula rasa e la rete non sono programmi. Non lo è nemmeno la lotta alla corruzione che, di per sé, rischia d’essere solo una competizione per la sostituzione d’una oligarchia nuova a una vecchia». Contro la corruzione «devono valere le istituzioni di controllo e l’intransigenza dei cittadini», perché «in difetto di politica, alla corruzione non c’è limite». Di fronte a noi, c’è un’oligarchia che si arrocca, pronta a tutto – anche a rottamare democrazia e Costituzione. L’Italicum: «Mi colpisce che la legge elettorale sia decisa dagli accordi d’interesse di tre persone (Berlusconi, Renzi, Alfano) invece che dalle ragioni della democrazia, cioè dalle ragioni di tutti i cittadini elettori. Mi colpisce tanta arroganza, mentre con un Parlamento delegittimato come l’attuale, si tratterebbe di fare la legge più neutrale possibile. Mi colpisce che si sospenderà il diritto alle elezioni, perché la contraddizione tra le due Camere impedirà di scioglierle».

    Pessima trovata, abolire il Senato. Segno di una politica senza idee, che ha paura degli elettori. E tenta di rifarsi il trucco per nascondere la sua incapacità di affrontare i veri problemi che abbiamo di fronte: «La concentrazione del potere economico e gli andamenti della finanza mondiale, l’impoverimento e il degrado del pianeta, le migrazioni di popolazioni. Ne subiamo le conseguenze, senza poter agire sulle cause». E la classe dirigente? «Non dirige un bel niente», accusa Gustavo Zagrebelsky. «Non tenta di mettere la testa fuori. Per far questo, occorrerebbe avere idee politiche e almeno tentare di metterle in pratica». Così, resta solo «il formicolio della lotta per occupare i posti migliori nella rete dei piccoli poteri oligarchici», un formicolio «che allontana e disgusta la gran parte che ne è fuori». Pura «autoconservazione del sistema di potere e dei suoi equilibri». Dietro ai tweet di Matteo Renzi, il giurista torinese vede «il blocco d’una politica che gira a vuoto, funzionale al mantenimento dello status quo».

  • Padoan, il “dolore utile” che stermina i bambini greci

    Scritto il 17/3/14 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    «Il dolore sta producendo risultati»: fa impressione, proprio ora che è divenuto ministro dell’economia, rileggere quel che Pier Carlo Padoan disse il 29 aprile 2013 al “Wall Street Journal”, quando era vice segretario generale dell’Ocse. Già allora i dati sull’economia reale smentivano una così impudente glorificazione dell’austerità – e addirittura dei patimenti sociali che infliggeva – ma l’ultimo numero di “Lancet”, dedicato alla sanità pubblica in Grecia dopo sei anni di Grande Depressione, va oltre la semplice smentita. Più che correggersi, il ministro farebbe bene a scusarsi di una frase atroce che irresistibilmente ricorda Pangloss, quando imperterrito rassicura Candide mentre Lisbona è inghiottita dal terremoto raccontato da Voltaire: «Queste cose sono il meglio che possa accadere. La caduta dell’uomo e la maledizione entrano necessariamente nel migliore dei mondi possibili».
    “Lancet” non è un giornale di parte: è tra le prime cinque riviste mediche mondiali. Il suo giudizio sulla situazione ellenica, pubblicato sabato in un ampio dossier (lo ha ripreso Andrea Tarquini sul sito di “Repubblica”), è funesto: la smisurata contrazione dei redditi e i tagli ai servizi pubblici hanno squassato la salute dei cittadini greci, incrementando il numero di morti specialmente tra i bambini, tra gli anziani, nelle zone rurali. Nella provincia di Acaia, il 70 per cento degli abitanti non ha soldi per comprare le medicine prescritte. Emergency denuncia la catastrofe dal giugno 2012. Numerose le famiglie che vivono senza luce e acqua: perché o mangi, o paghi le bollette. Nel cuore d’Europa e della sua cultura, s’aggira la morte e la chiamano dolore produttivo. «Siamo di fronte a una tragedia della sanità pubblica», constata la rivista, «ma nonostante l’evidenza dei fatti le autorità responsabili insistono nella strategia negazionista». Qualcuno deve spiegare a chi agonizza come sia possibile che il dolore e la morte siano “efficaci”, e salvifiche per questo le riforme strutturali fin qui adottate.
    Né è solo «questione di comunicazione» sbagliata, come sosteneva nell’intervista Padoan: sottolineare gli esiti promettenti del consolidamento fiscale, ammorbidendo magari qualche dettaglio tecnico, non toglie la vittoria al pungiglione della morte. Trasforma solo un’improvvida teoria economica in legge naturale, perfino divina. Moriremo, certo, ma in cambio il Paradiso ci aspetta. Soprattutto ci aspetta se non cadremo nel vizio disinvoltamente rinfacciato agli indebitati-impoveriti: la “fatica delle riforme” (reform fatigue), peccato sempre in agguato quando i governi «sono alle prese con resistenze sociali molto forti». Quando siamo ingrati, come Atene, alle iniezioni di liquidità che l’Unione offre a chi fa bancarotta: nel caso greco, due bailout tardivi, legati a pacchetti deflazionistici monitorati dalla trojka. I contribuenti tedeschi hanno già dato troppo, dicono in Germania. Non è vero, i contribuenti non hanno pagato alcunché perché di prestiti si tratta, anche se a tassi agevolati e destinati in primis alle banche.
    Difficile dar torto alle “forti resistenze sociali”, se solo guardiamo le cifre fornite su “Lancet” dai ricercatori delle università britanniche di Cambridge, Oxford e Londra. A causa della malnutrizione, della riduzione dei redditi, della disoccupazione, della scarsità di medicine negli ospedali, dell’accesso sempre più arduo ai servizi sanitari (specie per le madri prima del parto) le morti bianche dei lattanti sono aumentate fra il 2008 e il 2010 del 43%. Il numero di bambini nati sottopeso è cresciuto del 19 %, quello dei nati morti del 20. Al tempo stesso muoiono i vecchi, più frequentemente. Fra il 2008 e il 2012, l’incremento è del 12,5 fra gli 80-84 anni e del 24,3 dopo gli 85. E s’estende l’Aids, perché la distribuzione di siringhe monouso e profilattici è bloccata. Malattie rare o estinte ricompaiono, come la Tbc e la malaria (quest’ultima assente da 40 anni. Mancano soldi per debellare le zanzare infette).
    La rivista inglese accusa governi e autorità europee, ed elogia i paesi come Islanda e Finlandia che hanno respinto i diktat del Fondo Monetario o dell’Unione. Dopo la crisi acuta del 2008, Reykjavik disse no alle misure che insidiavano sanità pubblica e servizi sociali, tagliando altre spese scelte col consenso popolare. Non solo: capì che la crisi minacciava la sovranità del popolo, e nel 2010-2011 ridiscusse la propria Costituzione mescolando alla democrazia rappresentativa una vasta sperimentazione di democrazia diretta. Non così in Grecia. L’Unione l’ha usata come cavia: sviluppi islandesi non li avrebbe tollerati. Proprio nel paese dove Europa nacque come mito, assistiamo a un’ecatombe senza pari: una macchia che resterà, se non cambiano radicalmente politiche e filosofie ma solo questo o quel parametro.
    Il popolo sopravvive grazie all’eroismo di Ong e medici volontari (tra cui Médecins du Monde, fin qui attivi tra gli immigrati): i greci che cercano soccorso negli ospedali “di strada” son passati dal 3-4% al 30%. S’aggiungono poi i suicidi, in crescita come in Italia: fra il 2007 e il 2011 l’aumento è del 45%. In principio s’ammazzavano gli uomini. Dal 2011 anche le donne. “Lancet” non è ottimista sugli altri paesi in crisi. La Spagna, cui andrebbe assommata l’Italia, è vicina all’inferno greco. Alexander Kentikelenis, sociologo dell’università di Cambridge che con cinque esperti scrive per la rivista il rapporto più duro, spiega come il negazionismo sia diffuso, e non esiti a screditare le più serie ricerche scientifiche (un po’ come avviene per il clima). L’unica istituzione che si salva è il Centro europeo di prevenzione e controllo delle malattie, operativo dal 2005 a Stoccolma.
    La Grecia prefigura il nostro futuro prossimo, se le politiche del debito non mutano; se scende ancora la spesa per i servizi sociali. Anche in Italia esistono ospedali di volontari, come Emergency. La luce in fondo al tunnel è menzogna impudente. Senza denunciarla, Renzi ha intronizzato ieri la banalità: «L’Europa non dà speranza se fatta solo di virgole e percentuali» – «l’Italia non va a prendere la linea per sapere che fare, ma dà un contributo fondamentale». Nessuno sa quale contributo. Scrive l’economista Emiliano Brancaccio che i nostri governi «interpretano il risanamento come fattore di disciplinamento sociale». Ma forse le cose stanno messe peggio: il risanamento riduce malthusianamente le popolazioni, cominciando da bambini e anziani.
    Regna l’oblio storico di quel che è stata l’Europa, del perché s’è unita. Dimentica anche la Germania, che pure vive di memoria. Dopo il ‘14-18 fu trattata come oggi la Grecia: sconfitto, il paese doveva soffrire per redimersi. Solo Keynes insorse, indignato. Nel 1919 scrisse: «Se diamo per scontata la convinzione che la Germania debba esser tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e nell’indigenza [...], se miriamo deliberatamente all’umiliazione dell’Europa centrale, oso farmi profeta, la vendetta non tarderà». La vendetta non tardò a farsi viva, ed è il motivo per cui ben diversa e più saggia fu la risposta nel secondo dopoguerra. Quella via andrebbe ripercorsa e potrebbe sfociare in una Conferenza europea sul debito, che condoni ai paesi in difficoltà parte dei debiti, connetta i rimborsi alla crescita, dia all’Unione poteri politici e risorse per lanciare un New Deal di ripresa collettiva e ecosostenibile. È già accaduto, in una conferenza a Londra che nel 1953 ridusse quasi a zero i debiti di guerra della Germania. I risultati non produssero morte, ma vita. Fecero rinascere la democrazia tedesca. Non c’era spazio, a quei tempi, per i Pangloss che oggi tornano ad affollare le scene.
    (Barbara Spinelli, “Gli invisibili d’Europa”, da “La Repubblica” del 26 febbraio 2014, intervento ripreso da “Micromega”).

    «Il dolore sta producendo risultati»: fa impressione, proprio ora che è divenuto ministro dell’economia, rileggere quel che Pier Carlo Padoan disse il 29 aprile 2013 al “Wall Street Journal”, quando era vice segretario generale dell’Ocse. Già allora i dati sull’economia reale smentivano una così impudente glorificazione dell’austerità – e addirittura dei patimenti sociali che infliggeva – ma l’ultimo numero di “Lancet”, dedicato alla sanità pubblica in Grecia dopo sei anni di Grande Depressione, va oltre la semplice smentita. Più che correggersi, il ministro farebbe bene a scusarsi di una frase atroce che irresistibilmente ricorda Pangloss, quando imperterrito rassicura Candide mentre Lisbona è inghiottita dal terremoto raccontato da Voltaire: «Queste cose sono il meglio che possa accadere. La caduta dell’uomo e la maledizione entrano necessariamente nel migliore dei mondi possibili».

  • Costretto a usare la forza, Putin ha già perso l’Ucraina

    Scritto il 06/3/14 • nella Categoria: idee • (6)

    I balaclava coprono i volti dei giovani soldati russi di stanza in Crimea. Soldati che in queste ore ultimano l’occupazione dei centri nevralgici della penisola, aiutati da alcuni “volontari” locali. Ironia della sorte, i copricapi che nascondono i loro volti portano il nome dalla città di Balaklava, oggi parte della municipalità di Sebastopoli. Teatro in passato di un’importante battaglia della guerra di Crimea. Battaglia che registrò la sconfitta dei russi. In una guerra che, non a caso, vide coinvolte le medesime regioni oggetto dei confronti odierni fra le potenze del XXI secolo e la Federazione Russa: il Mar Nero, il Caucaso, il Baltico, l’Est Europa. Regioni che trovano spazio nei libri di storia, e nella cronaca, ogni qual volta viene posto in essere il tentativo di contenere la Russia, e con essa i propri interessi strategici, entro i “propri confini”. Confini che ogni potenza ha percepito, e percepisce, come differenti. Secondo i propri interessi.
    Ogni qual volta una o più potenze occidentali da un lato, e la potenza russa dall’altro, hanno deciso di sconvolgere, o viceversa, di tentare il consolidamento degli equilibri strategici consolidatesi in queste regioni, hanno frequentemente fallito. Ottenendo, talune volte, risultati catastrofici. Opposti alle rispettive aspettative iniziali. Accadde durante la guerra di Crimea. Accadde con le iniziative politiche e diplomatiche antecedenti le due guerre mondiali. E’ accaduto in parte durante la guerra fredda. Nonché successivamente al crollo dell’Urss. E’ appena accaduto con l’espansione frenetica ad est, effettuata dall’Unione Europea negli anni duemila. E accade oggi. Con la differenza che il colpo che si è tentato di assestare alla Russia, con l’inclusione nell’orbita occidentale ed europea dell’Ucraina, ha tutta l’aria del colpo definitivo. Inaccettabile per Mosca.
    Molti si ricorderanno la “Rivoluzione Arancione”, iniziata nel 2004. Esperienza terminata con la coabitazione ai vertici dello Stato fra i due leader rivali Yanukovich e Juscenko. Le recenti vicende di piazza Maidan sembravano molto simili a quelle del decennio scorso. A tratti speculari. Eppure il risultato è stato assai diverso, con il degenerare di un crisi che è parsa fin da subito inevitabile. Oggi, a differenza di allora, la crisi è sfociata in una occupazione militare ad opera della Russia. L’instabilità ha varcato i confini nazionali ucraini, ora rischia di diffondersi, destabilizzando l’intera regione. Le motivazioni di ciò sono diverse, ma alcune evidenti e di facile individuazione: oggi, a differenza di allora, lo scenario globale è cambiato.
    Dall’inizio della crisi economica, sono andate sempre più consolidandosi nuovi interessi e nuove alleanze strategiche. Alleanze che agli inizi del decennio scorso si intravvedevano appena.  Terminato definitivamente il tentativo unipolare dell’America di Bush, il mondo è andato dividendosi. Sono aumentate le potenze regionali in competizione fra loro per il controllo di aree strategiche, economiche e commerciali. In questo contesto, la strategia obamiana prevede un rapido ridispiegamento, attraverso una riduzione drastica dell’esercito statunitense e la creazione di due zone di libero scambio, una Trans-Pacifica (Tpp) e l’altra Trans-Atlantica (Tap). Un ridispiegamento della potenza americana che lascerà molti spazi liberi sullo scacchiere mondiale. Spazi che altre potenze regionali tenteranno rapidamente di colmare. L’Europa si trova al centro di uno di questi spazi. L’Unione Europea “potrebbe” scegliere fra la possibilità di adesione al nuovo disegno obamiano delle aree di libero scambio, attraverso la Tap, o alternativamente valutare la possibilità di apertura e consolidamento delle relazioni con la Federazione Russa. Conseguentemente anche con il Caucaso, l’ Asia Centrale e poi l’intera regione euroasiatica.
    Ma per l’Est europeo l’amministrazione Obama ha piani ben precisi. Ereditati dalle precedenti amministrazioni e che si sostanziano nell’attività di contenimento della Federazione Russa. Da un lato attraverso lo scudo antimissilistico in fase di dislocamento nei paesi dell’Est e, dall’altro, attraverso l’adesione degli ex paesi europei del blocco socialista, alla Nato. Favorendo lo spostamento del “confine politico” dell’Unione Europea e dei paesi che ruotano nella sua orbita, a ridosso dei confini giuridici della Federazione Russa. Eliminando ogni governo filo-russo che si interponga fra questi confini giuridici e i “confini politici” dell’Unione. Un disegno fondamentale per gli interessi americani, funzionale all’inclusione dell’Unione Europea nell’area di libero scambio Trans-Atlantica. Un disegno che si scontra con la percezione russa dei propri “confini”, mai individuati come un limite statico, ma come un limite dinamico, a seconda dei propri interessi. Un disegno, quello americano, che ha ottenuto il sostegno favorevole di numerosi Stati europei.
    In questo contesto, il tentativo di sottrarre l’Ucraina alla sfera di influenza russa ha sconvolto un equilibrio che aveva profonde radici storiche. Inoltre, la Federazione Russa ha percepito il tentativo di passaggio dell’Ucraina nella sfera europea e occidentale come un passaggio potenzialmente definitivo e irreversibile. Come una minaccia senza precedenti. L’ipotesi di vedere, nell’arco di un decennio, lo Stato ucraino come un partner consolidato della Nato, dotato dello scudo antimissilistico americano, schierato lungo i confini con la Russia, è apparsa a Putin come uno dei peggiori incubi. Al quale si sarebbe aggiunto la perdita della Crimea, con il conseguente venir meno del controllo esercitato sul Mar Nero. Di fronte all’eventualità di questi cambiamenti radicali, Putin non poteva restare a guardare. Ma, nel medesimo tempo, si è trovato senza alternative. Ha dovuto optare per una reazione forte. L’utilizzo della forza militare. Oggi in Ucraina, come ieri in Georgia.
    Ma non si tratta di un punto di forza a suo favore, come molti credono. Anzi, si tratta dell’evidente dimostrazione che la Russia di Putin è sprovvista di validi strumenti di politica estera, diversi dall’uso della forza e dall’esercizio del ricatto energetico. Ricatto che può attuare solo in parte, necessitando dei proventi economici ottenuti dalla commercializzazione degli idrocarburi. Si tratta quindi di una Russia caratterizzata da una manifesta debolezza. Non in grado di esercitare nessun “Soft Power”. Obbligata ad aggrapparsi all’uso della potenza militare. La quale, a sua volta, non garantisce la possibilità di esercitare una influenza continuativa. Non garantisce nemmeno la stabilità interna, nel medio periodo, delle aree sottoposte a questa influenza. A ciò si aggiunge il fatto che il ricorso alla forza può essere esercitato solo per periodi limitati, all’interno del contesto occidentale, pena la marginalizzazione dallo scenario internazionale.
    Quindi, uno dei vantaggi di Puntin, ovvero il fatto che l’Ucraina non ha un esercito degno di questo nome, non può esser sfruttato pienamente. Putin ne è consapevole e per questo la sua strategia odierna si protrae lungo tre direttrici. L’occupazione militare della Crimea, al fine di mantenere inalterati i vantaggi strategici che la penisola offre, compresa l’egemonia navale russa nel Mar Nero e sul Caucaso. Occupazione che Putin spera di consolidare con il “referendum” previsto per fine mese. “Referendum” che si limiterà a confermare una indipendenza da Kiev già sancita nei fatti. Si tratta inoltre di una occupazione che svolge una funzione di “sfogo” parziale delle tensioni e di riassetto, a favore della Russia, dopo il crollo dell’equilibrio precedente. Il secondo obbiettivo, in realtà di primaria importanza per Putin, è la destabilizzazione interna dell’Ucraina. Senza realizzare occupazioni estese ad ampie regioni del territorio. Destabilizzazione da realizzarsi semplicemente mantenendo una presenza militare minima, anche indiretta, ma accompagnata da una minaccia costante di un impiego massiccio della forza.
    Alcune zone si proclameranno indipendenti da Kiev, Mosca ne garantirà l’“indipendenza”, senza la necessità di intervenire in forze all’intero del territorio ucraino. L’intento di Putin è quello di impedire al governo di Kiev di consolidarsi. Sia all’interno del territorio ucraino stesso, sia come partner credibile nei confronti dei paesi europei. Questi due aspetti sono funzionali ad uno scopo ben preciso: poter esercitare maggior peso durante le trattative con la Germania e l’Unione Europea, volte alla risoluzione della crisi. Trattative in cui Putin si aspetta di ottenere quante più garanzie possibili sul futuro dell’Ucraina, sul ruolo che la Nato avrà in questo paese. Così come punta a veder riconosciute ampie garanzie sugli spazi di manovra che Mosca vorrà riservarsi, come prerogativa, sul futuro ucraino.
    Tuttavia Putin, in queste trattative, parte perdente. Questo Putin lo sa, chiaramente. Il suo sogno di fare della Federazione Russa un nuovo centro strategico nei confronti di Stati e potenze minori è fallito. Naufragato ad occidente, con pochi superstiti. Uno di questi è la Bielorussia, ormai rimasta sola, con un semplice salvagente che non le permetterà di restare a galleggiare di fronte ai prossimi cambiamenti europei. Fallito perché ancora una volta Mosca è dovuta ricorrere ai suoi blindati, alla forza, la forza bruta. Uno strumento, quest’ultimo, che può anche risultare funzionante nell’immediato, ma che usato nel contesto occidentale contemporaneo appare sempre più come uno strumento vecchio, un “ferro arrugginito”. Soprattutto se  viene visto nelle mani chi voleva fare del proprio paese una potenza, dotata di una valida capacità attrattiva nei confronti di altri Stati della regione euroasiatica.
    L’uso della forza oggi, da parte di Mosca, appare come una mannaia nelle mani di un chirurgo. Allontanerebbe chiunque. Esattamente ciò che sta accadendo in queste ore. In molti Stati minori, all’interno dell’orbita della Federazione Russa, si registrano preoccupanti reazioni di fronte alla vicenda Ucraina. Di fronte al fatto, evidente, che la propria libertà finisce dove gli interessi della Russia hanno inizio. Il presidente russo è già stato sconfitto. Il suo progetto, il suo disegno del ruolo che la Federazione Russa avrebbe dovuto ricoprire nel mondo, agli inizi del XXI secolo, è fallito. Il suo paese non è in grado di esercitare nessuna pressione differente da quelle derivanti dal ruolo di semplice fornitore di risorse energetiche, materie prime e armi. La Russia non ha espresso nessun modello economico e culturale alternativo e, al tempo stesso, attrattivo nei confronti di altri Stati. Lo “spazio russo” rappresenta semplicemente un’alternativa per gli Stati che, non essendo integrati o integrabili in aree strategiche di altre potenze, non vogliono restare soli nel nuovo scenario internazionale.
    Putin ha perso l’Ucraina. Anche se dovesse riconquistarla interamente con l’uso della forza. Cosa che, quasi certamente, si guarderà bene dal fare. Tratterà quindi una soluzione con la Merkel, ma tratterà da perdente. Putin, in queste condizioni, può solo puntare al raggiungimento di un momentaneo pareggio, illusorio. A molti osservatori è sfuggito il fatto che questa è la più grave crisi europea dal dopoguerra ad oggi. Probabilmente la più grave, dal punto di vista internazionale, dalla crisi dei missili di Cuba. A molti è anche sfuggito il fatto che i fattori per una ulteriore destabilizzazione regionale, e un ulteriore deterioramento della crisi, ci sono tutti. Una grande potenza in declino, obbligata ad affidarsi all’uso della forza, lo scenario internazionale frammentato, una grave crisi della legittimità nel contesto internazionale, una crisi del multilateralismo, la crisi dell’ordine nella società internazionale, una crisi economica con pochi precedenti. E un leader non incline a compromessi. Il presidente russo è già stato sconfitto. Non serve umiliarlo. In queste condizioni è logico offrire a Putin un pareggio, dietro al quale possa nascondere l’irrecuperabile sconfitta. Offrire alla Russia una soluzione accettabile. Al più presto.
    (Lorenzo Andorni, “Nella crisi ucraina Putin entra sconfitto, ma da sconfitto non vorrà uscirne”, dal blog di Aldo Giannuli del 4 marzo 2014).

    I balaclava coprono i volti dei giovani soldati russi di stanza in Crimea. Soldati che in queste ore ultimano l’occupazione dei centri nevralgici della penisola, aiutati da alcuni “volontari” locali. Ironia della sorte, i copricapi che nascondono i loro volti portano il nome dalla città di Balaklava, oggi parte della municipalità di Sebastopoli. Teatro in passato di un’importante battaglia della guerra di Crimea. Battaglia che registrò la sconfitta dei russi. In una guerra che, non a caso, vide coinvolte le medesime regioni oggetto dei confronti odierni fra le potenze del XXI secolo e la Federazione Russa: il Mar Nero, il Caucaso, il Baltico, l’Est Europa. Regioni che trovano spazio nei libri di storia, e nella cronaca, ogni qual volta viene posto in essere il tentativo di contenere la Russia, e con essa i propri interessi strategici, entro i “propri confini”. Confini che ogni potenza ha percepito, e percepisce, come differenti. Secondo i propri interessi.

  • Una testa, un voto: solo nel proporzionale c’è democrazia

    Scritto il 28/2/14 • nella Categoria: idee • (1)

    Nell’esperienza italiana, il proporzionale è la democrazia. Lo è sempre stato, del resto. Quando esistevano davvero dei democratici, le loro rivendicazioni fondamentali erano: suffragio universale e sistema proporzionale. Non era un metodo elettorale come un altro, ma una civiltà. Significava opporsi al sistema dei notabili, dei maggiorenti che si riunivano al Circolo dei Nobili, nella Loggia massonica o nell’ufficio del Prefetto, e designavano il candidato per il collegio, che avrebbe ottenuto il consenso dei possidenti e il sostegno delle autorità. Una minoranza che si trasformava in maggioranza escludendo le classi popolari o riducendo ai minimi termini la loro rappresentanza. Era la rivendicazione naturale dei partiti popolari con una visione nazionale (o anche internazionale) che andasse oltre la ristretta dimensione localistica, contro la piccola politica ridotta a pura gestione di clientele e favori nel proprio collegio.
    Nell’unica occasione in cui nel Regno d’Italia si votò con il proporzionale, imposto nel 1919 dalla situazione postbellica, dall’ingresso forzato delle masse nella vita dello Stato e voluto anche dall’unico presidente del consiglio che si fosse autodefinito “democratico”, Francesco Saverio Nitti, il mondo rivelato da quelle elezioni sovvertiva tutte le raffigurazioni ufficiali e usuali. Era un’Italia in cui socialisti e cattolici erano la maggioranza del paese, e i liberali una minoranza. Contro quel mondo venne mossa una guerra dura e spietata, sanguinosa, e la conquista del proporzionale venne presto schiacciata. Ma va ricordato che nelle elezioni del 1924 con la fascistissima legge Acerbo entrarono comunque in Parlamento il Psu con 5,90% e 24 deputati, il Psi, 5,03%, 22 deputati e il Pcd’I, col 3,74% e 19 deputati. Ai reazionari seri importava prendere a tutti i costi il premio di maggioranza (con le buone e soprattutto con le cattive) ma non c’erano le soglie di sbarramento all’8% o al 12% del bipolarismo straccione del nostro tempo.
    Dal 1945, con la conquista della democrazia e del suffragio realmente universale (maschile e femminile) il proporzionale divenne il naturale metodo di formazione del Parlamento. Non si trova indicato nella Costituzione perché implicito nella Costituzione stessa e nei suoi principi ispiratori. L’unico tentativo di stravolgere la democrazia parlamentare fu l’approvazione nel 1952 della “legge truffa”, definita tale per tre motivi: 1) non voleva assicurare governabilità, ma spadroneggiamento, perché andava a chi aveva già raggiunto la maggioranza assoluta; 2) era possibile da conseguire solo per il blocco di centro, perché le opposizioni socialcomuniste e fasciste non avrebbero mai potuto coalizzarsi; 3) e soprattutto dava un premio spropositato che consentiva alla maggioranza di cambiare la Costituzione a suo piacimento. Fallito di misura quel tentativo, sulla civiltà del proporzionale si è retta la Repubblica italiana nell’epoca delle sue maggiori conquiste sociali, civili, culturali.
    Preparata da una lunghissima campagna rivolta all’opinione pubblica e da una vera e propria demonizzazione della democrazia parlamentare, nel 1993 la forma della Repubblica è stata cambiata surrettiziamente attraverso un referendum demagogico che minava alla base la struttura della nostra democrazia. Da allora i voti dei cittadini non valgono tutti allo stesso modo. Il maggioritario ha scardinato il principio della rivoluzione francese “una testa, un voto”. Il popolo è stato convinto di eleggere direttamente un governo e un premier, nella “Costituzione reale” che si è sovrapposta alla Costituzione scritta. E’ una convinzione profondamente radicata, dopo vent’anni di maggioritario, di ideologia o addirittura di “religione” ad esso espirate. Un popolo di sudditi pensa che la democrazia consista nell’investire di un potere quasi assoluto un caudillo.
    Tutti hanno potuto constatare il crollo verticale di credibilità e di rappresentanza che la politica ha vissuto negli ultimi vent’anni. Eppure persistono leggende radicatissime che demonizzano la “prima Repubblica”. C’erano troppi partiti, si dice. Erano mediamente sette: nulla a che fare con gli oltre quaranta raggruppamenti censiti all’epoca dei governi di Silvio Berlusconi. C’erano piccoli partiti, si dice. C’era qualche piccolo partito, dignitoso e pieno di storia, come il partito repubblicano di La Malfa: nulla a che fare con gli “amici di Mastella”, i “responsabili” di Scilipoti e via dicendo. Cambiavano troppi governi, si dice, vero, ma si dimentica la sostanziale continuità di un sistema politico che ha avuto pochissime svolte nell’arco della sua esistenza. Se si fosse voluto veramente ovviare a questo problema si poteva inserire in Costituzione il principio della sfiducia costruttiva, che garantisce la stabilità della più solida democrazia europea, quella tedesca, che era – con molte differenze – anche la più vicina al nostro ordinamento.
    E a proposito di sistema tedesco, va ricordato come, nel suo totale analfabetismo istituzionale, Matteo Renzi abbia dichiarato più volte che è inconcepibile che la Merkel pur avendo vinto le elezioni sia stata costretta a fare “inciuci” con le opposizioni. Ma si chiama democrazia parlamentare, non è la “Ruota della Fortuna”, per governare devi avere una maggioranza in Parlamento, e anche prima delle ultime elezioni la Merkel non aveva la maggioranza assoluta ma governava assieme ai liberali, ora scomparsi dal Parlamento. E non è vero che “in tutto il mondo” la minoranza che prende un voto in più delle altre si prende tutto il cucuzzaro, come ritiene il politico di Rignano sull’Arno: questa assurdità esisteva solo nel nostro sistema elettorale che la Corte ha dichiarato incostituzionale.
    Oggi dalla fossa biologica del maggioritario si levano voci preoccupate di opinionisti che ammoniscono a non tornare nella “palude del proporzionale”. L’ideologia del maggioritario, con l’invocazione di maggiore governabilità a scapito della rappresentanza, ricorda ormai un alcolizzato all’ultimo stadio che invoca sempre più alcool di pessima qualità invece di provare a disintossicarsi. Si usa dire, anche a sinistra, che il proporzionale renderebbe obbligatorie le larghe intese. Non è affatto vero: perché un sistema elettorale comporta scelte diverse da parte degli elettori, come si vide nell’Italia del 1919 (e come, in negativo, abbiamo visto nell’Italia del 1994), e un voto libero da assilli e ricatti di voto “utile” o coartato può finalmente rispecchiare il paese reale e dargli rappresentanza. Certo questo sistema richiederebbe comunque intese come è nella normalità della democrazia parlamentare, e richiederebbe capacità di far politica, di trovare mediazioni, di dare rappresentanza alla complessità della società.
    Temo che qui si aprirebbe una battaglia molto difficile, soprattutto a sinistra, dove la droga maggioritaria ha fatto perdere completamente la cognizione della realtà e dei rapporti di forza. Non riguarda solo il Pd, nato con una “vocazione maggioritaria” (che in genere è servita a creare maggioranze altrui), ma anche i cespuglietti subalterni che non sarebbero in grado di superare il quorum ma conducono vita parassitaria in simbiosi con l’organismo del partito maggiore. Basare tutte le obiezioni alla legge elettorale sul tema delle preferenze (una particolarità italiana che non esiste in quasi nessun paese europeo) rivela una debole ipocrisia, laddove sono in gioco temi molto più seri e gravi: rappresentanza della società, pluralismo politico, la stessa sopravvivenza di una democrazia parlamentare e costituzionale. Ma qui viene a galla l’equivoco che ha accompagnato tutte le mobilitazioni dell’autoproclamata “società civile” contro il Porcellum, che non si sono mosse contro lo stravolgimento della rappresentanza e il maggioritario in sé, ma in nome del ritorno al collegio uninominale dei notabili e degli accordi preventivi tra piccoli e grandi partiti. Ed è incredibile che oggi in Italia la battaglia di civiltà del proporzionale sia affidata al solo Beppe Grillo.
    Bisogna che qualcuno cominci a dire che non accetterà la legittimità di governi di minoranza, che i premi di maggioranza sono un furto di rappresentanza, che una legge elettorale che trasforma una minoranza in maggioranza è comunque una truffa, qualunque nomignolo latino si voglia dare a questo sopruso. I due partiti che si mettono d’accordo per spartirsi il Parlamento ed escludere milioni di cittadini dalla rappresentanza mettono assieme soltanto il 45% dei voti espressi: non possono pretendere di ritagliarsi un sistema elettorale su misura che escluda il resto del paese. Andiamo verso tempi difficilissimi, forse drammatici, per tutta l’Europa e anche e soprattutto per il nostro paese.
    Abbiamo bisogno di istituzioni che rappresentino tutti i cittadini, che non escludano nessuno, che riattivino un tessuto di solidarietà che è stato lacerato negli ultimi decenni. Abbiamo bisogno di veri partiti e non di comitati elettorali o formazioni personali, abbiamo bisogno di vera politica dopo vent’anni di ubriacature dell’antipolitica. Una legge elettorale l’abbiamo già, ed è quella disegnata dalla Corte Costituzionale. Chiamiamola Perfectum se è obbligatorio un nome latino. Si sciolgano le Camere e si vada a votare con quella: avremo un Parlamento che rispecchia realmente il paese e che sarà l’unico legittimato a cambiare la Costituzione, nelle forme previste dalla Costituzione stessa.
    (Gianpasquale Santomassimo, “Elogio del proporzionale”, da “Il Manifesto” del 29 gennaio 2014, intervento ripreso da “Micromega”).

    Nell’esperienza italiana, il proporzionale è la democrazia. Lo è sempre stato, del resto. Quando esistevano davvero dei democratici, le loro rivendicazioni fondamentali erano: suffragio universale e sistema proporzionale. Non era un metodo elettorale come un altro, ma una civiltà. Significava opporsi al sistema dei notabili, dei maggiorenti che si riunivano al Circolo dei Nobili, nella Loggia massonica o nell’ufficio del Prefetto, e designavano il candidato per il collegio, che avrebbe ottenuto il consenso dei possidenti e il sostegno delle autorità. Una minoranza che si trasformava in maggioranza escludendo le classi popolari o riducendo ai minimi termini la loro rappresentanza. Era la rivendicazione naturale dei partiti popolari con una visione nazionale (o anche internazionale) che andasse oltre la ristretta dimensione localistica, contro la piccola politica ridotta a pura gestione di clientele e favori nel proprio collegio.

  • Murgia: Sardegna libera, togliamo le basi alla guerra

    Scritto il 07/2/14 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Durante il dopoguerra, mentre tutti i comuni costieri sardi tendevano a raddoppiare la popolazione, il comune di Teulada la vedeva dimezzare, nonostante avesse alcune delle insenature più belle del Mediterraneo e una pianura nota come il Giardino, settemila fertilissimi ettari di paradiso agrario oggi ridotti a una landa devastata dai cingoli. I terreni furono espropriati e in molti casi ottenuti anche con l’inganno, quando ai contadini fu promesso – intanto che venivano caricati sui camion – che sui loro fondi sarebbe stata fatta la riforma agraria. “Piccola pesca”, un film di Enrico Pitzianti, racconta bene quel che rimane di questa piccola deportazione sconosciuta. Pino Cabras racconta così uno dei maggiori drammi della Sardegna: la cessione di un’enorme porzione di territorio che, dietro all’anonima formula della “servitù militare”, nasconde una geografia dell’orrore che oggi l’isola – con la candidatura della scrittrice Michela Murgia alle elezioni regionali del 16 febbraio – vorrebbe definitivamente archiviare.
    Si tratta di decine di migliaia di chilometri di costa, che si traducono in decine di migliaia di ettari di terreno. «Sono le superfici sottratte alla Sardegna per le attività militari, in una misura di gran lunga superiore al resto dei territori della Repubblica Italiana e senza paragoni in Europa», accusa Cabras, esponente di “Alternativa” e ora candidato nella lista “Comunidades”, per la coalizione “Sardegna Possibile” guidata dalla Murgia. «I poligoni militari dell’isola, oltre ai 14.000 ettari di servitù, occupano 24.000 ettari di demanio». Un record poco inviabile: «In tutte le altre regioni messe insieme si raggranellano appena 16.000 ettari». La Sardegna ospita il 60% dei poligoni gestiti dalle forze armate italiane. «La percentuale degli ordigni esplosi nelle esercitazioni sale all’80%, senza contare le esercitazioni di forze armate straniere».
    Per Cabras, «sono numeri da paese occupato». E gli effetti negativi non riguarano solo i poligoni: «Le polveri inquinanti viaggiano. Lo sa il vento. E in un paese occupato la regola è semplice: qui possono sperimentare in segreto ogni tipo di arma letale, affittando a caro prezzo le strutture». La verità: «Qui rimangono i veleni, ma i profitti volano via, altrove». I cosiddetti indennizzi? «Sono spiccioli, che d’ora in poi dovremo considerare un insulto». “Invasione” militare e vita civile: convivenza impossibile. Fino al 2010, Cabras ha fatto parte del comitato paritetico sulle servitù militari, un tavolo istituzionale Stato-Regione per tentare di armonizzare l’invadenza delle basi col riassetto del territorio. «Mi son reso conto che in Sardegna erano esigenze inconciliabili: troppe le pretese dei militari, e troppo il loro potere, mentre erano senza schiena i partiti sardi». Enorme l’impatto economico e ambientale: aree a perdita d’occhio e tutte “off limits”, sparuti controlli sui rischi ecologici, superfici sottratte ad attività economiche, popolazioni non coinvolte, patti segreti e accordi pubblici mai rispettati.
    Massimo punto dolente, il disastro ambientale attorno al famigerato poligono di Quirra, sospettato di diffondere polveri radioattive e tumori. Emerge dalle inchieste in corso: «Non c’è solo un problema di giustizia, ma una vera e propria emergenza». Quando la Germania fu riunificata, ricorda Cabras, ottenne un programma comunitario per la riconversione economica e sociale delle aree dipendenti dalle produzioni e dalle presenze militari. «Si trattava di vasti sistemi costruiti decennio dopo decennio, e furono riconvertiti in un tempo ragionevolmente breve, con consistenti risorse non solo nazionali. Perché internazionali erano state le cause di quel prolungato impatto militare». In un altro emisfero, a Portorico, la dismissione di un grande poligono ha comportato la creazione di un Fondo da centinaia di milioni di dollari. «Qualcosa di simile, e certamente molto più in grande, serve anche per la Sardegna, da subito».
    La chiusura della base per sommergibili nucleari Usa alla Maddalena «rappresenta il modo in cui non dovrebbe realizzarsi una vera riconversione». Caduta l’Urss, «sembrava più facile chiudere qualche base e allontanarci dall’Apocalisse nucleare». Viceversa, «la pressione militare non si allenta». Perché accade tutto questo? «È una catena lunga di fatti e luoghi che va dal Mediterraneo all’Asia centrale, fra guerre, disordini, nuovi posizionamenti geopolitici. Le basi Usa nel Vicino e Medio oriente sono cresciute anno per anno, la pressione sulla Russia è aumentata sempre di più, sin dentro il cuore dell’Asia, fino a un passo dal gigante risvegliato, la Cina, a sua volta avvisata che la pressione crescerà anche per essa». Per contro, Russia e Cina «danno segno di rispondere con un impressionante aumento delle spese militari e il rafforzamento della loro integrazione militare nella Shanghai Cooperation Organization». Il fatto però è che «il dio della guerra si vede scavare molta terra sotto i piedi dal dio del debito: gestire un impero costa, e le enormi spese militari stridono con i tagli in altri settori». La guerra costa troppo, e quindi «è il momento storico giusto per cambiare il posto della Sardegna nel mondo, a partire dalla funzione militare».
    I candidati di Michela Murgia si sono confrontati con gli attivisti che da anni si battono contro le basi e le servitù militari in Sardegna, nonché con i familiari delle vittime della “Sindrome di Quirra”. Risultato, un documento dal titolo esplicito: “La Sardegna toglie le basi alla guerra”. Il piano è pronto. Se Michela Murgia diventa presidente della Regione, la Sardegna – leggi alla mano – chiede la sospensione immediata delle attività militari nelle quali si sono registrate patologie. Poi convoca finalmente una commissione indipendente internazionale per quantificare i danni economici, sociali, ambientali, sanitari e culturali. Modalità da paese civile: la Regione si impegna a tutelare la cittadinanza anche con campagne informative sui rischi, e intanto apre una vertenza con le istituzioni italiane e internazionali per bonifiche, dismissioni e riconversioni. Infine, la Regione dovrà gestire i fondi per la bonifica dovuti dall’inquinatore attraverso la creazione di una filiera integrata per nuove opportunità economiche.
    In particolare, sottolinea Cabras, è fondamentale la realizzazione di un “audit” sui danni «accumulati in sessant’anni», così da individuare anche un quadro di reati da perseguire. «Pochi sanno che perfino gli stessi regolamenti Nato prescrivono che si bonifichino le aree interessate dopo ogni esercitazione. In Sardegna non sono mai stati applicati, generando un cumulo abnorme di bonifiche mai fatte». Si tratta di un fatto colossale, di portata internazionale. «Già da solo basterebbe a svelare l’insensibilità e la complicità criminale di intere classi dirigenti italiane, molto attente a piazzare nelle classi dirigenti sarde un solido sistema collaborazionista, a sua volta attento a spegnere, annacquare, diluire le proteste». Anche l’ultimo punto del programma merita molta attenzione: i progetti di recupero, riconversione e valorizzazione di siti militari dismessi. Sarebbero assegnati a vantaggio di imprese con piani coerenti e per finalità turistico-ricreative. Poi infrastrutture utili, riassetto del paesaggio, riqualificazione del tessuto urbano e ambientale.
    L’obiettivo è strategico: diversificare le attività economiche nelle zone dipendenti dal settore difesa, riconvertire l’economia e agevolare le imprese sane. «Sono impegni che può perseguire soltanto una Sardegna governata senza gli ingombri dei politici appiattiti sulle esigenze degli occupanti militari», insiste Cabras. Vero, qualche attivista “anti-basi” è finito nelle liste di Ugo Cappellacci e Francesco Pigliaru, ma resterà deluso: «Avrà una sorta di diritto di tribuna che consentirà grandi declamazioni in materia, ma in mezzo a un deserto», perché in realtà «non sposterà di un centimetro le coalizioni di Berlusconi e Renzi, che rimangono irremovibili macchine atlantiste, obbedienti agli ordini della Nato, e del tutto indifferenti ai nostri diritti». L’unica novità potrà venire dalla forza che acquisirà lo schieramento che si raccoglie intorno alla candidatura alternativa, quella di Michela Murgia, apprezzata autrice di besteller italiani come “Accabadora” e “Il mondo deve sapere”, da cui Virzì ha tratto il film “Tutta la vita davanti”. «La Murgia – scrive Angelo Guglielmi – è riuscita a sciogliere in poesia i materiali della tradizione senza imbolsirli». Ora siamo all’ennesima prova della verità: e a parlare saranno i sardi. «Sono nata in Sardegna – dice lei – e per quanti indirizzi abbia cambiato in questi anni, dentro non ho mai smesso di abitarla, sognandola indipendente in ogni accezione del termine». Indipendente, libera dalla “servitù militare” che la opprime.

    Durante il dopoguerra, mentre tutti i comuni costieri sardi tendevano a raddoppiare la popolazione, il comune di Teulada la vedeva dimezzare, nonostante avesse alcune delle insenature più belle del Mediterraneo e una pianura nota come il Giardino, settemila fertilissimi ettari di paradiso agrario oggi ridotti a una landa devastata dai cingoli. I terreni furono espropriati e in molti casi ottenuti anche con l’inganno, quando ai contadini fu promesso – intanto che venivano caricati sui camion – che sui loro fondi sarebbe stata fatta la riforma agraria. “Piccola pesca”, un film di Enrico Pitzianti, racconta bene quel che rimane di questa piccola deportazione sconosciuta. Pino Cabras racconta così uno dei maggiori drammi della Sardegna: la cessione di un’enorme porzione di territorio che, dietro all’anonima formula della “servitù militare”, nasconde una geografia dell’orrore che oggi l’isola – con la candidatura della scrittrice Michela Murgia alle elezioni regionali del 16 febbraio – vorrebbe definitivamente archiviare.

  • La grande truffa della storia, scritta dai vincitori

    Scritto il 12/1/14 • nella Categoria: Recensioni • (8)

    Alla fine bisogna sempre fare “i conti con la storia” e non sono mai conti facili: sono come gli esami che non finiscono mai. Quando Atene si liberò dei Trenta tiranni chiudendo uno dei periodi più foschi della sua storia (nel regolamento di conti che ne seguì Socrate fu messo a morte di fatto per collaborazionismo, altro che corrompere i giovani) fu promulgata una “legge bavaglio” che vietava di rivangare il passato, scriverne, rievocare. L’ordine regna ad Atene: il dibattito è chiuso – si stabilì – pena il collasso della società. Da noi, in Italia, non ci fu una legge, ma solo una canzone napoletana: “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto… Chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdammoce ‘o ppassato”. Quello di Atene dopo la dittatura dei Trenta è il più clamoroso esempio che Paolo Mieli porta nel suo ultimo libro “I conti con la storia” (Rizzoli) sul ventaglio di soluzioni possibili quando finisce un conflitto che riverbera odio, dolore e desiderio di vendetta.
    Ma davvero l’oblio è il medicamento da somministrare dopo ogni conflitto? No, si può fare anche il contrario, se i vincitori sono generosi patrioti. L’esempio è quello degli Stati Uniti che, dopo la fine della guerra civile a metà degli anni Sessanta del XIX secolo (proprio mentre l’Italia si unificava malamente), scelsero di includere i vinti, elevandoli al rango di co-fondatori della nuova nazione. Questo fatto, da noi poco noto, mi colpì molto quando vivevo negli Stati Uniti perché non ti aspetti quella quantità di monumenti, nomi di strade, memorial, che trasformano i nemici di un tempo in patrioti degni di onore. Sarebbe come se in Italia, dopo l’8 settembre 1943, i vinti repubblichini fossero stati promossi al rango di “patrioti avversari” co-fondatori della nuova Repubblica.
    Sappiamo come andò nella realtà. E a questo proposito Mieli affronta il caso di Giampaolo Pansa, famoso giornalista “di sinistra” che provocò una rottura verticale nel conformismo italiano, guidato dalla legge dell’oblio e, peggio, dalla legge della memoria asimmetrica dei vincitori. Ho sempre pensato che se la guerra l’avesse vinta la Germania, avremmo avuto poi infiniti musei e celebrazioni della memoria dei genocidi di Stalin e dei suoi campi di concentramento, e la Shoah sarebbe stata ignorata, o trattata come un fatto marginale su cui alcuni storici anticonformisti avrebbero sollevato il velo mezzo secolo più tardi. Il tabù infranto da Pansa vieta ai non fascisti di parlare del sangue dei vinti durante la guerra, ma poi anche delle esecuzioni pianificate per classe sociale nel “triangolo della morte” emiliano.
    Le imprese della Volante Rossa e le stragi successive alla Liberazione, che non furono lo strascico di «comprensibili vendette contro gli aguzzini», ma il passaggio dalla guerra contro tedeschi e fascisti repubblichini alle procedure per instaurare un regime comunista manu militari: ci volle il freddo realismo di Stalin e del suo impassibile portavoce Palmiro Togliatti per bloccare l’ondata insurrezionale, in nome del nuovo ordine nato a Yalta. La convenzione impose che di quei fatti nessuno dovesse più parlare e una lastra di piombo ateniese asfaltò ogni memoria e ogni verità. Nulla nelle scuole, nulla in tv. Degli effetti di quell’oblio sono stato io stesso testimone e vittima. Quando fui eletto nel giugno 2002 presidente della Commissione d’inchiesta sugli agenti russi in Italia (non soltanto le banali e oneste spie, ma anche agenti d’influenza) ebbi la candida idea di proporre ai post comunisti che occupavano la metà del nostro parlamentino un patto d’onore: sediamoci, dissi, intorno a un tavolo e lavoriamo insieme per voltare finalmente pagina, affrontando tutti i temi roventi del passato (la Commissione Mitrokhin era stata chiesta per primo da D’Alema quando la notizia di uno schedario russo reso pubblico fece impazzire la sinistra per le accuse reciproche di “collaborazionismo” sovietico).
    La condizione che pongo, aggiunsi, è che prima dobbiamo leggere tutti insieme e con accuratezza quella pagina, e poi voltarla. Ma avevo avuto torto: nessuno, da quella parte, aveva intenzione di condividere alcuna verità e di restituirla al Paese. La risposta che ebbi fu sprezzante: venne lanciata una campagna diffamatoria preventiva accusandomi di voler usare la Commissione «come una clava». La parola d’ordine lanciata da D’Alema sulla “clava” diventò una goccia cinese. I giornali russi fecero eco scatenando una campagna di derisione e di falsità contro la commissione del Parlamento italiano e i giornali si schierarono dalla parte della legge-bavaglio, certificando che io non potevo che essere un provocatore. Al mio informatore segreto Alexander “Sasha” Litvinenko fu inflitto il supplizio di Socrate con una pozione letale di moderna cicuta, l’isotopo Polonio 210. La legge di Atene dopo la cacciata dei Trenta era e resta in vigore. Per fortuna, Scotland Yard non ha mollato l’osso quanto a Litvinenko, ma questa è un’altra storia.
    E dunque, seguendo la linea de “I conti con la storia”, viene da chiedersi chi e che cosa scriverà fra un secolo, o fra cinquanta anni, sull’Italia di oggi, sui veleni della guerra civile a bassa intensità intorno a Berlusconi e all’antiberlusconismo. Ci penseranno gli storici? Secondo Mieli è possibile: la pratica dovrebbe essere gestita dagli storici nei tempi e modi necessari per spurgare le incandescenze emotive ed ideologiche a causa delle quali la storia è usata proprio come “una clava” dalla politica. Come dire che a un certo punto bisogna saper dire basta. L’Italia più di ogni altro Paese mostra quanto indigesto sia il proprio passato anche recente, su cui gli storici professionisti in fondo non possono granché: è un dato di fatto, ricorda, che la sua unità sia stata costruita su molte menzogne. I cittadini degli Stati preunitari dovettero rinnegare le loro identità precedenti raccontandosi a suon di urla e marcette militari di essere stati tutti da sempre ardenti patrioti italiani.
    Quando arrivò il momento, tutti diventarono entusiasti reduci della Grande Guerra, compresi i milioni che l’avevano avversata nelle piazze. Poi arrivò il momento in cui tutti si dichiararono fascisti da sempre e, subito dopo, antifascisti da sempre, quando si assistette all’improvvisa comparsa in ogni famiglia di indomabili zii e nonni anarchici, meglio se ferrovieri, che con eroica ostinazione avevano rifiutato la tessera del fascio. Nello stesso momento milioni di italiani dichiararono di aver salvato uno o più ebrei, che non erano più di cinquantamila. Alla caduta della Prima Repubblica non si trovava più un socialista craxiano o un democristiano del Caf a pagarlo oro: il camaleontismo opportunista continuerà ad essere l’elemento distintivo del carattere degli italiani, come aveva notato Leopardi. Quanti sono oggi i forconisti “da sempre”? E quelli che «mi ha telefonato Matteo» dopo anni in cui «mi ha telefonato Massimo» e l’ormai lontano «mi ha chiamato Bettino»?
    Si può davvero scrivere la storia con gente come questa fra i piedi? Mieli ne dubita. Tuttavia può capitare persino che gli storici, se possono alternare sulla testa il cappello dell’opinion leader oltre quello dello storico, abbiano l’opportunità di modificare il corso della storia come fece Mieli quando, direttore del “Corriere della Sera”, decise di pubblicare nel 1994 il famoso avviso di garanzia che provocò il ribaltone e la caduta del primo governo Berlusconi da cui fu generato il governo Dini, la conseguente sconfitta del centrodestra in Italia del 1996 costretto a una lunga apnea fino al 2001. Cito l’evento perché ho ragionevoli dubbi sulla neutralità degli storici. A complicare le cose ci si mettono pure figure retoriche e organismi reali che agiscono e interagiscono sui fatti come il “politicamente corretto”. L’ipocrisia ha poi perfezionato le sue armi con le agenzie delle Nazioni Unite e con i Tribunali internazionali a baricentro non occidentale che hanno come target finale Israele un po’ come la Procura di Milano punta a Berlusconi.
    Il “politicamente corretto” impedisce per esempio di dire che la tratta degli schiavi africani venduti, trasferiti in catene in America, dal Brasile ai Caraibi, dalla Martinica alle colonie britanniche, non fu fatta dai bianchi europei (mai dagli americani) ma dagli arabi che si servivano di tribù schiaviste di neri africani in un continente che praticava lo schiavismo da oltre mezzo millennio prima che arrivassero i bianchi a comperare insieme agli sceicchi. Ebbene, oggi ci sono Stati africani le cui leggi spediscono in galera chi osa dubitare che lo schiavismo africano sia stato un crimine dei bianchi colonialisti. Il libro di Mieli è una straordinaria e quasi infinita serie di narrazioni certificate autentiche e paradossali d’ipocrisie. È un libro fortemente anticonformista e sconvolgente.
    Se Calvino fa ardere vivo lo studioso della circolazione sanguigna Michele Serveto in combutta con l’Inquisizione spagnola (fascine verdi per il rogo e un collare di paglia cosparso di zolfo), che dire del grande cancelliere tedesco Bismarck (ammiratore del Risorgimento italiano) che ordinò di impiccare tutti gli abitanti maschi (compresi vecchi e bambini) della città di Ablis dove i francesi avevano catturato sessanta soldati tedeschi? L’ordine fu immediatamente eseguito senza che nessun avversario di Bismarck avesse nulla da ridire. La storia che Mieli viviseziona è quasi sempre falsificata dai vincitori: quando Hitler invase la Polonia nel 1939, il suo alleato e fervido ammiratore Stalin invase secondo gli accordi russo-tedeschi la Polonia da Est. L’Armata Rossa compì ogni sorta di violenza e crimini, senza contare lo scandalo della consegna reciproca fra svastica e falce e martello di rifugiati ebrei contro rifugiati anticomunisti sul ponte di Brest-Litovsk. Il risultato è che dopo la fine della guerra si conoscono solo i crimini tedeschi, non quelli sovietici.
    E ancora sui fatti di casa nostra: Mieli sostiene che i leghisti non hanno tutti i torti quando dicono che l’unità fu fatta in un modo che non aveva nulla a che fare con gli ideali risorgimentali che prevedevano un’Italia del Nord. Invece le cose andarono diversamente: gli inglesi mollarono il re di Napoli, la mafia e la camorra scesero in campo con Garibaldi e il re sabaudo, così come sarebbero scese in campo con gli americani che risalivano la penisola dalla Sicilia. Per due volte tenuti a battesimo dalla mafia, quale sorpresa di fronte a uno Stato in parte geneticamente mafioso? I conti con la storia non finiranno mai, è vero, ma bisogna pur cominciare a farli se vogliamo dare una mano non solo agli storici ma anche ai cittadini futuri per aiutarli, aiutarci, a guarire dalla genetica ipocrisia.
    (Paolo Guzzanti, “Dall’Unità a Berlusconi, la storia è un’arma politica”, da “Il Giornale” del 21 dicembre 2013. Il libro: Paolo Mieli, “I conti con la storia”, Rizzoli, 422 pagine, euro 19,50).

    Alla fine bisogna sempre fare “i conti con la storia” e non sono mai conti facili: sono come gli esami che non finiscono mai. Quando Atene si liberò dei Trenta tiranni chiudendo uno dei periodi più foschi della sua storia (nel regolamento di conti che ne seguì Socrate fu messo a morte di fatto per collaborazionismo, altro che corrompere i giovani) fu promulgata una “legge bavaglio” che vietava di rivangare il passato, scriverne, rievocare. L’ordine regna ad Atene: il dibattito è chiuso – si stabilì – pena il collasso della società. Da noi, in Italia, non ci fu una legge, ma solo una canzone napoletana: “Chi ha avuto, ha avuto, ha avuto… Chi ha dato, ha dato, ha dato, scurdammoce ‘o ppassato”. Quello di Atene dopo la dittatura dei Trenta è il più clamoroso esempio che Paolo Mieli porta nel suo ultimo libro “I conti con la storia” (Rizzoli) sul ventaglio di soluzioni possibili quando finisce un conflitto che riverbera odio, dolore e desiderio di vendetta.

  • L’Italia ha perso la guerra, la ricostruzione non ci sarà

    Scritto il 28/12/13 • nella Categoria: segnalazioni • (6)

    Quelle che abbiamo attorno sono le macerie di una guerra. Lo afferma senza giri di parole il centro studi di Confindustria descrivendo questa crisi, ovvero la più drammatica recessione della nostra storia, dopo il secondo conflitto mondiale. A partire dal propagarsi nel mondo degli effetti reali della crisi iniziata con i “sub-prime”, lo sfacelo dell’economia è paragonabile a una guerra per i danni e le macerie che ha lasciato dietro di sé. In pochi anni sono svaniti quasi due milioni di posti di lavoro. E la drammatica morsa creditizia, operata dal sistema bancario, continuerà ancora a lungo, almeno fino al 2015 nello scenario più negativo. «Otto anni di vacche magre, anzi, scheletriche», annota Eugenio Orso. La catastrofica recessione neocapitalistica sta dando segni di luce in fondo al tunnel? Attenti: se la “guerra” è finita, «il dopoguerra potrà essere altrettanto negativo e socialmente drammatico». Parlano le cifre: oltre 7 milioni di senza lavoro e quasi 5 milioni di poveri.
    Il tutto, scrive Orso in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, è condito da un crollo dei consumi delle famiglie che possiamo definire epocale: è la fine della tanto deprecata società dei consumi? Siamo appesi a un filo: le ostilità potrebbero riprendere improvvisamente, «a causa di un ennesimo shock orchestrato dalla grande finanza internazionalizzata». In quel caso, «la situazione potrà precipitare ulteriormente». Del resto, la debolezza strutturale del sistema-Italia, dal punto di vista sociale e occupazionale, si manterrà anche il prossimo anno. E il Pil, «se crescerà, crescerà di un’inezia, meno dell’uno per cento», per la precisione lo 0,7% secondo la Confindustria, che rivede a ribasso precedenti proiezioni. «La peggiore ipotesi, nel dopoguerra e a partire dall’anno nuovo, è che il rispetto degli “impegni” presi in sede europea implichi la rinuncia forzata a un punto di Pil, con conseguenze negative sul temutissimo spread e ricadute ancor più negative sulla società».
    Se anche la “guerra” fosse veramente finita, aggiunge Orso, se ne deduce che – in ogni caso – l’Italia è un paese sconfitto: «Abbiamo perso la guerra e soltanto ora ce ne siamo accorti». Potenza manifatturiera in Europa e nel mondo, l’Italia «è forse il grande sconfitto in Europa», anche se «non certo l’unico, perché l’area europeo-mediterranea esce complessivamente sconvolta dal conflitto, che pare continui in Grecia». Lo spettacolo è desolante: «Le macerie visibili, le distruzioni del tessuto produttivo, i segni dei continui “bombardamenti” neocapitalistici ed europoidi ci sono tutti», continua Orso. «Lungo le direttrici del Veneto e nei distretti industriali del nord», si moltiplicano «gli edifici industriali e i capannoni chiusi intorno ai quali già cresce un po’ di vegetazione, abbandonati all’incuria perché nessuno può riattivarli». Analoga disperazione nelle strade e nelle case: «Il proliferare continuo del numero dei poveri veri, dei mendicanti, di coloro che dormono nelle stazioni, sempre più sporche e prive di manutenzione, ugualmente lo dimostra. Case senza riscaldamento (e senza luce) sempre più numerose, perché la cosiddetta “economia della bolletta” ammazza le famiglie monoreddito». E attorno, «edifici pubblici e privati senza manutenzione, che fra qualche anno cadranno in pezzi».
    Ma non è tutto. «Le macerie morali, invisibili quanto le ferite che offendono lo spirito, sono forse le più difficili da rimuovere e le più insidiose». Secondo Orso, «per l’Italia ci sarà un lungo dopoguerra, interrotto forse una ripresa improvvisa del conflitto, con un ultimo “bombardamento” finanziario ordinato delle aristocrazie globali del danaro e della finanza». Ma attenzione: «Non è prevista alcuna ricostruzione». Questo gli analisti del centro studi di Confindustria non lo scrivono, ma lo lasciano intendere quando, con aridi numeri, cercano di prevedere i possibili scenari del dopoguerra. «Non ci sarà ricostruzione, come avvenne dopo la seconda guerra mondiale, dal 1947 agli anni cinquanta. Perché, a differenza di allora, la spietata “global class” finanziaria, perfettamente organica al neocapitalismo e senza problemi di coscienza, non prevede per il paese alcun “Piano Marshall”». Ovvero: «Le risorse del paese si saccheggiano, le sue strutture produttive si smantellano, la popolazione si spreme fino all’inverosimile, e poi si passa ad altro, ad altri “mercati”, ad altre “bolle”, lasciando dietro di sé solo macerie. Materiali e morali».

    Quelle che abbiamo attorno sono le macerie di una guerra. Lo afferma senza giri di parole il centro studi di Confindustria descrivendo questa crisi, ovvero la più drammatica recessione della nostra storia, dopo il secondo conflitto mondiale. A partire dal propagarsi nel mondo degli effetti reali della crisi iniziata con i “sub-prime”, lo sfacelo dell’economia è paragonabile a una guerra per i danni e le macerie che ha lasciato dietro di sé. In pochi anni sono svaniti quasi due milioni di posti di lavoro. E la drammatica morsa creditizia, operata dal sistema bancario, continuerà ancora a lungo, almeno fino al 2015 nello scenario più negativo. «Otto anni di vacche magre, anzi, scheletriche», annota Eugenio Orso. La catastrofica recessione neocapitalistica sta dando segni di luce in fondo al tunnel? Attenti: se la “guerra” è finita, «il dopoguerra potrà essere altrettanto negativo e socialmente drammatico». Parlano le cifre: oltre 7 milioni di senza lavoro e quasi 5 milioni di poveri.

  • Basta rigore, candidiamo Tsipras alla guida dell’Ue

    Scritto il 24/12/13 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Vorrei vedere l’alleanza dei paesi dell’Europa del sud all’interno dell’Unione Europea per affrontare gli Stati che impongono austerità. Si potrebbe mettere in minoranza la linea di Merkel. Una volta è stata messa in minoranza la linea Thatcher, quando è stato fatto l’euro. Ora può essere messa in minoranza la linea Merkel. Nel Parlamento Europeo si dovrebbe cercare l’alleanza con altri, come i Verdi tedeschi, che pongono la questione di un “Piano Marshall” per l’Europa. La candidatura di Alexis Tsipras può contribuire a creare una coalizione di tali forze in Italia, al Sud e in Europa? Una coalizione che superi lo spazio classico dei partiti della sinistra radicale radunando forze sociali più ampie? Questa è la speranza che abbiamo in Italia in un piccolo gruppo di persone. Vorremmo che in Italia ci fosse una lista civica, di cittadini attivi, una lista di persone della società civile che scelgono Tsipras come candidato alla presidenza della Commissione Europea.
    Non è semplice, perché abbiamo pochissimo tempo per creare qualcosa. Per farlo ci vorrà tutta l’intelligenza di Alexis Tsipras, come quella che gli ha permesso di formare una coalizione tra le anime della sinistra radicale greca. E’ chiaro che non dovrebbe essere una coalizione dei vecchi partiti della sinistra radicale, perché non avrebbe alcuna possibilità di successo. Abbiamo bisogno di qualcosa di più grande, qualcosa per scuotere la coscienza della società, con l’obiettivo di unire le forze della società colpite dalla crisi. Il confronto con l’Europa dell’austerità e della barbarie necessita di una maggiore convergenza delle forze sociali. In Grecia si usa il concetto di ricostruzione e rifondazione dell’Europa. Questo è esattamente l’obiettivo che abbiamo di fronte per presentare una candidatura di Alexis Tsipras in Italia e nell’Europa del Sud. Questa è la sfida. E’ come lasciare alle spalle una guerra, perché gli anni di austerità equivalgono ad una guerra. Soprattutto in Grecia. Dopo la guerra l’Europa è uscita con una voglia di ricostruzione, con un enorme entusiasmo, che dobbiamo ritrovare.
    L’Europa è nata dopo la guerra per finire le guerre e per lottare insieme contro la povertà. Il ragionamento dei fondatori dell’Europa, che per l’Italia sono Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, ha sostenuto che la povertà in Italia e nella Repubblica di Weimar ci ha portati al fascismo e al nazismo. Non è solo la questione di avere la pace invece della guerra, ma di avere lo stato sociale invece della povertà. Lo stato sociale è una protezione dalle guerre, così come la giustizia sociale. Ci possono essere periodi di crisi economiche, ma bisogna affrontarle tutti insieme e non con i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Per questo dobbiamo cambiare anche il nostro concetto di sviluppo.
    In queste elezioni europee i cittadini possono esprimersi con molta forza su quale sia la direzione in cui vogliono andare. La prima è di sostegno alla posizione dei “poteri forti”: la Troika e gli Stati più forti. Questa linea sostiene che l’Europa, così com’è oggi, va bene e che le terapie di austerità hanno successo. Perché questo si dice oggi, da Barroso alla Merkel. La terapia mortifera che è stata attuata ha avuto successo, perché la Grecia, la Spagna, il Portogallo, l’Italia e l’Irlanda hanno ormai il bilancio dei pagamenti in pareggio. Ma come diceva Keynes l’intervento è riuscito ma il paziente è morto. Una seconda linea di pensiero dice basta all’Europa, usciamo, perché l’euro è un disastro e un cappio al collo. La terza scelta è quella che ha fatto Alexis Tsipras. Io spero molto in una lista italiana per Tsipras per le elezioni europee, una lista che sostenga che dobbiamo imparare la lezione da quello che è successo: noi vogliamo l’Europa, ma la vogliamo radicalmente cambiata.
    In un certo senso penso che l’euroscetticismo sia una cosa benefica in questo momento, perché mette in questione una realtà che viene considerata apparente. Interroga la realtà, la mette in questione. Con la rielezione di Merkel alla cancelleria abbiamo visto due grandi famiglie politiche in Europa, i cristiano-democratici e i socialdemocratici, formare una “grande coalizione” per applicare l’austerità. I socialdemocratici sono stati assolutamente rinunciatari sul negoziato con la Merkel, anzi hanno ribadito di essere contrari a qualsiasi europeizzazione del debito. Questo è pericoloso. Il problema è che in tanti paesi d’Europa siamo purtroppo di fronte a “grandi coalizioni” di questo tipo, perché nessuno dei partiti può avere la maggioranza, cominciando dall’Italia, dove siamo in uno stato di immobilità a causa della “grande coalizione”. Vogliamo un’unione vera, come i padri fondatori l’hanno pensata. Un’Europa della solidarietà, con una Banca Centrale prestatrice di ultima istanza, una vera federazione.
    (Barbara Spinelli, dichiarazioni rilasciate ad Argiris Panagopoulos nell’intervista “Con Tsipras contro l’Europa dell’austerità”, pubblicata il 22 dicembre 2013 dal giornale greco “Avgi” e ripresa da “Micromega”).

    Vorrei vedere l’alleanza dei paesi dell’Europa del sud all’interno dell’Unione Europea per affrontare gli Stati che impongono austerità. Si potrebbe mettere in minoranza la linea di Merkel. Una volta è stata messa in minoranza la linea Thatcher, quando è stato fatto l’euro. Ora può essere messa in minoranza la linea Merkel. Nel Parlamento Europeo si dovrebbe cercare l’alleanza con altri, come i Verdi tedeschi, che pongono la questione di un “Piano Marshall” per l’Europa. La candidatura di Alexis Tsipras può contribuire a creare una coalizione di tali forze in Italia, al Sud e in Europa? Una coalizione che superi lo spazio classico dei partiti della sinistra radicale radunando forze sociali più ampie? Questa è la speranza che abbiamo in Italia in un piccolo gruppo di persone. Vorremmo che in Italia ci fosse una lista civica, di cittadini attivi, una lista di persone della società civile che scelgono Tsipras come candidato alla presidenza della Commissione Europea.

  • Lerner: Mario Caniggia, l’Italia che disse no all’orrore

    Scritto il 22/12/13 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Si è spento a Pozzengo, nella nostra Vallecerrina, il partigiano Mario Caniggia. Nel rendergli omaggio vi propongo l’introduzione che alcuni anni fa scrissi al suo libro di memorie sulla Brigata Monferrato. Adesso la fotografia della brigata partigiana “Monferrato” che entra vittoriosa a Torino il giorno della Liberazione, è appesa qui nella mia stanza di lavoro in cascina. Tra gli altri c’è lui, Mario Caniggia, ancora ragazzo ma reso uomo da un’esperienza di quelle che segnano la vita intera. E che spetta alla nostra comunità democratica tramandare di generazione in generazione. Ricordo ancora il pomeriggio assolato in cui un signore dai capelli bianchi si affacciò timidamente alla porta di casa. «Disturbo? Era da tanto tempo che non venivo qui. Eppure il posto mi è familiare, qui s’è sparato. I repubblichini tiravano col mortaio dall’altura di Odalengo Piccolo, un nostro compagno è stato ferito alla gamba, i tedeschi presidiavano il fondovalle…».
    Ho chiamato i miei figli perché lo ascoltassero e gli stringessero la mano, grati. Mario Caniggia era venuto da un paese vicino, Pozzengo, a testimoniarci la storia che nobilita il nostro territorio. Già sapevamo che le due case diroccate sul bricco della vigna, alle nostre spalle, erano il rifugio dei partigiani valcerrinesi. I vecchi le chiamano ancora così: le case dei partigiani. Un nome che la nostra famiglia s’impegna a mantenere vivo. Caniggia raccontava e gli si inumidivano gli occhi. Non aveva ancora compiuto diciotto anni quando fece la scelta del rischio e della coerenza, e gli toccò guardare in faccia la morte dei suoi compagni. Ma non solo: la morte per rappresaglia dei civili innocenti, come i capifamiglia e il parroco di Villadeati. Quella sua emozione si è trasmessa a noi stretti intorno a lui, ed è come se avesse permeato di sé le mura di cascina Bertana, gli ippocastani e il prato lì davanti, il ruscello, la collina… luoghi incantevoli che racchiudono una storia significativa, e dunque acquistano un valore da non disperdere.
    Dal giorno di quella visita indimenticabile, a ogni visitatore che viene anche da lontano io mi sento in dovere di raccontare quel che è stato. Per ricordare a me stesso e agli altri che il passaggio della libertà, la via stretta e dolorosa della lotta di liberazione dal nazifascismo, si sono realizzati solo grazie al fatto che tante persone semplici, perbene, hanno trovato in se stesse la forza di dire no all’indifferenza. Senza quel movimento dal basso, senza l’eroismo silenzioso di chi ha sentito come un dovere schierarsi contro un potere oppressivo, forse i nazifascisti sarebbero stati sconfitti lo stesso (ma chissà quando, dopo mesi o anni di ulteriori sofferenze). Senza i partigiani la società del dopoguerra non avrebbe potuto guardarsi allo specchio, digiuna di buoni esempi e di cultura democratica.
    Ogni tanto incontro ancora Mario Caniggia, magari la domenica mattina al mercato di Valle Cerrina. Delle volte par quasi che voglia scusarsi, con quel sorriso impacciato, del peso della storia di cui è portatore. Come se recasse fastidio a noi fortunati che siamo arrivati dopo, e percorriamo ignari lo stesso territorio. Come se noi avessimo il diritto di infischiarcene di quel che è stato, solo l’altro ieri, nel Monferrato Casalese così come in tante altre parti d’Italia. Dimenticare significherebbe ricadere nell’analfabetismo della coscienza. Insista, Mario Caniggia, finchè ne ha le forze. Faccia parlare questi luoghi per quel che di tragico hanno vissuto, perché altrimenti nulla potrà garantirci che l’oppressione liberticida, la discriminazione razziale, il terrore della rappresaglia, possano ripetersi.
    Quando Mario Caniggia mi ha consegnato il manoscritto della sua testimonianza sulla VII Divisione Autonoma “Monferrato”, insieme alla fotografia in cui si riconosce lui giovane partigiano Alì, l’ho letta d’un fiato. Sono rimasto colpito dalla sua sobrietà piemontese. Si trova qui un’interpretazione difficilmente contestabile a episodi tragici, come la strage di Villadeati, su cui di recente una storiografia scandalistica (Giampaolo Pansa) invano tenta di riaprire controversie. Sono lieto che l’Anpi di Alessandria abbia confermato il valore storico di questo memoriale, contributo prezioso a una storia del nostro territorio. E’ con orgoglio e gratitudine che ne raccomando ai giovani la lettura. Anche pensando al mio più caro amico, ebreo casalese, di vent’anni più anziano di me, che su queste colline ha trovato rifugio e salvezza grazie alla generosità di persone incapaci di voltare la testa dall’altra parte.
    (Gad Lerner, “In memoria del partigiano Mario Caniggia, Brigata Monferrato”, dal blog di Lerner del 15 dicembre 2013).

    Si è spento a Pozzengo, nella nostra Vallecerrina, il partigiano Mario Caniggia. Nel rendergli omaggio vi propongo l’introduzione che alcuni anni fa scrissi al suo libro di memorie sulla Brigata Monferrato. Adesso la fotografia della brigata partigiana “Monferrato” che entra vittoriosa a Torino il giorno della Liberazione, è appesa qui nella mia stanza di lavoro in cascina. Tra gli altri c’è lui, Mario Caniggia, ancora ragazzo ma reso uomo da un’esperienza di quelle che segnano la vita intera. E che spetta alla nostra comunità democratica tramandare di generazione in generazione. Ricordo ancora il pomeriggio assolato in cui un signore dai capelli bianchi si affacciò timidamente alla porta di casa. «Disturbo? Era da tanto tempo che non venivo qui. Eppure il posto mi è familiare, qui s’è sparato. I repubblichini tiravano col mortaio dall’altura di Odalengo Piccolo, un nostro compagno è stato ferito alla gamba, i tedeschi presidiavano il fondovalle…».

  • La crisi morde, ma la Cgil si rintana alla corte del Pd

    Scritto il 21/12/13 • nella Categoria: idee • (3)

    In un convegno organizzato dalla Fiom a Bologna Susanna Camusso ha affermato che lo sciopero generale non basta più. Siccome è difficile credere che con ciò la segretaria della Cgil volesse annunciare il passaggio a forme di lotta rivoluzionarie, è probabile che sia giusta la interpretazione che ne ha voluto dare la stampa: basta con lo sciopero generale. Ma quanti scioperi generali ha fatto la Cgil in questi ultimi anni? L’ultimo che tutti i lavoratori ricordano con rabbia è quello di tre ore per non fermare la riforma Fornero delle pensioni. Uno sciopero finto, fatto per circostanza e con la chiarissima intenzione di non procurare difficoltà al governo Monti appena insediato. Nessuno sentirà la mancanza di lotte come questa, fatte solo per far guadagnare spazietti nei telegiornali, lotte che i lavoratori hanno imparato a disertare. Gli ultimi scioperi di quattro ore di Cgil, Cisl e Uil, sparpagliati in giornate e territori diversi, sono stati semiclandestini. È fallito anche lo sciopero proclamato dalla Fiom in Emilia la scorsa settimana: poche centinaia di persone in piazza a Bologna.
    È colpa delle persone che non hanno più voglia di lottare? No, è colpa dei gruppi dirigenti sindacali, che proclamano lotte che servono solo a far vedere che si esiste e che hanno la sola funzione di creare frustrazione ed impotenza in chi le fa. Nella più grave crisi economica del dopoguerra la Cgil vivacchia tra un convegno e l’altro, senza pensare al conflitto vero, quello che i lavoratori son ancora disposti ad affrontare con grande coraggio, come hanno mostrato i tranvieri di Genova. Che questa Cgil sia ora spaventata e affascinata dalla nuova leadership del Pd è evidente e anche questo è un segno della sua profonda crisi. Accantonato e dimenticato il goffo tentativo della Spi di sostenere Cuperlo, ora tutto il gruppo dirigente della confederazione spera in una legittimazione da Renzi. Il più lesto è stato Maurizio Landini, che al convegno di Bologna si è ben guardato dal polemizzare con la segretaria della Cgil sugli scioperi, e invece ha parlato tanto del sindaco di Firenze. Che incontrerà nella sua città in un convegno tempestivamente organizzato dalla Fiom locale.
    Tra Camusso e Landini si è quindi aperta la gara a chi si presenti più innovativo e corrisponda di più al messaggio delle primarie del Pd. La grande informazione ha subito colto il segnale e si prepara a misurare i dirigenti della Cgil in termini di maggiore o minore affinità con il renzismo. Peccato che le due principali figure della Cgil si siano messe d’accordo di fare il congresso sulla stessa posizione, come se nel Pd non si fossero svolte le primarie e ci fosse stata una intesa preventiva di vertice sulla composizione dei gruppi dirigenti. In mancanza di un confronto trasparente sulla guida del principale sindacato italiano, la contesa andrà avanti a convegni e controconvegni, indici di gradimento, battute di corridoio. Naturalmente si potrebbe anche pensare che alla Cgil e ai suoi rappresentati converrebbe oggi allontanarsi dal Pd, principale partito dei governi che praticano quelle politiche di austerità che stanno devastando il mondo del lavoro.
    Converrebbe anche alla democrazia una Cgil che non lasciasse la protesta sociale ai forconi e che con i lavoratori, i disoccupati, i precari, i pensionati, provasse a bloccare il paese. Invece di rinunciare preventivamente ad uno sciopero generale che da tempo immemore non convoca più. Ma questo sarebbe accusato di essere il sindacato vecchio, vecchio come quello che, nel pieno della rivolta reazionaria di massa a Reggio Calabria, portava i metalmeccanici a sfilare nella città e così a cambiare il segno politico di quella protesta. Ma quello era il sindacato degli anni ‘70, quello che credeva nella funzione degli scioperi generali. Vuoi mettere quel vecchio modello sindacale con le infinite possibilità di cambiamento della realtà che oggi offrono la partecipazione a Ballarò o a Servizio Pubblico? Solo una minoranza di sognatori contrasta questo modo di fare sindacato in Cgil, e ha chiamato questa sua posizione: “Il sindacato è un’altra cosa”. Ma cosa volete che importi, c’è Renzi.
    (Giorgio Cremaschi, “Camusso e Landini alla corte di Renzi”, da “Micromega” dell’11 dicembre 2013).

    In un convegno organizzato dalla Fiom a Bologna Susanna Camusso ha affermato che lo sciopero generale non basta più. Siccome è difficile credere che con ciò la segretaria della Cgil volesse annunciare il passaggio a forme di lotta rivoluzionarie, è probabile che sia giusta la interpretazione che ne ha voluto dare la stampa: basta con lo sciopero generale. Ma quanti scioperi generali ha fatto la Cgil in questi ultimi anni? L’ultimo che tutti i lavoratori ricordano con rabbia è quello di tre ore per non fermare la riforma Fornero delle pensioni. Uno sciopero finto, fatto per circostanza e con la chiarissima intenzione di non procurare difficoltà al governo Monti appena insediato. Nessuno sentirà la mancanza di lotte come questa, fatte solo per far guadagnare spazietti nei telegiornali, lotte che i lavoratori hanno imparato a disertare. Gli ultimi scioperi di quattro ore di Cgil, Cisl e Uil, sparpagliati in giornate e territori diversi, sono stati semiclandestini. È fallito anche lo sciopero proclamato dalla Fiom in Emilia la scorsa settimana: poche centinaia di persone in piazza a Bologna.

  • Gallino: i partiti vogliono neoliberismo, non democrazia

    Scritto il 19/12/13 • nella Categoria: idee • (2)

    Oggi siamo ad un bivio: da un lato c’è la democrazia, dall’altro il capitalismo. È possibile avere l’una senza l’altro? È possibile un qualche tipo di accettabile conciliazione tra i due come nel trentennio dopo la seconda guerra mondiale? Lo sarà solo se alcuni milioni di persone si sveglieranno, insieme ai partiti politici. Oggi, probabilmente, una qualche soluzione è possibile. Altrimenti andremo verso un capitalismo senza democrazia o con forme davvero povere di democrazia. Susanna Camusso ammette che non è più sufficiente evocare lo sciopero generale? L’affermazione cerca di rispondere a una trasformazione epocale: la produzione è stata frammentata nelle catene globali del valore, e questo ha indebolito il potere dei sindacati e dei lavoratori. Un conto è quando uno sciopero interrompe la produzione in uno stabilimento, un altro è quando quella stessa produzione è divisa in dieci stabilimenti in quindici paesi. Il peso del singolo anello produttivo o aziendale è facilmente sostituibile: se un’azienda in Thailandia non funziona, si passa in India.
    I sindacati hanno capito come contrastare questa strategia? Non mi pare si sia fatto abbastanza. Lo sciopero è storicamente nato per recare danno ad un’impresa. Con la gravissima crisi in cui sprofonda l’Europa (e il mondo intero) è paradossale constatare che questa astensione conviene alle imprese che soffrono di un eccesso di capacità produttiva. Questa concomitanza ha ridotto il potere del lavoro. A ciò si aggiunge l’azione politica contro i sindacati che nel nostro paese reggono ancora in qualche modo, mentre in altri paesi le iscrizioni sono crollate. Ciò non toglie che i sindacati abbiano responsabilità non da poco nella loro difficolta a chiamare a raccolta i lavoratori. Scioperi come quelli auto-organizzati dai tramvieri a Genova hanno avuto un obiettivo specifico e importante: cercare di interrompere la folle corsa verso la privatizzazione, per modificare le politiche gestionali o per fare cassa, come è accaduto anche a Torino. Genova ha richiamato una notevole attenzione, anche se non mi pare abbia influito sul governo, il cui chiodo fisso è privatizzare.
    Contrapporsi oggi alle privatizzazioni significa battersi contro una forma di lotta politica che la classe dirigente del nostro paese conduce contro i beni pubblici, i beni comuni e la possibilità di partecipare in qualche modo alle decisioni politiche. In queste lotte, non mi pare che la Cgil abbia battuto con forza il pugno sul tavolo. Oggi non c’è più la domanda aggregata: anche per questo lo sciopero diventa un’arma spuntata. Nel frattempo, sembra definitivamente saltato il classico legame tra partito e sindacato, tra Cgil e Pd. Già ai tempi di Cofferati c’erano problemi, figuriamoci adesso che il rapporto è evanescente, visto che per quello che si sa, le proposte economiche e sul lavoro di Renzi vanno in direzione di un ulteriore allontanamento. Quel po’ di sinistra che esisteva nel Pd mi pare che dopo gli ultimi cambiamenti si sia ridotta ulteriormente. Il sindacato, parlo soprattutto della Cgil, ha bisogno di un partito a cui appoggiarsi. Se non c’è un riferimento culturale o politico, si ritrova solo. Con la segreteria di Renzi quel po’ di sostegno che nonostante tutto c’era nel Pd scenderà ulteriormente.
    Le lotte contro le grandi opere e per i beni comuni? Servono, figuriamoci. In più abbiamo la necessità di pensare a migliaia di piccole opere per ridare un certo pregio alle cose che sono degenerate negli ultimi anni. Però il loro impatto sulla dimensione strutturale del capitalismo non c’è o è molto pallida. Queste lotte hanno un’utilità per certi scopi specifici, come si è visto con il referendum sull’acqua, anche se poi i Comuni se ne sono infischiati. Lo si è visto nello sciopero dei trasporti a Genova dove il discorso sui beni comuni ha avuto un’incidenza. Bisogna però chiedersi perché i politici insistono per dare sempre più spazio alla vulgata neoliberale. Ci sono eccezioni, ma la maggioranza dei Comuni è dominata dall’ideologia neoliberale che domina nel governo e nei partiti politici, nessuno escluso, o quasi. Dunque, insieme alla ricerca di forme di protesta alternative bisogna partire da una battaglia culturale che contrasti l’ideologia dominante.
    (Luciano Gallino, dichiarazioni rilasciate a “Il Manifesto” per l’intervista “Se lo sciopero non basta più”, ripresa da “Megachip” il 12 dicembre 2013).

    Oggi siamo ad un bivio: da un lato c’è la democrazia, dall’altro il capitalismo. È possibile avere l’una senza l’altro? È possibile un qualche tipo di accettabile conciliazione tra i due come nel trentennio dopo la seconda guerra mondiale? Lo sarà solo se alcuni milioni di persone si sveglieranno, insieme ai partiti politici. Oggi, probabilmente, una qualche soluzione è possibile. Altrimenti andremo verso un capitalismo senza democrazia o con forme davvero povere di democrazia. Susanna Camusso ammette che non è più sufficiente evocare lo sciopero generale? L’affermazione cerca di rispondere a una trasformazione epocale: la produzione è stata frammentata nelle catene globali del valore, e questo ha indebolito il potere dei sindacati e dei lavoratori. Un conto è quando uno sciopero interrompe la produzione in uno stabilimento, un altro è quando quella stessa produzione è divisa in dieci stabilimenti in quindici paesi. Il peso del singolo anello produttivo o aziendale è facilmente sostituibile: se un’azienda in Thailandia non funziona, si passa in India.

  • Amoroso: via l’euro, se vogliamo democrazia in Europa

    Scritto il 02/12/13 • nella Categoria: idee • (3)

    Monete sovrane svalutabili, o sarà la fine: dobbiamo uscire immediatamente dall’euro, per salvare la nostra economia e ripristinare la democrazia in Europa. Lo sostiene l’economista italo-danese Bruno Amoroso: l’euro non è che un dogma smentito dai fatti, mentre in realtà rappresenta un fattore devastante di disgregazione. Prima ha spaccato l’Europa in due, opponendo i 17 paesi dell’Eurozona ai 10 rimasti fuori, e ora ha diviso la stessa Eurozona, scavando un solco incolmabile tra nord e sud. La disastrosa moneta della Bce? Con la sua rigidità «è la causa prima dell’attuale situazione di crisi del progetto europeo». Un piano oligarchico, i cui gestori oggi hanno “gettato la maschera”: il rigore promosso dalla Troika formata da Bce, Fmi e Ue non è altro che l’esecuzione, in Europa, dell’ideologia neoliberista imposta dalla globalizzazione, che comprime i diritti del lavoro e mortifica lo Stato sovrano, disabilitandolo come garante dei cittadini. Fiscal Compact, Patto di Stabilità: sono gli strumenti con cui l’oligarchia finanziaria ha deciso di metterci in crisi.

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