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Archivio del Tag ‘economia’

  • Referendum, Renzi e Jp Morgan ci cedono alle multinazionali

    Scritto il 16/6/16 • nella Categoria: idee • (1)

    Ridurre i costi della politica e accelerare i tempi di decisione. Sono i due obiettivi agitati da Renzi in vista del referendum sulla “rottamazione” della Costituzione, ma in realtà – ricorda Guglielmo Forges Davanzati – sono la traduzione perfetta dei diktat enunciati nel 2013 da un colosso finanziario come la Jp Morgan, che condanna l’impronta ancora “socialista” della nostra Carta, laddove lascia allo Stato anche funzioni di programmazione economica. Da Renzi, solo propaganda. Tagliare i costi della politica? «Non si capisce per quale ragione non farlo – in modo estremamente più semplice – attraverso l’attuazione delle numerosissime proposte di riduzione degli stipendi e degli emolumenti di chi ci rappresenta». I futuri senatori non saranno più pagati in qualità di membri del Senato? Vero, però «le medesime indennità le percepiranno dalle istituzioni da cui sono espressi». Costi, peraltro, «assolutamente marginali rispetto ai costi che i cittadini italiani (in particolare, i lavoratori dipendenti e le piccole imprese) sostengono per una tassazione che serve solo in misura marginale a pagare il ceto politico».
    L’attuale super-tassazione, continua Davanzati in una riflessione su “Micromega”, «serve semmai a generare avanzi di bilancio», prescritti dall’euro-politica Ue (pareggio di bilancio) che, di questo passo, “amazza” lo Stato impedendogli di investire e, di conseguenza,  stronca l’economia privata, aziende e famiglie. Tuttavia, nel confronto con la media europea, «ci troviamo di fronte al paradosso per il quale siamo maggiormente tassati per pagare più di altri una classe politica che, nella sua espressione governativa, ci somministra dosi di austerità fiscale (riduzioni di spesa combinate con aumenti della pressione fiscale) superiori a quanto accade altrove», scrive Davanzati. Quanto al secondo argomento sventolato da Renzi – la rapidità decisionale («apparentemente inoppugnabile: chi vorrebbe maggiore lentezza delle decisioni?») è quello più rilevante, «giacché attiene ai rapporti fra dimensione economica e sfera delle decisioni politiche». La Costituzione che si intende ridisegnare è «finalizzata a rendere l’economia italiana più attrattiva per gli investitori esteri», in coerenza con la logica della globalizzazione, che però «è in radicale contrasto con la tutela dei diritti, in particolare dei diritti sociali».
    Ecco dunque «la base teorica della riforma che si intende attuare: il passaggio, niente affatto neutrale, da un modello costituzionale pensato per la tutela dei diritti sociali, attraverso un incisivo intervento pubblico in economia, a un modello costituzionale pensato in una logica di perseguimento di obiettivi di efficienza economica, da perseguire mediante il minimo intervento pubblico in economia (si pensi, a riguardo, alla costituzionalizzazione del pareggio di bilancio)». Governabilità ed efficienza? «Non è affatto scontato che una maggiore rapidità dei tempi della decisione politica implichi un aumento dell’efficienza di sistema, obietta Forges Davanzati. «In altri termini, appare discutibile l’idea che, se anche il superamento di una Costituzione basata sulla tutela di diritti sociali si renda necessario per garantire la ‘governabilità’, quest’ultima produca benessere per tutti». Anche perché il decisore politico sarebbe facilmente “catturato” da gruppi di interesse, interessati al proprio business e non al benessere della comunità nazionale.
    Attenzione: «Esiste un’ampia letteratura economica che mostra come un fondamentale presupposto per la crescita risieda esattamente nella tutela dei diritti sociali e, a questi connessi, a una più equa distribuzione del reddito». Certo, si tratta di una letteratura «marginalizzata dal pensiero dominante e palesemente non funzionale all’attuale modello di sviluppo, basato semmai su crescenti diseguaglianze distributive e su quella che Luciano Gallino, nei suoi ultimi scritti, definiva la ‘lotta di classe dall’alto’». In questo senso, conclude Davanzati, il referendum di ottobre ha una notevole implicazione economica, visto che «pone in evidenza il fondamentale discrimine fra una visione della carta costituzionale come strumento di tutela delle fasce deboli della popolazione e una visione della stessa come dispositivo finalizzato alla governabilità per l’efficienza, laddove quest’ultima passa attraverso il superamento del modello di democrazia economica delineato nella Costituzione attualmente vigente».

    Ridurre i costi della politica e accelerare i tempi di decisione. Sono i due obiettivi agitati da Renzi in vista del referendum sulla “rottamazione” della Costituzione, ma in realtà – ricorda Guglielmo Forges Davanzati – sono la traduzione perfetta dei diktat enunciati nel 2013 da un colosso finanziario come la Jp Morgan, che condanna l’impronta ancora “socialista” della nostra Carta, laddove lascia allo Stato anche funzioni di programmazione economica. Da Renzi, solo propaganda. Tagliare i costi della politica? «Non si capisce per quale ragione non farlo – in modo estremamente più semplice – attraverso l’attuazione delle numerosissime proposte di riduzione degli stipendi e degli emolumenti di chi ci rappresenta». I futuri senatori non saranno più pagati in qualità di membri del Senato? Vero, però «le medesime indennità le percepiranno dalle istituzioni da cui sono espressi». Costi, peraltro, «assolutamente marginali rispetto ai costi che i cittadini italiani (in particolare, i lavoratori dipendenti e le piccole imprese) sostengono per una tassazione che serve solo in misura marginale a pagare il ceto politico».

  • Barnard: ciao Sanders, finto ribelle guidato da Wall Street

    Scritto il 13/6/16 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Obama non era ancora presidente, nel 2008, ma c’era «l’intero mondo delle belle anime con il cranio che gli scoppiava perché vinceva il negro di sinistra dopo il cattivo Bush». Chi l’aveva finanziato, Obama? Le mega-banche, scriveva Paolo Barnard, con largo anticipo, dopo aver studiato gli atti di Obama al Congresso negli anni precedenti, su armi, Israele e diritti civili. «Oggi sappiamo che ha travasato più soldi lui dal 99% all’1% di tutta la Storia d’America, e ha ucciso più veri negri innocenti lui di Reagan, Bush I&II, Clinton messi assieme». In altre parole: «Oggi anche le ponghe del Tevere sanno che Obama è stato il peggior presidente di destra finanziaria, baciapile dei miliardari e assassino internazionale della Storia d’America». E dopo Obama? Bernie Sanders. Stessa storia: ci caschiamo, puntualmente. Il primo a insospettirsi anche su Sanders fu proprio Barnard, nel 2015: non è tollerabile – scriveva – che un candidato alle presidenziali Usa risponda con slogan buonisti da “anima bella” a domande su equità fiscale, divario tra élite e classe media, tra paesi ricchi e paesi poveri del mondo. Superficiale ed evasivo anche sui bankster, i gangster delle banche, e sulle 14.000 basi americane nel mondo, con relative guerre in corso. Volta la carta, e scopri chi c’era dietro a Sanders.
    Sempre nell’autunno 2015, Barnard rivela che Sanders, nell’ottobre del 2011, mise insieme una squadra di economisti per portare avanti quello che certamente era il programma sociale «più socialista dai tempi di Rosa Luxemburg». Ma chi chiamò al suo fianco «per portare la salma di Marx alla Banca Centrale Usa»? E qui casca l’asino. Perché il primo nome è quello di Joseph Stiglitz: un neo-keynesiano “dimezzato”, «che crede che l’intervento del Deficit Positivo di Stato ci deve essere solo se il meraviglioso Mercato ha fatto errori». E poi Robert Reich: «Uomo di Bill Clinton, il presidente che ha creato le basi per la più devastante crisi economica dal 1929. Ma anche uomo di Obama (si legga sopra)». Quindi James Galbraith: «Un mezzo insulso keynesiano che quando poi ha fatto da consulente al governo di Atene sulla crisi mortale delle Austerità, non ha saputo che balbettare cazzate finite negli scoli dei greci. Ha preso parcelle ed è tornato a casa». E poi Lawren Mishel, uno che «braita che i Deficit di Stato sono insostenibili», e Nomi Prince, «un ex di Goldman Sachs, ex di Lehman, ex di ogni altra mega-banca di Wall Street. Commenti non necessari: come prendere un dirigente della Pfizer a sperare di promuovere l’omeopatia».
    Nel team del “rivoluzionario “ Sanders, anche William Greider: «Volenteroso critico delle Banche Centrali, ma totalmente ignaro di macro-economia dello Stato». Senza contare «un gruzzolo di camomille economiche come Tim Canova, poi Robert Johnson, poi Gerald Epstein, Roger Hickey, Bob Pollin, e soprattutto il noto Dean Baker: tutti ‘belle anime’ che rigettano categoricamente l’idea che i Deficit Positivi di Stato sono in realtà la salvezza della Piena Occupazione, Sanità, Servizi, Istruzione, per tutti i cittadini», continua Barnard. Ma non è tutto. Sanders ha preso a bordo anche un uomo come Robert Auerbach, «che ha diligentemente servito tutte le moderne disastrose economie Usa sotto Paul Volker, Alan Greenspan e (conato) Ronald Reagan». Sicché: «Come una cariatide incrostata di Imperialismo Usa potesse stare vicino a Sanders, ce lo spiegherà Bernie». E si arriva al “peggio del peggio”, Jeffrey Sachs: «E’ il più schifoso falsario dell’economia Neoliberista e Assassina del mondo accademico, che mentre scrive libri su libri infarciti di ‘lotta alla povertà’, ha lavorato per decenni per devastare la vita di centinaia di milioni di polacchi e russi dopo il 1989».
    La sua “Shock Terapia”, continua Barnard, «portò la Russia a un’inflazione al 2.500% (no errori di stampa), quindi disintegrò l’ottimo risparmio privato russo che poteva salvare il paese, e portò la mortalità media dei russi a livelli afghani. Bravo Sanders, hai passato la seconda asilo?». Un «infame purè di economisti», da cui si salvano solo Stephanie Kelton, Randall Wray e Bill Black, della Mmt, Modern Money Theory. «Ma che cazzo contano in coda a questo drappello di nemici giurati dei Deficit Positivi e di super-affermati colossi politici? Zero, acquetta. Poi nessuna menzione di Warren Mosler, né allora né oggi». Nel 2011 «la scena fu talmente desolante, che non scrivo altro», chiosava Barnard l’anno scorso. «E non nutro nessuna speranza che tu faccia meglio questa volta, Sanders». Oggi sappiamo che Bernie non ce l’ha fatta, a battere Hillary. Niente paura: non abbiamo perso niente, chiarisce Barnard.

    Obama non era ancora presidente, nel 2008, ma c’era «l’intero mondo delle belle anime con il cranio che gli scoppiava perché vinceva il negro di sinistra dopo il cattivo Bush». Chi l’aveva finanziato, Obama? Le mega-banche, scriveva Paolo Barnard, con largo anticipo, dopo aver studiato gli atti di Obama al Congresso negli anni precedenti, su armi, Israele e diritti civili. «Oggi sappiamo che ha travasato più soldi lui dal 99% all’1% di tutta la Storia d’America, e ha ucciso più veri negri innocenti lui di Reagan, Bush I&II, Clinton messi assieme». In altre parole: «Oggi anche le ponghe del Tevere sanno che Obama è stato il peggior presidente di destra finanziaria, baciapile dei miliardari e assassino internazionale della Storia d’America». E dopo Obama? Bernie Sanders. Stessa storia: ci caschiamo, puntualmente. Il primo a insospettirsi anche su Sanders fu proprio Barnard, nel 2015: non è tollerabile – scriveva – che un candidato alle presidenziali Usa risponda con slogan buonisti da “anima bella” a domande su equità fiscale, divario tra élite e classe media, tra paesi ricchi e paesi poveri del mondo. Superficiale ed evasivo anche sui bankster, i gangster delle banche, e sulle 14.000 basi americane nel mondo, con relative guerre in corso. Volta la carta, e scopri chi c’era dietro a Sanders.

  • Ex sindaco di Londra: ricchi parassiti, felici di restare nell’Ue

    Scritto il 10/6/16 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Alla conferenza del partito Tory dell’anno scorso ho attirato l’attenzione su di una statistica preoccupante sul modo in cui sta cambiando la nostra società. È la proporzione tra lo stipendio medio dei top manager del Ftse100 e quello del suo dipendente medio – ribadisco, medio – in azienda. Questa proporzione sembra in fase di esplosione a un ritmo straordinario, inspiegabile e francamente sospetto. Platone diceva che nessuno dovrebbe guadagnare più di cinque volte di chiunque altro. Be’, Platone si sarebbe stupito dalla crescita della disuguaglianza aziendale odierna. Nel 1980 la proporzione era 1 a 25. Nel 1998 era salita a 47. Dopo 10 anni di Tony Blair e Peter Mandelson – e del loro atteggiamento “intensamente rilassato” nei confronti degli “schifosamente ricchi” – i massimi dirigenti delle grandi aziende britanniche guadagnavano 120 volte la retribuzione media dei dipendenti di basso livello. Lo scorso anno la proporzione è arrivata a 130.
    Quest’anno – stappando una bottiglia di champagne – i pezzi grossi hanno sfondato la barriera magica di 150. Il Ceo medio del Ftse100 si porta a casa 150 volte lo stipendio del suo dipendente medio – e in alcuni casi molto di più. Non usiamo mezzi termini: queste persone guadagnano così tanti più soldi degli altri nella stessa società, che volano su jet privati e costruiscono piscine sotterranee, mentre molti dei loro dipendenti non possono nemmeno permettersi di acquistare alcun tipo di casa. C’è un signore là fuori che guadagna 810 volte la media dei suoi dipendenti. Cosa sta succedendo? È solo avidità, o favori reciproci dei comitati di remunerazione? Non c’è dubbio che ci racconteranno, come sempre, che questi sono “i prezzi di mercato”. Ma ho notato un’altra cosa di questi uomini del Ftse100 (e ho paura che siano quasi sempre uomini): che sono sempre felicissimi di sfilare per Downing Street e dichiarare la loro eterna devozione verso l’Ue. Firmano entusiasticamente lettere ai giornali, spiegando come sia fondamentale che restiamo nell’Ue. Credono che l’Ue faccia bene al loro business.
    Ma come, esattamente? Il mercato unico è un microcosmo di bassa crescita. E’ cronicamente affetto da un elevato tasso di disoccupazione. I paesi dell’Ue sono gli ultimi della fila in quanto a crescita tra i paesi dell’Ocse; ed è incredibile che ci siano 27 paesi extracomunitari che hanno goduto di una crescita più veloce delle esportazioni di merci verso l’Ue della Gran Bretagna, a partire dall’avvio del mercato unico nel 1992, mentre 20 Paesi hanno fatto meglio di noi nell’esportazione di servizi. Far parte dell’Ue non è poi così conveniente per le aziende britanniche. Perciò che cosa piace dell’Ue a questi pezzi grossi? Sostanzialmente due cose. A loro piace l’immigrazione incontrollata, perché aiuta a mantenere bassi i salari dei lavori meno qualificati, e quindi aiuta a controllare i costi, e quindi ad assicurarsi che vi sia ancora più grasso da spartirsi per quelli che comandano. Un rifornimento costante di solerti lavoratori immigrati significa non doversi preoccupare più di tanto delle competenze o delle aspirazioni o della fiducia in sé stessi dei giovani che crescono nel loro paese.
    E in quanto clienti di Learjets e frequentatori di salotti esclusivi, essi non sono solitamente esposti alle tipiche pressioni causate dall’immigrazione su larga scala, come quelle sull’intrattenimento, sulla scuola o sugli alloggi. Ma poi c’è una ragione ancor più sottile – il fatto che l’intero sistema di regole Ue è così lontano dai cittadini e opaco che i pezzi grossi possono volgerlo a loro vantaggio, al fine di mantenere le loro posizioni oligarchiche e, tenendo lontana la competizione, spingere la propria busta paga ancora più in alto. Nel loro ottimo libro “Perché le Nazioni falliscono”, Daron Acemoglu e James A. Robinson spiegano come istituzioni politiche trasparenti siano essenziali per l’innovazione e la crescita economica. Distinguono tra le società “inclusive”, dove le persone si sentono coinvolte nelle loro democrazie ed economie, e società “esclusive”, dove il sistema è sempre più manipolato da una élite per proprio esclusivo vantaggio. L’Ue sta cominciando ad assumere alcune caratteristiche delle società “esclusive”. E’ dominata da un gruppo di pochi politici internazionali, lobbisti e affaristi.
    Queste persone si conoscono a vicenda. Essendo parti di grandi aziende, possono permettersi di assumere qualcuno per seguire le complesse regole che vengono da Bruxelles. Possono fissare appuntamenti coi responsabili delle Commissioni. Possono perfino incontrarli alle conferenze o agli eventi – il più famoso di questi è Davos. In questo senso, hanno un immenso vantaggio rispetto alla maggioranza delle aziende del paese. La maggior parte delle aziende (e in effetti la maggior parte degli inglesi) non hanno alcuna idea di chi lavori per la Commissione, o di come mettersi in contatto con queste persone, e non saprebbero distinguere i loro euro-parlamentari da dei marziani. Solo il 6% delle aziende britanniche in realtà esportano in Ue, e ciò nonostante il 100% di esse deve sottostare al 100% delle leggi Ue, che si tratti di aziende piccole o grandi – un peso normativo che costa circa 600 milioni di sterline alla settimana.
    La scorsa settimana ho visitato la Reid Steel, un’azienda britannica di successo a Christchurch, nel Dorset. Esportano acciaio per costruire ponti in Sudan, alberghi alle Mauritius, hangar di aerei in Mongolia. L’unica cosa che li frena, dicono, sono le regole Ue – generate attraverso un incomprensibile processo che coinvolge i lobbisti di grosso calibro, le grosse multinazionali e i governi di paesi stranieri. Non vedono l’ora di uscire dall’Ue, e hanno ragione. Pensano che le altre nazioni Ue stringerebbero rapidamente nuovi trattati commerciali. E che le aziende britanniche, liberate dalle catene europee, finirebbero per esportare in Europa di più anziché meno di quanto facciano ora.
    Naturalmente, i pezzi grossi del Ftse100 firmeranno per poter rimanere in Ue: a livello personale stanno diventando sempre più ricchi – sfruttando manodopera immigrata per le loro aziende e manipolando le regole Ue a vantaggio dei grandi attori, gli unici a poterle comprendere – mentre i meno fortunati hanno invece visto una diminuzione in termini reali delle loro retribuzioni. Questa è una delle ragioni per le quali la Ue ha una bassa innovazione, bassa produttività e bassa crescita. Se volete sostenere gli imprenditori, i faticatori, gli innovatori, i lavoratori, le imprese dinamiche e fiorenti dell’Inghilterra – allora votate per uscire dalla Ue il 23 giugno, e date a questi parassiti il calcio nel sedere che si meritano.
    (Boris Johnson, “L’Ue, uno strumento dei forti per sfruttare i deboli”, appello agli inglesi pubblicato su Facebook il 16 maggio 2016. Parlamentare inglese eletto tra i conservatori, Johnson è l’ex sindaco di Londra).

    Alla conferenza del partito Tory dell’anno scorso ho attirato l’attenzione su di una statistica preoccupante sul modo in cui sta cambiando la nostra società. È la proporzione tra lo stipendio medio dei top manager del Ftse100 e quello del suo dipendente medio – ribadisco, medio – in azienda. Questa proporzione sembra in fase di esplosione a un ritmo straordinario, inspiegabile e francamente sospetto. Platone diceva che nessuno dovrebbe guadagnare più di cinque volte di chiunque altro. Be’, Platone si sarebbe stupito dalla crescita della disuguaglianza aziendale odierna. Nel 1980 la proporzione era 1 a 25. Nel 1998 era salita a 47. Dopo 10 anni di Tony Blair e Peter Mandelson – e del loro atteggiamento “intensamente rilassato” nei confronti degli “schifosamente ricchi” – i massimi dirigenti delle grandi aziende britanniche guadagnavano 120 volte la retribuzione media dei dipendenti di basso livello. Lo scorso anno la proporzione è arrivata a 130.

  • Nessuno affronta davvero la crisi, così gli elettori non votano

    Scritto il 06/6/16 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Fino a ieri, la maggioranza votava per il meno peggio. Oggi, in assenza di vere alternative ai gestori della crisi, l’elettore medio non se la sente più di rassegnarsi all’impossibilità di soluzioni: quasi un cittadino su due, infatti, preferisce restare a casa piuttosto che accordare ancora una volta – a candidati deludenti – la solita mezza fiducia, concessa con estrema riluttanza. E’ il dato forse più sostanziale che emerge dalla tornata amministrativa del 5 giugno 2016, tra l’atteso successo dei 5 Stelle a Roma, il pareggio Sala-Parisi a Milano, la riconferma di De Magistris a Napoli, l’erosione del consenso di Fassino a Torino. La partita è gigantesca e si chiama crisi. Il primo orizzonte a oscurarsi è quello nazionale, precariamente presidiato da Matteo Renzi, ma in realtà lo spettacolo va in onda in mondovisione tra l’Europa del Brexit, il martirio a rate della Grecia, la guerra in Siria, i profughi, la devastazione economica indotta dal regime di austerity varato dall’Unione Europea attraverso l’Eurozona e le sue politiche volutamente recessive, a partire dalla prescrizione suicida del pareggio di bilancio.
    Nessuno, tra i principali candidati italiani delle amministrative, ha declinato in modo chiaro, a livello locale, l’opprimente quadro sovranazionale, da cui dipende anche la sofferenza quotidiana dei Comuni, a prescindere dal colore politico dei suoi amministratori di turno. Si preferisce affidarsi a storie più comode da raccontare, operazioni-trasparenza contro piccole cupole di potere, l’orgoglio degli sfidanti, la freschezza dei più giovani, l’entusiasmo degli esordienti contro il cinismo dei reggenti di lungo corso. Nulla, comunque, che abbia un’attinenza diretta e frontale col nocciolo del problema: e cioè la revoca – storica – di sovranità democratica, che condanna anche gli enti locali a fare i conti col poco che resta, tagliando servizi e spremendo i contribuenti a suon di imposte. Era il tema attorno a cui il “Movimento Roosevelt” creato da Gioele Magaldi aveva provato a lanciare, per Roma, la candidatura rivoluzionaria di un economista prestigioso ed “eretico” come il keynesiano Nino Galloni. Tesi: impossibile governare una città col vincolo del 3% sulla spesa, impossibile investire sul futuro e sul benessere collettivo se prima non si respingono al mittente tutti i diktat dell’Ue che, a cascata, dal governo centrale ricadono sui Comuni.
    Lo scenario post-elettorale resta dunque intermedio e transitorio, anche a prescindere dai ballottaggi: neppure dagli “spareggi”, infatti, potrà scaturire un’opzione alternativa di politica economica. In generale, si osserva un lento declino del gruppo oggi al potere – rappresentato dal Pd – che sconta le inevitabili difficoltà di un governo allineato a Bruxelles, cioè a Berlino. A Roma, a sparigliare le carte è ovviamente l’eredità del caso-Marino, in una città che comunque aveva vissuto una sostanziale alternanza, da Veltroni ad Alemanno – così come Milano, passata dalla Moratti a Pisapia. Torino resta un caso diverso, forse più interessante, perché dall’avvento del gruppo post-Pci, guidato da Castellani e poi Chiamparino, l’ex città Fiat era sempre rimasta compatta attorno alla sua compagine di potere, fino ad accettare un candidato come Fassino, proveniente dalla preistoria della Prima Repubblica. Ancora oggi Fassino arriva primo, ma – questa la novità – dovrà affrontare i rischi del ballottaggio. Non che la sfidante grillina intavoli un’alternativa strutturale, naturalmente: ancora una volta, il sistema euro-catastrofico non è in discussione. In compenso, si sgretola il fronte dei supremi guardiani di quel sistema, la ex sinistra cooptata dai super-poteri europei per far digerire agli italiani la grande crisi in programma, la fine dei diritti sociali, la disoccupazione come nuova normalità. Quel sistema sta franando, e lo dimostra la vastissima diserzione delle urne. Ma nessuna vera alternativa è ancora in campo.

    Fino a ieri, la maggioranza votava per il meno peggio. Oggi, in assenza di vere alternative ai gestori della crisi, l’elettore medio non se la sente più di rassegnarsi all’impossibilità di soluzioni: quasi un cittadino su due, infatti, preferisce restare a casa piuttosto che accordare ancora una volta – a candidati deludenti – la solita mezza fiducia, concessa con estrema riluttanza. E’ il dato forse più sostanziale che emerge dalla tornata amministrativa del 5 giugno 2016, tra l’atteso successo dei 5 Stelle a Roma, il pareggio Sala-Parisi a Milano, la riconferma di De Magistris a Napoli, l’erosione del consenso di Fassino a Torino. La partita è gigantesca e si chiama crisi. Il primo orizzonte a oscurarsi è quello nazionale, precariamente presidiato da Matteo Renzi, ma in realtà lo spettacolo va in onda in mondovisione tra l’Europa del Brexit, il martirio a rate della Grecia, la guerra in Siria, i profughi, la devastazione economica indotta dal regime di austerity varato dall’Unione Europea attraverso l’Eurozona e le sue politiche volutamente recessive, a partire dalla prescrizione suicida del pareggio di bilancio.

  • Dall’Ue al Ttip, l’atroce Europa filo-Usa creata per noi idioti

    Scritto il 04/6/16 • nella Categoria: idee • (6)

    Nel Regno Unito, dove vige maggiore libertà di informazione che da noi, il corrente dibattito sul referendum del 23 giugno sull’uscita dall’Unione Europea ha reso noto all’opinione pubblica il fatto, censurato sul continente europeo, che il progetto dell’unificazione europea è un progetto di Washington varato alla fine degli anni ‘40 per assicurare agli Usa il controllo politico-finanziario del continente a scopi geostrategici ed economici e la sua permanenza nell’impero del dollaro, cioè tra i paesi che continuano ad accettare il dollaro, anche se super-inflazionato e vacillante, e a comperare bonds in dollari anche se spazzatura e a partecipare a guerre e sanzioni volute da Washington anche se contrarie agli interessi nazionali. Notoriamente da decenni gli Usa sono un paese che vive essenzialmente sulle spalle degli altri, comprando a debito beni, materie prime e servizi, e facendo continue guerre per imporre l’accettazione di questo sistema di pagamento. E fra qualche tempo emergerà anche come gli Usa si stanno impegnando per soffocare lo sviluppo e la industrializzazione di fonti alternative e pulite di energia, che soppianterebbero il petrolio, il dollaro come moneta obbligatoria per comprarlo, e le guerre per il petrolio, che sostengono l’elefantiaca industria statunitense degli armamenti.
    Il progetto ha visto e vede in azione personaggi presentati come padri dell’Europa ma in realtà pagati e diretti da Washington, innanzi tutti Jean Monnet e Robert Schuman. L’idea di unione europea viene inizialmente proposta come comunità del carbone, dell’acciaio e dell’atomo, allo scopo di ingranare tra di loro le economie di Francia e Germania, così da prevenire fantomatici futuri conflitti tra esse. Poi quel primo organismo sviluppa una rovinosa politica agricola comune, diventa un’area di libero scambio; poi assume poteri legislativi e di controllo sempre più ampli sugli Stati nazionali; poi si fa Schengen, la Bce, l’euro, il Trattato di Lisbona che impegna a una crescente integrazione politico-istituzionale, poi il controllo centralizzato dei bilanci e delle banche, e via discorrendo, verso la creazione di un superstato europeo a direzione non democratica, non trasparente e irresponsabile (“non accountable”), con soppressione delle democrazie nazionali parlamentari in quanto “causa di guerre”.
    Il tory Boris Johnson, ex sindaco di Londra, nel suo intervento pro-Brexit, spiega che i due veri padri dell’Unione Europea, Monnet e Schuman, intendevano creare un senso di identità-solidarietà europea con un metodo della psicologia comportamentale, applicando un principio che era già stato osservato come efficace in altri contesti, cioè – nella fattispecie europea –  forzando permanentemente e crescentemente i diversi popoli europei a tenere comportamenti simili tra loro attraverso l’imposizione di regolamentazioni comuni, la moneta comune, l’inno comune, la bandiera comune; imporre un agire comune per far nascere un sentire comune. Decenni dopo, constatiamo che questo metodo ha chiaramente fallito, e ha anzi risvegliato contrapposti nazionalismi, poggianti su oggettive contrapposizioni di interessi soprattutto economici. Risorgono le frontiere, le economie divergono, crescono i movimenti anti-Ue. Ma persino davanti a tali fallimenti, l’oligarchia massonico-finanziaria, liberal-cosmopolita, insiste nel suo programma di unificazione forzata, imponendo crescenti cessioni di sovranità e crescenti sacrifici.
    Questa evoluzione sta comportando (senza che lo si dica e che si permetta ali popoli di decidere) radicali e surrettizie trasformazioni costituzionali nei vari paesi aderenti, che perdono la loro sovranità a quote crescenti e a vantaggio delle burocrazie centrali, non democratiche e non responsabili, dell’Unione Europea – burocrazie oscenamente strapagate, e tanto corrotte, parassitarie e inefficienti, che da vent’anni l’organismo europeo di revisione dei conti non firma i loro bilanci. L’unica volta che si è fatto un controllo, è scoppiato lo scandalo della Commissione Santer con la commissaria Edith Cresson. Poi hanno deciso che era meglio non controllare più! Incidentalmente: il potere legislativo, come praticamente ogni potere dell’Ue, risiede nella Commissione, non eletta e irresponsabile, che discute e decide in segreto, a porte chiuse, altroché fascismo!
    Ogni cessione di sovranità a questa burocrazia viene richiesta come condizione per sviluppo e sicurezza, ma l’Unione Europea è sempre più in crisi e sempre più in fondo alla graduatoria dell’Ocse in fatto di crescita –  stanno meglio solo i paesi che non hanno aderito all’euro. Questo il bilancio dell’unione e della sua moneta. Un bilancio che dovrebbe svegliare anche le menti più torbide e sognatrici. Solo gli idioti non riconoscono, a questo punto, che il progetto dell’Unione Europea non è mai stato rivolto al progresso e al benessere delle nazioni europei, bensì ad altri fini, a fini di dominazione, di controllo sociale. Informandoci, scopriamo che esso serviva e serve al dominio degli Stati Uniti sull’Europa attraverso un processo col quale il vassallo Germania è stato posto in una condizione di egemonia in Europa soprattutto mediante gli effetti dell’euro e delle politiche fiscali, che hanno prodotto e stanno producendo un forte e crescente indebitamento dei paesi periferici verso la Germania e hanno dato quindi a questa l’iniziativa politica, il controllo delle istituzioni comunitarie e il diritto di veto.
    La Germania impone, col pretesto di prevenire l’inflazione e di risanare i bilanci dei paesi Pigs, misure recessive, che generano un avvitamento fiscale con conseguenti calo del Pil, aumento del debito, accrescimento della sottomissione a Berlino, che diventa sempre più dominante. Invero l’euro non è una moneta unica, con un unico debito pubblico sottostante, ma un sistema di cambi fissi tra le precedenti valute, con debiti pubblici divisi, nel quale il regolamento delle transazioni internazionali si fa sostanzialmente mediante il rilascio di promesse di pagamento, cioè mediante indebitamento, delle singole banche centrali nazionali dei paesi a deficit commerciale verso quelli con attivo commerciale. I cambi fissi, impedendo l’aggiustamento fisiologico, cioè di mercato, dei rapporti valutare tra paesi con deficit e paesi con un surplus di bilancia commerciale, determinano un crescente deficit e un crescente indebitamento dei paesi meno efficienti soprattutto verso la Germania, ma anche una fuga di imprese, di capitali, di lavoratori e tecnici qualificati, così che la Germania si ritrova con enormi crediti che usa per comprarsi i pezzi più interessanti dei patrimoni e delle economie dei paesi indebitati – cioè trasforma i propri interessi attivi in beni reali dei paesi sottomessi. E l’Italia si ritrova non solo sempre più indebitata, ma sempre più deindustrializzata e sempre più abbandonata da giovani qualificati. Il crollo dei brevetti italiani è solo l’ultima riconferma di questo processo ultraventennale e strutturale di declino.
    Tale era il disegno europeista reale dietro l’europeismo di facciata concepito dai padri nobili per i figli scemi, dai padri che facevano leva su supposti sentimenti di fratellanza e solidarietà tra i popoli degli Stati europei, quando anche gli idioti sanno che, nella politica, soprattutto quella internazionale, le decisioni vengono prese per convenienza e calcolo, alla ricerca del vantaggio e della sopraffazione. Se teniamo presente questa realtà, non avremo alcuna difficoltà a capire per quale ragione tutte le innovazioni europeiste hanno avuto effetti contrari alle promesse. E per quale ragione ad ogni crisi causata da tali effetti, si è risposto che la cura era “più Europa”, più cessione di sovranità all’Unione, cioè a Berlino. Chi obietta, è estremista e populista, forse pazzo, quindi i suoi argomenti sono invalidi a priori, senza esame del merito, anzi non è nemmeno legittimato a parlare. Stile Stalin.
    La prossima innovazione, già in avanzato stadio di elaborazione, è il famoso Ttip, il trattato transatlantico di libero commercio, negoziato in segreto, senza che nemmeno i parlamentari possono fare copie delle bozze, e possono consultarle solo per due ore, sorvegliati dai carabinieri, senza poterne trascrivere brani, come recentemente denunciato dal sen. Tremonti. Perché questa segretezza ultra-dittatoriale? Per coprire gli interessi economici retrostanti e i loro progetti: col Ttip le multinazionali statunitensi potrebbero prendersi larghe fette dei mercati nazionali europei (soprattutto in Italia, ai danni dei milioni di piccole imprese che danno il grosso della ricchezza e dei posti di lavoro, e con vantaggio solo di quelle pochissime imprese, perlopiù grandi, di cui gli Usa importano i prodotti. Ossia: il Ttip sarà tutto a vantaggio delle esportazioni americane verso l’Europa e soprattutto verso l’Italia, e a danno dei piccoli produttori europei dai quali dipende il nostro livello di redditi e di occupazione.
    Le multinazionali americane potrebbero imporre la vendita in Europa senza etichette distintive di loro prodotti Ogm e in generale a rischio, potrebbero richiedere risarcimenti agli Stati che ponessero limiti allora affarismo quand’anche detti limiti siano giustificati da esigenze di tutte era della salute pubblica. Col Ttip disporrebbero anche, ciliegina sulla torta, di un tribunale sovranazionale praticamente organizzato da esse stesse, davanti a cui citare gli Stati dalle cui politiche e legislazioni si ritenessero danneggiate, per farli condannare a risarcire i danni da mancato profitto, e far pagare il risarcimento ai contribuenti. Anche quanto resta di libera ricerca e informazione medico-scientifica sarebbe tolto, perché contrario agli interessi del profitto. Molti economisti e giornalisti e politici in carriera, ipocritamente, dichiarano che il Ttip va bene, a condizione che la politica regolamenti l’affarismo. Ma ciò è proprio quel che il Ttip proibisce. E anche se non lo proibisse, la potenza di questo affarismo già controlla la politica.
    Se il Ttip passerà, e credo che passerà perché non vi sono in campo dinamiche capaci di contrastarlo, sarà la totale eliminazione, da parte del grande capitale finanziario, di ogni limite e di ogni valore che si opponga ai suoi calcoli e alle sue speculazioni, cioè la fine pratica dell’esistenza del principio politico e del principio legalitario, oltre che dei diritti dell’uomo. Rimarranno solo quelli degli investitori, come li chiama il Ttip, ossia del capitale finanziario. Sarà una riforma non semplicemente dell’economia, ma della società e dello stesso concetto di uomo, il quale sarà ridotto e considerato esclusivamente come componente dei processi finanziari. Il dominio Usa sull’Europa attraverso il processo di unificazione europea sotto il vassallo germanico serve ultimamente a questo.
    (Marco Della Luna, “Dall’europeismo al Ttip, un piano degli Usa”, dal blog di Della Luna del 24 maggio 2016).

    Nel Regno Unito, dove vige maggiore libertà di informazione che da noi, il corrente dibattito sul referendum del 23 giugno sull’uscita dall’Unione Europea ha reso noto all’opinione pubblica il fatto, censurato sul continente europeo, che il progetto dell’unificazione europea è un progetto di Washington varato alla fine degli anni ‘40 per assicurare agli Usa il controllo politico-finanziario del continente a scopi geostrategici ed economici e la sua permanenza nell’impero del dollaro, cioè tra i paesi che continuano ad accettare il dollaro, anche se super-inflazionato e vacillante, e a comperare bonds in dollari anche se spazzatura e a partecipare a guerre e sanzioni volute da Washington anche se contrarie agli interessi nazionali. Notoriamente da decenni gli Usa sono un paese che vive essenzialmente sulle spalle degli altri, comprando a debito beni, materie prime e servizi, e facendo continue guerre per imporre l’accettazione di questo sistema di pagamento. E fra qualche tempo emergerà anche come gli Usa si stanno impegnando per soffocare lo sviluppo e la industrializzazione di fonti alternative e pulite di energia, che soppianterebbero il petrolio, il dollaro come moneta obbligatoria per comprarlo, e le guerre per il petrolio, che sostengono l’elefantiaca industria statunitense degli armamenti.

  • Trump Show. In alternativa, la sinistra venduta alle banche

    Scritto il 03/6/16 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Dopo l’estate dell’umiliazione greca è arrivato l’autunno della migrazione respinta poi l’inverno della disgregazione europea e infine la primavera di Donald Trump. Non so se Trump vincerà le elezioni di novembre, non lo credo, anche se i sondaggi cominciano a dargli un vantaggio su Hillary Clinton. La sua ascesa trionfale va comunque interpretata. Partiamo da lontano. Agli operai tedeschi affamati e umiliati dall’aggressione finanziaria anglo-francese, Hitler disse: non siete operai sfruttati, ma ariani vincitori. Il nazionalsocialismo nacque da questo cambio di prospettiva. Non intendo dire che stia per ripresentarsi lo scenario degli anni ’30 (anche perché oggi le dimensioni di potenza sono ingigantite), ma intendo dire che la dinamica che portò il nazionalsocialismo al potere si ripresenta. Si ripresenta in contemporanea con un’esplosione dell’ordine che il bacino mediterraneo ha ereditato dal colonialismo. La coincidenza di stagnazione, impoverimento della classe operaia bianca euro-americana e deflagrazione dell’ordine geopolitico produce una forma inedita di nazionalismo aggressivo della razza bianca.
    La soggettività che si rappresenta in Trump, come nelle forze montanti della destra europea, è l’identità bianca che reagisce disperatamente al suo declino economico, demografico e geopolitico. Lo scenario rischia di divenire terrificante. Il 5 maggio, alle domande dei giornalisti sul trionfo di Trump alle primarie repubblicane, Obama ha risposto con la sua ironia intelligente di politico dell’età moderna: «Non stiamo parlando di entertainment, questo non è un reality show, è una gara per la presidenza degli Stati Uniti». Purtroppo Obama sbaglia, perché i confini tra politica e reality show non sono più quelli che conosceva la ragion politica moderna. La gara per la presidenza degli Stati Uniti è un reality show, e Obama è un personaggio dello show di cui Trump tende a diventare il regista.
    Gli italiani, che in fatto di anticipazione del potere autoritario hanno una lunga esperienza, hanno imparato a loro spese la lezione. Berlusconi si presentò con una campagna pubblicitaria fondata su due parole di origine calcistica: Forza Italia. I politici risposero che mica si trattava di entertainment, la politica non è uno spot pubblicitario. Il 27 marzo del 1994 Forza Italia vinse le elezioni e i confini della politica furono per sempre ridefiniti. I politici tradizionali pensano che la politica sia il discorso onnicomprensivo, e la pubblicità una dimensione discorsiva particolare. Berlusconi mostrò che la politica è divenuta una sottosfera, che dipende da una sfera pubblica mediatizzata. Il trionfo di Trump è politicamente inspiegabile perché coloro che sono andati a votare alle primarie e che andranno probabilmente a votare a novembre non appartengono al discorso politico ma alla media-sfera del reality show. Per questo molta più gente va a votare, e quella gente sa di trovarsi entro un reality show.
    Durante il suo viaggio asiatico, per rassicurare gli alleati giapponesi e riferendosi a opinioni espresse da Trump, Obama ha detto che «la persona che ha espresso queste opinioni non sa molto di politica estera o di politica nucleare e neppure del mondo in generale». Naturalmente Obama ha perfettamente ragione: Trump è totalmente ignorante sullo specifico storico, economico e antropologico delle questioni su cui si esprime. Ma quel che Obama sembra non (voler) capire è che l’ignoranza non è affatto un ostacolo sulla strada del potere contemporaneo. Gli americani hanno votato (due volte) un tizio che credeva che i Talebani fossero un gruppo rock prima di scoprire che volavano nel cielo americano in direzione delle torri di Manhattan. Quel tizio ha cambiato la storia del mondo iniziando una guerra infinita. Ciò che dobbiamo capire è che l’ignoranza è una potenza gigantesca, quando è guidata da umiliazione e disperazione.
    Le politiche neoliberiste hanno portato alla disperazione la grande maggioranza dei lavoratori bianchi occidentali. Questi non vogliono più sentirsi dire che sono operai sfruttati, da quando la sinistra si è messa al servizio delle banche. Come nel 1933 gli operai tedeschi votarono per chi li incitava a sentirsi bianchi ariani e purissimi, e indicava gli ebrei e i rom come nemici mortali – così oggi gli operai dell’Euro-America vogliono sentirsi dire quel che gli dicono Trump, Le Pen, Kazinski, Orban, Putin e Boris Johnson. Vogliono sentirsi dire che sono la razza superiore, e che per questo vinceranno chiudendo i migranti in un gulag di campi di concentramento diffusi lungo le coste sud. Oggi siamo tutti contenti perché in Austria i nazisti sono solo il 49.7%. E intanto l’agenzia finanziaria Morgan Stanley suggerisce ai governi europei di cambiare le loro leggi per rendere possibile una pieno funzionamento del mercato globale. Merkel Hollande, Renzi e Napolitano corrono ad eseguire il diktat delle banche. Aprono la strada al peggio. Lo sanno?
    (Franco “Bifo” Berardi, “Perché seduce il Trump Show”, da “Micromega” del 26 maggio 2016).

    Dopo l’estate dell’umiliazione greca è arrivato l’autunno della migrazione respinta poi l’inverno della disgregazione europea e infine la primavera di Donald Trump. Non so se Trump vincerà le elezioni di novembre, non lo credo, anche se i sondaggi cominciano a dargli un vantaggio su Hillary Clinton. La sua ascesa trionfale va comunque interpretata. Partiamo da lontano. Agli operai tedeschi affamati e umiliati dall’aggressione finanziaria anglo-francese, Hitler disse: non siete operai sfruttati, ma ariani vincitori. Il nazionalsocialismo nacque da questo cambio di prospettiva. Non intendo dire che stia per ripresentarsi lo scenario degli anni ’30 (anche perché oggi le dimensioni di potenza sono ingigantite), ma intendo dire che la dinamica che portò il nazionalsocialismo al potere si ripresenta. Si ripresenta in contemporanea con un’esplosione dell’ordine che il bacino mediterraneo ha ereditato dal colonialismo. La coincidenza di stagnazione, impoverimento della classe operaia bianca euro-americana e deflagrazione dell’ordine geopolitico produce una forma inedita di nazionalismo aggressivo della razza bianca.

  • Cannibali feudali: la Germania e il Fmi sbranano la Grecia

    Scritto il 31/5/16 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Essendo riusciti ad usare l’Ue per conquistare il popolo greco, trasformando il governo “di sinistra” di Syriza in un fantoccio delle banche tedesche, la Germania si ritrova ora il Fmi a intralciare il suo piano per saccheggiare la Grecia fino alla sua scomparsa. Le regole del Fmi impediscono a questa organizzazione di prestare soldi a paesi che non siano in grado di restituirli. Il Fmi ha quindi concluso, sulla base di dati e analisi, che la Grecia non è in grado di restituire i soldi presi in prestito. Quindi, il Fmi non è disposto a prestare alla Grecia i soldi che le servono per ripagare le banche private creditrici. Il Fmi sostiene che i creditori della Grecia, molti dei quali non sono nemmeno i creditori originali ma semplicemente avvoltoi che hanno acquistato il debito greco a prezzo di saldo nella speranza di specularci, devono tagliare parte del debito in modo da riportarlo a un ammontare che sia sostenibile da parte dell’economia greca.
    Le banche non vogliono che la Grecia sia in grado di ripagare il suo debito, perché intendono invece usare l’incapacità della Grecia di ripagare per saccheggiarla dei suoi asset e delle sue risorse e per distruggere la rete di protezione sociale costruita durante il ventesimo secolo. Il neoliberismo intende ristabilire il feudalesimo – pochi baroni e molti servi della gleba: l’1% contro il 99%. Per come la vede la Germania, il Fmi dovrebbe prestare alla Grecia i soldi con cui ripagare le banche tedesche. Poi il Fmi verrà ripagato forzando la Grecia a ridurre o abolire le pensioni di anzianità, ridurre i servizi pubblici e i dipendenti pubblici, e utilizzare le somme risparmiate per ripagare il Fmi. Poiché le somme risparmiate saranno insufficienti, nuove misure di austerità vengono imposte così che la Grecia sia costretta a vendere gli asset nazionali, come le società pubbliche di gestione dell’acqua, i posti e le isole greche protette, agli investitori stranieri, principalmente le stesse banche o i loro migliori clienti.
    Finora i cosiddetti “creditori” si sono impegnati solo in qualche forma di sgravio del debito, ancora indefinito, tra 2 anni. Per allora i giovani greci saranno emigrati e saranno stati sostituiti da immigrati che scappano dalle guerre di Washington in Medio Oriente e in Africa, che avranno appesantito il sistema di welfare greco già privo di fondi. In altre parole, la Grecia viene distrutta dalla Ue, un’istituzione così follemente sostenuta e apprezzata. La stessa cosa sta accadendo in Portogallo e si prepara ad avvenire in Spagna e in Italia. Il saccheggio ha già divorato l’Irlanda e la Lettonia (e un buon numero di paesi dell’America Latina) ed è in corso in Ucraina. Gli attuali titoli dei giornali che riportano l’accordo raggiunto tra il Fmi e la Germania riguardo il tagli del debito greco a un livello sostenibile, sono falsi. Nessun “creditore” ha dato il suo assenso al tagli di nemmeno un centesimo del debito. Tutto quello che il Fmi ha ottenuto dai cosiddetti “creditori” è un vago “impegno” per un ammontare sconosciuto di tagli del debito che avverrà tra 2 anni.
    I titoli dei giornali non sono altro che una vernice esterna, per coprire il fatto che il Fmi ha ceduto alle pressioni e violato le sue stesse regole. La copertura consente al Fmi di dire che un tagli (futuro e indefinito) del debito consentirà alla Grecia di renderlo sostenibile e, pertanto, il Fmi può prestare alla Grecia i soldi per ripagare le banche private. In altre parole, il Fmi è ormai diventato l’ennesima istituzione occidentale senza regole e il cui regolamento conta meno della Costituzione degli Stati Uniti o della parola del governo di Washington. I media continuano a chiamare il saccheggio della Grecia un “salvataggio”. Chiamare il saccheggio di un paese e del suo popolo “salvataggio” è proprio orwelliano. Il lavaggio del cervello è talmente riuscito che perfino i media e i politici della saccheggiata Grecia chiamano l’imperialismo finanziario che la Grecia sta subendo un “salvataggio”.
    Da ogni parte del mondo occidentale un gran numero di interventi, sia delle società che dei governi, stanno portando alla stagnazione della crescita dei profitti. Per poter continuare a fare profitti, le mega-banche e le società multinazionali si sono dedicate al saccheggio. I sistemi di sicurezza sociale e i servizi pubblici vengono messi nel mirino per essere privatizzati, e l’indebitamento così ben descritto da John Perkins nel suo libro, “Confessioni di un sicario economico”, viene utilizzato per preparare il terreno al saccheggio di interi paesi. Il capitalismo è entrato nella fase del saccheggio. Il risultato sarà la devastazione.
    (Paul Craig Roberts, “Il capitalismo è arrivato al saccheggio, la Germania all’assalto del Fmi”, da “Counterpunch” del 26 maggio 2016, ripreso da “Voci dall’Estero”).

    Essendo riusciti ad usare l’Ue per conquistare il popolo greco, trasformando il governo “di sinistra” di Syriza in un fantoccio delle banche tedesche, la Germania si ritrova ora il Fmi a intralciare il suo piano per saccheggiare la Grecia fino alla sua scomparsa. Le regole del Fmi impediscono a questa organizzazione di prestare soldi a paesi che non siano in grado di restituirli. Il Fmi ha quindi concluso, sulla base di dati e analisi, che la Grecia non è in grado di restituire i soldi presi in prestito. Quindi, il Fmi non è disposto a prestare alla Grecia i soldi che le servono per ripagare le banche private creditrici. Il Fmi sostiene che i creditori della Grecia, molti dei quali non sono nemmeno i creditori originali ma semplicemente avvoltoi che hanno acquistato il debito greco a prezzo di saldo nella speranza di specularci, devono tagliare parte del debito in modo da riportarlo a un ammontare che sia sostenibile da parte dell’economia greca.

  • Evans-Pritchard a Renzi: via dall’euro, se vuoi salvare l’Italia

    Scritto il 27/5/16 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    «L’Italia deve scegliere tra l’euro e la sua sopravvivenza economica». Lo scrive sul “Telegraph” il noto editorialista finanziario Ambrose Evans-Pritchard. «Il tempo stringe per l’Italia, bloccata in una deflazione da debiti e alle prese con una crisi bancaria che non può affrontare con i vincoli dell’unione monetaria. Dal picco della crisi – prosegue Evans-Pritchard – come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, il prodotto interno lordo si è ridotto del 9% e la produzione industriale del 25%. Ogni anno la percentuale del debito rispetto al Pil sale: 121% nel 2011, 123 nel 2012, 129 nel 2013, 132,7 nel 2015. Lo stimolo della Banca Centrale Europea svanirà prima che l’Italia riuscirà a uscire dalla stagnazione e il Fondo Monetario Internazionale, infatti, prevede una crescita di appena l’1% quest’anno. La finestra globale si sta chiudendo». Per il giornalista, «c’e’ il rischio concreto che Matteo Renzi arrivi alla conclusione che l’unico modo per restare al potere sia presentarsi alle prossime elezioni con una piattaforma apertamente anti-euro». Attenzione: un recente sondaggio di Ipsos Mori rivela che il 48% degli italiani voterebbe contro l’Ue o contro l’euro, se ne avesse l’opportunità.
    Il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, cui è attribuito un consenso del 28%, «invoca il default e il ritorno alla lira», scrive Pritchard, in un articolo ripreso da “L’Antidiplomatico”. In più, «la Lega Nord di Matteo Salvini considera l’euro un crimine contro l’umanità». Stando ai fatti: il tasso di disoccupazione è all’11,4%, mentre quello della disoccupazione giovanile raggiunge il 65% in Calabria, il 56% in Sicilia, il 53% in Campania. «Il tasso di natalità è al minimo storico. L’istituto di ricerca Svimez parla di uno stato permanente di sottosviluppo nel Mezzogiorno». Negli anni Novanta, continua Evans-Pritchard, l’Italia registrava un ampio avanzo negli scambi commerciali con la Germania, prima che fossero fissati i tassi di cambio e quando si poteva ancora svalutare. «In quindici anni l’Italia ha perso rispetto alla Germania il 30% di competitività sul costo di lavoro per unità di prodotto: dal 2000 la produttività è diminuita del 5,9%». I vari governi che si sono succeduti sono ovviamente «criticabili». Ma, per il giornalista, «la questione più rilevante è che oggi il paese non riesce a uscire dalla trappola».
    «A questa miscela combustibile – prosegue Evans-Pritchard – si aggiunge la crisi bancaria, che rivela la disfunzionalità dell’unione monetaria e peggiora di giorno in giorno: prestiti “non performanti” per 360 miliardi di euro gravano sui bilanci delle banche. La vigilanza esercitata dalla Bce ha peggiorato le cose e il Fondo Atlante potrebbe attirare sempre più banche nel pantano, aumentando il rischio sistemico». L’Italia? «E’ nel peggiore dei mondi possibili: a causa delle regole dell’Ue, non può prendere iniziative in piena sovranità per stabilizzare il sistema bancario e non esiste ancora un’unione bancaria degna di questo nome che condivida gli oneri». Per l’editorialista britannico, «Renzi ha di fronte una dura scelta: o dice alle autorità europee di andare all’inferno o resta a guardare impotente che il sistema bancario imploda e il paese precipiti nell’insolvenza». E visto che l’Italia non è la Grecia, «non può accettare la sottomissione». Tant’è vero che «tra i poteri forti dell’industria italiana qualcuno ormai sussurra che l’uscita dall’euro potrebbe non essere così terribile». Anzi: «Sarebbe l’unico modo per evitare una catastrofica deindustrializzazione».

    «L’Italia deve scegliere tra l’euro e la sua sopravvivenza economica». Lo scrive sul “Telegraph” il noto editorialista finanziario Ambrose Evans-Pritchard. «Il tempo stringe per l’Italia, bloccata in una deflazione da debiti e alle prese con una crisi bancaria che non può affrontare con i vincoli dell’unione monetaria. Dal picco della crisi – prosegue Evans-Pritchard – come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, il prodotto interno lordo si è ridotto del 9% e la produzione industriale del 25%. Ogni anno la percentuale del debito rispetto al Pil sale: 121% nel 2011, 123 nel 2012, 129 nel 2013, 132,7 nel 2015. Lo stimolo della Banca Centrale Europea svanirà prima che l’Italia riuscirà a uscire dalla stagnazione e il Fondo Monetario Internazionale, infatti, prevede una crescita di appena l’1% quest’anno. La finestra globale si sta chiudendo». Per il giornalista, «c’e’ il rischio concreto che Matteo Renzi arrivi alla conclusione che l’unico modo per restare al potere sia presentarsi alle prossime elezioni con una piattaforma apertamente anti-euro». Attenzione: un recente sondaggio di Ipsos Mori rivela che il 48% degli italiani voterebbe contro l’Ue o contro l’euro, se ne avesse l’opportunità.

  • Renzi senza vergogna, le mance come metodo di governo

    Scritto il 25/5/16 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Renzi ha deciso di portare a 160 i bonus per le famiglie sotto reddito e a 240 per quelle che hanno ameno due figli. Chiunque capisce che si tratta di una manovra per riconquistare i consensi nel mondo cattolico-tradizionalista dopo il trauma per le unioni civili, a seguito del quale i gruppi del Family Day hanno minacciato il No al referendum di settembre. Un modo per dire “sì, ho votato le unioni civili, ma l’ho dovuto fare perché me lo ha chiesto l’Europa, poi avevo pressioni nel partito, però, guardate, sono l’unico governo che pensa alla famiglia e incoraggia a far figli”. Manca solo il “premio di prolificità”. La manovra sembra troppo scoperta per poter funzionare. I cattolici, poi, non sono facili da prendere in giro. Il commento alla cosa in sé potrebbe finire qui, ma l’episodio ci dice più cose di quanto non sembri a primo colpo d’occhio e che meritano qualche riflessione sul “Renzi-pensiero”. In primo luogo ciò è molto illuminante sulla concezione renziana della democrazia: questo è il governo delle mance (bonus, voucher ecc., che pensa così di raccogliere il consenso).
    Mutatis mutandis, siamo in pieno laurismo. Per i più giovani che non l’hanno mai conosciuto, ricordo il “Comandante Achille Lauro”, leader monarchico napoletano, che distribuiva pacchi di pasta e scarpe agli elettori, ma solo scarpe sinistre e mezzi biglietti da mille lire prima del voto, quelle destre e l’altra metà dei biglietti da mille sarebbero stati dati solo dopo, se fosse riuscito eletto. Peccato che non abbiano ancora inventato i mezzi bonus o i mezzi voucher. In secondo luogo, ci fa capire la concezione economica renziana: c’è poca domanda interna? E lui distribuisce bonus, guardandosi bene da una politica fiscale organicamente diversa o di garanzie salariali. I ragazzi fanno lavoro nero? Lui non cerca di eliminarlo, ma di renderlo un po’ più sopportabile, distribuendo voucher. Ci sono problemi per l’industria libraria e culturale? Ecco il buono da 500 euro per l’acquisto di libri e  film. Insomma, le mance come metodo di governo: provvedimenti temporanei e ad hoc, mai interventi strutturali.
    E questo ci informa anche sulle sue concezioni sociali. Infatti, gli interventi strutturali poi generano diritti e garanzie, ma questo non produce consensi o forse lo fa per un momento e poi, acquisito il diritto, la gente vota come vuole. E questo non va bene, è meglio che la gente resti legata al bisogno. E dunque, niente diritti ma mance volta per volta. Mi chiedo come facciano gli ex militanti del Pci a non vergognarsi di stare in un partito che fa questa politica. La mossa di Renzi, però ci dice anche cose più contingenti. Ad esempio il segnale “familista” ai cattolici significa “vi ho fatti soffrire lo so, ma ora vi dimostro che abbiamo il valore comune della famiglia. Il che contiene un sotto-messaggio in codice: facciamo un accordo, voi votate Sì e del problema delle adozioni non se ne parla sino a fine legislatura”. E ci dice anche un’altra cosa: che la minaccia di votare No dei cattolici ha molto spaventato il fiorentino. Dunque, anche lui non è convinto di vincere il referendum con tanta facilità. E ha ragione, ma ne riparleremo.
    (Aldo Giannuli, “Renzi: le mance come metodo di governo”, dal blog di Giannuli del 16 maggio 2016).

    Renzi ha deciso di portare a 160 i bonus per le famiglie sotto reddito e a 240 per quelle che hanno ameno due figli. Chiunque capisce che si tratta di una manovra per riconquistare i consensi nel mondo cattolico-tradizionalista dopo il trauma per le unioni civili, a seguito del quale i gruppi del Family Day hanno minacciato il No al referendum di settembre. Un modo per dire “sì, ho votato le unioni civili, ma l’ho dovuto fare perché me lo ha chiesto l’Europa, poi avevo pressioni nel partito, però, guardate, sono l’unico governo che pensa alla famiglia e incoraggia a far figli”. Manca solo il “premio di prolificità”. La manovra sembra troppo scoperta per poter funzionare. I cattolici, poi, non sono facili da prendere in giro. Il commento alla cosa in sé potrebbe finire qui, ma l’episodio ci dice più cose di quanto non sembri a primo colpo d’occhio e che meritano qualche riflessione sul “Renzi-pensiero”. In primo luogo ciò è molto illuminante sulla concezione renziana della democrazia: questo è il governo delle mance (bonus, voucher ecc., che pensa così di raccogliere il consenso).

  • Da Regeni all’Airbus: demolire l’Egitto che si oppone all’Isis

    Scritto il 24/5/16 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Cade nell’Egeo il volo Parigi-Cairo, ma il primo missile lanciato contro l’Egitto si chiamava Giulio Regeni: «Sprovveduto frequentatore di ambienti dello spionaggio e della provocazione angloamericana, non si è reso conto fino a che punto quegli ambienti ti possono trasformare da amico del giaguaro in utile idiota, utilizzandoti nel primo ruolo e sacrificandoti nel secondo». E così, scrive Fulvio Grimaldi, Regeni è diventato il trampolino da cui far piombare sull’Egitto un uragano di anatemi tale da renderlo definitivamente infrequentabile. «Metrojet russo, Egypt Air, Regeni, più un paesaggio egiziano percosso da folgori e schianti fatti in casa da coloro cui è stato detto che, più sconquassano e massacrano, più li si favorirà a tornare al potere nell’ultimo Stato nazionale arabo (insieme all’Algeria) non frantumato, o ridotto all’obbedienza neocolonialista e neoliberista». Risultato: il turismo che dal 20% delle entrate scende a zero e sprofonda il paese in una catastrofe economico-sociale da cui si calcola potrà sognare di risollevarsi unicamente vendendosi.
    Con l’abbattimento dell’aereo russo s’è già persa una bella quota di quel 20%, continua Grimaldi sul blog “Mondo Cane”. «Extra bonus, uomo avvisato mezzo salvato, con riferimento a Putin e Al Sisi che al Cairo avevano firmato ampi accordi commerciali, militari e di investimenti». Della “bomba a grappolo Regeni”, «tutti si ostinano a ignorare il torbido romanzo di formazione negli Usa dell’intelligence e l’approdo alla società di spionaggio Oxford Analytica, diretta da tre specialisti del terrorismo su vasta scala: Mc Coll, già capo dei servizi britannici, David Young, ex-galeotto per il complotto Watergate e John Negroponte, sterminatore di civili in Centroamerica e Iraq con i suoi squadroni della morte. Le ricadute dell’ordigno umano sono state un’altra fetta di turismo andata e, soprattutto, un gigantesco business Italia-Eni-Egitto, attorno al più grande giacimento di gas del Mediterraneo, messo a repentaglio, forse definitivamente».
    Addio gas all’Italia e alla Francia. «Diversamente dall’orrido Tap (Trans Adriatic Pipeline) imposto da Shell, Obama e Renzi, che devasterà le coste del Salento e degraderà la Puglia in hub energetico europeo, ma che parte dall’amerikano e filo-Erdogan Azerbaijan (ultimamente meritevole anche per l’aggressione al filo-russo Nagorno), quel gas egiziano, insieme all’altro arabo dall’Algeria, pure malvisto, ci avrebbe dato un sacco di soddisfazioni energetiche senza deturpare nulla, ma anche senza mano Usa sul rubinetto». Sicché, «dopo aver spento la musica al valzer Egitto-Italia, era arrivato in sala da ballo il castigamatti dell’Africa francofona, il restauratore della mai dimenticata FranceAfrique in Costa d’Avorio, Mali, Niger, Ciad, Rca e giù giù fino al Gabon e oltre. Ma se al clown da circo dell’orrore, Hollande, il diversivo neocolonialista dai disastri nella metropoli poteva essere consentito nella FranceAfrique (dopottutto si muoveva anche nel nome della Nato), il suo precipitarsi in Egitto a concordare con Al Sisi la sostituzione del partner francese a quello italiano costituiva invasione di campo».
    Intollerabile, l’attivismo francese in Egitto, per gli anglosassoni, «inventori e poi padrini dei Fratelli Musulmani e dei loro apprendisti stregoni Daish». Quanto al Cairo, il problema si chiama Abdel Fatah Al Sisi, il generale che sfrattò Mohamed Morsi su richiesta di 33 milioni di egiziani, dopo la rivoluzione del 2011 che aveva insediato i Fratelli Musulmani. Una rivolta «infiltrata e manipolata dai soliti esperti di “regime change” statunitensi perchè fingesse un superamento della dittatura di Mubaraq attraverso un regime di musulmani “moderati”». Alle presidenziali votò il 35% degli aventi diritto e solo il 17% si espresse per Morsi. «Vibranti furono le congratulazioni di Washington. L’intera amministrazione dello Stato fu occupata dai Fm. Gli assassini del presidente Sadat furono ricevuti da Morsi e messi a capo del Consiglio dei Diritti Umani. L’autore del famoso massacro di Luxor fu nominato governatore di quella provincia. Seguirono gli arresti degli oppositori laici di Mubaraq e i pogrom anticristiani. Tutte le maggiori imprese dello Stato vennero privatizzate e fu annunciata la possibile vendita del Canale di Suez al Qatar, una specie di Vaticano dei Fm, sponsor dell’Isis».
    Morsi, continua Grimaldi, inviò una delegazione ufficiale dal capo dell’Isis, Al Baghdadi, e ordinò alle forze armate di essere pronte ad attaccare la Siria, cosa che suscitò vivissime reazioni contrarie tra i militari. Morsi rimediò inviando “volontari” a supporto dei jihadisti. Questi e altri provvedimenti innescarono quella che sarebbe stata la più grande manifestazione di massa contro un presidente egiziano. I Fratelli Musulmani reagirono con le armi e per un mese si succedettero scontri sanguinosi. Il Qatar e la Turchia di Erdogan furono i primi a denunciare il “colpo di Stato”. La guerra civile fu evitata grazie alle elezioni, boicottate dagli islamisti, e in cui Al Sisi riportò il 96% dei voti. «Da quel momento inizia la campagna degli attentati terroristici. I media occidentali parlano di arresti e condanne di oppositori. Quasi sempre si tratta di Fm responsabili degli attentati con centinaia di vittime».
    Chi è Abdel Fatah Al Sisi? A dispetto del terrorismo islamista, con Al Sisi l’Egitto conosce una certa pace sociale: vengono liberati prigionieri politici e ricostruite le chiese copte bruciate. Ma l’economia è a pezzi, l’ostilità dell’Occidente e del Qatar provoca isolamento. «Tanto più che il Cairo si propone come autorevole mediatore nel conflitto libico e come forza effettivamente capace di debellare, con il legittimo governo di Tobruk (che aveva vinto le elezioni ed era aperto ai gheddafiani) e il generale Haftar, i mercenari Isis spediti dalla Turchia, beneaccetti dai Fratelli di Tripoli e dai tagliatori di teste di Misurata e finanziati dal Qatar. Solito pretesto per l’intervento Nato». E non è tutto: «Con l’aiuto della Cina, imperdonabile, l’Egitto raddoppia la capacità del Canale di Suez e quindi le entrare che ne derivano. Dovrebbe essere un segmento cruciale della nuova temutissima Via della Seta e dell’interscambio tra Africa e Cina. Nell’estate del 2015 l’Eni rivela la scoperta dell’enorme giacimento di gas e di altri idrocarburi nell’area marina di Zohr, che permetterebbe al Cairo di ricavarne l’equivalente di 5,5 miliardi di barili di petrolio.
    Anche per questo, contemporaneamente, dilaga il terrorismo dei Fratelli Musulmani: vengono uccisi il procuratore generale della Repubblica e altri alti funzionari e magistrati. Ne segue un’ondata di arresti che fa gridare in Occidente alla brutale repressione del nuovo Pinochet. Mohammed Hassanein Heikal, il più brillante e cosmopolita giornalista egiziano, già portavoce di Nasser e direttore del primo quotidiano egiziano, “Al Ahram”, sollecita Al Sisi a denunciare la macelleria saudita nello Yemen (e difatti le truppe egiziane verranno ritirate), di sostenere la resistenza del presidente siriano Assad e di cercare un riavvicinamento con l’Iran. «A 87 anni, Heikal, che anni fa avevo intervistato per il “Nouvel Observateur” scoprendovi uno dei più colti e appassionati intellettuali arabi incontrati in mezzo secolo, muore», racconta Grimaldi, «prima che Al Sisi possa portare avanti quel discorso».
    Nella notte dall’11 al 12 aprile, si viene a sapere che l’Egitto ha ceduto due isolotti nel Mar Rosso all’Arabia Saudita. Nelle stesse ore re Salman è al Cairo e annuncia investimenti per 25 miliardi di dollari. Sulle due isole, Tiran e Sanafir,  si dovrebbe posare il grande ponte che, nei progetti sauditi ed egiziani, unirebbe le due coste del Golfo di Aqaba. Intanto gli Usa offrono rinnovate forniture d’armi. «Se non si riesce a far tornare Morsi, meglio provare a non lasciare campo aperto a russi, italiani, francesi, cinesi». La cessione delle isole provoca una serie di manifestazioni di protesta dei nazionalisti egiziani che si chiedono dove Al Sisi stia andando, tra Russia, Cina, Usa, Libia e Arabia Saudita. «La risposta sta nelle condizioni economiche in cui l’Egitto è stato ridotto da una guerra economica, terroristica e mediatica, partita appena il nuovo presidente è arrivato al potere e si è dichiarato ispirato da Nasser. La sua pare la mossa della disperazione prima che la società egiziana precipiti nel baratro e della nazione araba non rimangano che brandelli, spettri alitanti tra le rovine di Aleppo, nella polvere dell’ultima bomba Isis a Baghdad, tra le immagini di Gheddafi sepolte in cassetti segreti di case che non dimenticano».
    E mentre gli altri megafoni della demonizzazione dell’Egitto e del suo “Pinochet” si stavano acquietando, anche di fronte all’evidenza del carattere “schiumogeno” che le accuse contro gli inquirenti sul caso Regeni stavano rivelando, insieme alla «ambigua identità del giovanotto, rilevata da molta stampa estera», il “Manifesto” «accentuava il suo bombardamento di contumelie, congetture, illazioni, accuse senza fondamento», denuncia Grimaldi. «Personaggi da assegnare alle categorie degli utili idioti o degli amici del giaguaro, a seconda della percezione di ognuno, tra i quali un magistrato disertore e fallito politico come Ingroia, il compare di Sofri Manconi, vari dirittoumanisti di complemento, cantanti, nani e ballerine, invocavano sull’Egitto di Al Sisi i fulmini di Giove, Marte, Saturno, Urano, Diopadre, sanzioni, embargo, interventi Onu, magari, sotto sotto, bombe alla libica. Neanche uno di questa compagnia di giro cripto-Nato che si fosse chiesto cosa cazzo ci facesse Regeni con criminali come Young, Negroponte e McColl», conclude Grimaldi. «Non è solo malafede. E’ complicità con chi usa altri mezzi per distruggere l’Egitto. Complicità, in ogni caso, con chi è comunque peggio di Al Sisi».

    Cade nell’Egeo il volo Parigi-Cairo, ma il primo missile lanciato contro l’Egitto si chiamava Giulio Regeni: «Sprovveduto frequentatore di ambienti dello spionaggio e della provocazione angloamericana, non si è reso conto fino a che punto quegli ambienti ti possono trasformare da amico del giaguaro in utile idiota, utilizzandoti nel primo ruolo e sacrificandoti nel secondo». E così, scrive Fulvio Grimaldi, Regeni è diventato il trampolino da cui far piombare sull’Egitto un uragano di anatemi tale da renderlo definitivamente infrequentabile. «Metrojet russo, Egypt Air, Regeni, più un paesaggio egiziano percosso da folgori e schianti fatti in casa da coloro cui è stato detto che, più sconquassano e massacrano, più li si favorirà a tornare al potere nell’ultimo Stato nazionale arabo (insieme all’Algeria) non frantumato, o ridotto all’obbedienza neocolonialista e neoliberista». Risultato: il turismo che dal 20% delle entrate scende a zero e sprofonda il paese in una catastrofe economico-sociale da cui si calcola potrà sognare di risollevarsi unicamente vendendosi.

  • Uccido bambini e progetto attentati, nel nome di Ishmael

    Scritto il 22/5/16 • nella Categoria: Recensioni • (4)

    L’omicidio rituale di un bambino precede sempre l’ammazzamento eccellente: lo anticipa, come un oscuro presagio. Prima, c’è il ritrovamento del piccolo ucciso. Poche ore dopo, ecco l’attentato. E gli inquirenti onesti, quelli che intuiscono la verità, vengono depistati e poi, sabotati, rimossi, liquidati. «Bravo, vedo che ha capito come funziona, quel sistema». Parola di Francesco Cossiga. All’altro capo del telefono, lo sbigottito Giuseppe Genna, autentico talento letterario, autore del thriller politico “Nel nome di Ishmael”. Un libro sconvolgente. Uscì nel 2001, ma sembra scritto ieri, anzi oggi, in quest’Europa tramortita dal terrorismo opaco firmato Isis, dietro cui si nascondono “menti raffinatissime”, con propensione a “firmare” le loro stragi secondo precisi codici esoterici, come nel caso delle mattanze di Parigi e Bruxelles, ispirate alle date cruciali dell’epopea dei Templari, fondamentale nel pantheon massonico. Tutto questo, in un mondo dal quale spariscono misteriosamente, ogni anno, migliaia di bambini. Un abisso di orrore, che collega terrorismo e potere, servizi segreti e super-élite, logge e sètte, geopolitica e oscure pratiche, basate sul valore magico attribuito ai sacrifici umani, a partire da quelli dei bambini.
    L’infanticidio? Simboleggia morte e rinascita. Chi progetta un attentato, se ne “propizia” il successo alla vigilia, massacrando un neonato nel modo più atroce. E’ la legge di Ishmael, la piovra da incubo che il libro di Genna disvela, pagina dopo pagina. La trama è quella – potente, incalzante – del noir, giocato in modo perfetto sulla storia parallela di due poliziotti italiani, a quarant’anni di distanza l’uno dall’altro. Il primo è l’ispettore David Montorsi, che scopre un minuscolo cadavere in un campo da rubgy alla periferia di Milano poco prima che, nei cieli dell’Oltrepo Pavese, esploda in volo l’areo di Enrico Mattei, il patron dell’Eni: l’uomo che, da ex partigiano, aveva osato sfidare l’America, in piena guerra fredda. Il secondo è un altro detective della questura milanese, Guido Lopez, impegnato a proteggere l’anziano Kissinger al forum di Cernobbio, poco dopo aver scoperto – nello stesso campo da rugby – il cadavere di un altro minore, spaventosamente seviziato.
    Proprio tra i vip planetari convenuti per Cernobbio, Genna fotografa un’epoca: «Bush e Gorbaciov, gli eroi del disgelo. Quello che era successo da dieci anni dipendeva da loro. Muro di Berlino, crollo della Russia, riforma dell’economia mondiale. Erano stati loro. Dopo di loro sarebbe stato l’impero del male: l’impero di Ishmael». Il libro di Genna è stato scritto prima ancora del G8 di Genova e dell’11 Settembre, i due eventi-chiave che hanno aperto il baratro della crisi, con la “guerra infinita” in mezzo mondo, la catastrofe finanziaria e il manifestarsi dell’élite neo-feudale globalizzata che ha raso al suolo quarant’anni di diritti sociali, in Occidente. Tredici anni dopo il thriller “Ishmael”, nel monumentale saggio “Massoni”, Gioele Magaldi rivela che lo stesso Gorbaciov fu affiliato alla superloggia segreta “Golden Eurasia”, mentre Bush padre aveva fondato la “Hathor Pentalpha”, definita “loggia del sangue e della vendetta”, molto più estremista (e feroce) della storica “Three Eyes”, ispiratrice dell’ultra-destra economica anglosassone, per decenni dominata da uno dei personaggi centrali del libro di Genna, Henry Kissinger.
    I grandi globalizzatori? Anche spietati, certo. Ma non solo: attorno a loro, aggiunge Genna, c’è una nebulosa inquietante, profonda e buia, che caratterizza il Dna dei loro “mandanti” più reconditi, i veri “invisibili”, i super-potenti, quelli che restano al loro posto anche quando i loro politici sono tramontati. Il volto oscuro dell’élite: qualcosa di barbarico, anche. Una “chiesa” di dominatori sanguinari che – all’occorrenza – si procurano bambini da “sacrificare”. «Veramente profetico, Genna, per ammissione dello stesso Cossiga», racconta l’ex avvocato Paolo Franceschetti, indagatore dei peggiori misteri irrisolti della cronaca italiana, dal Mostro di Firenze alle Bestie di Satana fino alla strana uccisione del piccolo Samuele Lorenzi a Cogne. Un intreccio di poteri occulti, istituzioni infedeli e servizi deviati, attorno a cui fioriscono rituali magici e codici simbolici attorno a crimini che sembrano assurdi, senza un movente.
    E’ l’inferno che Genna chiama, semplicemente, “Ishmael”. Nel romanzo lo descrive come un vero e proprio cancro, inoculato dall’élite-ombra statunitense al tempo della sfida con l’Urss, scegliendo proprio l’Italia come fronte strategico da cui poi ingabbiare l’intera Europa. Per questo è così decisivo l’attentato a Mattei, fatto passare per incidente aereo. E sono pagine di altissima intensità quelle che Genna dedica al grande leader del riscatto italiano del dopoguerra. «Sappiamo di esserci, ma non ci siamo, a tutti gli effetti. L’Italia è questo qualcosa oltre il corpo e la mente, e la guerra che lui sta facendo è la costruzione di una salvezza», per proteggere il paese dal «regno arido, sormontato da potenze e da angeli oscuri», che è a tutti gli effetti l’America. «Bisogna salvare l’uomo, poiché l’uomo è pronto a divenire un americano e l’americano è pronto ad annullarsi. Annullata l’America, sarà annullata l’umanità. L’Italia, perciò, è l’idea della salvezza che è presente qui e sempre, ora, tra uomo e uomo, tra l’uomo e l’America».
    Contro questa salvezza combatte “Ishmael”, facendo esplodere l’aereo del ribelle italiano, il condottiero spericolato e sognatore. Ma poi, la piovra – che si insinua fin dentro le questure e la magistratura del Belpaese, sotto l’occhiuta regia di autentici mostri di cinismo come Kissinger – pian piano sfugge al controllo dei suoi stessi creatori fino a metterli in pericolo, verso l’instaurazione totalitaria del “tempo di Ishmael”, la nuova epoca – questa – in cui non ci sarà più alcuna certezza, cadranno leggi e autorità, tutto il pianeta sarà preda di un’oligarchia potentissima e invisibile, inafferrabile, sempre pronta – all’occorrenza – a usare il terrorismo e l’omicidio, spesso facendo precedere gli attentati da agghiaccianti ritrovamenti di bambini rapiti dai pedofili, quindi abusati e martoriati dai neo-satanisti dell’élite-fantasma.
    Una sequenza di morte, invariabilmente preceduta dal macabro rinvenimento della baby-vittima sacrificale. Nella “cronologia delle operazioni della rete Ishmael”, nell’appendice della fiction di Genna, trovano posto industriali, banchieri e tanti politici, uccisi o sfiorati dalla morte: il tedesco Adenauer e lo stesso De Gaulle, lo spagnolo Luis Carrero Blanco, e naturalmente Aldo Moro. Ci sono due Papi: Albino Luciani, morto, e Karol Wojtyla, ferito. E poi Roberto Calvi, Olof Palme, il craxiano Gabriele Cagliari. E ministri francesi, finanzieri di Stato tedeschi, la stessa Lady Diana. Cronometrico, nelle ore precedenti, il ritrovamento – non lontano – di un piccolo, a volte un neonato, ferocemente “sacrificato”. E’ la legge di Ishmael, scriveva Genna, quando ancora non era comparso un nome tanto simile, così ingannevolmente mediorientale: Isis.
    (Il libro: Giuseppe Genna, “Nel nome di Ishmael”, Mondadori, 486 pagine, euro 10,50).

    L’omicidio rituale di un bambino precede sempre l’ammazzamento eccellente: lo anticipa, come un oscuro presagio. Prima, c’è il ritrovamento del piccolo ucciso. Poche ore dopo, ecco l’attentato. E gli inquirenti onesti, quelli che intuiscono la verità, vengono depistati e poi sabotati, rimossi, liquidati. «Bravo, vedo che ha capito come funziona, quel sistema». Parola di Francesco Cossiga. All’altro capo del telefono, lo sbigottito Giuseppe Genna, autentico talento letterario, autore del thriller politico “Nel nome di Ishmael”. Un libro sconvolgente. Uscì nel 2001, ma sembra scritto ieri, anzi oggi, in quest’Europa tramortita dal terrorismo opaco firmato Isis, dietro cui si nascondono “menti raffinatissime”, con propensione a “firmare” le loro stragi secondo precisi codici esoterici, come nel caso delle mattanze di Parigi e Bruxelles, ispirate alle date cruciali dell’epopea dei Templari, fondamentale nel pantheon massonico. Tutto questo, in un mondo dal quale spariscono misteriosamente, ogni anno, migliaia di bambini. Un abisso di orrore, che collega terrorismo e potere, servizi segreti e super-élite, logge e sètte, geopolitica e oscure pratiche, basate sul valore magico attribuito ai sacrifici umani, a partire da quelli dei bambini.

  • Chiesa: terrorismo neocon, Egitto e Francia devono piegarsi

    Scritto il 21/5/16 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    «La Francia è stata punita in quanto il suo presidente, François Hollande, ha chiesto l’annullamento delle sanzioni alla Russia. Inoltre in questo momento l’obiettivo delle forze che vogliono destabilizzare il mondo è quello di mettere in ginocchio l’Egitto. Dopo avere distrutto Libia e Siria, adesso hanno preso di mira anche il Cairo. Quindi le due cose sono perfettamente coincidenti». Così Giulietto Chiesa commenta la scomparsa dell’Airbus della compagnia EgyptAir con a bordo 66 persone, inabissatosi tra l’isola greca di Karpathos e la costa egiziana dopo essere scomparso dai radar. Il volo, diretto al Cairo, era partito da Parigi. Fonti anonime della Casa Bianca affermano che la dinamica del disastro rivela che a bordo del velivolo è esplosa una bomba. «Non c’è il minimo dubbio sul fatto che sia stato un attentato», dice Chiesa, intervistato da Pietro Invernizzi del “Sussidiario”. «E’ una punizione inflitta contemporaneamente all’Egitto e alla Francia». Per cosa? «La Francia ha cercato di muoversi per conto suo e ne ha pagato il conto. In grande, si ripete quanto era avvenuto a Enrico Mattei. Siccome è più facile fermare un solo uomo come Mattei che non un intero paese come la Francia, si incomincia con l’abbatterne un aereo».
    Oggi le misure di sicurezza negli aeroporti sono molto rafforzate. Come è stato possibile aggirarle?
    «I servizi segreti sono in grado di aggirare queste misure. Un tempo li si definivano servizi deviati, mentre oggi sono i padroni della politica in alcuni paesi chiave. Questi apparati possono superare qualunque ostacolo. Avendo a disposizione sterminate quantità di denaro, possono infatti permettersi di comprare chiunque inclusi pezzi di servizi segreti di paesi terzi». Chi c’è dietro ai servizi deviati? «Per capire di chi sto parlando – continua Giulietto Chiesa – basta andare per esclusione togliendo Russia e Cina. Ci sono forze che vogliono annichilire la Francia ogni volta che l’Eliseo cerca di alzare la testa. Queste stesse forze hanno l’obiettivo di creare il caos in tutto il Medio Oriente, e nello stesso tempo vogliono la guerra con la Russia». Esiste «una coalizione della guerra, rappresentata dai neocon americani e da quanti sono collegati con loro», non necessariamente alle dipendenze di Washington. Di fatto, «i neocon hanno elaborato la strategia politica degli Stati Uniti negli ultimi 15 anni: è da lì che vengono l’ispirazione e i soldi che stanno dietro all’abbattimento dell’Airbus EgyptAir».
    Non è difficile finanziare questo terrorismo pilotato: «L’Arabia Saudita, che è una filiale della Cia, negli ultimi anni ha accumulato 10-12 trilioni di dollari. E’ quindi uno gioco da ragazzi trovare un miliardo di dollari per corrompere 500 agenti di polizia e servizi segreti in modo che mettano una bomba». Perché i servizi francesi non sono riusciti a sventare l’attentato? «Perché fino a ieri la Francia di Hollande è stata una pedina nelle mani degli Usa», sostiene Chiesa. «Il fatto che ora Parigi chieda la fine delle sanzioni alla Russia è visto da chi è al potere come una provocazione intollerabile. Il potere infatti non ammette degli alleati a metà». E il caso Regeni? E’ estraneo a questa vicenda dell’Airbus EgyptAir? «No, il caso Regeni fa parte di questa stessa strategia. L’uccisione del ricercatore italiano è stata montata ad arte per colpire tanto l’Egitto quanto l’Italia, che aveva avviato una politica di riguardo verso il Cairo. Si è creata quindi una trappola politica, nella quale sono caduti naturalmente la stragrande maggioranza dei commentatori italiani. Questi ultimi, invece di fare gli interessi dell’Italia, stanno facendo quelli di una cosca mafiosa e criminale che sta organizzando il terrorismo in tutto il mondo».
    Perché la politica di Al-Sisi dà fastidio? «Non si vuole colpire Al-Sisi ma l’Egitto in quanto tale. Quest’ultimo non va bene, in quanto è un paese relativamente stabile, e dunque bisogna distruggerlo». Per Giulietto Chiesa, «si stanno creando le condizioni per abbattere l’Egitto anche dal punto di vista economico: l’obiettivo è fare saltare Al-Sisi per mettere al suo posto i Fratelli Musulmani». Ricapitolando: perché i neocon vogliono creare il caos in Medio Oriente? «Perché gli Stati Uniti stanno precipitando a una velocità vertiginosa, e i neocon hanno capito che prima che ciò avvenga bisogna mettere tutto il mondo in uno stato di guerra. Se non si fa così l’America perderà il suo ruolo di dominio imperiale». Ma se i neocon sono così potenti, insiste Invernizzi, perché non riescono a vincere le elezioni Usa? «Come no, le vinceranno eccome». E con chi? «Se vince la Clinton i loro problemi sono già risolti, in quanto l’ex first lady ha le stesse identiche posizioni dei neocon. Hillary è una guerrafondaia fanatica e pericolosa. Dal momento che è una donna di scarsa intelligenza, come peraltro suo marito, mira al potere e di conseguenza si fa manovrare facilmente». Fantastico. E se vincesse Trump? «Se vince Trump lo rimetteranno al suo posto come hanno già fatto altre volte, per esempio con Kennedy».

    «La Francia è stata punita in quanto il suo presidente, François Hollande, ha chiesto l’annullamento delle sanzioni alla Russia. Inoltre in questo momento l’obiettivo delle forze che vogliono destabilizzare il mondo è quello di mettere in ginocchio l’Egitto. Dopo avere distrutto Libia e Siria, adesso hanno preso di mira anche il Cairo. Quindi le due cose sono perfettamente coincidenti». Così Giulietto Chiesa commenta la scomparsa dell’Airbus della compagnia EgyptAir con a bordo 66 persone, inabissatosi tra l’isola greca di Karpathos e la costa egiziana dopo essere scomparso dai radar. Il volo, diretto al Cairo, era partito da Parigi. Fonti anonime della Casa Bianca affermano che la dinamica del disastro rivela che a bordo del velivolo è esplosa una bomba. «Non c’è il minimo dubbio sul fatto che sia stato un attentato», dice Chiesa, intervistato da Pietro Invernizzi del “Sussidiario”. «E’ una punizione inflitta contemporaneamente all’Egitto e alla Francia». Per cosa? «La Francia ha cercato di muoversi per conto suo e ne ha pagato il conto. In grande, si ripete quanto era avvenuto a Enrico Mattei. Siccome è più facile fermare un solo uomo come Mattei che non un intero paese come la Francia, si incomincia con l’abbatterne un aereo».

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