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Archivio del Tag ‘Europa’

  • Etruria e Boschi? No, Russia e Merkel. Così Renzi ci distrae

    Scritto il 28/12/15 • nella Categoria: idee • (3)

    «Renzi è il primo ministro italiano che applica le regole dello spin e dunque della manipolazione mediatica. La sua loquacità è spontanea ma l’uso degli slogan, la costruzione delle frasi ad effetto, il richiamo ai luoghi comuni e non da ultimo la conoscenza dei tempi dei media sono chiaramente il frutto di un approccio professionale, agli italiani sconosciuto». Berlusconi? Anche lui è (stato) uno straordinario comunicatore, ma «non si è mai fatto guidare da altri», scrive Marcello Foa. «Quando era al governo faceva sempre di testa sua, lasciandosi ispirare solo dal suo fiuto. Il suo portavoce Bonaiuti aveva il non facile compito di assecondarlo e di cercare di rimediare alle gaffe o alle uscite inopportune, tipiche di chi comunica di istinto senza programmare troppo». Il portavoce di Renzi, invece, si chiama Filippo Sensi: è uno spin doctor professionista, si è formato nel mondo anglosasssone. E, come molti spin doctor, è un ex giornalista. «Lui e Renzi non lasciano nulla al caso: calibrano tutto, salvaguardando l’apparenza di una comunicazione semplice e accessibile, che invece è il frutto di un attento calcolo».
    Se le cose vanno bene, scrove Foa nel suo blog sul “Giornale”, il ruolo dello spin doctor è relativo: «Quando aveva il vento in poppa, Renzi (come Berlusconi) avrebbe potuto fare tutto da solo». Lo spin doctor diventa decisivo quando si tratta di gestire la comunicazione di un governo, i cui ritmi sono asfissianti, e soprattutto quando bisogna affrontare difficoltà impreviste. «Da quando è scoppiato lo scandalo della Banca Etruria, il premier e Sensi applicano chiaramente tecniche di spin difensivo», che Foa ha evocato nel saggio “Gli stregoni della notizia”. «Sottoposti a un attacco o di fronte a uno scandalo, bisogna cercare di: a) negare; b) se non è possibile negare, minimizzare; c) se non è possibile mimizzare, screditare; d) se non è possibile screditare, distrarre». Come si è comportato il governo Renzi nell’ultimo mese, sotto la bufera degli scandali bancari? «Dapprima ha cercato di far finta di nulla, poi di minimizzare l’accaduto, poi di trovare un capro espiatorio; ma quando è esplosa la “bomba Boschi”, che ha vanificato ogni manovra, è stato costretto a ricorrere all’arma suprema: la distrazione».
    Eclatante il tentativo di Renzi di bloccare il rinnovo automatico delle sanzioni europee alla Russia. «Scrivevo che non sapevamo le ragioni della svolta che, nonostante alla fine non sia stata accolta dal Consiglio Europeo, era autentica», dice Foa. «Oggi possiamo intuirle: servivano anche – anzi, soprattutto – a distrarre gli italiani, a far apparire Renzi come l’unico leader che ha il coraggio di parlare contro una sempre più impopolare Europa». Lo stesso è accaduto pochi giorni fa, con titoli di giornale «straordinariamente retorici», come “Renzi contro la Merkel”, “La sfida è tra Germania e Italia”. «Non mi è stato difficile leggere la trama, tecnicamente perfetta: intervista al “Financial Times”, subito ripresa dai media italiani, da sempre molto sensibili alle pressioni non sempre amichevoli di Sensi», e quindi «grande emozione in patria, seguita da una molto meno reclamizzata precisazione diplomatica a una Germania tutt’altro che turbata, ben conoscendo l’italico premier, il quale è tanto spavaldo in patria, quanto timido e ininfluente sulla scena internazionale». Tempesta in un bicchier d’acqua? Sì, ma il fine (mediatico) è stato raggiunto: «Per qualche giorno, lo scandalo bancario è stato scalzato dai titoli di testa». Poi è arrivato il Natale. «Ha anche fortuna, “il bomba”».

    «Renzi è il primo ministro italiano che applica le regole dello spin e dunque della manipolazione mediatica. La sua loquacità è spontanea ma l’uso degli slogan, la costruzione delle frasi ad effetto, il richiamo ai luoghi comuni e non da ultimo la conoscenza dei tempi dei media sono chiaramente il frutto di un approccio professionale, agli italiani sconosciuto». Berlusconi? Anche lui è (stato) uno straordinario comunicatore, ma «non si è mai fatto guidare da altri», scrive Marcello Foa. «Quando era al governo faceva sempre di testa sua, lasciandosi ispirare solo dal suo fiuto. Il suo portavoce Bonaiuti aveva il non facile compito di assecondarlo e di cercare di rimediare alle gaffe o alle uscite inopportune, tipiche di chi comunica di istinto senza programmare troppo». Il portavoce di Renzi, invece, si chiama Filippo Sensi: è uno spin doctor professionista, si è formato nel mondo anglosasssone. E, come molti spin doctor, è un ex giornalista. «Lui e Renzi non lasciano nulla al caso: calibrano tutto, salvaguardando l’apparenza di una comunicazione semplice e accessibile, che invece è il frutto di un attento calcolo».

  • Usa: tutti più poveri, non stupitevi se vorranno l’uomo forte

    Scritto il 27/12/15 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Scende la durata della vita, cresce a dismisura la vendita di armi insieme alla frustrazione, alla rabbia, al senso di precarietà e insicurezza. «La fotografia impietosa e allarmante fornita da Robert Reich dei sentimenti che pervadono la sempre più impoverita classe media americana contraddice la rosea immagine divulgata dai nostri media di un’America “in ripresa” dove l’economia cresce e i posti di lavoro aumentano», scrive Maria Grazia Bruzzone. «Quella che era stata la grande forza degli Stati Uniti – una classe media solida, lavoratrice, fiduciosa, dove l’ascensore sociale funzionava, esempio per il mondo – non esiste più e non è una novità. Ma oggi si sta avviando per una china preoccupante alla ricerca dell’uomo forte che possa salvarla. Sta già accadendo». Non solo. «I sentimenti che pervadono la “classe ansiosa”, come la chiama Reich, ci sembrano assomigliare molto a quelli di noi europei. Sempre più attratti, infatti, da partiti anti-sistema, così come negli Usa volano i sondaggi per quell’outsider estremista che è Donald Trump, dal quale i media tutti prendono sdegnosamente distanza, non senza imbarazzo, ma senza vederne la spia di un fenomeno sociale».
    Con Trump, i media americani si sono comportanti esattamente come quelli europei nei confronti di Marine Le Pen in Francia, «fino a plaudire all’anomala “alleanza” di sinistra e destra “moderata” che ne ha bloccato la vittoria, ma non l’ascesa come primo partito». Sono i motivi per cui, sul suo blog su “La Stampa”, la Bruzzone propone la traduzione di un recente post di Robert Reich, «non un estremista e neppure un disfattista, ma un ex sottosegretario al lavoro durante la presidenza Bill Clinton». Oggi saggista e blogger, con libri pubblicati anche in Italia. «Un allarme, il suo, che fa riflettere. A partire dal titolo: “La classe media americana è in uno stato di rivolta”». Scrive Reich: «La grande classe media americana è diventata una classe ansiosa – ed è in rivolta». Innanzitutto «si sta vieppiù restringendo, come risulta da un’indagine Pew». La middle class «non rappresenta più la maggioranza degli americani, sorpassata dalla somma delle famiglie di classe alta – i ricchi – e bassa – i poveri». Oggi, «le probabilità di cadere nella povertà sono alte in modo impressionante, specialmente per la maggioranza priva di istruzione superiore».
    Due terzi degli americani vivono di stipendio in stipendio, continua Reich. «La maggior parte può perdere il lavoro in ogni momento. Molti appartengono alla crescente forza lavoro “a richiesta”, impiegati quando e se ve ne sia bisogno, pagati quel che si può, quando si può. Se non riescono a farcela col pagamento dell’affitto o del mutuo, o non ce la fanno a pagare il negozio di alimentari o le bollette, perderanno la loro base e arretreranno ancora». Lo stress impone il pagamento di un pedaggio salatissimo, anche in termini di salute: «Per la prima volta nella storia, la durata della vita della classe media bianca sta scendendo». Secondo una recente ricerca dell’economista Premio Nobel Angus Deaton e della sua collega Anne Case, uomini e donne bianchi di mezza età negli Usa hanno cominciato a morire più presto: «Si avvelenano con droghe e alcol, o commettono suicidio. Le probabilità di essere uccisi da un jihadista in America sono di gran lunga inferiori alla probabilità di queste morti auto-infitte», e la recente tragedia di San Benardino «si limita ad innalzare un senso di arbitrarietà e fragilità soverchianti».
    La “classe ansiosa” si sente vulnerabile davanti a forze di cui non ha alcun controllo, e in più sa di non poter contare su un governo che la protegga. «Le reti della sicurezza sono piene di buchi. La maggior parte di coloro che hanno perso il lavoro non hanno neppure un’assicurazione per la disoccupazione» (la cassa integrazione negli Usa non è mai esistita). «Il governo non proteggerà il loro posto di lavoro dall’essere trasferito (“outsourced”) in Asia, o dal venir sostituito da un lavoratore illegale». Il governo «non è neppure in grado di proteggerli da persone malvage con armi o bombe. Ed è il motivo per cui la classe ansiosa si sta armando, comprando armi in quantità record». In novembre, l’Fbi ha censito 2 milioni e 243.000 nuove armi: il 2015 si avvia così a superare il record del 2013, con 21 milioni di armi. «Il governo è considerato non tanto incompetente quanto incapace di dar loro un accidente», continua Reich. «Lavora per i big e i ricchi – il “capitalismo degli amici” che foraggia i candidati e ottiene in cambio speciali favori». Moltissimi gli “arrabbiati”, convinti che il governo «è gestito dai banchieri di Wall Street che sono stati salvati dopo aver provocato il caos nell’economia, dai titani delle corporations che hanno ottenuto lavoro a basso costo, dai miliardari che hanno avuto scappatoie fiscali di ogni genere».
    Due autorevoli scienziati della politica, Martin Gilens e Benjamin Page, hanno esaminato 1.799 decisioni prese dal Congresso in vent’anni, scoprendo e chi le ha influenzate. La loro conclusione: «Le preferenze dell’americano medio sembrano state scarsissime, vicine allo zero, statisticamente non rilevanti nell’impatto sulla politica pubblica». Per Reich, «è solo una questione di tempo prima che la classe ansiosa si rivolti. Sosterranno un uomo forte che li protegga da tutto il caos. Uno che salvi il loro posto di lavoro dall’essere trasferito all’estero, si scontri con Wall Street, bastoni la Cina, faccia piazza pulita dei lavoratori illegali, impedisca ai terroristi di entrare in America. Un uomo forte che possa rendere l’America di nuovo grande – che in realtà significa rendere di nuovo sicuri i cittadini che lavorano. Era – è – un sogno del tubo, naturalmente, un inganno da illusionista. Nessuna persona singola può fare questo. Il mondo è di gran lunga troppo complesso. Non puoi costruire un muro lungo il confine col Messico [dal quale entrano negli Usa migliaia di immigranti, lavoratori illegali]. Non puoi tener fuori tutti i musulmani come ha appena proposto Trump, con grande scandalo mediatico. Non puoi impedire alla corporations di spostare sedi all’estero. Non lo si può nemmeno tentare. Eppure, loro pensano che ci possa essere uno abbastanza intelligente e in gamba da poter cambiare tutto».
    Donald Trump, per esempio: «E’ ricco. Dice le cose come stanno. Rende ogni tema un test della sua forza personale. Dice che i suoi avversari sono deboli mentre lui è forte. E’ crudo e rude? Forse è quel che ci vuole per proteggere la gente media in questo mondo crudelmente precario». Per anni, Reich ha percepito «il brontolio della classe ansiosa». Scrive: «Ho ascoltato la sua rabbia crescente – nelle sedi sindacali, nei bar, nelle miniere di carbone e nei saloni di bellezza, nelle strade e lungo le acque stagnanti dell’America. Per anni ho sentito le sue lamentele, le sue teorie cospirazioniste, la sua indignazione». Spiega: «Per lo più sono brava gente, non bigotti o razzisti. Lavorano sodo e hanno un grande senso dell’equità. Ma il loro mondo pian piano è stato messo da parte. E loro sono impauriti e stanchi». Ora che succede? «Arriva qualcuno che è anche più bullo di quelli che per anni li hanno angariati economicamente, politicamente e anche violentemente. L’attrazione è comprensibile, anche se mal riposta. Se non sarà Donald Trump, sarà qualcun altro che si presenta come uomo forte. Se non sarà questo ciclo elettorale, sarà il prossimo. La rivolta della classe media ansiosa è appena cominciata».

    Scende la durata della vita, cresce a dismisura la vendita di armi insieme alla frustrazione, alla rabbia, al senso di precarietà e insicurezza. «La fotografia impietosa e allarmante fornita da Robert Reich dei sentimenti che pervadono la sempre più impoverita classe media americana contraddice la rosea immagine divulgata dai nostri media di un’America “in ripresa” dove l’economia cresce e i posti di lavoro aumentano», scrive Maria Grazia Bruzzone. «Quella che era stata la grande forza degli Stati Uniti – una classe media solida, lavoratrice, fiduciosa, dove l’ascensore sociale funzionava, esempio per il mondo – non esiste più e non è una novità. Ma oggi si sta avviando per una china preoccupante alla ricerca dell’uomo forte che possa salvarla. Sta già accadendo». Non solo. «I sentimenti che pervadono la “classe ansiosa”, come la chiama Reich, ci sembrano assomigliare molto a quelli di noi europei. Sempre più attratti, infatti, da partiti anti-sistema, così come negli Usa volano i sondaggi per quell’outsider estremista che è Donald Trump, dal quale i media tutti prendono sdegnosamente distanza, non senza imbarazzo, ma senza vederne la spia di un fenomeno sociale».

  • Berlino: guerra alle nostre banche (le loro, salvate da noi)

    Scritto il 26/12/15 • nella Categoria: segnalazioni • (11)

    La Germania non vuole che l’Italia salvi le sue banche traballanti, anche se il nostro paese ha contribuito al salvataggio di Grecia, Irlanda, Islanda e Portogallo, mettendo al sicuro la finanza tedesca. E’ una dichiarazione di guerra, quella che ha raccolto Federico Fubini sul “Corriere della Sera”, da parte di Lars Feld, uno dei “cinque saggi” che consigliano il governo tedesco e probabilmente il più vicino al ministro delle finanze Wolfgang Schäuble. Feld pretende che l’Italia ricorra al bail-in, senza misericordia. Bail-in, spiega il “Foglio”, significa «azzerare o tagliare il valore delle azioni, di tutte le obbligazioni e dei saldi di conto corrente per la parte sopra i 100.000 euro, fino a ridurre del 12% le passività di qualunque banca che riceva un aiuto di Stato». È la nuova legislazione europea, voluta dalla Germania, che entra in vigore il 1° gennaio. Fubini domanda: «Lei prevede che in Italia ci sarà bail-in dei conti correnti, quindi contagio e poi una richiesta di aiuto al fondo salvataggi, con l’arrivo della Troika?». Feld risponde: «Prevedo un pieno bail-in. I tagli alle obbligazioni e ai conti correnti sopra i 100.000 euro dovranno aiutare a ristrutturare le banche, perché la Commissione Ue impedirà salvataggi da parte del governo o sussidi nascosti agli istituti. Non saranno permessi».

  • Rabbia e paura, il voto in quest’Europa disastrata dall’euro

    Scritto il 20/12/15 • nella Categoria: idee • (1)

    Fino a qualche anno fa parevano sbuffi isolati di rabbia: Haider in Austria, Bossi in Italia, Fortuyn in Olanda. Ed erano quasi tutti di destra. Ora non più. Ora un’onda di protesta sempre più alta e sempre più comprensibilmente rabbiosa investe quasi tutti i paesi dell’Unione Europea, con la significativa eccezione della Germania. E non è più solo di destra, e neanche solo di sinistra; talvolta è semplicemente civica, sempre e comunque fuori dagli schemi. La Spagna, che si reca alle urne, stando ai sondaggi non sfuggirà a questa tendenza. I progressisti di Podemos appaiono in calo ma sono in crescita i centristi di Ciudadanos; in ogni caso i movimenti centristi e alternativi seducono circa un terzo dell’elettorato. Un’enormità. E prima della Spagna c’era stata la Grecia. Oggi lo sappiamo: Tsipras non era un rivoluzionario e nemmeno un innovatore. Più che un leader, un bluff; ma il referendum della scorsa estate – poi tradito – ha rivelato il disagio profondo e trasversale della Grecia, un’autentica disperazione sociale, che non tocca solo le classi più povere ma travolge anche il ceto medio. Quella protesta era di formalmente di sinistra. Ma in Ungheria ha trionfato l’euroscettico Orban, così come in Polonia il partito di Kaczynski, che formalmente sono di destra.
    In Italia i sondaggi danno in crescita il Movimento 5 Stelle, la cui collocazione è indefinibile, e confermano la solidità della Lega di Salvini. Da nemmeno un mese il Portogallo ha un governo socialista, che si regge sull’appoggio, decisivo, di due partiti di estrema sinistra dichiaratamente contrari all’euro. In Danimarca il popolo ha appena approvato un referendum che rifiuta l’adozione automatica delle leggi europee e mantiene la clausola di opt-out. In Francia il fatto che la Le Pen sia stata fermata al ballottaggio non cambia il quadro di fondo: oggi il Fronte Nazionale è il primo partito di Francia e ha il vento in poppa. Potremmo continuare citando tanti altri esempi ma l’elenco diventerebbe stucchevole. La realtà è che oggi la vera contrapposizione non è più fra centrodestra e centrosinistra, perché agli occhi di molti elettori europei le differenze fra conservatori e progressisti moderati sono risibili e riguardano ormai aspetti marginali della vita pubblica. Oggi in tutta Europa il tema fondamentale, è la crisi economica che erode sia la libertà d’impresa sia la sicurezza sociale.
    Le analisi economiche sono impietose e non contestabili: da quando è entrato in vigore l’euro, il tenore di vita è diminuito nella maggior parte dei paesi dell’Unione Europea – inclusi quelli grandi come Francia, Italia e Spagna – la disoccupazione è aumentata con punte drammatiche per i giovani, mentre i cittadini sono vessati da tassazioni inaccettabili. Risultato: le economie, schiacciate dall’austerity, non crescono più. La crisi finanziaria del 2008 ha dato il colpo di grazia al sistema, che, infatti, da allora non si è più ripreso. Oggi centrodestra e centrosinistra hanno perso credibilità perché i loro leader hanno deluso sistematicamente le aspettative di un vero cambiamento. Non poteva essere altrimenti: la governance europea limita la libertà di manovra dei governi nazionali. Che all’Eliseo sieda Sarkozy o Hollande poco cambia. E allora i francesi ascoltano la Le Pen, che abilmente abbandona l’estremismo del padre e si appropria dei valori della République e del gollismo.
    Badate bene: a scegliere i movimenti alternativi non sono più gli emarginati ma gli industriali e gli operai, i lavoratori indipendenti e quelli pubblici, i giovani e i pensionati, accomunati dalla paura, dalla precarietà, dall’assenza di una prospettiva. Oggi nell’Unione Europea il piccolo imprenditore, gravato dalla burocrazia e dalle tasse, getta la spugna e il suo operaio, che perde il lavoro, solidarizza con lui ed è spaventato, talvolta disperato perché sa che difficilmente troverà un altro posto. Questo spiega – più di ogni altra considerazione – il successo dei partiti alternativi e di protesta. Biasimarli e tentare di screditarli come populisti non basterà. Fino a quando l’Unione Europea si ostinerà a non correggere alcune evidenti storture, la sensazione di malessere continuerà a crescere con il rischio, niente affatto remoto, che un giorno diventi socialmente esplosiva e incontrollabile.
    (Marcello Foa, “La protesta cresce, rischiamo una crisi esplosiva e incontrollabile”, dal blog “Il cuore del mondo” su “Il Giornale” del 19 dicembre 2015).

    Fino a qualche anno fa parevano sbuffi isolati di rabbia: Haider in Austria, Bossi in Italia, Fortuyn in Olanda. Ed erano quasi tutti di destra. Ora non più. Ora un’onda di protesta sempre più alta e sempre più comprensibilmente rabbiosa investe quasi tutti i paesi dell’Unione Europea, con la significativa eccezione della Germania. E non è più solo di destra, e neanche solo di sinistra; talvolta è semplicemente civica, sempre e comunque fuori dagli schemi. La Spagna, che si reca alle urne, stando ai sondaggi non sfuggirà a questa tendenza. I progressisti di Podemos appaiono in calo ma sono in crescita i centristi di Ciudadanos; in ogni caso i movimenti centristi e alternativi seducono circa un terzo dell’elettorato. Un’enormità. E prima della Spagna c’era stata la Grecia. Oggi lo sappiamo: Tsipras non era un rivoluzionario e nemmeno un innovatore. Più che un leader, un bluff; ma il referendum della scorsa estate – poi tradito – ha rivelato il disagio profondo e trasversale della Grecia, un’autentica disperazione sociale, che non tocca solo le classi più povere ma travolge anche il ceto medio. Quella protesta era di formalmente di sinistra. Ma in Ungheria ha trionfato l’euroscettico Orban, così come in Polonia il partito di Kaczynski, che formalmente sono di destra.

  • Banche, truffa e ipocrisia. E i morti della strage per la crisi?

    Scritto il 20/12/15 • nella Categoria: idee • (4)

    Immaginiamo che in una città siano stati tolti i limiti di velocità per le automobili, che siano stati aboliti gli stop agli incroci e messi sul giallo tutto i semafori e che, in nome della velocità di scorrimento del traffico, si diano premi agli automobilisti che corrono di più. In un tale ambiente di pazzi suonerebbe un poco ipocrita il compianto per le vittime degli inevitabili catastrofici incidenti stradali. È ipocrita allo stesso modo il compianto ufficiale per il povero pensionato che si è suicidato, perché derubato dei propri risparmi investiti in obbligazioni subordinate cancellate dal decreto salvabanche. L’ipocrisia per questo suicidio è doppia. In primo luogo perché sembra ignorare le centinaia di piccoli imprenditori, lavoratori, debitori che si sono uccisi in questi anni di crisi e di politiche di austerità. In Italia abbiamo statistiche per tutto, ma pare manchi un dato sulla strage per crisi economica e non è un caso.
    Si vuole far passare il massacro di persone che non hanno retto al disastro economico e alla precarizzazione delle loro vite e di quelle dei loro cari come una serie di casi individuali. Invece la strage per suicidio economico è un evento collettivo, è il prodotto di una politica frutto di precise scelte e responsabilità, che ne dovrebbero sopportare tutto il peso criminale. In secondo luogo è ipocrita far credere che il povero pensionato sia stato travolto da una scheggia impazzita del sistema. No, è tutto il sistema che è impazzito come la città folle di cui abbiamo scritto all’inizio. Pochi giorni fa il ministro Poletti ha spiegato che sarebbe ora di farla finita con gli orari di lavoro e che sarebbe giusto retribuire i dipendenti a prestazione. Il suo ragionamento, applicato a chi lavora per un istituto di credito, vorrebbe dire che un impiegato per mangiare dovrebbe vendere più obbligazioni insicure che può. E in realtà il sistema sta proprio andando in quella direzione.
    In questi anni i dipendenti degli istituti di credito son stati sottoposti alla cura della competitività estrema. Molti son stati licenziati e sostituiti con giovani precari e sottopagati. Il Jobs Act ha oliato tutto il nuovo meccanismo. Nelle retribuzione si riduce sempre più la paga fissa, quella che con 16 mensilità faceva del bancario il dipendente più invidiato, mentre si estende quella a cottimo. Cioè prendi i soldi se la tua banca fa tanti contratti speculativi e tu contribuisci con la tua opera al suo successo. Consiglio di leggere cosa scrive un lavoratore bancario, anonimo perché a dire la verità si rischia il posto, sul sito di “clashcityworkers”. I dipendenti delle banche sono soldati della guerra per il profitto e guai a loro se perdono un affare, se un risparmiatore viene preso dai dubbi e rinuncia ad investire i suoi soldi. E anche sui risparmiatori la pressione non è certo piccola.
    Avete visto le ultime pubblicità delle banche? Su “Radio24” addirittura sono i soldi che parlano e protestano con il loro proprietario perché li tiene congelati in un cassetto, versione neoliberale della parabola dei talenti. Cosa volete che faccia, il pensionato, quando un sorridente impiegato gli sottopone un contratto di 50 pagine in più copie scritte in piccolo piccolo. Si pensa che dica come nei film americani: fermi tutti, voglio il mio avvocato? No, il sistema funziona sulla sottomissione di dipendenti e risparmiatori. E il sistema bancario impone ai dipendenti di vendere prodotti a rischio ai risparmiatori e ai risparmiatori di acquistarli. Le banche sono diventate parte del casinò globale della finanza speculativa, son già passati oltre vent’anni da quando il presidente Clinton cancellò la legge Glass Steagal che separava le banche d’affari dai normali istituti di credito. Oggi i risparmi dei cittadini servono alle banche per partecipare alla speculazione finanziaria globale e quindi i risparmiatori son sempre più destinati a finire come il parco buoi della Borsa.
    Se va bene a tutti, forse va bene anche a loro, se va male, va male solo a loro. Il sistema funziona così. In Europa 4000 miliardi di euro di danaro pubblico son stati spesi per salvare le banche, che hanno ricominciato a speculare su derivati e porcherie varie come e più di prima. Ora un legge bancaria europea, testata come altre iniquità con i memorandum imposti alla Grecia, impone che i salvataggi delle banche avvengano anche con i soldi dei risparmiatori che di quelle banche si sono fidati. Gli unici che non debbono mai pagare nulla sono i banchieri, ai quali anzi deve essere garantita la possibilità di tornare agli affari come e più di prima. Così i poveri risparmiatori, come i primi cassaintegrati di Pomigliano, finiscono in una società programmaticamente definita “bad company”. Cioè un cattiva compagnia senza futuro dove finiscono i poveri ed i perdenti. Mentre i vincenti, cioè i banchieri e i loro protetti e protettori, van tutti nella nuova società per ricominciare ad attrarre risparmio. Con gli stessi scopi di prima.
    Immaginatevi se sui contratti di investimento fosse stampato in caratteri giganti: Nuoce gravemente alla salute dei tuoi soldi. Immaginatevi se i dipendenti delle banche non ricevessero più bonus o premi di risultato, ma solo il vecchio salario fisso e soprattutto immaginativi se non rischiassero più il posto per insufficiente vendita di contratti. Immaginatevi poi il controllo o addirittura la proprietà pubblici sul sistema bancario e la separazione degli istituti che giocano al casinò finanziario da quelli ove si mettono i risparmi di una vita e si ricevono i prestiti per la casa. Immaginate insomma un sistema con limiti, controlli divieti veri. Non sentireste subito urlare che si attenta alla libertà dei mercati, che si limita la corsa alla prosperità e si colpisce l’Europa, che si vuole tornare allo statalismo o peggio ancora al socialismo? Così, dopo il pianto per l’ultima, il sistema riprende a macinare vittime come e più di prima, al massimo concedendosi le riflessioni sofferte di qualche banchiere temporaneamente riluttante. Ps: non ho voluto parlare delle famiglie Boschi e Renzi, non perché non pensi grave il loro conflitto d’interessi, ma perché considero anche questo un prodotto (scadente) del sistema impazzito.
    (Giorgio Cremaschi, “Decreto salvabanche e suicidi economici, quanta ipocrisia!”, da “Micromega” del 14 dicembre 2015).

    Immaginiamo che in una città siano stati tolti i limiti di velocità per le automobili, che siano stati aboliti gli stop agli incroci e messi sul giallo tutto i semafori e che, in nome della velocità di scorrimento del traffico, si diano premi agli automobilisti che corrono di più. In un tale ambiente di pazzi suonerebbe un poco ipocrita il compianto per le vittime degli inevitabili catastrofici incidenti stradali. È ipocrita allo stesso modo il compianto ufficiale per il povero pensionato che si è suicidato, perché derubato dei propri risparmi investiti in obbligazioni subordinate cancellate dal decreto salvabanche. L’ipocrisia per questo suicidio è doppia. In primo luogo perché sembra ignorare le centinaia di piccoli imprenditori, lavoratori, debitori che si sono uccisi in questi anni di crisi e di politiche di austerità. In Italia abbiamo statistiche per tutto, ma pare manchi un dato sulla strage per crisi economica e non è un caso.

  • Craig Roberts: gangster Nato e Isis, tutti uniti contro Putin

    Scritto il 19/12/15 • nella Categoria: idee • (4)

    Una delle lezioni della storia militare è che, una volta che la mobilitazione bellica abbia avuto inizio, essa assume una dinamica propria e incontrollabile. Questo potrebbe essere proprio quello che si sta verificando sotto i nostri occhi, non riconosciuto. Nel suo discorso del 28 settembre per il settantesimo anniversario delle Nazioni Unite, il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato che la Russia non può più tollerare l’attuale situazione nel mondo. Due giorni dopo, su invito del governo siriano, la Russia ha iniziato la sua guerra contro l’Isis. La Russia ha avuto rapidamente fortuna nel distruggere i depositi d’armi dell’Isis e nell’aiutare l’esercito siriano a disfarne i successi. La Russia ha distrutto anche migliaia di autobotti, il contenuto delle quali stava finanziando l’Isis trasportando in Turchia il petrolio siriano rubato, dove viene venduto dalla famiglia dell’attuale gangster che governa la Turchia stessa.
    Washington è stata colta di sorpresa dalla fermezza della Russia. Temendo che il rapido successo di tale decisiva azione russa avrebbe scoraggiato i vassalli Nato di Washington dal continuare a sostenere la sua guerra contro Assad e dall’usare il suo governo fantoccio a Kiev per tenere sotto pressione la Russia, Washington ha organizzato con la Turchia l’abbattimento di un cacciabombardiere russo, nonostante l’accordo tra Russia e Nato che non ci sarebbero stati scontri aria-aria nella zona delle operazioni aeree russe in Siria.
    Anche se nega ogni responsabilità, Washington ha usato la bassa intensità della risposta russa all’attacco, per il quale la Turchia non si è scusata, per rassicurare l’Europa che la Russia è una tigre di carta. Le “presstitute” occidentali hanno strombazzato: la Russia è una tigre di carta.
    La bassa intensità nella risposta del governo russo alla provocazione è stata usata da Washington per rassicurare l’Europa che non vi è alcun rischio nel continuare la pressione sulla Russia in Medio Oriente, Ucraina, Georgia, Montenegro e altrove. L’attacco di Washington ai soldati di Assad viene utilizzato per rafforzare la convinzione che si sta inculcato nei governi europei che il comportamento responsabile della Russia per evitare la guerra è invece un segno di paura e di debolezza. Non è chiaro fino a che punto i governi russo e cinese capiscano che le loro politiche indipendenti, ribadite dai presidenti di Russia e Cina il 28 settembre, siano considerate da Washington come “minacce esistenziali” per l’egemonia statunitense. La base della politica estera degli Stati Uniti è l’impegno ad evitare il sorgere di poteri in grado di condizionare l’azione unilaterale di Washington. La capacità di Russia e Cina di fare proprio questo li rende entrambi un obbiettivo.
    Washington non si oppone al terrorismo. Ha creato appositamente il terrorismo per molti anni. Il terrorismo è un’arma che Washington intende utilizzare per destabilizzare la Russia e la Cina esportandolo alle popolazioni musulmane in Russia e Cina. Washington sta usando la Siria, come una volta l’Ucraina, per dimostrare l’impotenza della Russia all’Europa – e anche alla Cina, essendo una Russia impotente un alleato meno attraente per la Cina. Per la Russia, la risposta responsabile alle provocazioni è diventata una forma di passività, perché incoraggia ulteriori provocazioni. In altre parole, Washington e la sprovvedutezza dei suoi vassalli europei hanno messo l’umanità in una situazione molto pericolosa, in quanto le uniche scelte rimaste a Russia e Cina sono quelle di accettare il vassallaggio americano o di prepararsi per la guerra.
    Putin deve essere rispettato per aver riservato più valore alla vita umana di quanto non facciano Washington e i suoi vassalli europei, e per aver evitato risposte militari alle provocazioni. Tuttavia, la Russia deve fare qualcosa per rendere i paesi della Nato consapevoli che ci sono gravi costi nel loro essere così accomodanti verso l’aggressione di Washington contro la Russia. Ad esempio, il governo russo potrebbe decidere che non ha senso vendere energia ai paesi europei che si trovano in uno stato di guerra di fatto contro la Russia. Con l’inverno alle porte, il governo russo potrebbe annunciare che la Russia non vende energia ai paesi membri della Nato. La Russia avrebbe perso i suoi soldi, ma è più conveniente che perdere la propria sovranità o una guerra. Per porre fine al conflitto in Ucraina, o per aumentarne l’intensità oltre la volontà dell’Europa a parteciparvi, la Russia potrebbe accettare le richieste delle province separatiste di ricongiungersi con la Russia. Per Kiev, continuare il conflitto significherebbe che l’Ucraina dovrebbe attaccare la stessa Russia.
    Il governo russo ha fatto affidamento su risposte responsabili e non provocatorie. La Russia ha adottato un approccio diplomatico, confidando su governi europei realisti, capaci di rendersi conto che i loro interessi nazionali divergono da quelli di Washington e in grado di cessare di consentire la politica egemonica di Washington. La politica della Russia non ha avuto successo. Le risposte responsabili della Russia sono state utilizzate da Washington per dipingere la Russia come una tigre di carta che nessuno deve temere. Ci ritroviamo con il paradosso che la determinazione della Russia ad evitare la guerra ci sta portando direttamente in guerra. Che i media russi, il popolo russo e la totalità del governo russo lo capiscano o meno, questo deve essere evidente per i militari russi. Tutto ciò che i capi militari russi devono fare è guardare la composizione delle forze inviate dalla Nato per “combattere l’Isis”.
    Come fa notare George Abert, gli aerei americani, francesi e britannici che sono stati dispiegati sono aerei da combattimento il cui scopo è il combattimento aereo, non l’attacco al suolo. I caccia non sono stati dispiegati per attaccare l’Isis a terra, ma per minacciare i cacciabombardieri russi che stanno attaccando i bersagli dell’Isis al suolo. Non vi è dubbio che Washington stia spingendo il mondo verso l’Armageddon e l’Europa ne sia l’attivatore. I pupazzi “acquistati-e-pagati-come-marionette” di Washington in Germania, Francia e Regno Unito sono stupidi, indifferenti o impotenti a sfuggire alla morsa di Washington. A meno che la Russia non svegli l’Europa, la guerra è inevitabile. I guerrafondai neocon totalmente malvagi e stronzi hanno insegnato a Putin che la guerra è inevitabile? Guardate questo video, in cui Putin dice: «Cinquant’anni fa anni fa le strade di Leningrado mi hanno insegnato una lezione: se la lotta è inevitabile, colpisci per primo!».
    (Paul Craig Roberts, “La guerra è all’orizzonte: è troppo tardi per fermarla?”, intervento pubblicato sul blog di Craig Roberts, tradotto da “Spondasud” e ripreso da “Megachip” il 14 dicembre 2015. Eminente economista e analista geopolitico, Craig Roberts è stato membro del governo di Ronald Reagan).

    Una delle lezioni della storia militare è che, una volta che la mobilitazione bellica abbia avuto inizio, essa assume una dinamica propria e incontrollabile. Questo potrebbe essere proprio quello che si sta verificando sotto i nostri occhi, non riconosciuto. Nel suo discorso del 28 settembre per il settantesimo anniversario delle Nazioni Unite, il presidente russo Vladimir Putin ha dichiarato che la Russia non può più tollerare l’attuale situazione nel mondo. Due giorni dopo, su invito del governo siriano, la Russia ha iniziato la sua guerra contro l’Isis. La Russia ha avuto rapidamente fortuna nel distruggere i depositi d’armi dell’Isis e nell’aiutare l’esercito siriano a disfarne i successi. La Russia ha distrutto anche migliaia di autobotti, il contenuto delle quali stava finanziando l’Isis trasportando in Turchia il petrolio siriano rubato, dove viene venduto dalla famiglia dell’attuale gangster che governa la Turchia stessa.

  • Le Pen ha perso. La cattiva notizia? Hanno vinto gli altri

    Scritto il 15/12/15 • nella Categoria: idee • (2)

    «C’è una notizia buona e una cattiva. Quella buona è che ha perso la Le Pen, quella cattiva è che hanno vinto gli altri». Secondo Aldo Giannuli, «siamo stretti fra un presente insopportabile e un’alternativa peggiore». Se il Front National non può essere definito “fascistoide”, come Alba Dorata e l’ungherese Jobbik, sul partito di Marine Le Pen – uscito sconfitto ai ballottaggi per le amministrative (nonostante gli 800.000 voti in più rispetto al primo turno) grazie all’alleanza tra Hollande e Sarkozy – pesano «il più frusto e gretto nazionalismo, la critica superficiale dei poteri finanziari che lascia intatto l’assetto capitalistico della società, il richiamo ad una tradizione più immaginaria che reale, dietro cui si nasconde una anti-modernità reazionaria». E poi «la becera xenofobia, il populismo greve che si contrappone ad ogni dimensione culturale, la richiesta ottusa della pena di morte». Ma la cattiva notizia, aggiunge Giannuli, «è che vincano quelli di sempre, le forze di sistema».
    Certo, i socialisti ne escono massacrati con la certificazione della loro irrilevanza politica, anche se il loro capo resta all’Eliseo. «Ma risorge la stella di Sarkozy: sai che acquisto!». Come è accaduto all’Ukip, a Podemos ed al M5S, forze diversissime fra loro ma accomunate dalla collocazione antisistema, il Fn è stato fermato quando sembrava stesse per spiccare il grande balzo, scrive Giannuli sul suo blog. «Personalmente penso che Ukip, Afd e Fn siano alternative peggiori all’esistente, mentre Podemos e M5S, al contrario, siano preferibili». In Grecia si è affermata Syriza – sappiamo a quale prezzo – e la coalizione di Tsipras è più simile alla Linke tedesca, con cui condivide l’appartenenza alla Sinistra Europea, piuttosto che a Podemos, nuovissima forza emersa come risposta alla crisi. Anche il voto francese dimostra che le forze più nuove e dichiaratamente antisistema «non riescono a sfondare, pur ottenendo risultati vistosi», anche per via del blocco delle “famiglie” politiche tradizionali (socialdemocratici, democristiani, liberali e Verdi), tutti pronti a far quadrato contro i “barbari”.
    In questo comportamento dell’elettorato, continua Giannuli, è evidente la paura del “salto nel buio”: «Ad esempio, l’uscita dall’euro è vista come una avventura pericolosissima che mette a rischio risparmi e redditi da lavoro, e la risposta delle forze antisistema (a parte Podemos che non mette in discussione l’euro o l’appartenenza alla Ue) non è apparsa tranquillizzante, perché non è stata prospettata alcuna credibile exit strategy che, quantomeno, attutisca l’eventuale urto». Più in generale, «queste forze sono apparse credibili più come espressione della protesta sociale che come possibile forza di governo: proposte troppo semplicistiche e al limite del miracolismo, personale politico non adeguato al ruolo, apparato organizzativo insufficiente». Per non parlare del silenzio assoluto sulla politica estera. In più, «i partiti antisistema rifiutano ogni alleanza come dimostrazione della loro “diversità”, una forma di integralismo im-politico più ancora che anti-politico».
    Eppure, un blocco elettorale vincente «non è una sommatoria di voti di anonimi cittadini, ma l’aggregazione di un blocco sociale, in grado di coprire uno spettro di interessi abbastanza stratificato». Neppure la Dc, partito “pigliatutto” per eccellenza, ce la faceva da sola: aveva bisogno dei partiti “laici”. «Può sembrare un paradosso che i partiti che si ergono contro il sistema, in nome degli interessi del popolo, poi non capiscano la dialettica delle forze sociali», aggiunge Giannuli. «Ma è appunto il loro essere populisti che li porta a concepire il popolo come una unità omogenea, priva di interessi differenziati e non  attraversata da una dialettica interna». Insomma, «la protesta è giusta ma non basta». Per il salto – dalla protesta alla proposta – occorre «munirsi di una cultura politica di riferimento, superare le rozzezze attuali e darsi una struttura organizzativa adeguata: la tastiera di un computer non è sufficiente ad assicurare tutto questo».

    «C’è una notizia buona e una cattiva. Quella buona è che ha perso la Le Pen, quella cattiva è che hanno vinto gli altri». Secondo Aldo Giannuli, «siamo stretti fra un presente insopportabile e un’alternativa peggiore». Se il Front National non può essere definito “fascistoide”, come Alba Dorata e l’ungherese Jobbik, sul partito di Marine Le Pen – uscito sconfitto ai ballottaggi per le amministrative (nonostante gli 800.000 voti in più rispetto al primo turno) grazie all’alleanza tra Hollande e Sarkozy – pesano «il più frusto e gretto nazionalismo, la critica superficiale dei poteri finanziari che lascia intatto l’assetto capitalistico della società, il richiamo ad una tradizione più immaginaria che reale, dietro cui si nasconde una anti-modernità reazionaria». E poi «la becera xenofobia, il populismo greve che si contrappone ad ogni dimensione culturale, la richiesta ottusa della pena di morte». Ma la cattiva notizia, aggiunge Giannuli, «è che vincano quelli di sempre, le forze di sistema».

  • Francia e Venezuela, la falsa sinistra: bara, e quindi perde

    Scritto il 11/12/15 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    In una sola giornata la sinistra  riceve due colpi secchi perdendo (e male) le elezioni politiche in Venezuela ed amministrative in Francia. Sono due contesti diversi e due sinistre diverse: neoliberista, europeista, moderata ed elitaria quella francese, populista e altermondialista quella carachegna, ma entrambe incapaci di essere forza di cambiamento e di affrontare una crisi internazionale come questa in corso. Nel caso francese occorre dissipare un equivoco che dilaga sui media: che si sia trattato di una reazione di fatti del 13 novembre. Intendiamoci: quella strage ha avuto la sua parte nel gonfiare le vele del Fn, con la conclamata incapacità di Hollande di far fronte al pericolo terrorista. Quando, dopo un attentato grave come quello dell’8 gennaio, si chiama in piazza la gente e ci si mette alla testa di un corteo di tre milioni di persone con i capi di Stato e poi non succede niente e gli jihadisti tornano a colpire anche più duro, hai solo dato la misura della tua impotenza e, dunque, non puoi non aspettarti una reazione molto aspra dell’elettorato. Però non si può ridurre tutto a questo solo problema: la popolarità di Hollande (e del Ps) era in picchiata ben da prima dell’attentato di Charlie Hebdo ed, anzi, fu proprio quell’attentato a regalargli una momentanea risalita nel sondaggi, come simbolo dell’unità nazionale contro l’aggressione subita.
    Il guaio è l’incapacità di Hollande di affrontare la crisi economica, con punte di disoccupazione mai viste e di avere una politica estera di qualche autonomia. Ed i due aspetti c’è un evidente nesso: nella questione greca Hollande si è comportato come il valletto-capo della Merkel e non ha avuto un guizzo di soggettività, mentre sulla questione ucraina e sulla Siria si è comportato come il maggiordomo di casa Obama. I francesi, si sa, hanno una idea molto alta di sé stessi e sono attenti tanto allo stato economico della nazione quanto alla politica estera ed uno straccio di presidente così proprio non lo tollerano. Di Hollande si può parlare solo per ridere e, se non fosse stato per la caduta di popolarità di quell’altra macchietta di Sarkozy ed per il noto infortunio di Dominique Strauss-Kahn, mai avrebbe potuto sognare di sedere sulla sedia che fu di De Gaulle e di Mitterrand. Quanto al Ps francese, è un partito spento sin dal dopo-Mitterrand (che pure concluse il suo ciclo presidenziale che la solenne bestialità dell’euro). Ed ora siamo all’ennesimo insuccesso della socialdemocrazia neoliberista ridotta ormai a succedaneo dei partiti della destra democristiana e liberale.
    Questo schema a tre, che sino a cinque anni fa, rappresentava il 90% dell’elettorato europeo, non funziona più: la crisi fa emergere con troppa evidenza la natura elitaria ed antipopolare di quel sistema politico ed insorgono i vari movimenti populisti. Anche i partiti socialisti di sinistra o comunisti d’Europa farebbero bene a chiedersi come mai abbiano intercettato ben poco del malessere sociale seguito all’esplosione della crisi e che, invece (salvo il caso di Syriza, sin che regge) si è riversato sui nuovi partiti populisti. La sinistra d’antan ha preferito guardare verso le pulsioni altermondialiste latinoamericane, di cui i chavisti erano la punta di diamante. Guardare e predicare, ma guardandosi bene dall’imitare. In realtà, anche nel caso sudamericano, si trattava di una variante dello schema populista, che mescolava marxismo, cattolicesimo sociale e peronismo e che non era in grado di esprimere una reale alternativa di governo. Di fatto, l’esperimento chavista è stato l’uso della rendita petrolifera per fondare un welfare che ne distribuisse i benefici. Ottima cosa, ma destinata all’insuccesso in mancanza di una ristrutturazione dell’economia che desse al Venezuela un solido impianto industriale.
    I paesi produttori di materie prime sono sempre i primi ad essere colpiti dalle crisi, come è puntualmente accaduto nel Venezuela degli ultimi quattro anni che ha dovuto gonfiare il suo debito. La formula ha funzionato in termini di consenso sin quando il debito non è esploso e sinchè il gioco era nelle mani di Chavez che, oltre che essere un personaggio carismatico, era un sincero democratico che cercava il consenso popolare. Ma, quando Chavez è morto, il gioco è passato nelle mani di un piccolo burocrate stalinista come Maduro, incapace di gestire la crisi economica e sociale del paese. L’elettorato (giustamente) non ha perdonato a Maduro la brutale repressione della protesta studentesca di due anni fa, condotta in perfetto stile fascista con l’uso della tortura da parte della polizia. Né ha perdonato il dilagare della corruzione fra militari, polizia e quadri del Pst. Senza quella vasta corruzione (che per la verità c’era già ai tempi di Chavez che, però, si sforzava di contrastarla) non si sarebbe potuto assistere al dilagare del mercato nero che ha ridotto alla fame diversi strati di popolazione.
    Ora è arrivato il conto. Non credo affatto che la destra che ha vinto saprà esser migliore e risolvere i problemi sociali del paese, ma gli chavisti meritavano questo severo ceffone. E qui veniamo al perché la sinistra perde, come si vede, in entrambe le versioni, quella elitaria e quella populista. La risposta è semplice: perché in entrambi i casi è una sinistra solo di nome e non di fatto. La sinistra non può essere quella di chi difende l’oligarchia europeista, ma nemmeno quella dei burocrati che fanno solo dell’egualitarismo verbale e per il resto pensano solo a procurarsi privilegi e reagiscono con la repressione alle proteste popolari. Già immagino i commenti dei difensori d’ufficio dell’uno e degli altri: la sinistra deve imparare ad essere molto severa con sé stessa e a non cedere ai facili giustificazionismi che servono solo a porre le premesse della prossima sconfitta. Se vuol tornare a vincere, la sinistra deve tornare ad essere reale forza di cambiamento, il che significa prima di tutto autoprocessarsi per gli errori passati e poi cambiare cultura politica, modelli organizzativi e forme di azioni. Il peggior tradimento di una idea è la sua mummificazione, perché una idea che non cambia nel tempo è una idea che tradisce sé stessa.
    (Aldo Giannuli, “Francia e Venezuela, la sinistra che perde”, dal blog di Giannuli del 7 dicembre 2015).

    In una sola giornata la sinistra  riceve due colpi secchi perdendo (e male) le elezioni politiche in Venezuela ed amministrative in Francia. Sono due contesti diversi e due sinistre diverse: neoliberista, europeista, moderata ed elitaria quella francese, populista e altermondialista quella carachegna, ma entrambe incapaci di essere forza di cambiamento e di affrontare una crisi internazionale come questa in corso. Nel caso francese occorre dissipare un equivoco che dilaga sui media: che si sia trattato di una reazione di fatti del 13 novembre. Intendiamoci: quella strage ha avuto la sua parte nel gonfiare le vele del Fn, con la conclamata incapacità di Hollande di far fronte al pericolo terrorista. Quando, dopo un attentato grave come quello dell’8 gennaio, si chiama in piazza la gente e ci si mette alla testa di un corteo di tre milioni di persone con i capi di Stato e poi non succede niente e gli jihadisti tornano a colpire anche più duro, hai solo dato la misura della tua impotenza e, dunque, non puoi non aspettarti una reazione molto aspra dell’elettorato. Però non si può ridurre tutto a questo solo problema: la popolarità di Hollande (e del Ps) era in picchiata ben da prima dell’attentato di Charlie Hebdo ed, anzi, fu proprio quell’attentato a regalargli una momentanea risalita nel sondaggi, come simbolo dell’unità nazionale contro l’aggressione subita.

  • L’imam filo-Pd e la fiction del terrore, da Osama all’Isis

    Scritto il 10/12/15 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    “La verità è così preziosa che bisogna proteggerla sempre con una cortina di bugie”. (Winston Churchill). Il livello di propaganda che emana dai media in questa grande campagna d’autunno all’insegna della strategia della tensione globale ha ormai superato ogni limite di tolleranza, per non dire di decenza. Credo che oramai questa cosa del “più la bugia è grossa e più la gente la crederà” stia loro sfuggendo di mano. La saggezza popolare, quella che, nella scritta sul muro qui sopra, sfida il nemico fantasmatico a palesarsi nel reale per un virile e decisivo fare a cazzotti, è sempre pronta a vedere la nudità dell’imperatore e ogni volta che appare un nuovo nemico già ex-amico, una nuova compagine terroristica dal nome improbabile, un nuovo babau – anche se non è ancora stato trovato un caratterista all’altezza dell’Osama Bin Laden fatto morire nell’epico finale della serie “Al Qaeda” – è sempre meno disposta a crederci. La grossezza della bugia deve diventare quindi enormità, essa si gonfia fino a che un giorno, inevitabilmente, non potrà che esplodere in faccia a coloro che l’hanno creata ed hanno continuato a gonfiarla a dismisura credendo di poterlo fare all’infinito.
    Si comincia a credere sempre meno alla narrazione di ogni ennesimo attentato anche se non si appartiene alla categoria dei complottisti, perché nel mondo dell’informazione mainstream 2.8, stanno esagerando, secondo me, con quella che ormai non è nemmeno più affabulazione ma pura mitopoiesi. E’ una cascata di menzogne con l’aggravante della presunzione dell’idiozia totale dell’ascoltatore. Le palle, di tutti i colori, rotolano in salotto dal televisore trasformandocelo in un’area bimbi dell’Ikea. La creazione del nemico è fatta di caratteristi ed improbabili macchiette che lo risulterebbero anche in un film di 007, dei quali ormai si lanciano al pubblico solo i pochi brandelli rimasti dopo che si sono fatti immancabilmente esplodere, tra cui sempre gli incredibili passaporti intonsi. A volte sono solo nomi senza volto, Carneadi assurti agli onori della cronaca per ancor meno del quarto d’ora sindacale. Immagini fuggenti che però rimangono bene impresse nella mente, come solo i fantasmi riescono a fare.
    Vogliamo parlare dei famigerati filmati dell’Isis mandati regolarmente alla Signora Katz (alla quale scommetto nessuna intelligence va a chiedere come faccia ad avere sempre il canale aperto con l’Isis)? Lì vale il trucco del “non possiamo ovviamente mostrarvene le immagini”. E’ noto che basta offrire un lieve input al nostro inconscio per farlo scatenate in immaginazioni degne del peggior incubo. All’inizio il messaggio è “Jihadi John è un terrorista islamico che ha tagliato la testa ad un prigioniero occidentale”. Poi vi fanno vedere uno vestito ed incappucciato di nero (il Babau) con un coltello in mano e il prigioniero inginocchiato. Vi descrivono cosa accade in seguito ma non vi fanno vedere ovviamente le immagini, tanto voi ve le figurate lo stesso il più crude possibile e meglio di qualsiasi Eli Roth alla regia. Una volta stabilito il collegamento islamico=tagliagole attraverso lo shock emotivo della decapitazione fantasticata, senza contare l’evocazione di un archetipo come il sacrificio umano, basterà solo nominare “Isis” o anche solo “coltello”, e tutti risponderanno correttamente con la vampata di terrore che paralizza e sconvolge e l’odio verso il boia fantasma di turno.
    Siamo cani infedeli, è vero, ma cani di Pavlov. Questo è nient’altro che condizionamento operante.Un arnese vecchio come il cucco ma che, a quanto pare, ancora funziona. Non so se ve ne siete accorti ma, con questi ultimi attentati interpretati dai caratteristi islamici, gli sceneggiatori globalisti dello spin-off di “Al Qaeda”, ovvero “Isis”, stanno cercando di palestinizzare l’Europa. E visto che il masterplan in Europa è il governo unico, la sbobba unica europea che governi il meticciato ingovernabile del prossimo regno delle corporation post Ttip, dopo Parigi la prossima location del tour della paura non può che essere Bruxelles. E’ ovvio che, se il terrorismo minaccia Bruxelles, ci vuole più Europa. Con la speranza forse che “sarà l’Isis a far nascere l’Europa” (“il discorso di Hollande tocca un punto cruciale: che è stata colpita l’Europa, non la Francia. E che quando si parla di confini non si parla di quelli nazionali. Forse la tragedia di Parigi può essere la svolta per il Vecchio Continente”).
    Un’altra cosa che non credo riusciranno a reggere in eterno, oltre le spudorate menzogne, è l’imposizione della dissonanza cognitiva tra Islam terrorista cattivo / Islam di pace e moderato. Già si fatica a capire perché, mentre si sta facendo di tutto per farci percepire gli islamici come terroristi sanguinari e tagliagole, e quindi farceli odiare, allo stesso tempo ci stiano riempiendo di islamici a strafottere, con l’obbligo di accoglierli, amarli e di non indulgere nell’islamofobia (una delle cinquanta sfumature del piagnonismo minoritario politicamente corretto). Ma come si fa? Pretenderebbero che li odiassimo (come Netanyahu, ad esempio) e allo stesso tempo li amassimo cristianamente come Papa Francesco. La percezione quantistica dell’Islam. “Ti odio e poi ti amo e poi ti amo e poi ti odio e poi ti amo”, cantava Mina, ma era una canzone. Qui siamo in guerra e in guerra non è concepibile non sapere chi è il nemico o ondeggiare nell’indeterminazione, a meno che ciò non serva a qualcuno e noi siamo solo pupazzi ammaestrati o i cani di Pavlov di cui sopra.
    E’ ovvio che non tutti i musulmani sono jihadisti e wahabiti e che non tutti gli imam sono come quello a Brest che insegna ai bambini che la musica è haram e che chi l’ama sarà tramutato in porco, altrimenti non esisterebbe la pregevolissima musica mediorientale.
    D’altra parte nelle manifestazioni di condanna degli islamici al terrorismo (dallo slogan chiaramente spin #notinmyname), nonostante il tentativo di farle passare per oceaniche dalla solita informazione che esegue solo gli ordini, si è trattato di appena 400-500 gatti tra il solito piddinume da parata ed esclusi l’omaccia della Cgil, il Landini ingolfato, il centrodestra in tracce (Casini e Cicchitto) e le istituzioni in contumacia. A Milano hanno rischiato di essere stati di più al raduno degli ex-paninari in S.Babila. Insomma il “da che parte stanno” che in guerra è di prammatica e durante la Seconda Guerra Mondiale mandò i giapponesi d’America in campi di concentramento, è ancora per noi un mistero. Perciò, quando senti l’Allahu akbar gridato dai saraceni appena sbarcati, è l’antico sangue templare che ti ribolle nelle vene o solo il timore che, una volta in Europa, l’islamico pacifico e moderato getti la maschera e vada a dar di rota alla vecchia scimitarra?
    Vi è un’innegabile ambiguità islamica che permette a qualcuno di manipolarla a scopo di creazione del caos. Ciò che mi sembra interessante chiedersi, a questo punto, è perché diavolo le istituzioni islamiche, più che scendere inutilmente e vergognosamente in quattro gatti in piazza in favore di telecamera, non denuncino l’evidente strumentalizzazione globalista dei suoi estremisti jihadisti a progetto per scopi che paiono servire più che altro i loro nemici storici ed il loro alleato in bisinissi l’Arabia Saudita, per non parlare dei doppiogiochisti turchi, da sempre con un piede nell’Islam e l’altro in Europa. Perché insomma queste istituzioni moderate, di pace e fratellanza, che dovrebbero rappresentare i buoni ed onesti tra i musulmani, non dicano: “Ci siamo accorti anche noi che è un grande inganno e vogliamo denunciarlo perché ci danneggia come danneggia voi”. Invece, zitti.
    Cari saraceni, non è che ci state credendo veramente a questa reconquista, per caso? Non crederete anche voi, spero, alla telenovela della Katz con il trailer della Tour Eiffel che crolla nel prossimo episodio? Pensate che facendo i piddini e campagna elettorale per loro, ciò possa servire alla causa del profeta? Ci costringete quindi proprio ad odiarvi, noi che volevamo solo amarvi? Perché sappiate che islamico + piddino raddoppia i punti e si completa prima la raccolta.
    (Barbara Tampieri aka Lameduck, “Il tempo dell’inganno universale”, da “L’Orizzonte degli Eventi” del 22 novembre 2015).

    “La verità è così preziosa che bisogna proteggerla sempre con una cortina di bugie”. (Winston Churchill). Il livello di propaganda che emana dai media in questa grande campagna d’autunno all’insegna della strategia della tensione globale ha ormai superato ogni limite di tolleranza, per non dire di decenza. Credo che oramai questa cosa del “più la bugia è grossa e più la gente la crederà” stia loro sfuggendo di mano. La saggezza popolare, quella che, nella scritta sul muro qui sopra, sfida il nemico fantasmatico a palesarsi nel reale per un virile e decisivo fare a cazzotti, è sempre pronta a vedere la nudità dell’imperatore e ogni volta che appare un nuovo nemico già ex-amico, una nuova compagine terroristica dal nome improbabile, un nuovo babau – anche se non è ancora stato trovato un caratterista all’altezza dell’Osama Bin Laden fatto morire nell’epico finale della serie “Al Qaeda” – è sempre meno disposta a crederci. La grossezza della bugia deve diventare quindi enormità, essa si gonfia fino a che un giorno, inevitabilmente, non potrà che esplodere in faccia a coloro che l’hanno creata ed hanno continuato a gonfiarla a dismisura credendo di poterlo fare all’infinito.

  • Tutti contro tutti, ecco perché non nasce l’Euro-intelligence

    Scritto il 07/12/15 • nella Categoria: idee • (1)

    Gli attentati parigini hanno riproposto una polemica ricorrente: ma perché non si fa l’Eurointelligence e, cioè, se non proprio una agenzia di intelligence della Ue, almeno uno stretto coordinamento delle agenzie nazionali? In effetti, se l’Europa fosse un unico Stato con un unico sistema di intelligence, ci sarebbe un apparato di vastissime proporzioni, secondo solo all’intelligence degli Usa. Sommando i soli dati dei primi 4 paesi dell’Unione (Uk, Francia, Germania e Italia) ci sarebbe un apparato forte di 28.841 uomini e di 8.265 milioni di euro annui (dati “Sole 24 Ore” del 25 novembre 2015). E invece, proprio la vicenda di Parigi ha dimostrato l’assenza o la scarsità anche del semplice scambio di dati fra due paesi vicini geograficamente come Belgio e Francia. Non si riesce neppure a mettere insieme una semplice banca dati, alimentata da contributi volontari delle singole intelligence. Come mai? In effetti, la cosa sembra piuttosto irrazionale e in molti reclamano, del tutto sterilmente, la nascita di una Eurointelligence. Che però non verrà fuori. Perché?
    Su un piano astratto, possiamo cavarcela con una frase: l’intelligence è una delle funzioni della sovranità più gelosamente custodita da ogni Stato, per cui esige un rapporto esclusivo fra apparato informativo e autorità politica. Un coordinamento sovranazionale avrebbe invece l’effetto inevitabile di autonomizzare i servizi dai rispettivi governi. E già questo spiega il perché i governi non vedano mai di buon occhio questo genere di coordinamenti, consentendone il funzionamento quando proprio non se ne può fare a meno, come nel caso della Nato, e solo limitatamente all’intelligence militare o con mille restrizioni. Per cui, basterebbe chiedere un potenziamento della cooperazione in sede Nato, visto che gli americani sono nostri alleati (o no?!).
    In concreto, la cosa si presenta di difficile attuazione per i contrasti di interesse fra i diversi paesi europei in particolare nell’area Medio Oriente-Nord Africa (Me-na): la Francia ha interessi forti in Africa occidentale e mal sopporta la concorrenza italiana in Algeria, per non dire della Libia; ha mire sulla Siria e, quindi, è da sempre ostile alla Turchia e si oppone al suo ingresso nella Ue; ha una posizione problematica sul conflitto israelo-palestinese, ha una posizione favorevole ai progetti di gasdotti russi nella zona. L’Inghilterra è ostile all’Italia per le questioni libiche, mentre ha posizioni opposte alla Francia sia per la Turchia sia per la questione dei gasdotti russi. Ha una posizione più sfumata sulla questione arabo-israeliana; ha forti interessi in Egitto, ma non per questo è disposta a rompere i legami con il Qatar che finanzia i Fratelli Musulmani; essendo contraria alla spartizione dell’Iraq, ha una politica prevalentemente filo-sunnita, per cui non vede di buon occhio le rivendicazioni indipendentiste sciite e curde.
    La Germania è da sempre (con l’Olanda) il paese più filoisraeliano della Ue (per la nota questione del “debito morale” seguito alla Shoah); è molto perplessa sulla questione dell’ingresso della Turchia nella Ue, temendo una valanga di immigrati (sono già 5 milioni i turchi presenti in quel paese); sin qui non ha avuto una presenza significativa nelle questioni mediorientali, ma è interessata alla politica dei gasdotti russi (anche se momentaneamente sospesi per la questione ucraina). L’Italia ha interessi prevalenti in Libia (ora seriamente messi in pericolo) e ha buoni rapporti con gli algerini; ha speranze di consolidare la presenza petrolifera in Iraq oltre che di espandersi commercialmente in Turchia (di cui ha sempre caldeggiato l’ingresso nella Ue); è il paese tradizionalmente più filo-arabo della Ue e, di conseguenza il meno vicino ad Israele; attualmente è il paese più filo-russo dell’Unione, essendo da sempre favorevole ai progetti di gasdotti russi.
    E potremmo aggiungere altro, ma già questo ci sembra sufficiente a dimostrare quale guazzabuglio di interesse orienti le politiche di ciascun paese e gran parte di queste politiche passano per i canali coperti dell’intelligence. Questo si riflette anche sulla partita del terrorismo, sia perché le questioni petrolifere o di strategia generale non sono così nettamente separabili da quelle del terrorismo, sia perché nella stessa gestione del problema della Jihad ci sono orientamenti opposti: gli italiani hanno sempre trattato per la liberazione degli ostaggi (sempre smentendolo), mentre inglesi e americani no (anche perché gli jihadisti non hanno mai accettato alcun dialogo con loro); i francesi sono molto più intransigenti verso gli integralisti algerini (quello che era il Fis), mentre meno intransigenti sono stati gli italiani; così come è il caso di chiederci come mai Italia e Germania siano state, sinora, risparmiate dai grandi attentati che hanno colpito invece Inghilterra, Spagna, Francia, Danimarca.
    E allora cosa si può pretendere, che gli italiani dicano agli altri con chi hanno trattato per Mastrogiacomo o la Sgrena? O che gli inglesi ci dicano cosa sanno dei traffici fra Isis e Turchia a costo di rompere con con Ankara? O che i tedeschi ci parlino degli eventuali compromessi per essere risparmiati? O che italiani e tedeschi riferiscano sulle attività delle rispettive industrie produttrici di armi e dei loro giochi proibiti? Se nascesse Eurointelligence, i vari servizi nazionali spenderebbero la maggior parte del loro tempo a spiarsi fra di loro o ad organizzare trappole recioproche. Lo fanno i servizi di uno stesso paese fra di loro, immaginiamoci di paesi diversi come quelli europei. Chi insiste a proporre l’Eurointelligence o non capisce assolutamente nulla del mondo dei servizi o è solo un ipocrita.
    (Aldo Giannuli, “Perché non si fa l’Euro-intelligence?”, dal blog di Giannuli del 1° dicembre 2015).

    Gli attentati parigini hanno riproposto una polemica ricorrente: ma perché non si fa l’Eurointelligence e, cioè, se non proprio una agenzia di intelligence della Ue, almeno uno stretto coordinamento delle agenzie nazionali? In effetti, se l’Europa fosse un unico Stato con un unico sistema di intelligence, ci sarebbe un apparato di vastissime proporzioni, secondo solo all’intelligence degli Usa. Sommando i soli dati dei primi 4 paesi dell’Unione (Uk, Francia, Germania e Italia) ci sarebbe un apparato forte di 28.841 uomini e di 8.265 milioni di euro annui (dati “Sole 24 Ore” del 25 novembre 2015). E invece, proprio la vicenda di Parigi ha dimostrato l’assenza o la scarsità anche del semplice scambio di dati fra due paesi vicini geograficamente come Belgio e Francia. Non si riesce neppure a mettere insieme una semplice banca dati, alimentata da contributi volontari delle singole intelligence. Come mai? In effetti, la cosa sembra piuttosto irrazionale e in molti reclamano, del tutto sterilmente, la nascita di una Eurointelligence. Che però non verrà fuori. Perché?

  • Gli inglesi nell’Ue solo grazie all’imbroglio dell’élite segreta

    Scritto il 06/12/15 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    I votanti al referendum inglese devono sapere che fin dal primo giorno l’Unione Europea intendeva costruire un superstato federale. Mentre ferve il dibattito sul prossimo referendum Ue, è utile ricordare in primo luogo in che modo la Gran Bretagna sia giunta all’adesione. Mi sembra, infatti, che la maggior parte della gente non capisca il motivo per cui uno dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale debba struggersi così tanto per entrare a far parte di questo “club”. E questo è un peccato, perché la risposta a questa domanda è la chiave per capire perché l’Unione Europea stia andando così male. La maggior parte degli studenti inglesi sembra pensare che la Gran Bretagna fosse in difficoltà economiche, e che la Comunità Economica Europea – come si chiamava allora – costituisse un nuovo motore economico in grado di rivitalizzare la sua economia.  Altri pensano che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Gran Bretagna avesse avuto bisogno di riformulare la sua posizione geopolitica, da quella di tipo “imperiale” a una più realistica all’interno dell’Europa. Nessuno di questi argomenti, tuttavia, è valido.
    La Cee negli anni 1960 e 1970 non era in grado di rigenerare nessuna economia possibile. Utilizzò le sue magre risorse per l’agricoltura e la pesca e non disponeva di mezzi e di politiche per poter generare una crescita economica. Quando entrammo nella Cee il nostro tasso di crescita annuale fu un record del 7,4%, quindi per noi l’argomento “economia-paniere” non sta in piedi (l’attuale cancelliere morirebbe, per simili cifre). Quando la crescita arrivò, non fu grazie alla Comunità Europea. Dalle riforme sull’offerta di Ludwig Erhard in Germania Ovest nel 1948 alle privatizzazioni della Thatcher delle industrie nazionalizzate negli anni ‘80, la crescita europea giunse attraverso riforme introdotte dai singoli paesi e replicate in altri. La politica dell’Unione Europea è sempre stata irrilevante o addirittura dannosa (vedi l’euro). Né si può dire che la crescita britannica sia mai stata inferiore di quella Europea. A volte l’ha anche superata. Nel 1950 l’Europa occidentale registrò un tasso di crescita del 3,5%; nel 1960 era del 4,5%. Ma nel 1959, quando Harold Macmillan assunse l’incarico di governo, il reale tasso di crescita annuo del Pil britannico, secondo l’ufficio nazionale di statistica, era quasi del 6%. Ed era sempre intorno al 6% quando de Gaulle pose il veto alla nostra prima domanda di adesione alla Ce nel 1963.
    E che dire della geopolitica? Quale argomento, alla luce fredda del senno di poi, avrebbe potuto essere così convincente da indurci a farci prendere a calci dai nostri alleati del Commonwealth nella Seconda Guerra Mondiale per voler aderire ad una combinazione economica tra Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Francia, Germania e Italia? Quattro di questi paesi non avevano alcun peso internazionale. La Germania era stata occupata e divisa. La Francia, nel frattempo, aveva perso una guerra coloniale in Vietnam e un’altra in Algeria. De Gaulle era giunto al potere per salvare il paese dalla guerra civile. La maggior parte dei realisti sicuramente avranno considerato questi Stati come un gruppo di perdenti. De Gaulle, egli stesso un iper-realista, sottolineò che la Gran Bretagna aveva delle istituzioni politiche democratiche, legami commerciali con tutto il mondo, cibo a buon mercato dai paesi del Commonwealth ed era anche una delle maggiori potenze mondiali. Perché avrebbe voluto entrare nella Cee?
    La risposta è che Harold Macmillan e i suoi più stretti collaboratori erano parte di una tradizione intellettuale che vedeva la salvezza del mondo in una forma di supergoverno mondiale fondato sul federalismo regionale. Era anche molto vicino a Jean Monnet, che condivideva lo stesso pensiero. Così, Macmillan diventò il rappresentante del movimento federalista europeo nel Gabinetto britannico. In un discorso alla Camera dei Comuni sostenne il progetto della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca) prima ancora che fosse annunciato in Europa. In seguito, si adoperò per la conclusione di un accordo di associazione tra Regno Unito e la Ceca, e fu sempre lui a garantire che dopo la Conferenza di Messina, che diede vita alla Cee, ai negoziati di Bruxelles fosse sempre presente un rappresentante britannico. Alla fine degli anni ’50 spinse per l’adesione dell’European Free Trade Association alla Cee. Poi, quando il generale de Gaulle iniziò a cambiare la Cee in qualcosa di meno federale, si affrettò a presentare una vera e propria domanda di adesione britannica, con l’intento di frenare le ambizioni gaulliste. Il suo scopo, in un’alleanza con gli Stati Uniti e i proponenti europei di una ordine mondiale federalista, era di dare un colpo alla emergente alleanza franco-tedesca, vista come un’alleanza tra il nazionalismo francese e quello tedesco.
    Lo statista francese Jean Monnet, che nel 1956 fu nominato presidente della Commissione per gli Stati Uniti d’Europa, incontrò più volte – segretamente – Heath e Macmillan, per facilitare l’ingresso britannico nella Cee. Egli, infatti, fu il primo ad essere informato in quali termini avrebbe potuto inquadrarsi un’eventuale entrata britannica nella Comunità Europea. Nonostante il consiglio del Lord Cancelliere, Lord Kilmuir, che l’adesione avrebbe significato la fine della sovranità parlamentare britannica, Macmillan fuorviò deliberatamente la Camera dei Comuni – e praticamente tutti gli altri, da statisti del Commonwealth a colleghi di governo e l’opinione pubblica – dicendo che erano coinvolti solo rapporti commerciali minori. Tentò anche di ingannare de Gaulle, dicendo di essere anti-federalista, oltre che un suo caro amico, e che avrebbe fatto in modo che anche la Francia, come la Gran Bretagna, ricevesse i missili Polaris dagli americani. Ma de Gaulle non la bevve, e pose il veto per la domanda di adesione della Gran Bretagna.
    Macmillan lasciò a Edward Heath il prosieguo della questione, e Heath, insieme a Douglas Hurd, dispose – secondo documenti di Monnet – che il partito Tory diventasse un membro (segreto) della Commissione per gli Stati Uniti d’Europa di Monnet. Secondo il primo assistente e biografo di Monnet, François Duchene, più tardi anche i partiti laburista e liberale fecero la stessa cosa. Nel frattempo, il conte di Gosford, uno dei ministri per la politica estera di Macmillan nella Camera dei Lord, informò apertamente la Camera che lo scopo della politica estera del governo era un supergoverno mondiale. La Commissione di Monnet ricevette anche sostegno finanziario dalla Cia e dal Dipartimento di Stato Usa. A quel punto era chiaro che l’establishment anglo-americano fosse intenzionato a creare una federazione di Stati Uniti d’Europa. Ed è così anche oggi. Potenti lobby internazionali sono già al lavoro nel tentativo di dimostrare che qualsiasi ritorno a un governo democratico “indipendente” sarà una sciagura.
    Alcuni funzionari americani sono già stati allertati per sostenere che un Regno Unito del genere verrebbe escluso da qualsiasi accordo di libero scambio con gli Stati Uniti e che il mondo ha bisogno del trattato commerciale Ttip, che dipende totalmente dalla sopravvivenza dell’Unione Europea. Fortunatamente, i candidati repubblicani statunitensi stanno diventando sempre più euroscettici, e giornali americani come “The National Interest” stanno pubblicando il caso del Brexit. La coalizione internazionale dietro a Macmillan e Heath questa volta non troverà un quadro altrettanto semplice come allora – soprattutto considerando le evidenti difficoltà dell’Eurozona, il fallimento delle politiche europee di immigrazione e la mancanza di coerenti politiche per la sicurezza europea. E inoltre, la cosa più importante: l’opinione pubblica inglese, burlata già una volta, sarà molto più difficile burlarla una seconda volta.
    (Alan Sked, “Come un’élite segreta creò l’Unione Europea per costruire un governo mondiale”, dal “Telegraph” del 27 novembre 2015, tradotto da “Come Don Chisciotte”. Il professor Alan Sked è uno dei fondatori originari dell’Ukip, il partito indipendentista di Nigel Farage. Docente di storia internazionale alla London School of Economics, sta raccogliendo materiale per un suo libro, che spera di pubblicare presto, sulle esperienze “europee” del Regno Unito).

    I votanti al referendum inglese devono sapere che fin dal primo giorno l’Unione Europea intendeva costruire un superstato federale. Mentre ferve il dibattito sul prossimo referendum Ue, è utile ricordare in primo luogo in che modo la Gran Bretagna sia giunta all’adesione. Mi sembra, infatti, che la maggior parte della gente non capisca il motivo per cui uno dei vincitori della Seconda Guerra Mondiale debba struggersi così tanto per entrare a far parte di questo “club”. E questo è un peccato, perché la risposta a questa domanda è la chiave per capire perché l’Unione Europea stia andando così male. La maggior parte degli studenti inglesi sembra pensare che la Gran Bretagna fosse in difficoltà economiche, e che la Comunità Economica Europea – come si chiamava allora – costituisse un nuovo motore economico in grado di rivitalizzare la sua economia.  Altri pensano che, dopo la Seconda Guerra Mondiale, la Gran Bretagna avesse avuto bisogno di riformulare la sua posizione geopolitica, da quella di tipo “imperiale” a una più realistica all’interno dell’Europa. Nessuno di questi argomenti, tuttavia, è valido.

  • Sciiti e sunniti, colpa loro. Noi occidentali? Innocenti, ovvio

    Scritto il 05/12/15 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    “Se Allah avesse voluto una sola religione, al mondo, quella soltanto ci sarebbe”. Nel suo saggio sulle principali confessioni del pianeta, Paolo Franceschetti ricorda lo straordinario ecumenismo presente nel Corano, secondo cui “tutte le religioni sono mezzi che conducono alla stessa meta”. «Lo stesso Maometto, pur “prescelto da Dio”, aggiungeva: non compio miracoli, non servirebbe. Nonostante i suoi miracoli, nemmeno Cristo, il più grande dei profeti, è stato riconosciuto per ciò che era, ed è stato crocifisso». Ora torna in voga il refrain sullo “scontro di civiltà”, inaugurato nel 1996 da un esponente dell’élite come Samuel Huntington (“Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale”) e reso tristemente celebre da Oriana Fallaci dopo l’11 Settembre. E oggi, nella narrazione mainstream frastornata da attentati e guerre a catena (Libia e Siria, Charlie Hebdo, Yemen, strage di Parigi del 13 novembre), lentamente affiora anche nei talkshow un nuovo capitolo, quello della guerra inter-islamica tra sciiti e sunniti. «Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale», scriveva Huntington. «Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro», anche perché «le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura».
    Superiorità occidentale? Sì, ma a mano armata: «L’Occidente – ammette ancora Huntington – non ha conquistato il mondo con la superiorità delle sue idee, dei suoi valori o della sua religione, ma attraverso la sua superiorità nell’uso della violenza organizzata, il potere militare». E attenzione: «Gli occidentali lo dimenticano spesso, i non occidentali mai». Lo sottolinea Paolo Barnard nel suo saggio “Perché ci odiano”, in cui intervista anche l’allora “numero tre” di Al-Qaeda: il mondo islamico ha ormai incorporato un rancore smisurato e più che giustificato verso l’Occidente, dopo aver subito – senza interruzione – un genocidio dopo l’altro, lo stupro di interi paesi e la razzia delle risorse (petrolifere, e non solo) grazie alla complicità di élite locali, i “raìs” che rinnegarono le istanze della decolonizzazione, restando al potere – dittature e monarchie – col granitico supporto occidentale. Una stagione di piombo, dopo la fine delle speranze accese dai leader terzomondisti arabi e africani sistematicamente uccisi o fatti uccidere dagli occidentali, perché scomodi: da Patrice Lumumba in Congo, liquidato dal Belgio per insediare Mobutu, fino a Thomas Sankara, in Burkina Faso (l’uomo che voleva azzerare il debito per i paesi poveri), assassinato col solito sistema, sicari locali armati da mandanti occidentali, francesi e americani.
    Il maggiore leader della storia egiziana moderna, Nasser, trascinò il mondo sull’orlo della guerra nel fatidico 1956: nazionalizzò il Canale di Suez per protesta contro la Banca Mondiale che rifiutava di finanziare una grande diga sul Nilo; per rovesciarlo manu militari, inglesi e francesi sbarcarono in forze a Port Said, ma furono fermati dall’Urss che intimò loro il ritiro immediato, pena l’impiego delle armi atomiche. Proprio il crollo dell’Unione Sovietica ruppe equilibri decennali, congelando al potere i vecchi autocrati, ancora sul trono o travolti solo ora dalle “primavere arabe”. Sempre in Egitto, il “faraone” Mubarak era stato il vicepresidente di Anwar Sadat, l’uomo della storica pace separata con Israele. Pagò con la vita, Sadat, e la sua fine mise sotto i riflettori, per la prima volta, la “jihad islamica”: Sadat fu ucciso nel 1981 da un killer jihadista. Meno di dieci anni dopo, l’Algeria schierò i carri armati nelle strade per annullare i risultati delle elezioni, che avevano clamorosamente incoronato il Fis, Fronte Islamico di Salvezza. Ma l’unico grande paese in cui l’Islam andò letteralmente al potere fu l’Iran, con la travolgente rivoluzione di Khomeini del 1979, guidata dal carismatico ayatollah (sciita) esiliato dal feroce regime dello “scià” Reza Pahlavi, a cui l’Occidente aveva imposto di eliminare il premier Mohammad Mossadeq, che aveva osato nazionalizzare il petrolio iraniano, saldamente in mano agli inglesi dal lontano 1908.
    Con Khomeini, l’identità religiosa si è trasformata anche in arma politica di autodifesa, da parte di paesi storicamente brutalizzati e rapinati dall’Occidente, che non ha mai neppure provato a sanare la devastante piaga della Palestina, martoriata fino al genocidio delle bombe al fosforo bianco sganciate anche sui bambini, dopo che a Gaza si è imposta (democraticamente, per via elettorale) la fazione sciita di Hamas. Appena più a nord, altri sciiti, quelli del partito armato di Hezbollah insediato in Libano, sono ora impegnati accanto ai russi nel sostegno militare del regime di Assad, esponente della componente sciita (alawyta) della Siria. Mentre nell’altro paese raso al suolo dalle bombe, l’Iraq, a maggioranza sciita, sono stati gli americani a emarginare, con la fine di Saddam, la componente sunnita, da cui si racconta sia partita l’ultima ondata jihadista che sta insanguinando il Medio Oriente e terrorizzando la Francia. Religione o potere? Secondo un eminente studioso come Francesco Saba Sardi, biografo di Picasso e traduttore di Simenon, Pessoa, Borges e Garcia Marquez, religione e potere compaiono insieme, nella storia della civiltà, insieme al terzo elemento: la guerra. Accade nel passaggio cruciale tra il paleolitico, abitato da cacciatori e raccoglitori, al neolitico, in cui l’uomo scopre l’agricoltura e quindi il bisogno di conquistare e difendere la terra. Nel saggio “Dominio”, Saba Sardi sostiene che proprio la religione nacque per conferire autorità al primo capo politico e militare della storia dell’umanità, il re-sacerdote.
    Se la “guida suprema” dell’Iran, l’ayatollah Alì Khamenei, potrebbe essere classificato (come il Papa-re) nella categoria dei re-sacerdoti, è pur vero però che i “nemici” dei paesi islamici non professano, di fatto, alcuna religione: il biglietto da visita dell’Occidente “cristiano” non è il crocifisso, ma una valigia di dollari e una flotta di droni che sganciano missili. Tre milioni di vittime, fra i musulmani, solo negli ultimi anni. E’ sempre l’Occidente – l’ha ricordato un comico, Maurizio Crozza, citando Hillary Clinton – ad aver “fabbricato”, in Afghanistan, il fondamentalismo islamico da cui poi nacquero i Talebani e il loro profeta, l’ex uomo Cia più famoso del mondo, Osama Bin Laden. Eppure, di fronte ai fallimenti catastrofici in Medio Oriente e alla recente paura quotidiana per gli attentati, un’Europa smemorata e incerta, guidata dall’evanescente Obama, resta tra le nebbie di una politica reticente e disonesta: preferisce tacere sul ruolo di Usa, Francia e Turchia nella progettazione a tavolino della “guerra civile” in Siria, per parlare piuttosto di scontro inter-islamico tra sciiti e sunniti, come se si trattasse di una lite di famiglia tra parenti lontani, stravaganti e fanatici, fingendo di non sapere come mai, molti di loro, ce l’hanno tanto con noi.
    Posto che nessuno potrebbe mai farsi saltare in aria senza essere imbottito di anfetamine o debitamente manipolato con tecniche psicologiche potentissime, come quelle messe a punto nel programma Mk-Ultra della Cia, non occorre un Premio Nobel per riconoscere le ragioni di un risentimento vastissimo, motivato da decenni di mostruose sofferenze inflitte. «La differenza tra noi e voi è semplice: noi non abbiamo paura di morire», dice un jihadista. Può succedere, sostiene Marco Travaglio, se scopri di non avere più niente da perdere, perché qualcuno ti ha condotto alla disperazione, privandoti di tutto. «Aiutiamoli a casa loro», dicono – senza ridere – leader come Salvini, come se non sapessero in che modo li stiamo già “aiutando”, a casa loro, da decenni. Enrico Mattei, che alla parola “aiuto” dava un significato diverso (non rapina, ma scambio equo) fu fatto esplodere in aria, sul suo aereo. Ma era tanto tempo fa. Troppo, per ricordare. Meglio allora i pettegolezzi sulla lite di famiglia tra i sunniti, cioè gli eredi di Abu Bakr, amico e suocero di Maometto, e gli sciiti, seguaci dell’imam Alì, cugino e genero del Profeta. La divisione religiosa risale al VII secolo dopo Cristo, ma è “esplosa” soltanto adesso, da quando i paesi islamici del Vicino Oriente si sono accorti, definitivamente, della natura dell’“aiuto a casa loro” fornito dal potere occidentale.
    Il nostro è un potere non certo religioso, ma finanziario e militare, come ricorda Huntington, peraltro co-autore dello storico saggio “La crisi della democrazia”, commissionato dalla Trilaterale e utilizzato come Vangelo dall’oligarchia mondialista, quella che ha messo fine alla sovranità nazionale anche archiviando la sinistra dei diritti, quella che – per inciso – sosteneva le cause del terzo mondo, inclusa quella palestinese, che sta a cuore tanto ai sunniti quanto agli sciiti. Ma attenzione: buttarla in politica non risolve sempre tutto. Lo sostiene un osservatore speciale come Fausto Carotenuto, già analista di primo piano dei servizi segreti, ora animatore del network “Coscienze in rete”: conta anche, e moltissimo, la dimensione “invisibile”, quella dei pensieri. Angoscia, paura e rabbia, oppure speranza e fiducia: il “potere” della preghiera. I musulmani sono un miliardo e mezzo, nel mondo, e pregano Allah cinque volte al giorno, tutti i giorni, a ore fisse. «Ogni fedele – dice Paolo Franceschetti – sa che, mentre sta pregando, lo sta facendo insieme a tutti gli altri, in ogni parte del mondo. Questo dona una grande forza interiore, demolisce la solitudine».
    Per il massone Gianfranco Carpeoro, l’errore fatale dei cattolici fu quello di attaccare gli arabi con le Crociate. San Francesco d’Assisi viaggiò fino a Damietta, sul Nilo, per fare la pace coi musulmani. Che, all’imperatore esoterista Federico II, regalarono una scorta d’onore: la guarda armata del capo del Sacro Romano Impero era composta da guerrieri musulmani. Emblematico, sotto questo aspetto, il ruolo-ponte dei Sufi, confraternita iniziatica di origini antichissime, pre-islamiche, capace di sviluppare una particolarissima forma di sincretismo, oltre che una sorta di diplomazia di pace. «Sapendo che tutto è Dio, cerco Dio per trovare il tutto», sintetizzava Gabriele Mandel, eminente studioso e leader dei “dervisci” italiani, per tutta la vita impegnato nel dialogo interreligioso. Dagli islamici abbiamo molto da imparare, aggiunge Franceschetti: «Per loro la carità è un obbligo, vivono una straordinaria solidarietà quotidiana. Da sempre, nei paesi islamici, il fisco è progressivo: i ricchi pagano più tasse. E la finanzia islamica non è speculativa come la nostra, l’etica la impone il Corano: se non riesci più a a pagare il muto, la banca si riprende la casa ma si ferma lì, non ti perseguita con gli interessi. Non a caso, da noi non si vedono banche islamiche». Discorsi che portano lontano, certo. Molto più lontano dei missili sulla Siria, e di quelli sparati ogni giorno dal circo mediatico con le sue mediocri comparse senza memoria.

    “Se Allah avesse voluto una sola religione, al mondo, quella soltanto ci sarebbe”. Nel suo saggio sulle principali confessioni del pianeta, Paolo Franceschetti ricorda lo straordinario ecumenismo presente nel Corano, secondo cui “tutte le religioni sono mezzi che conducono alla stessa meta”. «Lo stesso Maometto, pur “prescelto da Dio”, aggiungeva: non compio miracoli, non servirebbe. Nonostante i suoi miracoli, nemmeno Cristo, il più grande dei profeti, è stato riconosciuto per ciò che era, ed è stato crocifisso». Ora torna in voga il refrain sullo “scontro di civiltà”, inaugurato nel 1996 da un esponente dell’élite come Samuel Huntington (“Lo scontro di civiltà e il nuovo ordine mondiale”) e reso tristemente celebre da Oriana Fallaci dopo l’11 Settembre. E oggi, nella narrazione mainstream frastornata da attentati e guerre a catena (Libia e Siria, Charlie Hebdo, Yemen, strage di Parigi del 13 novembre), lentamente affiora anche nei talkshow un nuovo capitolo, quello della guerra inter-islamica tra sciiti e sunniti. «Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale», scriveva Huntington. «Le linee di faglia tra le civiltà saranno le linee sulle quali si consumeranno le battaglie del futuro», anche perché «le grandi divisioni dell’umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura».

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