Archivio del Tag ‘Falkland’
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Oxford: il virus non viaggia, era qui e qualcosa l’ha attivato
Altro che Cina: il coronavirus potrebbe essere rimasto inattivo un po’ in tutto il mondo per chissà quanti anni, prima di riattivarsi grazie a nuove condizioni ambientali favorevoli. È la tesi di Tom Jefferson, medico al Center for Evidence-Based Medicine (Cebm), con sede al Dipartimento di Scienze della salute delle cure primarie di Nuffield, presso l’Università di Oxford, nel Regno Unito. Jefferson – secondo quanto riporta il quotidiano inglese “The Telegraph” – sostiene che ci siano prove sempre più consistenti che il virus fosse già altrove, ben prima che emergesse a Wuhan. Una teoria, scrive Biagio Simonetta sul “Sole 24 Ore”, che farebbe traballare tutto ciò che sappiamo fino ad oggi, su questa pandemia. «La tesi si rafforza grazie alla scoperta di alcuni virologi spagnoli, che la scorsa settimana hanno annunciato di aver trovato tracce del coronavirus in campioni di acque reflue raccolti nel marzo 2019, circa dieci mesi prima che Wuhan diventasse il focolaio del mondo». Anche in Italia, ricorda sempre il “Sole”, alcune tracce del virus sono state rinvenute nei campioni di acque reflue di Milano e Torino risalenti a metà dicembre 2019. E in Brasile una analisi analoga riporta a novembre.Tom Jefferson ritiene che molti virus siano inattivi in tutto il mondo, e a un certo punto emergano quando le condizioni diventano favorevoli. Un meccanismo che potrebbe anche voler dire che i virus riattivati possano svanire rapidamente dopo un picco. «Dov’è oggi il virus Sars 1? È appena scomparso», ha detto il medico inglese al “Telegraph”, aggiungendo: «Dobbiamo porci queste domande. Dobbiamo iniziare a ricercare l’ecologia del virus, capire come ha avuto origine, come è mutato. Penso che il virus fosse già qui, e “qui” significa ovunque. Potremmo essere davanti a un virus dormiente che è stato attivato dalle condizioni ambientali». Per sostenere la sua teoria, Jefferson – che è anche professore alla Newcastle University – ricorda che a inizio febbraio c’è stato un caso di coronavirus alle Isole Falkland: «Com’è arrivato laggiù? Chi lo ha portato?». E poi ancora: «Una nave da crociera è andata dalla Georgia del Sud a Buenos Aires, i passeggeri sono stati sottoposti a screening e poi, l’ottavo giorno, quando hanno iniziato a navigare verso il Mare di Weddell, è emerso il primo caso di infezione. Dov’era il virus? Nel cibo preparato che era stato scongelato e attivato?».L’esperto ricorda che stranezze come questa si erano già verificate con l’influenza spagnola: nel 1918, circa il 30% della popolazione delle Samoa (isole dell’oceano Pacifico meridionale) morì di spagnola, «senza aver avuto alcuna comunicazione con il mondo esterno». La spiegazione di quanto accaduto allora potrebbe essere la segente: «Questi virus non vengono né vanno da nessuna parte», afferma Jefferson: «Sono sempre qui e qualcosa li accende, forse la densità umana o le condizioni ambientali. E questo è ciò che dovremmo cercare». Lo stesso dottor Jefferson ritiene che il virus possa essere trasmesso attraverso il sistema fognario o servizi igienici condivisi, non solo attraverso goccioline espulse parlando, tossendo e starnutendo. E per questo, insieme al collega Carl Henegehan (direttore del Cebm) chiede un’indagine approfondita, simile a quella condotta da John Snow nel 1854, che dimostrò come il colera si stesse diffondendo a Londra da un pozzo infetto a Soho. Per i due medici inglesi, insomma – conclude il “Sole” – si deve cambiare l’approccio di ricerca sul coronavirus, perché la teoria della trasmissione respiratoria non sarebbe del tutto convincente: «I focolai devono essere investigati correttamente. Bisogna fare ciò che John Snow ha fatto con il colera. Mettere in discussione tutto, e iniziare a costruire ipotesi che si adattano ai fatti. Non viceversa».Guardando all’Italia, e basandosi sempre sulle conclusioni di Jefferson, i meteorologi de “IlMeteo.it” puntano l’indice contro l’inquinamento atmosferico. «La correlazione tra virus e pessima qualità dell’aria – scrivono – è emerso, in particolare, da uno studio curato da ricercatori italiani e da medici della Società italiana di Medicina Ambientale (Sima): le polveri sottili avrebbero esercitato un cosiddetto “boost”, ovvero un’accelerazione nel contagio dell’infezione». Conferma Leonardo Setti, ricercatore dell’Università di Bologna: «Le alte concentrazioni di polveri registrate nel mese di febbraio in Pianura Padana hanno prodotto un’accelerazione alla diffusione del Covid-19. L’effetto è più evidente in quelle province dove ci sono stati i primi focolai». Altri virus potrebbero dunque essere dormienti, in attesa di essere “attivati” magari dall’inquinamento? E se davvero la diffusione del coronavirus non dipendesse direttamente dalla respirazione? «Se questo fosse confermato, le varie misure di restrizione e di protezione che stiamo ancora adottando (lockdown, mascherine, distanziamento sociale, guanti, sanificazioni) potrebbero risultare inutili». In compenso, chiosano gli specialisti de “IlMeteo.it”, «sempre col beneficio del dubbio», ci sarebbe anche una bella notizia: «Il virus potrebbe andarsene via da solo, così come è arrivato».Altro che Cina: il coronavirus potrebbe essere rimasto inattivo un po’ in tutto il mondo per chissà quanti anni, prima di riattivarsi grazie a nuove condizioni ambientali favorevoli. È la tesi di Tom Jefferson, medico al Center for Evidence-Based Medicine (Cebm), con sede al Dipartimento di Scienze della salute delle cure primarie di Nuffield, presso l’Università di Oxford, nel Regno Unito. Jefferson – secondo quanto riporta il quotidiano inglese “The Telegraph” – sostiene che ci siano prove sempre più consistenti che il virus fosse già altrove, ben prima che emergesse a Wuhan. Una teoria, scrive Biagio Simonetta sul “Sole 24 Ore“, che farebbe traballare tutto ciò che sappiamo fino ad oggi, su questa pandemia. «La tesi si rafforza grazie alla scoperta di alcuni virologi spagnoli, che la scorsa settimana hanno annunciato di aver trovato tracce del coronavirus in campioni di acque reflue raccolti nel marzo 2019, circa dieci mesi prima che Wuhan diventasse il focolaio del mondo». Anche in Italia, ricorda sempre il “Sole”, alcune tracce del virus sono state rinvenute nei campioni di acque reflue di Milano e Torino risalenti a metà dicembre 2019. E in Brasile una analisi analoga riporta a novembre.
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Usa e Germania ci vendevano il programma con cui spiarci
Quando nel 1986 Ronald Reagan ordinò di bombardare Tripoli, come rappresaglia per l’attentato terroristico alla discoteca berlinese La Belle dov’erano stati uccisi due soldati americani, il presidente annunciando l’attacco disse che gli Stati Uniti avevano prove «precise, dirette e irrefutabili» della responsabilità dei servizi libici. L’ambasciata di Gheddafi a Berlino Est aveva ricevuto l’ordine per l’attacco una settimana prima. E il giorno dopo l’esplosione della bomba, la stessa ambasciata «aveva informato Tripoli del successo della missione». Era chiaro che gli Usa avevano intercettato e decrittato le comunicazioni tra la Libia e la stazione tedesca. Ma quella di Reagan «fu una gaffe madornale, che mise a rischio e in parte danneggiò la più vasta e intrusiva operazione di spionaggio mai messa in campo dalla Cia, il servizio segreto americano». Lo scrive Paolo Valentino sul “Corriere della Sera”: «Per oltre cinquant’anni, una sola compagnia svizzera fornì a oltre cento paesi di tutto il mondo gli strumenti per gestire le loro comunicazioni riservate con spie, militari e missioni diplomatiche». La Crypto Ag, questo il suo nome, aveva iniziato a costruire “macchine cifranti” per gli Usa già durante la Seconda Guerra Mondiale, diventando poi leader del mercato e compiendo con successo negli anni la transizione dalla meccanica all’elettronica.Tra i suoi clienti, nazioni democratiche e dittature: l’Iran prima e dopo la rivoluzione khomeinista, paesi del Terzo Mondo o Stati rivali fra di loro come India e Pakistan, e perfino il Vaticano. «Quello che nessuno ha mai saputo fino ad oggi – scrive Valentino – è che la Crypto Ag era segretamente di proprietà della Cia in società con la Bnd, i servizi segreti tedesco-occidentali». Gli 007 di Bonn «manipolavano sistematicamente le apparecchiature, in modo da poter poi facilmente rompere i codici usati dai vari paesi per mandare i loro messaggi segreti e leggerli». Negli Anni ‘80, aggiunge il “Corriere”, gli strumenti di Crypto consentivano di decodificare il 40% di tutti i cablo diplomatici e le altre comunicazioni intercettate dai servizi Usa. A rivelarlo, scrive sempre Valentino, è uno straordinario pezzo di giornalismo investigativo, realizzato insieme dal “Washington Post” e dalla “Zdf”, la seconda rete televisiva pubblica tedesca, basato su documenti interni sia della Cia che del Bnd, che raccontano sin dalle origini tutti i dettagli dell’operazione, all’inizio denominata Thesaurus e poi ribattezzata Rubicon.«E’ stato il colpo d’intelligence del secolo», si legge negli atti americani: «I governi stranieri pagavano senza saperlo milioni di dollari agli Stati Uniti e alla Germania Ovest per il privilegio di avere le loro più segrete comunicazioni lette dai nostri servizi». Non tutti però abboccavano alle lusinghe di Crypto Ag: «Nel clima di sospetto della Guerra Fredda, i paesi leader del campo rivale, l’Urss e la Cina, non furono mai clienti della premiata compagnia, svizzera solo di nome». Ma la lista di chi usava le apparecchiature truccate, «pagandole milioni di dollari e facendo fare grassi profitti alle due intelligence», comprendeva anche i più stretti alleati occidentali e membri della Nato: Spagna, Grecia, Turchia e ovviamente l’Italia. A partire dal 1970, racconta il “Washington Post”, fu la National Security Agency, l’intelligence militare americana, a prendere il controllo di tutte le operazioni di Crypto insieme ai partner tedeschi, «comprese le assunzioni, la scelta delle tecnologie, il sabotaggio degli algoritmi, la promozione delle campagne di vendita a clienti precisi».Tra il 1970 e il 1975, prosegue il “Corriere”, le vendite annuali di Crypto Ag esplosero: da 15 milioni, passarono a 51 milioni di franchi svizzeri. «Ascoltarono e decrittarono di tutto: i mullah iraniani durante al crisi degli ostaggi del 1979, le comunicazioni dei militari argentini durante la guerra delle Falkland nel 1982 debitamente girate agli inglesi, gli ordini per le campagne omicide delle dittature latino-americane come l’assassinio del leader socialista cileno Orlando Letelier, ucciso nel 1976 in piena Washington dagli agenti di Pinochet. Non ultimo, le comunicazioni del presidente egiziano Anwar Sadat col Cairo durante i negoziati di Camp David tra Egitto e Israele nel 1972». Per inciso, annota Valentino, la famosa gaffe di Reagan sulla Libia insospettì gli iraniani, che erano a conoscenza del fatto che anche i libici usassero la tecnologia svizzera per le comunicazioni segrete. Qualche anno dopo, gli ayatollah arrestarono a Teheran uno dei rappresentanti di Crypto Ag, un cittadino tedesco, e lo rilasciarono solo nove mesi dopo, dietro il pagamento di un riscatto di un milione di dollari: soldi forniti in segreto proprio dal Bnd, l’intelligence di Bonn, dopo che la Cia si era rifiutata di pagare, invocando la linea americana di non versare mai riscatti per ostaggi.Le due documentazioni, messe a confronto dai reporter del “Post” e della televisione di Berlino, rivelano incomprensioni e polemiche tra tedeschi e americani: i primi attenti soprattutto all’aspetto economico della joint venture, che portava milioni di dollari in cassa, gli altri mai stanchi di «ricordare che si trattava di un’operazione di spionaggio». Inoltre i tedeschi erano basiti di fronte alla determinazione e all’entusiasmo dei colleghi Usa nello «spiare su tutti gli alleati». Testualmente: «Gli americani si comportano con i paesi alleati esattamente come con quelli del Terzo Mondo», è la frase di Wolbert Smidt, già direttore del Bnd, citata nei documenti tedeschi. La collaborazione clandestina si concluse nel 1990, finita la Guerra Fredda, quando il governo tedesco ordinò al Bnd di uscire da Crypto Ag: «La Cia, semplicemente, acquistò le quote tedesche e continuò il vecchio andazzo». Crypto Ag non esiste più, ma i suoi prodotti sono venduti ancora oggi a una dozzina di paesi. La vecchia compagnia – conclude Valentino – è stata smembrata nel 2018, «liquidata da azionisti la cui identità rimane ben nascosta dalle leggi del Liechtenstein». Al suo posto ci sono due società: CyOne Security e Crypto International. «Entrambi affermano di non avere alcuna connessione con il mondo dell’intelligence. Ma questa è un’altra storia».Quando nel 1986 Ronald Reagan ordinò di bombardare Tripoli, come rappresaglia per l’attentato terroristico alla discoteca berlinese La Belle dov’erano stati uccisi due soldati americani, il presidente annunciando l’attacco disse che gli Stati Uniti avevano prove «precise, dirette e irrefutabili» della responsabilità dei servizi libici. L’ambasciata di Gheddafi a Berlino Est aveva ricevuto l’ordine per l’attacco una settimana prima. E il giorno dopo l’esplosione della bomba, la stessa ambasciata «aveva informato Tripoli del successo della missione». Era chiaro che gli Usa avevano intercettato e decrittato le comunicazioni tra la Libia e la stazione tedesca. Ma quella di Reagan «fu una gaffe madornale, che mise a rischio e in parte danneggiò la più vasta e intrusiva operazione di spionaggio mai messa in campo dalla Cia, il servizio segreto americano». Lo scrive Paolo Valentino sul “Corriere della Sera”: «Per oltre cinquant’anni, una sola compagnia svizzera fornì a oltre cento paesi di tutto il mondo gli strumenti per gestire le loro comunicazioni riservate con spie, militari e missioni diplomatiche». La Crypto Ag, questo il suo nome, aveva iniziato a costruire “macchine cifranti” per gli Usa già durante la Seconda Guerra Mondiale, diventando poi leader del mercato e compiendo con successo negli anni la transizione dalla meccanica all’elettronica.
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Israele in Patagonia, coi soldi inglesi. E quel sommergibile
Perché un miliardario britannico Joe Lewis sta acquistando terre in Patagonia, dove Israle sta mandando “in vacanza” migliaia di soldati, proprio di fronte al mare – affacciato sull’Antartide – dove è scomparso il sommergibile argentino San Juan, alle prese con una imprecisata “missione segreta” di cui però gli inglesi erano al corrente? Se lo domanda un giornista internazionale come Thierry Meyssan, di stanza in Libano: «Probabilmente il San Juan è esploso: la stampa argentina è convinta che abbia urtato una mina o sia stato distrutto da missile nemico». E gli immensi territori in via di acquisizione sud dell’Argentina e anche nel vicino Cile? Per il momento, ragiona Meyssan, «è impossibile stabilire se Israele abbia avviato un programma di sfruttamento dell’Antartide o se stia costruendo una base in cui ripiegare in caso di disfatta in Palestina». Ma il reporter si interroga sulle possibili connessioni “invisibili” che sembrano legare Patagonia e Antartide, Tel Aviv e Londra, la guerra in Siria e la strana sparizione del sottomarino, scomparso (in fondo al mare?) dopo l’ultima comunicazione con la terraferma, il 15 novembre, con a bordo 44 marinai.Nel XIX secolo, ricorda Meyssan su “Rete Voltaire” in un post ripreso da “Megachip”, il governo britannico era indeciso se istallare lo Stato di Israele nell’attuale Uganda, in Argentina o in Palestina. «All’epoca l’Argentina era controllata dal Regno Unito e, per iniziativa del barone francese Maurice de Hirsch, era diventata terra di accoglienza per gli ebrei che fuggivano dai pogrom dell’Europa centrale». Nel XX secolo, dopo il colpo di Stato militare contro il generale Juan Domingo Peron, presidente democraticamente eletto, nelle forze armate si affermò una corrente antisemita: «Questa fazione dell’esercito diffuse una brochure in cui accusava il nuovo Stato d’Israele di preparare un’invasione della Patagonia, il Piano Andinia». Oggi emerge che, «nonostante l’esagerazione dei fatti dell’estrema destra degli anni ’70», esisteva davvero un progetto di insediamento (e non di invasione) in Patagonia, sottolinea Meyssan. «Tutto cambiò con la guerra delle Malvine del 1982, quando la giunta militare argentina tentò di rientrare in possesso delle isole Malvine, della Georgia del Sud e del Sandwich del Sud, territori dal suo punto di vista occupati da un secolo e mezzo dai britannici».L’Onu riconobbe la legittimità della rivendicazione dell’Argentina, ma il Consiglio di Sicurezza ne condannò il ricorso alla forza al fine di recuperare i territori contesi. «La posta in gioco era considerevole», spiega il giornalista francese, «perché le acque territoriali di questi arcipelaghi danno accesso alle ricchezze del continente antartico». Alla fine della guerra delle Malvine, che fece oltre un migliaio di morti (i numeri ufficiali britannici sono di molto inferiori), Londra impose a Buenos Aires un trattato di pace particolarmente duro, che riduceva al minimo le forze armate argentine. «In particolare, all’Argentina venne sottratto il controllo dello spazio aereo del sud del paese e dell’Antartico, che passò alla Royal Air Force». Inoltre, continua Meyssan, ancora oggi «Buenos Aires deve informare il Regno Unito di ogni sua operazione militare». E non tutto è andato liscio, da quelle parti, dopo la guerra della Falkland: «Nel 1992 e nel 1994 due misteriosi attentati, particolarmente sanguinosi e devastanti, distrussero l’ambasciata d’Israele e la sede dell’associazione israelita Amia». Il primo attentato, rivela Meyssan, avvenne subito dopo che i capi della sezione dell’intelligence israeliana per l’America Latina avevano lasciato l’edificio.Il secondo attentato ebbe luogo durante le ricerche congiunte egiziano-argentine per i missili balistici Condor. «Nello stesso periodo la fabbrica principale dei Condor esplose, e i figli dei presidenti Carlos Menem e Hafez al-Assad morirono entrambi in incidenti. Le numerose inchieste che seguirono furono inquinate da una serie di manipolazioni». Dopo aver designato la Siria come responsabile dei due attentati, aggiunge Meyssan, il procuratore Alberto Nisman passò all’Iran, accusandolo di esserne il committente, e a Hezbollah, accusandolo di esserne l’esecutore. «L’ex presidente peronista Cristina Kirchner fu accusata di aver negoziato la chiusura del procedimento contro l’Iran in cambio di un prezzo vantaggioso per il petrolio». Poco dopo, però, «il procuratore Nisman è stato trovato morto in casa e la presidente Kirchner è stata incolpata di alto tradimento». La settimana scorsa, infine, «un nuovo colpo di scena ha mandato all’aria quello che si dava per certo: l’Fbi ha tirato fuori analisi del Dna che dimostrano che il presunto terrorista non era tra le vittime e che tra queste vi era invece un corpo mai identificato». Morale: «Venticinque anni dopo, non si sa ancora nulla degli attentati di Buenos Aires».E intanto, l’interesse anglo-israeliano per il Sud dell’Argentina non ha fatto che aumentare: «Nel XXI secolo, approfittando dei vantaggi ottenuti con il Trattato della guerra delle Malvine, Regno Unito e Israele intraprendono un nuovo progetto in Patagonia. Le sue proprietà si estendono ormai su una superficie più volte multipla dello Stato d’Israele», avverte Meyssan. «Si trovano nella Terra del Fuoco, all’estremo Sud del continente. In particolare, circondano il Lago Escondido, cui impediscono l’accesso nonostante un’ingiunzione della magistratura argentina». Il miliardario inglese Joe Lewis «ha costruito un aeroporto privato con una pista di due chilometri, su cui possono atterrare aerei di trasporto civile e militare». Dalla fine della guerra delle Malvine, l’esercito israeliano organizza in Patagonia “campi di vacanza” (sic) per i suoi soldati. «Ogni anno, da 8.000 a 10.000 soldati trascorrono due settimane nelle proprietà di Joe Lewis». Se negli anni ’70 l’esercito argentino lanciò l’allarme per 25.000 nuovi alloggi rimasti inabitati, dando vita al mito del piano Andinia, oggi ne sono stati costruiti centinaia di migliaia. «È impossibile verificare lo stato di avanzamento dei lavori perché, essendo proprietà privata, Google Earth oscura le fotografie satellitari della zona, così come fa per le istallazioni militari dell’Alleanza Atlantica».Poi c’è il ruolo del vicino Cile, aggiunge Meyssan, che «ha ceduto una base di sottomarini a Israele, dove sono stati scavati tunnel per sopravvivere al rigore dell’inverno polare». Gli indiani Mapuche, che abitano la Patagonia argentina e cilena, sono rimasti sorpresi nell’apprendere che a Londra è stata riattivata la Resistencia Ancestral Mapuche (Resistenza Ancestrale Mapuche – Ram), misteriosa organizzazione che rivendica l’indipendenza. «Inizialmente accusata di essere una vecchia associazione rispolverata dai servizi segreti argentini, la Ram è ora considerata dalla sinistra un movimento secessionista legittimo e dai leader Mapuche un’iniziativa finanziata da George Soros». Infine, in questo scenario opaco, si è inserita la sparizione del sommergibile San Juan, con il quale la marina argentina ha perso i contatti il 15 novembre 2017, dichiarandolo poi “inabissato in mare”. Era uno dei due sottomarini diesel-elettrici Tr 1700, fiore all’occhiello della difesa argentina. «Alla fine il governo ha dovuto ammettere che il sottomarino era in “missione segreta”, non meglio specificata, di cui Londra era a conoscenza». L’esercito statunitense ha partecipato alle ricerche e la marina russa ha inviato un drone in grado di scandagliare i fondali marini a 6.000 metri di profondità, che però non ha trovato nulla. Che sta succedendo, dunque, all’estremo confine meridionale del pianeta?Perché il miliardario britannico Joe Lewis sta acquistando terre in Patagonia, dove Israele sta mandando “in vacanza” migliaia di soldati, proprio di fronte al mare – affacciato sull’Antartide – dove è scomparso il sommergibile argentino San Juan, alle prese con una imprecisata “missione segreta” di cui però gli inglesi erano al corrente? Se lo domanda un giornalista internazionale come Thierry Meyssan, di stanza in Libano: «Probabilmente il San Juan è esploso: la stampa argentina è convinta che abbia urtato una mina o sia stato distrutto da missile nemico». E gli immensi territori in via di acquisizione nel sud dell’Argentina e anche nel vicino Cile? Per il momento, ragiona Meyssan, «è impossibile stabilire se Israele abbia avviato un programma di sfruttamento dell’Antartide o se stia costruendo una base in cui ripiegare in caso di disfatta in Palestina». Ma il reporter si interroga sulle possibili connessioni “invisibili” che sembrano legare Patagonia e Antartide, Tel Aviv e Londra, la guerra in Siria e la strana sparizione del sottomarino, scomparso (in fondo al mare?) dopo l’ultima comunicazione con la terraferma, il 15 novembre, con a bordo 44 marinai.
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Tutti spiati, da anni: l’impero ci controlla perché ci teme
Ci spiano da anni, a tappeto, perché hanno paura di noi. Guerra infinita asimmetrica, disinformazione martellante, crisi economica della globalizzazione e ingiustizie planetarie, dagli schiavi del Bangladesh che lavorano a un dollaro al giorno per le multinazionali occidentali, fino all’infamia catastrofica dell’austerity europea, organizzata a tavolino dai boss della finanza. Se mai qualcuno dovesse davvero provare a ribellarsi, “loro” ne sarebbero informati per tempo: controllano ogni telefonata, ogni e-mail, tutte le chat sui social network, persino le semplici ricerche su Internet. Ovviamente, mentono: «Non si può avere il 100% della sicurezza e il 100% della privacy», bela il presidente Obama, colto con le mani nel sacco dall’ex analista della Cia, Edward Snowden, la “talpa” che ha messo in piazza lo scandalo. «Quando ti rendi conto che il mondo che hai aiutato a creare sarà peggiore per la prossima generazione e per le successive, e si allargano le capacità di questa architettura di oppressione – ha detto Snowden – capisci che è necessario accettare qualsiasi rischio. Senza curarti delle conseguenze».
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Soldati di Pinochet: ordini disumani, noi le prime vittime
«Ci considerano assassini, ma eravamo soltanto giovani soldati di leva. Durante la dittatura di Pinochet, non eseguire un ordine poteva significare essere fucilati. Anche noi abbiamo subito la violenza di quel trauma». A vent’anni dal ritorno della democrazia in Cile, gli ex soldati del brutale regime di Santiago si dichiarano vittime di abusi durante la dittatura e di pesanti discriminazioni negli anni a seguire. Tanto da chiedere un indennizzo, per i presunti danni psicologici subiti, che avrebbero portato molti di loro alla dipendenza da alcol e droghe per tentare di dimenticare l’orrore di cui furono strumenti.
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Malati di guerra: reduci (e incubi) nelle prigioni inglesi
Alcol, droga, violenza, depressione e sindrome da stress post-traumatico. In Gran Bretagna, quasi un detenuto su dieci è un veterano di guerra: militare, non ha retto alla pressione del fronte, dalle Falkland/Malvinas all’Afghanistan. Lo rivela un rapporto pubblicato dalla Napo (National Association of Probation Officers), che monitora le condizioni dei carcerati britannici. «Tra coloro che hanno prestato servizio nelle forze armate di Sua Maestà, 8.500 sono in prigione, mentre 12.000 sono il libertà vigilata», scrive Luca Galassi su “PeaceReporter”, in un ampio servizio che documenta la drammaticità del fenomeno.