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Archivio del Tag ‘etica’

  • Lo shopping che co-finanzia l’occupazione della Palestina

    Scritto il 10/12/13 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Il Medio Oriente sarà anche lontano, ma Israele è vicinissimo agli Stati Uniti: ogni anno, al momento di pagare le tasse, Tel Aviv “costa” ad ogni americano esattamente 21 dollari e 59 centesimi, secondo la “Us Campaign to End the Occupation”, organizzazione che si batte per la fine dell’occupazione della Palestina. Ma non è tutto: senza neppure rendersene conto, l’americano medio contribuisce in molti modi, ogni giorno, a “finanziare” indirettamente l’apartheid israeliano. Non è difficile: basta scendere al supermercato sotto casa e acquistare prodotti sfornati da stabilimenti installati in aree “abusive”, occupate in violazione di risoluzioni dell’Onu, in cui ai palestinesi si prelevano risorse vitali, mentre gli operai sono sottoposti a un regime di sfruttamento. Lo sostiene il newkorkese Alex Kane, editor mondiale di “AlterNet” e collaboratore di “Mondoweiss”. Le aziende contestate si chiamano Sodastream (acqua), Sabra Hummus (salse), Ahava (cosmetici), ma anche Hewlett Parckard e Motorola. Alcuni dei loro prodotti finiscono tra le scorte di reparti d’élite, responsabili di operazioni di sterminio come quella di Gaza.
    I consumatori statunitensi non lo sanno, scrive Kane in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, ma l’acquisto di prodotti come Sabra Hummus e Sodastream», salse tradizionali e macchine per produrre acqua gasata, «potenzia l’occupazione militare di Israele in Palestina», che dura da 46 anni. «Alcune aziende hanno stabilimenti situati in una delle 125 colonie ufficialmente note nella Palestina occupata, le quali in base al diritto internazionale sono illegali». Altre aziende «contribuiscono al mantenimento dell’occupazione attraverso la cooperazione con le Forze di Difesa Israeliane», anche se l’obiettivo principale dell’esercito di Tel Aviv «è quello di proteggere gli insediamenti illegali e di esercitare il dominio sulle vite di milioni di palestinesi». L’acquisto “innocente” di quei prodotti, di fatto, «dà profitti alle aziende che sfruttano le terre e le risorse palestinesi». Sodastream, che trasforma l’acqua del rubinetto in acqua gassata e in altre bevande aromatizzate, è un caso di successo negli Usa: secondo la Cnn, nel 2012 ha raddoppiato i profitti (quasi mezzo miliardo di dollari) dopo esser stata acquistata da una società israeliana, che l’ha poi ceduta a un fondo finanziario d’investimento.
    Nella pubblicità, l’azienda si dichiara “amica dell’ambiente”. «Ma il lato meno progressista di Sodastream – scrive Kane – si trova nella posizione della sua fabbrica», nell’insediamento di Mishor Adumim, alla periferia di Gerusalemme. La compagnia sostiene di non aver violato il diritto internazionale perché la fabbrica avvantaggia la popolazione palestinese, ma secondo la rivista “Who Profits?” gli operai palestinesi «soffrono condizioni di lavoro difficili». Forza lavoro a basso costo da sfruttare, e senza il diritto di protestare – pena il licenziamento. Rafforzando l’insediamento, Sodastream «contribuisce a uccidere ogni possibilità di uno Stato palestinese vitale e contiguo», dal momento che il distretto industriale «è stato strategicamente costruito per interrompere un facile accesso tra Ramallah e Betlemme, due importanti città della Cisgiordania».
    Discorso analogo per i produttori di “hummus”, tradizionale salsa a base di pasta di ceci e semi di sesamo, aromatizzata con essenze mediterranee. Gli americani ne vanno pazzi e, secondo l’“Huffington Post”, il produttore israeliano Sabra Hummus ha conquistato il 60% del mercato Usa. Problema: l’azienda «è in parte di proprietà di una società israeliana denominata Strauss Group, che ha “adottato” una unità di élite» dell’esercito. Si tratta della Brigata Golani, ritenuta responsabile di alcune operazioni di “macelleria” contro i civili di Gaza durante l’operazione “Piombo Fuso”. Oltre ad equipaggiare i soldati con kit alimentari e per la cura personale, il Gruppo Strauss – riferisce sempre Kane – ha inoltre ammesso di sostenere anche finanziariamente questa unità militare, per «attività assistenziali, culturali ed educative», ad esempio «aiuti economici per i soldati svantaggiati, attrezzature sportive e ricreative, pacchetti di assistenza, libri e giochi per il club dei soldati». L’analista statunitense accusa anche l’altro grande produttore di condimenti israeliani, Tribe Hummus: la società sarebbe, in parte, di proprietà di Osem, struttura che «collabora con il Fondo Nazionale Ebraico (Jnf)», gruppo che «ha giocato un ruolo chiave prima ancora della creazione dello Stato di Israele, partecipando a progetti con il fondatore dello Stato ebraico, David Ben Gurion». In pratica: «Operazioni di pulizia etnica», per strappare ai palestinesi le loro terre. Divenuto proprietario del 13% dei terreni in Israele, il Jnf collabora attivamente col governo per demolire villaggi palestinesi.
    Altro capitolo, la gamma di prodotti Ahava, che popolano le migliori vie dello shopping statunitense: «In ebraico, “Ahava” significa “amore”», ricorda Alex Kane, «ma ciò che non sarà mai scritto sui prodotti è che sono realizzati in un insediamento in Cisgiordania, di proprietà delle industrie che stanno illegalmente sfruttando le risorse naturali palestinesi», in primo luogo i rinomati fanghi del Mar Morto, che l’azienda «scava, in violazione del diritto internazionale per lo sfruttamento delle risorse di un territorio occupato». Da questa “sindrome” non è immune l’industria tecnologica: forse non tutti sanno che un colosso mondiale come Hewlett Packard (stampanti, fotocamere, computer e smartphone) possiede anche Eds Israele, la società che controlla – con la biometria – i lavoratori palestinesi. Dal 2009, Hp gestisce le informazioni per l’infrastruttura tecnologica della marina militare e dell’esercito israeliano, oltre a collaborare al progetto “Smart City” nella «colonia illegale» di Ariel in Cisgiordania. Quanto alla telefonia, tra le società “sussidiarie” della compagnia telefonica che si occupa dei militari israeliani figurerebbe anche un marchio come Motorola.

    Il Medio Oriente sarà anche lontano, ma Israele è vicinissimo agli Stati Uniti: ogni anno, al momento di pagare le tasse, Tel Aviv “costa” ad ogni americano esattamente 21 dollari e 59 centesimi, secondo la “Us Campaign to End the Occupation”, organizzazione che si batte per la fine dell’occupazione della Palestina. Ma non è tutto: senza neppure rendersene conto, l’americano medio contribuisce in molti modi, ogni giorno, a “finanziare” indirettamente l’apartheid israeliano. Non è difficile: basta scendere al supermercato sotto casa e acquistare prodotti sfornati da stabilimenti installati in aree “abusive”, occupate in violazione di risoluzioni dell’Onu, in cui ai palestinesi si prelevano risorse vitali, mentre gli operai sono sottoposti a un regime di sfruttamento. Lo sostiene il newkorkese Alex Kane, editor mondiale di “AlterNet” e collaboratore di “Mondoweiss”. Le aziende contestate si chiamano Sodastream (acqua), Sabra Hummus (salse), Ahava (cosmetici), ma anche Hewlett Parckard e Motorola. Alcuni dei loro prodotti finiscono tra le scorte di reparti d’élite, responsabili di operazioni di sterminio come quella di Gaza.

  • Panni sporchi: Napolitano e la resa della sinistra italiana

    Scritto il 20/11/13 • nella Categoria: Recensioni • (1)

    Dalle amicizie pericolose di Bersani a quelle di D’Alema, dalle ambigue innovazioni di Renzi alle ombre dell’Ilva su Vendola. Fino al “nuovo compromesso storico” di Enrico Letta e ai segreti di Giorgio Napolitano. Non risparmia nessuno “I panni sporchi della sinistra”, il libro di Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara (edito da “Chiarelettere”) che mette a nudo le magagne del centrosinistra. Un lavoro nel quale i due autori analizzano una serie di inchieste giudiziarie che riguardano, a vario titolo, il mondo della sinistra. Dalla galassia-Bersani, quella dei Penati, Pronzato e Veronesi, alla vicenda di Flavio Fasano, referente di D’Alema invischiato in una storia di mafia. Dallo scandalo Ilva al caso Unipol, passando per i trasferimenti di due magistrate, Clementina Forleo e Desirée Digeronimo, che avevano indagato sulle responsabilità di importanti esponenti politici di sinistra. Per l’ex sinistra italiana, una vera e propria “mutazione genetica”: tra Quirinale e Berlusconi, Cia e massoneria.

  • La via dei lupi, per resistere. Vale un film: facciamolo

    Scritto il 16/11/13 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Tradire è morire. E allora non resta che lottare: per restare fedeli a se stessi, affrontando una solitudine lunare. Si può resistere per anni, nel cuore dei monti, fino all’estremo sacrificio, non sapendo rinunciare alla bellezza della dignità, al conforto della giustizia. E’ la storia – vera – di François de Bardonneche, il singolare “Highlander occitano” del ‘300, che Carlo Grande ha romanzato nel bestseller “La via dei lupi”. Grazie al lavoro di Barbara Allemand e di Fredo Valla, sceneggiatore di Giorgio Diritti (“Il vento fa il suo giro”, “Un giorno devi andare”) la storia del grande ribelle che osò muovere guerra al Delfino di Francia per poi darsi alla macchia sui sentieri della fatale val di Susa, potrebbe diventare un film. O meglio un grande film, se il progetto verrà adottato da Hollywood. Il prezzo di questa follia? Appena 20 euro. E’ la quota minima individuale della sottoscrizione lanciata per far sistemare la sceneggiatura. Il premio? La storia bellissima di un’opera non comune, attualissima e necessaria – il nostro film, visto che parlerà direttamente a noi. Saper resistere al sopruso: indispensabile, oggi più che mai, pena la perdita della nostra umanità.
    «Viviamo in città lontano dalla natura, mangiamo senza fame e beviamo senza sete, ci stanchiamo senza che il corpo fatichi, rincorriamo il nostro tempo senza raggiungerlo mai». Così scriveva, Carlo Grande, nel libro-confessione “Terre alte”. «Abbiamo bisogno di riprenderci le nostre vite, di trovare una strada che ci riporti al centro di noi stessi». Era solo il 2008, ma sembra un secolo fa. «Quando si ha, come noi, una tale sicurezza materiale da non temere più di tanto per il futuro, quando non ci si domanda cosa succederà la settimana prossima, quando si ha sempre di che vivere e non si sa più per cosa, si forma intorno a noi una prigione senza confini, da cui è difficile fuggire». Oggi, col precipitare della crisi, molte di queste sicurezze sono cadute: sono migliaia, milioni, i cittadini italiani ed europei che hanno ripreso a preoccuparsi per la loro sorte immediata, a causa di una sofferenza decretata dall’alto di un potere oscuro, percepito come ostile. Un potere accusato di aver tradito la sua promessa, venendo meno al suo dovere.
    E’ proprio il dolore per il tradimento – quello del principe che gli ha sedotto la figlia – a scatenare la furia del feudatario valsusino: il Delfino francese ha calpestato le regole, su cui si regge la civiltà medievale del “paratge”, l’onore tra uomini liberi che accettano volontariamente di mettersi al servizio l’uno dell’altro. E’ la “civiltà mediterranea”, nella quale Simone Veil individua l’ultima reincarnazione dell’Atene di Pericle (il culto della bellezza) prima che le forze più aggressive della storia spegnessero la luce, dalle legioni conquistatrici alla sanguinosa repressione delle eresie libertarie. Se oggi i critici più intransigenti puntano il dito contro il nazi-capitalismo finanziario che muove i burattini di Bruxelles imponendo la “desmisura” di condizioni-capestro assolutamente insostenibili per il 99% dei cittadini, i territori riscoprono il valore dimenticato della comunità solidale, come dimensione indispensabile non solo per l’autodifesa, ma anche per la coltivazione di quell’umanesimo in mancanza del quale non potremmo vivere. Anche così si può rileggere la vicenda di François: senza il coraggioso sostegno della sua gente non sarebbe mai riuscito a ribellarsi né a evadere dal carcere, né tantomeno a resistere così a lungo tra le nevi delle sue montagne.
    E’ esattamente questo tipo di bellezza che il film è ansioso di esprimere, nel silenzio incantato delle foreste. C’è anche una salutare nostalgia per il “mondo bambino” del medioevo più luminoso, la civiltà di uomini e donne che sapevano gioire, piangere, commuoversi, tra montagne che – per secoli – tennero in vita la Repubblica degli Escartons, straordinario esperimento di autogoverno cantonale, nel cuore dell’Europa. Si parlava occitano, la lingua di François, quella in cui Dante avrebbe voluto scrivere la Commedia, perché solo i trovatori provenzali – i primi, dall’avvento della cristianità – avevano riscoperto la tenerezza dell’amore, quella dei lirici greci, e avevano cominciato a cantarla, sfidando l’oscurantismo vaticano grazie alla protezione di autorità politiche tolleranti. «Il film – dice oggi Carlo Grande – sarebbe un fecondo generatore di bellezza, un balsamo alla solitudine morale: credo in questo film perché credo in questa storia, in questo libro, in tempi di carestia fisica (di aria, di acqua, di terra) e spirituale (etica ed estetica)». Il cinema italiano non è in grado di produrre il film, per questo si pensa a Hollywood. Un percorso da fare insieme, appropriandosi della causa. Basta anche solo un piccolo tributo d’onore, per co-finanziare l’adattamento in inglese. E far sentire che la comunità non se la sente di abbandonare il suo antico eroe: oggi come allora, il vecchio François – guerriero riluttante, partigiano della libertà – per tornare a lottare sulla “via dei lupi” ha davvero bisogno di noi.
    (Per aderire alla sottoscrizione è sufficiente prenotarsi, senza alcun anticipo di denaro, sulla piattaforma di social crowdfundig “Produzioni dal basso”, dichiarando la propria disponibilità a sostenere il progetto, anche solo con la quota minima di 20 euro. Più quote danno diritto alla presenza nei titoli coda, al dvd e all’invito a proiezioni nei cinema. L’obiettivo è vicino: ancora pochi click e si raggiungeranno i 4.000 euro necessari a finanziare la revisione della sceneggiatura, che consentirà di impostare la produzione del film).

    Tradire è morire. E allora non resta che lottare: per restare fedeli a se stessi, affrontando una solitudine lunare. Si può resistere per anni, nel cuore dei monti, fino all’estremo sacrificio, non sapendo rinunciare alla bellezza della dignità, al conforto della giustizia. E’ la storia – vera – di François de Bardonneche, il singolare “Highlander occitano” del ‘300, che Carlo Grande ha romanzato nel bestseller “La via dei lupi”. Grazie al lavoro di Barbara Allemand e di Fredo Valla, sceneggiatore di Giorgio Diritti (“Il vento fa il suo giro”, “Un giorno devi andare”) la storia del grande ribelle che osò muovere guerra al Delfino di Francia per poi darsi alla macchia sui sentieri della fatale val di Susa, potrebbe diventare un film. O meglio un grande film, se il progetto verrà adottato da Hollywood. Il prezzo di questa follia? Appena 20 euro. E’ la quota minima individuale della sottoscrizione lanciata per far sistemare la sceneggiatura. Il premio? La storia bellissima di un’opera non comune, attualissima e necessaria – il nostro film, visto che parlerà direttamente a noi. Saper resistere al sopruso: indispensabile, oggi più che mai, pena la perdita della nostra umanità.

  • Verità di Stato: oggi contro i negazionisti, ma domani?

    Scritto il 21/10/13 • nella Categoria: idee • (1)

    Il recente voto parlamentare sul “negazionismo”, in pieno revival di una potente campagna sui reati d’opinione, fa fare un salto deleterio alla nostra Repubblica. Per sommo e aberrante paradosso, scrive Pino Cabras, una legge presentata come “antifascista” è «il nido in cui farà l’uovo lo Stato etico», cioè «la tipica base liberticida e totalitaria del fascismo». Beninteso: «Un fascismo di tipo nuovo, politically correct». Dopo tanti tentativi, finora sempre bloccati dalla forte opposizione di tanti valenti storici antifascisti, anche in Italia la repressione penale delle opinioni s’è fatta strada in Parlamento, con conseguenze esplosive: l’emendamento presentato nella commissione giustizia del Senato (relatrice la Pd Rosaria Capacchione) e approvato da Pd e Pdl, “Scelta Civica” e Sel, nonché dai senatori “5 Stelle” Cappelletti e Gianrusso, prevede tre anni di reclusione (sette anni e mezzo con le aggravanti) e multe fino a diecimila euro da comminare a chi “nega o minimizza crimini di genocidio”, come la Shoah.
    «L’idea di contrastare con la legge penale le opinioni – per quanto infondate e profondamente sbagliate – apre scenari pieni di pericoli», avverte Cabras su “Megachip”. «Legare l’interpretazione della Storia a una legge penale sarebbe come cristallizzare una conoscenza scientifica aperta al dibattito – ad esempio le scoperte di Newton – in una norma sigillata dal dogma dello Stato (e un domani di un governo o di un regime politico contingente)». Accadeva ai tempi dell’Inquisizione, con Galileo costretto abiura e Giordano Bruno al rogo. «Una volta aperto un varco così grande a questo modo di procedere, potrebbero presentarsi abusi drammatici su ogni interpretazione controversa degli eventi storici». L’Europa non è immune dal contagio, come dimostra la recente condanna (tre anni e mezzo di reclusione) dell’austriaca Sylvia Stoltz, avvocato difensore di un presunto “negazionista”.
    «Le norme qui in Italia non ci sono ancora, ma la tempesta sì: contro Piergiorgio Odifreddi, che si è dichiarato contrario all’approvazione della legge, è già in corso una campagna d’intensità maccartista». Risultato: «Molti di coloro che vorrebbero dire pubblicamente che Odifreddi deve potersi esprimere liberamente non lo faranno, perché il manganello mediatico fa già male. Figuriamoci il clima che avremo con un manganello penale». Tendenza segnalata già nel 2009 dall’insigne medievista Franco Cardini: «Cresce il numero di chi in pubblico afferma una cosa e in privato sostiene esattamente il contrario. E sapete perché? Per il fatto che se ne perseguitano i sostenitori e che li si condanna senza dar loro il diritto di parlare e senza controbattere. Ma in questo modo si crea nell’opinione pubblica la crescente sensazione che se ne abbia paura, e che essi stiano dicendo cose vere: e, questo sì, può costituire la premessa a una nuova ondata di pregiudizio antisemita, anche se è difficile immaginare sotto quali forme potrebbe presentarsi».
    Le motivazioni per opporsi a un simile provvedimento, ricorda Cabras, sono già state formulate molto bene nel 2007 da molti storici italiani, tra cui diversi studiosi con profonde radici familiari e intellettuali nell’ebraismo italico. Allora si opposero fermamente a Clemente Mastella, all’epoca ministro della giustizia, che – fotocopie alla mano – voleva introdurre nel nostro ordinamento una legge analoga alla francese Fabius-Gayssot. Intervennero storici come David Bidussa, Anna Rossi Doria, Paul Ginsborg e Carlo Ginzburg, Mario Isnenghi, Fabio e Giovanni Levi, Sergio Luzzatto e uno storico della Resistenza come Claudio Pavone. Il reato di negazionismo? Offre ai negazionisti «la possibilità di ergersi a difensori della libertà d’espressione», perché la legge – perseguendole penalmente – rifiuterebbe di contestare e smontare le loro tesi. In più, «si stabilisce una verità di Stato in fatto di passato storico», cosa che «rischia di delegittimare quella stessa verità storica, invece di ottenere il risultato opposto sperato». Attenzione: ogni verità imposta dall’autorità statale non può che minare la fiducia nel libero confronto di posizioni e nella libera ricerca storiografica e intellettuale. Esempi infiniti: il cosiddetto “antifascismo” nella dittatoriale Ddr, il “socialismo” nei regimi comunisti, il negazionismo del genocidio armeno in Turchia, l’inesistenza della strage di piazza Tiananmen in Cina.
    Per i nostri studiosi, la strada della verità storica di Stato non serve affatto a contrastare fenomeni pericolosi – incitazione alla violenza e all’odio razziale, apologia di reati ripugnanti e offensivi per l’umanità, per i quali esistono già le leggi necessarie a punire comportamenti criminali – mentre «è la società civile, attraverso una costante battaglia culturale, etica e politica, che può creare gli unici anticorpi capaci di estirpare o almeno ridimensionare ed emarginare le posizioni negazioniste». Meglio quindi che lo Stato «aiuti la società civile, senza sostituirsi ad essa con una legge che rischia di essere inutile o, peggio, controproducente». Sei anni dopo, ci risiamo. Chiosa Cabras: «Mentre Giorgio Napolitano, fra una larga intesa e l’altra, esorta sovranamente i parlamentari ad approvare le nuove norme penali, i lettori potrebbero esortarli più sovranamente ancora a non approvarle, consigliando loro di leggere l’appello degli storici. Magari recapitandolo nelle loro caselle e-mail».

    Il recente voto parlamentare sul “negazionismo”, in pieno revival di una potente campagna sui reati d’opinione, fa fare un salto deleterio alla nostra Repubblica. Per sommo e aberrante paradosso, scrive Pino Cabras, una legge presentata come “antifascista” è «il nido in cui farà l’uovo lo Stato etico», cioè «la tipica base liberticida e totalitaria del fascismo». Beninteso: «Un fascismo di tipo nuovo, politically correct». Dopo tanti tentativi, finora sempre bloccati dalla forte opposizione di tanti valenti storici antifascisti, anche in Italia la repressione penale delle opinioni s’è fatta strada in Parlamento, con conseguenze esplosive: l’emendamento presentato nella commissione giustizia del Senato (relatrice la Pd Rosaria Capacchione) e approvato da Pd e Pdl, “Scelta Civica” e Sel, nonché dai senatori “5 Stelle” Cappelletti e Gianrusso, prevede tre anni di reclusione (sette anni e mezzo con le aggravanti) e multe fino a diecimila euro da comminare a chi “nega o minimizza crimini di genocidio”, come la Shoah.

  • Cari africani, vi ingannano: l’Europa non è il paradiso

    Scritto il 20/10/13 • nella Categoria: idee • (4)

    Cari africani, vi stanno ingannando: l’Europa Felix esiste solo sui giornali, alla radio, in televisione e al cinema. Ecco perché l’emigrazione di massa continua ad aumentare. Fuggono dalla povertà, certo, ma non basta: se così fosse – sostiene Marcello Foa – i racconti di chi da noi non ce l’ha fatta, e vive spesso in condizioni peggiori e più disumane che nel proprio paese, dovrebbero bastare per scoraggiare i propri connazionali a intraprendere l’avventura. E le notizie sconvolgenti di stragi come quelle di Lampedusa dovrebbero rappresentare il più formidabile deterrente. La verità è che in Africa queste notizie sovente non arrivano. «Anzi, i media continuano a diffondere il mito di un’Europa idilliaca, paradiso terrestre dove tutto è facile, dove la gente è bella, agiata, sorridente». Fino a quando questo mito non sarà smontato, la battaglia contro l’immigrazione “clandestina” non sarà mai vinta.
    Nella maggior parte del continente nero, scrive Foa nel suo blog sul “Giornale”, le scuole esaltano l’Europa come culla della democrazia, dei diritti umani e del progresso. «E i ragazzi, persino i bambini alle elementari, subliminalmente, iniziano a desiderarla». Quando diventano adulti, la simpatia si trasforma in bramosia: «L’Europa è uno spot, dove tutto brilla». La distorsione della realtà è accentuata dai racconti di chi lavora nel Vecchio Continente e, per orgoglio, mente sulle proprie condizioni: «Non potendo ammettere il fallimento di fronte alla famiglia, s’inventa una vita di successi. E basta poco per proiettare un’immagine di benessere: un vestito elegante, qualche regalino, la foto al volante di un’auto di marca. Così il mito cresce e si propaga di villaggio in villaggio».
    Secondo Foa, quando gli africani decidono di emigrare, «non conoscono neppure le nostre consuetudini sociali» e sono «talmente sprovveduti da non conoscere neppure le condizioni climatiche». Ciò che manca, insiste il giornalista, è una comunicazione adeguata. «Dobbiamo essere noi occidentali a smontare il mito dell’immigrazione, non ai nostri occhi ma a quelli degli africani. Nel loro interesse prima ancora del nostro. Perché l’illusione è fonte di tragedia, fonte di crudeltà. E fino a quando non verrà smascherata, il dramma continuerà a perpetuarsi, con la morte in mare o una vita d’inferno, immorale e inaccettabile, nella “scintillante” Europa».

    Cari africani, vi stanno ingannando: l’Europa Felix esiste solo sui giornali, alla radio, in televisione e al cinema. Ecco perché l’emigrazione di massa continua ad aumentare. Fuggono dalla povertà, certo, ma non basta: se così fosse – sostiene Marcello Foa – i racconti di chi da noi non ce l’ha fatta, e vive spesso in condizioni peggiori e più disumane che nel proprio paese, dovrebbero bastare per scoraggiare i propri connazionali a intraprendere l’avventura. E le notizie sconvolgenti di stragi come quelle di Lampedusa dovrebbero rappresentare il più formidabile deterrente. La verità è che in Africa queste notizie sovente non arrivano. «Anzi, i media continuano a diffondere il mito di un’Europa idilliaca, paradiso terrestre dove tutto è facile, dove la gente è bella, agiata, sorridente». Fino a quando questo mito non sarà smontato, la battaglia contro l’immigrazione “clandestina” non sarà mai vinta.

  • Tv, nebbia sulla crisi: Report oscura le verità di Iacona

    Scritto il 15/10/13 • nella Categoria: segnalazioni • (6)

    «Chi ha ancora il coraggio di guardare la tv, e ha il fegato di frequentare RaiTre, ricorderà che circa un mese fa Riccardo Iacona, ideatore della trasmissione “Presa Diretta”, mise in onda una puntata di vera informazione sulla crisi dei cittadini europei, che illuminava il grande pubblico sulle autentiche responsabilità della crisi, intervistava economisti di valore come Emiliano Brancaccio e Bruno Amoroso, nonché personalità come Hans Olaf Henkel, e raccontava in maniera magistrale le lotte dei portoghesi contro la Troika». Claudio Martini ammette di essere trasecolato: «Chi si aspettava di veder affiorare certi concetti su una grande rete nazionale? Chi poteva immaginare una Rai che fa informazione?». Ma niente paura: «Per fortuna, Milena Gabanelli ha rimesso le cose in ordine, con la puntata di “Report” di lunedì 14 ottobre». La giornalista «è riuscita agevolmente ad annientare quanto di buono costruito dal suo collega un mese prima. Niente voci “critiche”. Piuttosto, le opinioni rassicuranti di economisti come Boeri e Perotti».
    Dopo averci a lungo intrattenuto sui guai del fisco e sulle inefficienze pubblica amministrazione, scrive Martini su “Il Main Stream”, il programma della Gabanelli ha presentato un’inchiesta sui motivi che spingono gli imprenditori a delocalizzare all’estero le aziende. Polonia: una voce narrante cerca di indorare la pillola, che spiegando che a Varsavia «fare impresa è possibile, perché l’imposizione fiscale sulle imprese è quasi inesistente, esiste la possibilità di licenziare incondizionatamente e con breve preavviso, non esiste il Trattamento di Fine Rapporto, non esiste la tredicesima, e in generale si lavora più a lungo per meno». Poi, “Report”  mostra «come in Polonia i bambini vengano addestrati sin da piccoli ad acquisire la cultura imprenditoriale». Una “coordinatrice del programma di apprendimento dell’imprenditorialità” spiega che «fin dalla tenera età i piccoli giocano al “Piccolo Bancomat”, e che alle elementari si addestrano al gioco del “Piccolo Ministro delle Finanze”, dove ai bambini è dato di decidere quali spese tagliare».
    Proseguendo, la Gabanelli individua nella carenza di produttività il vero guaio italiano, e addita chi parla di uscita dall’euro a «ciarlatani che cercano di distrarre dai problemi reali». L’economista Lucrezia Reichlin spiega che l’idea di far acquistare i titoli del Tesoro dalla propria banca centrale è «molto pericolosa», in quanto «toglie incentivi al risanamento dei conti». E archiviare il rigore sui bilanci è ancora più pericoloso, perché «creerebbe inflazione», cioè «una tassa occulta che distrugge i risparmi». Molto meglio, sempre per la Reichlin, che anche l’Italia accetti un piano di “aiuti” dalla Bce, con relativo commissariamento. «La voce narrante conferma», racconta Martini, e passa a intervistare un giornalista di “Repubblica”, sicuro che – con l’uscita dall’euro – i risparmi degli italiani sarebbero decurtati di un terzo. Sempre la voce narrante di “Report” paragona l’uscita dalla moneta unica a «una patrimoniale sui cittadini italiani di centinaia di miliardi: di gran lunga la soluzione più costosa».
    Sistemati gli “uscisti”, continua Martini, si passa alle altre possibili soluzioni per uscire dalla crisi. «La risposta non può che essere una: fare come la Germania». Così, vengono illustrati gli effetti delle riforme tedesche dei primi anni 2000: aumento della disoccupazione e delle disuguaglianze, perdita di redditi e diritti per i lavoratori. Scelte che però “Report” presenta sotto una luce favorevole: hanno avuto luogo in un momento di crescita dell’economia mondiale, quindi al momento giusto. «A quei tempi la Germania è dimagrita, mentre noi siamo ingrassati, e adesso ci supera», dice la solita voce narrante, evidentemente soddisfatta del “sorpasso virtuoso” dei tedeschi messi a dieta. Infine, un accenno al Fiscal Compact: «Iacona, giustamente, lo indicava come una sciagura», mentre – per gli “esperti” citati dalla Gabanelli – dire che il Fiscal Compact applicato alla lettera strangolerebbe l’economia italiana è, senza mezzi termini, «una cavolata», dal momento che «con un po’ di inflazione e crescita economica il debito si aggiusta da solo». Come a dire: manco ce ne accorgeremo. Inutile spendere altre parole per smontare queste bufale, dice Martini, o spigare che «è truffaldino chiamare “Unione” un’organizzazione che ha il solo fine di portare alle estreme conseguenze la concorrenza tra nazioni, cioè tra lavoratori». Resta l’amarezza: la Gabanelli «fa disinformazione a spese nostre», e attraverso il suo potere mediatico «inocula, ad arte, veleno nelle menti dei cittadini». E l’etica del servizio pubblico? « Gabanelli, mi si passi il francesismo, se ne fotte».

    «Chi ha ancora il coraggio di guardare la tv, e ha il fegato di frequentare RaiTre, ricorderà che circa un mese fa Riccardo Iacona, ideatore della trasmissione “Presa Diretta”, mise in onda una puntata di vera informazione sulla crisi dei cittadini europei, che illuminava il grande pubblico sulle autentiche responsabilità della crisi, intervistava economisti di valore come Emiliano Brancaccio e Bruno Amoroso, nonché personalità come Hans Olaf Henkel, e raccontava in maniera magistrale le lotte dei portoghesi contro la Troika». Claudio Martini ammette di essere trasecolato: «Chi si aspettava di veder affiorare certi concetti su una grande rete nazionale? Chi poteva immaginare una Rai che fa informazione?». Ma niente paura: «Per fortuna, Milena Gabanelli ha rimesso le cose in ordine, con la puntata di “Report” di lunedì 14 ottobre». La giornalista «è riuscita agevolmente ad annientare quanto di buono costruito dal suo collega un mese prima. Niente voci “critiche”. Piuttosto, le opinioni rassicuranti di economisti come Boeri e Perotti».

  • Rodotà: e invece di governare, insidiano la Costituzione

    Scritto il 08/10/13 • nella Categoria: idee • (2)

    Giù le mani dalla Costituzione. Piuttosto, abbiano la decenza di cestinare il Porcellum e cambiare la legge elettorale. E dimostrino che non sono soltanto marionette agli ordini dei boss della finanza e della grande industria. Stefano Rodotà vota contro le larghe intese: «Stiamo vivendo il grado zero della politica, e in questo vuoto di politica rischia di precipitare l’intera società italiana». Il governo Letta? «Un azzardo politico, e ora ne stiamo pagando il prezzo, prevedibile e elevatissimo». L’esecutivo era nato «fin dall’inizio prigioniero delle smanie di un autocrate», Berlusconi, che l’ha paralizzato con lo stallo infinito sull’Imu, senza contare la speranza di avere uno sconto sulla giustizia, fonte di «fibrillazioni continue». Ricatti incrociati per una partita truccata, «fino a giungere alle indegne vicende dell’ultima fase», col suicidio del Cavaliere e l’evaporazione del Pd, appiattito sulla pura sopravvivenza del governo, «considerando come unico e supremo bene il solo fatto che il governo riuscisse a durare».

  • Barnard: l’evasione fiscale ci parla, e oggi va ascoltata

    Scritto il 08/10/13 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    In Italia, circa 270 miliardi di euro sfuggono al fisco ogni anno. Lì dentro c’è di tutto: dal “nero” di cittadini e aziende alle fughe di capitali nei paradisi fiscali, dall’artigiano che non paga l’Iva “per sfamarsi” all’immobiliarista che scoppia di soldi ma non ne ha mai abbastanza. «Abbiamo compassione per il primo e ci fa incazzare il secondo», scrive Paolo Barnard, che però avverte: «Se guardiamo alla realtà contabile dell’evasione fiscale con occhi fermi e non isterici, e se invece di gridare contro l’evasione proviamo ad ascoltarla, allora tutto cambia». Cosa fa chi evade? «Si tiene dei soldi, così non li incassa lo Stato». E cosa fa con quei soldi? «Li spende, o li investe in risparmi». In ogni caso, spese e investimenti contribuiscono all’economia. E Barnard, che considera “illegale” la super-tassazione imposta dall’Eurozona, denuncia la corrente mistificazione sulle tasse. E sostiene che l’evasione, che certo discrimina i “pagatori” virtuosi rispetto agli evasori, non può comunque avere sulle casse statali l’impatto che viene comunemente evocato.

  • Tav, bombe e menzogne: storia di una vergogna nazionale

    Scritto il 07/10/13 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Massimo Numa, destinatario di un misterioso pacco-bomba recapitatogli alla redazione della “Stampa”, è il giornalista più noto in valle di Susa, e il più temuto. Nella rovente estate 2011, gli attivisti lo accusarono direttamente: sostennero che proprio dal suo computer era partita una email-fantasma, firmata “Alessio”, nella quale si tentava di sostenere che un militante No-Tav, gravemente ferito al volto da un lacrimogeno il 23 luglio, fosse in realtà finito all’ospedale per essere semplicemente “caduto da solo”. Lo stesso Numa ammise che quella velenosa mail, palesemente destinata a inquinare la verità, era stata davvero inviata dal suo ufficio, anche se – disse – non era stato lui a spedirla. Nonostante questo increscioso episodio, non solo Numa è rimasto regolarmente in servizio alla redazione della “Stampa”, ma il direttore del giornale, Mario Calabresi, gli ha consentito di continuare a occuparsi quotidianamente della drammatica vertenza della valle di Susa, come se nulla fosse accaduto.

  • Generazione fragile: quando Monicelli mise in riga Moretti

    Scritto il 29/9/13 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Mario Monicelli – che si è suicidato a novantacinque anni, la sera del 29 novembre 2010, lanciandosi dalla finestra del bagno al quinto piano del reparto di urologia dell’ospedale San Giovanni di Roma, e diventando il fantasma italiano acutissimo che ci ossessionerà ancora a lungo, consigliandoci e aiutandoci in questi tempi difficili – aveva le idee molto chiare su ciò che era successo all’Italia: «Ci ha fregato il benessere. La generazione che l’ha toccato per prima si è illusa che fosse eterno, inalienabile. Invece era stato conquistato dai padri con sofferenza e sacrificio. Così l’ha dissipato senza trovare la formula per rinnovare il miracolo, e gli eredi di quel gruppo umano hanno deluso le aspettative ad ogni livello. Gente senza carattere, priva di ambizioni, sommamente pretenziosa e basta».

  • Ma questi politici non ci salveranno dal prossimo crollo

    Scritto il 27/9/13 • nella Categoria: idee • (1)

    Il crollo economico del 2008 ha lasciato, in tutto il mondo, milioni di persone disorientate e sconvolte dalla catastrofe e dalla devastazione inflitta alle loro vite: la disperazione dei giovani disoccupati di fronte a un futuro incerto e desolante, i pensionati che lottano per sopravvivere con pensioni che hanno perso il loro potere d’acquisto, il povero impiegato che accetta un taglio del suo orario e del suo salario per evitare di perdere il posto di lavoro, i più poveri, i malati e i disabili che cercano di sopravvivere ai tagli alla rete di sicurezza sociale. Le persone trovano difficile comprendere come alcuni banchieri potenti possano causare tanti danni e tanta miseria nelle vite di milioni di persone. Due anni fa, in un precedente articolo, scrivevo: «Come si è arrivati a questo? Che tipo di sistema abbiamo creato, che dà così tanto potere a queste persone?».

  • Uomini e maiali: i nostri organi “coltivati” sugli animali

    Scritto il 26/9/13 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Un team di scienziati giapponesi sta cercando di ottenere i permessi dal proprio governo per effettuare un nuovo tipo di esperimento embrionale. Si tratta di un processo di iniezione di una cellula staminale umana in un embrione animale, creando ciò che è definito un “embrione chimerico”. Verrà impiantato nell’utero di un animale, molto probabilmente di un maiale, e crescerà insieme ad esso, come organo di un essere umano. Quando la creatura crescerà, verrà però macellata per asportare l’organo, che verrà poi trapiantato in una persona con un organo malfunzionante o priva di esso. Secondo il professor Hirotsumi Nakauchi, responsabile del Centro per la biologia delle cellule staminali e la medicina rigenerativa dell’Università di Tokyo, «questo è un passo avanti molto importante per la medicina e ci sono voluti tre anni per raggiungere l’obiettivo». Il suo è il gruppo di ricercatori che in passato è riuscito ad iniettare cellule staminali in embrioni di topi geneticamente modificati.

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