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Archivio del Tag ‘ferrovia’

  • Tra CasaPound e NoTav, a Torino il Salone dell’Ipocrisia

    Scritto il 08/5/19 • nella Categoria: segnalazioni • (6)

    Centomila persone alla camera ardente dell’Avvocato, ma solo duemila al funerale di Primo Levi. Due lutti che in qualche modo fotografano Torino: folla oceanica per il patron della Fiat e dalla Juventus, di cui ora si scoprono i miliardi di euro “riparati” all’estero, lontano dal fisco italiano. Molto più intime, invece, le esequie dell’autore di “Se questo è un uomo”, massimo capolavoro della memorialistica mondiale sulla Shoah. Unico paese in cui il libro non fu tradotto, per decenni: Israele. Motivo tutto politico: Primo Levi non tollerava gli abusi del sionismo contro i palestinesi. Il regime di Tel Aviv fu costretto a “sdoganarlo” solo dopo la spettacolare operazione di Philip Roth, che finalmente presentò il chimico-scrittore al pubblico statunitense negli anni ‘80, tributandogli gli onori di un eroe civile e di una grande firma della letteratura internazionale. Ebrei e antifascismo? Torino non smentisce la sua ambivalenza: scatena l’inferno per mettere al bando CasaPound dal Salone del Libro, ma tace sul brutale pestaggio inflitto, pochi giorni prima, ai NoTav che sfilavano pacificamente per le strade del centro, al corteo del Primo Maggio.
    La città che esibisce la sua ostilità militante verso l’apologia del fascismo (nostalgia ostentata da Francesco Polacchi, presidente della casa editrice Altaforte), poi non riesce a tollerare il popolo della vicina valle di Susa, che resiste da vent’anni contro un progetto-monstre dalla comprovata inutilità, imposto al territorio da tutte le forze politiche (tranne una, i 5 Stelle) ridotte a cinghie di trasmissione del potere neoliberista europeo che lucra in modo imperiale e feudale sulle grandi opere, impedendo alla politica di far emergere la voce dei cittadini. Tecnicamente: sospensione della democrazia. Destra o sinistra, è uguale: sul Tav Torino-Lione, Giorgia Meloni e Matteo Salvini (e pure CasaPound) la pensano come il Pd. Che i centomila valsusini siano contrari all’opera, a loro non importa. In questi anni, con l’aiuto dei migliori tecnici universitari, i NoTav hanno demolito sistematicamente qualsiasi ragione a supporto dell’infrastruttura, ma invano. L’Italia ha un bisogno disperato di infrastrutture utili, eppure Torino preferisce svenare il bilancio nazionale per una ferrovia desolatamente inutile. E tace, la città, se la polizia carica i manifestanti al corteo del Primo Maggio, colpevoli di sventolare bandiere NoTav.
    Perché il Pd torinese aveva tanta paura dei valsusini, nel giorno della festa del lavoro? Ovvio: avrebbero contestato i sindacati-fantasma che – Cgil in testa – il lavoro se lo sono lasciato sfilare di mano a colpi di controriforme neoliberali convalidate dai funesti governi di centrosinistra. Precarizzazione, flessibilità, delocalizzazioni, cancellazione dei diritti sociali. Arresasi su ogni fronte, la Cgil però tiene duro sul Tav, un feticcio ridicolo – poche centinaia di addetti, a tempo determinato – per il quale però Sergio Chiamparino s’è inventato le “madamine”, pronte a scendere dalle residenze in collina (zona Agnelli) per invocare il ritorno dell’occupazione (e soprattutto seppellire mediaticamente gli insopportabili NoTav). Così piovono manganellate sugli inermi, che il Primo Maggio avrebbero contestato l’ignavia dei sindacati italiani di fronte allo sfacelo del paese, culminato con la strage sociale messa in atto dai tecnocrati di Monti, coadiuvati dalla torinese Fornero, fino al pareggio di bilancio inserito nella Costituzione anche con i voti delle anime morte del Pd guidate da Bersani.
    A salvare la situazione – ripulendo le cattive coscienze – ora ci pensano i brutti e cattivi di CasaPound: che fortuna, per molti torinesi, potersela vedere con loro, rispolverando (piuttosto abusivamente) l’identità antifascista della città di Gobetti, la capitale operaia dove Gramsci e Togliatti studiavano da rivoluzionari nel biennio rosso, quasi cent’anni prima che gli stessi torinesi applaudissero Marchionne, il manager venuto dalla finanza per smontare la Fiat per portarla lontano da Torino. Sfila l’orgoglio antifascista, al Salone dell’Ipocrisia, tra i cerotti e i lividi dei manifestanti ai quali, il Primo Maggio, è stato fisicamente impedito di presenziare in piazza, sotto il palco dei sindacalisti che hanno svenduto i diritti del lavoro e puntellato la guerra sociale dell’élite contro il popolo lavoratore. Il primo a denunciarlo fu l’ennesimo grande torinese, il sociologo Luciano Gallino, anch’esso scomparso senza che la sua città se ne accorgesse.

    Centomila persone alla camera ardente dell’Avvocato, ma solo duemila al funerale di Primo Levi. Due lutti che in qualche modo fotografano Torino: folla oceanica per il patron della Fiat e dalla Juventus, di cui ora si scoprono i miliardi di euro “riparati” all’estero, lontano dal fisco italiano. Molto più intime, invece, le esequie dell’autore di “Se questo è un uomo”, massimo capolavoro della memorialistica mondiale sulla Shoah. Unico paese in cui il libro non fu proposto nelle scuole, per decenni: Israele. Motivo tutto politico: Primo Levi non tollerava gli abusi del sionismo contro i palestinesi. Il regime di Tel Aviv fu costretto a “sdoganarlo” solo dopo la spettacolare operazione di Philip Roth, che finalmente presentò il chimico-scrittore al pubblico statunitense negli anni ‘80, tributandogli gli onori di un eroe civile e di una grande firma della letteratura internazionale. Ebrei e antifascismo? Torino non smentisce la sua ambivalenza: scatena l’inferno per mettere al bando CasaPound dal Salone del Libro, ma tace sul brutale pestaggio inflitto, pochi giorni prima, ai NoTav che sfilavano pacificamente per le strade del centro, al corteo del Primo Maggio.

  • Se la Cina ci ripensa: Via Polare della Seta, e addio Italia

    Scritto il 01/4/19 • nella Categoria: idee • (6)

    E se la Cina ci ripensa, dopo aver costretto l’Italia a convivere con i maxi-investimenti per i porti di Genova e Trieste? Paolo Barnard teme che l’accordo commerciale con Pechino possa rivelarsi un fardello insostenibile, per il nostro paese: lavoro “schiavistico” e inquinamento pesantissimo. Ma forse la prospettiva peggiore è un’altra: fra dieci anni, perdurando il “climate change”, la Cina potrebbe trascurare il Mediterraneo scegliere l’Artico, come direttrice mercantile, accorciando molto il tragitto verso Rotterdam. E questo senza contare la via ferroviaria eurasiatica, in pieno sviluppo. Tradotto: sicuri che scelta portuale italiana sia davvero strategica, capace di dare lavoro per più di un decennio? Giornalista e studioso di economia, Barnard rispolvera innanzitutto Keynes e poi la teoria monetaria moderna: la carta vincente non è mai il mercantilismo, il cui campione europeo è la Germania, ma il mercato interno. La chiave: produzione e consumi a chilometri zero, o quasi, valgono assai più dell’export. L’Italia è alle corde, come molti altri paesi dell’Eurozona, proprio perché non riesce più a emettere moneta sufficiente (deficit positivo) per supportare le aziende e i consumi interni. Legarsi mani e piedi a una potenza come quella asiatica, però, secondo Barnard potrebbe non essere una soluzione: specie se si considera che lo stile cinese non è esattamente ecologico, né amico dei diritti del lavoro.
    In un’analisi publicata sul suo blog, Barnard fa notare che il gigante logistico cinese Cccc (China Communications Construction Co.) esporrebbe gli scali italiani a pericoli considerevoli. Il primo: «Trieste e Genova possono trasformarsi in cloache d’inquinanti cinesi, avvelenando i cittadini e costringendo le amministrazioni a costi per danni di centinaia di milioni». Il secondo: «Gli investitori cinesi sono spietati: un solo sciopero di lavoratori portuali italiani, una sola vertenza ambientale italiana, e ci possono far causa per milioni o anche miliardi». Motivo: nel 1985, l’Italia ha firmato un trattato bilaterale con la Cina, ancora valido, dove il nostro paese s’impegna a rispettare la micidiale “Risoluzione delle dispute tra investitore e Stato” (Isds), dove «qualsiasi investitore cinese può far causa all’Italia se ritiene che le sue leggi gli danneggino il business, e i termini dei processi sono scandalosamente sbilanciati verso le mega-aziende». Poi c’è l’insidia degli eventuali lavoratori a contratto: non per forza italiani, magari cinesi. E nel caso, pesantemente sfruttati. Ma se i rischi connessi al lavoro riguardano le sole maestranze, l’inquinamento investirebbe le intere aree urbane.
    I quattro porti più inquinanti al mondo, avverte Barnard, sono ad alta intensità di navi cargo cinesi. «Singapore, Hong Kong, Tianjin e Port Klang. E’ un caso che nessuno di essi sia in Usa o in Europa?». Gli scali commerciali “vomitano” oltre 20 milioni di tonnellate all’anno di CO2, ossidi di azoto e di zolfo, metano e particolato Pm10. «E’ noto che i cargo di containers sputano veleni anche se fermi in porto, e si calcola che queste emissioni terribilmente nocive per gli abitanti delle città portuali si quadruplicheranno entro il 2050, secondo dati Unctad-Ocse del 2015». Emissioni, calcola Barnard, che in termini di danni collaterali (salute) costeranno 12 miliardi di euro all’anno, secondo le stime dell’Ocse sugli abitanti delle 50 principali città portuali (e questo già oggi, senza ancora la mega-espansione del traffico a Genova e Trieste). Nel porto greco del Pireo, ingigantito e gestito dal colosso cinese Cosco, gli operai hanno scioperato per ottenere almeno «il triste titolo di “lavoratori di mansioni usuranti e insalubri”». Qualcuno ci ha pensato, firmando il Memorandum Italia-Cina? Quanto al business, per Genova e Trieste «si parla più di un aumento di traffico di cargo che di partecipazioni societarie cinesi».
    Innanzitutto, continua Barnard, non è affatto chiaro chi pagherà per gli enormi ampliamenti strutturali dei due porti. La Cina? «Pechino ci presterà milioni, a patto che gli appalti vadano alle sue aziende? O ci presterà soldi e basta? O ce li metteremo noi? C’è caos, su questi punti». E poi: cosa significa mettere lavoratori sotto il controllo dei colossi cinesi? Gli esperti del Global Human Rights Lawyers (Ius Laboris, diritti del lavoro) scrivono quest’anno che «per gli Stati Uniti le scelte sono chiare in tema di Via della Seta: o si chiudono a riccio sul mercato interno con alto protezionismo, oppure accettano di abbassare il costo del lavoro e le protezioni sindacali dei propri lavoratori per competere coi cinesi». Chiaro il concetto? Washington ha già provato cosa significhi aprire ai colossi cinesi: a Saipan, territorio off-shore degli Stati Uniti, pochi anni fa gli americani concessero appalti a tre mega-aziende cinesi per la costruzione di un enorme sito turistico. Ebbene, il 91% dei posti di lavoro fu importato dalla Cina. Scaduti i visti, scrive Barnard, «i cinesi piuttosto che pagare di più per impiegare operai americani locali truffarono le autorità Usa importando lavoratori cinesi illegali con finti visti turistici». Li facevano lavorare 13 ore al giorno, con salari illegali negli Usa. «La sicurezza sul lavoro fu definita “atroce”, con montagne di feriti e persino di morti, come denunciato da Aaron Halegue della New York University Law School. Washington dovette intervenire, e fu una strage di cause e litigi, con una ridda di manager cinesi in galera».
    Stessa storia ad Atene, se non peggio: al Pireo, il colosso cinese Cosco s’è inventato «un sindacato cinese fittizio che vigilava su diritti fittizi», dopo aver preteso «la quasi totale esclusione del sindacato portuale ellenico». Anche in Grecia c’erano molti operai cinesi. Dopo le proteste furono rispediti a casa, «ma al loro posto non furono assunti i portuali greci, bensì operai a contratto dall’Est Europa». Così, Atene è rimasta senza lavoro. Nel 2014 i portuali greci organizzarono uno sciopero per denunciare l’alto tasso d’infortuni sul lavoro, sotto il management di Cosco. «Il premier Samaras gli mandò immediatamente la polizia in assetto antisommossa, e perché? Perché all’istante – scrive ancora Barnard – l’ambasciata cinese ad Atene aveva chiamato il governo, minacciando ritorsioni milionarie per danni al loro business secondo il sopraccitato infame sistema Isds». Conclusione: visto che le imponenti espansioni di Trieste e Genova coinvolgeranno manodopera cinese, il governo ha pensato a come affrontare l’eventuale ricatto, se Pechino dovesse imporre le sue maestranze, come condizione per onorare i suoi impegni finanziari? Sempre secondo Barnard, questi aspetti – piuttosto decisivi – non emergono mai, nelle dichiarazioni rilasciate dai presidenti delle autorità portuali Zeno D’Agostino (Trieste) e Paolo Signorini (Genova), nonché dal sottosegretario “gialloverde” Michele Geraci: cauti e garantisti sui media italiani, ma assai più filo-cinesi (business puro, senza tutele) se intervistati da giornali stranieri.
    Barnard sottolinea l’enorme asimmetria fra Italia e Cina: «L’economia cinese ha una potenza di fuoco da circa 14.000 miliardi di dollari; quella italiana è circa 1.900 miliardi di dollari, 7 volte di meno». Per i cinesi, investire in Italia per far profitti per appena 10 anni e poi tirarsi indietro, lasciando “arrugginire” le banchine di Genova e Trieste una volta spremuto il Belpaese, «è un rischio da spiccioli del caffè». Per noi, invece, sarebbe un disastro. «Ma attenti: le chance che questo accada si stanno materializzando già oggi», avverte Barnard, paventando la peggiore delle ipotesi: quella che vede la Cina in fuga dall’Italia, bypassando Suez e il Mediterraneo grazie alle due vere vie commerciali del futuro, l’Artico e l’Eurasia. Tutti oggi parlano della Via della Seta (marittima), ma Pechino sta già lavorando alla “Via Polare della Seta”. Ovvero: i ghiacci del Polo Nord si stanno sciogliendo a un ritmo vertiginoso, con estati a 30 gradi simili a quelle dell’Adriatico. Come i giganti occidentali dei cargo (ed esempio la Maersk), anche i cinesi stanno scommettendo sulle rotte marittime del Grande Nord liberato dai ghiacci.
    Per ora, riassume Barnard, i cargo seguono ancora la rotta del Sud, dalla Cina al Mediterraneo, attaverso Malesia, India, Golfo di Aden e Canale di Suez. Da qui l’interesse per Genova e Trieste. Tragitto: 13.000 miglia marittime. Ma se le navi fanno invece rotta verso Nord (Siberia, Russia, Norvegia), arrivano a Rotterdam dopo sole 8.000 miglia, tagliando i tempi di due settimane, con risparmi colossali. Ad oggi la direttrice artica è ancora poco battuta, ma la Copenhagen Business School – spiega Barnard – ha calcolato che, dati gli sforzi sia russi che cinesi, la Via Polare della Seta (già oggi percorribile anche d’inverno) diventerà frequentatissima in meno di 20 anni. Altro motivo per cui Pechino potrebbe preferirla: «La rotta tradizionale, a Sud, costringe i cinesi a passare per infinite “gogne” imposte dal dominio americano di ogni miglio di quella tratta, un fatto che strategicamente è intollerabile per la Cina». E non è tutto: a peggiorare le prospettive di Genova e Trieste c’è anche la rotta ferroviaria, sempre per le merci cinesi. Attraversa tutta l’Asia Centrale, la Turchia e i Balcani, arrivando in Europa occidentale attraverso la Grecia. «Anche su questa rotta il presidente Xi Jinping sta investendo cifre e soprattutto tecnologie forsennate, perché per questa via le merci arrivano da noi in meno di 14 giorni, un record».
    Le nuove tratte a scorrimento veloce «ridurranno i tempi ad addirittura 10 giorni», cioè record «imbattibili da qualsiasi rotta marittima». Questo poterebbe i costi ferroviari – oggi superiori a quelli marittimi – entro i limiti della convenienza. «E allora diventa fin banale arrivarci: noi italiani – conclude Barnard – adesso partiremo come pazzi a ingigantire Genova e Trieste, con investimenti “mega” che ancora nessuno sa da chi veramente saranno pagati. Stiamo facendo una scommessa senza precedenti, con pericoli ambientali e lavorativi alti o altissimi». Ma qualcuno, dalle parti di Di Maio, ha pensato a cosa potrebbe accadere fra una decina d’anni, con il boom della rotta marittima del Nord e l’esplosione ferroviaria eurasiatica? Il traffico verso l’Italia potrebbe crollare del 30%, con effetti devastanti sul nostro Pil entro il 2030. «Avete un’idea di che razza di voragine significherà, per le due città e per l’Italia che hanno investito e/o si sono indebitate?». Prima di firmare, il goveno ha affidato serie previsioni ai massimi esperti mondiali? «Bella roba, ritrovarci con Trieste e Genova fra pochi anni trasformate in ipertrofie di cemento e acciaio, inquinate come fogne, con disoccupazione, e ad arrugginirsi al sole. Debiti, buchi di bilancio, titoli da ripagare… Non sarebbe il primo, né l’ultimo, dei soliti dilettanteschi “Italian Jobs”».

    E se la Cina ci ripensa, dopo aver costretto l’Italia a convivere con i maxi-investimenti per i porti di Genova e Trieste? Paolo Barnard teme che l’accordo commerciale con Pechino possa rivelarsi un fardello insostenibile, per il nostro paese: lavoro “schiavistico” e inquinamento pesantissimo. Ma forse la prospettiva peggiore è un’altra: fra dieci anni, perdurando il “climate change”, la Cina potrebbe trascurare il Mediterraneo scegliere l’Artico, come direttrice mercantile, accorciando molto il tragitto verso Rotterdam. E questo senza contare la via ferroviaria eurasiatica, in pieno sviluppo. Tradotto: sicuri che scelta portuale italiana sia davvero strategica, capace di dare lavoro per più di un decennio? Giornalista e studioso di economia, Barnard rispolvera innanzitutto Keynes e poi la teoria monetaria moderna: la carta vincente non è mai il mercantilismo, il cui campione europeo è la Germania, ma il mercato interno. La chiave: produzione e consumi a chilometri zero, o quasi, valgono assai più dell’export. L’Italia è alle corde, come molti altri paesi dell’Eurozona, proprio perché non riesce più a emettere moneta sufficiente (deficit positivo) per supportare le aziende e i consumi interni. Legarsi mani e piedi a una potenza come quella asiatica, però, secondo Barnard potrebbe non essere una soluzione: specie se si considera che lo stile cinese non è esattamente ecologico, né amico dei diritti del lavoro.

  • Ponti: Tav ridicolo. E ben 133 miliardi di progetti-fantasma

    Scritto il 20/3/19 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    «Un ex amministratore delegato e super-ferroviere (ex da poco tempo) mi disse che, visto che sulla linea Torino-Lione non ci passerà nessuno, l’ipotesi di potenziare la linea che passa per Nizza e Ventimiglia era assolutamente da prendere in considerazione». Parola di Marco Ponti, super-tecnico ingaggiato da Danilo Toninelli per stilare finalmente un rapporto costi-benefici per la contestatissima linea Tav Torino-Lione, completamente inutile. Non solo: se i miliardi per l’alta velocità valsusina so rivelerebbero uno spreco assoluto e insensato, ancor peggio sarebbero i progetti-fantasma lasciati al ministero dal precedecessore di Toninelli, cioè Graziano Delrio. Letteralmente: 133 miliardi di progetti «senza nessuna valutazione», dice il professor Ponti, già consulente della Banca Mondiale e docente al Politecnico di Milano, considerato uno dei massimi esperti al mondo in materia di trasporti. Le infrastrutture progettatte con Delrio? «Non si sa nemmeno quanto costano e quanto ci si ricava: non c’è un’analisi di traffico. Sono state approvate per partito preso. Quindi, se vogliamo, il progetto della Tav è irrilevante rispetto al complesso dei progetti che vanno valutati. Io ne ho sul tavolo per 27 miliardi».
    Parlando con Maria Teresa Santaguida dell’agenzia di stampa Agi, Marco Ponti definisce testualmente «un’enorme cazzata» il progetto Tav Torino-Lione. I progetti in giacenza al ministero, ereditati dai governi Renzi e Gentiloni? Non si sa quanto traffico ospiterebbero, né si conosce l’eventuale rientro finanziario: «Si sanno solo i costi, perché sono soldi nostri». Attacca Ponti: «Solo perché si tratta di soldi dei contribuenti, non occorre valutare?». Il professor Ponti, economista, è bersaglio di polemiche dopo che la sua analisi ha sonoramente bocciato la Torino-Lione. Si difende contrattaccando: per decenza, si faranno analisi costi-benefici su tutti i progetti-fantasma parcheggiati al ministero da Delrio. Molte opere avrebbero alternative meno costose, tutte da analizzare. «Sulla Tav è più difficile, perché quello è un “tubo”: o si fa o non si fa». Il professore, intanto, critica «l’assioma» per il quale il trasporto su ferro inquinerebbe meno di quello su gomma: «Grazie alla tecnologia abbiamo già risultati strepitosi: un camion di oggi inquina un decimo di uno di vent’anni fa. E questa è la strada che sta seguendo tutto il mondo: si investono decine di miliardi per fare veicoli ibridi o elettrici. Tecnologia che poi pagano gli utenti, mentre la ferrovie le paghiamo noi».
    Tra le accuse a Ponti, l’aver redatto in passato una pubblicazione che valutava positivamente la Torino-Lione. Il professore si infuria: «Il precedente studio è una balla, è una delle bugie più odiose pronunciate da Enrico Mentana: quello che ha fatto è orrendo». E spiega: «Quello studio non era un’analisi costi-benefici, ma un’analisi di valore aggiunto: il che non ha niente a che vedere con l’analisi costi-benefici». Aggiunge Ponti: «Col valore aggiunto è fattibile qualsiasi cosa, anche un’autostrada di alluminio tra la Sicilia e la Sardegna, perché non misura il rapporto tra costi e benefici: infatti ai politici piace tantissimo». Secondo lo studioso, confrontare la stima del valore aggiunto con l’analisi costi-benefici «è una porcata indegna di un giornalista serio». Tutti, ovviamente, l’hanno usata per dire: ecco, Ponti dice una volta sì e l’altra no, a seconda di chi lo paga. Falso: la consulenza al governo gialloverde è gratis. «Ci tengo a dire che non sono pagato, per mia scelta», sottolinea Ponti: «La libertà ha un prezzo, io sono ricco e non me ne frega niente». Insiste: «Nessuno deve potermi dire che dico sì o no perché sono pagato. Da 10 anni valuto i progetti sulla base dei costi e dei benefici che riesco a calcolare».
    Il progetto Torino-Lione, aggiunge Ponti, «mi dicevano già che era indifendibile: non sarebbe stato un buon uso delle risorse pubbliche, perché costa troppo caro rispetto al traffico che ci passerebbe su». E come spiegare, allora, tanta insistenza nel proporre una grande opera così disastrosamente sgangherata, improbabile, inutile e oltretutto avversata dall’intera comunità locale della valle di Susa? «La lobby ferroviaria in Europa è intoccabile perché muove voti e soldi», sostiene Ponti: viene dunque da lontano l’ostinazione ventennale sulla ridicola Torino-Lione. Colpa della potente lobby europea, che si mette tranquillamente in tasca Bruxelles. «La Commissione Europea – dice ancora Ponti – decide senza seguire le regole, tra cui quella in base alla quale chi inquina paga, perché anche le ferrovie sono altamente inquinanti». E attenzione: «I ritorni finanziari sull’investimento per infrastrutture ferroviarie sono sempre zero». Chi gliel’ha detto? «La stessa commissaria Ue ai trasporti, la slovena Violeta Bulc».

    «Un ex amministratore delegato e super-ferroviere (ex da poco tempo) mi disse che, visto che sulla linea Torino-Lione non ci passerà nessuno, l’ipotesi di potenziare la linea che passa per Nizza e Ventimiglia era assolutamente da prendere in considerazione». Parola di Marco Ponti, super-tecnico ingaggiato da Danilo Toninelli per stilare finalmente un rapporto costi-benefici per la contestatissima linea Tav Torino-Lione, completamente inutile. Non solo: se i miliardi per l’alta velocità valsusina so rivelerebbero uno spreco assoluto e insensato, ancor peggio sarebbero i progetti-fantasma lasciati al ministero dal precedecessore di Toninelli, cioè Graziano Delrio. Letteralmente: 133 miliardi di progetti «senza nessuna valutazione», dice il professor Ponti, già consulente della Banca Mondiale e docente al Politecnico di Milano, considerato uno dei massimi esperti al mondo in materia di trasporti. Le infrastrutture progettatte con Delrio? «Non si sa nemmeno quanto costano e quanto ci si ricava: non c’è un’analisi di traffico. Sono state approvate per partito preso. Quindi, se vogliamo, il progetto della Tav è irrilevante rispetto al complesso dei progetti che vanno valutati. Io ne ho sul tavolo per 27 miliardi».

  • Salvini sia statista: pensi agli italiani, non alla Torino-Lione

    Scritto il 13/3/19 • nella Categoria: idee • (6)

    Salvini sa benissimo che quelli per il traforo Tav Torino-Lione sono 10 miliardi buttati dalla finestra: abbia il coraggio di essere uno statista, capace di parlare con franchezza anche al suo stesso elettorato. Meglio usare quei soldi per i tantissimi cantieri utili, di cui l’Italia ha un disperato bisogno. Lo scrive Davide Gionco su “Scenari Economici”: possibile che il leader della Lega voglia ridursi a fare il mestierante della politica, come gli “eroi” che trascinarono l’Italia nella catastrofe dell’Eurozona? «Ciò che deve distinguere uno statista dai troppi politicanti che hanno fatto disastri in Italia negli ultimi decenni – scrive Gionco – dev’essere la capacità di confrontarsi con la realtà, andando oltre alle proprie posizioni ideologiche o alle proprie convenienze personali e avendo la capacità, se il caso, di spiegarlo ai propri elettori». Per intenderci: politicanti, sostiene Gionco, sono quelli che hanno ingannato gli italiani, raccontando loro che l’euro sarebbe stato un paradiso. «I vari Prodi, D’Alema, Berlusconi, Ciampi (ma anche Bossi) lo hanno fatto per convinzione ideologica o, se in mala fede, per convenienza personale, politica o economica (lascio a voi giudicare). Se avessero analizzato dal punto di vista tecnico l’opzione politica “moneta unica” – dice Gionco – avrebbero dovuto, anche con coraggio, sostenere pubblicamente che si trattava di una opzione non conveniente per gli italiani».
    Invece, come noto, chi allora gestiva il paese non avvertì dei pericoli connessi con la moneta unica, di cui ancora oggi stiamo pagando il prezzo. «Nel caso della linea Tav Torino-Lione la situazione è stata del tutto simile», osserva Gionco. «Per diversi lustri, tutte le forze politiche sono state favorevoli al progetto, pur in assenza di uno studio costi-benefici serio e indipendente». Lo erano per convinzione ideologica, o magari per convenienza politica o economica. Dopo di che, è arrivata al governo una forza politica – i 5 Stelle – che ha avuto fra i propri sostenitori il movimento NoTav, «costituito da cittadini che da 25 anni manifestano le proprie ragioni di contrarietà all’opera, peraltro con il sostegno di persone competenti in materia». Ed ecco il fatto politico sostanzialmente nuovo, per l’Italia: «Per la prima volta viene effettuata un’analisi tecnica costi-benefici sulla convenienza dell’opera». Scrive Gionco: «Se Prodi & c. avessero fatto lo stesso nei primi anni ’90, oggi forse l’Italia vivrebbe una situazione economica molto diversa». Ora, l’analisi costi-benefici della Commissione Ponti «dimostra che l’opera non solo non è conveniente, ma è molto lontana dall’esserlo». E questo, principalmente a causa dello scarso traffico (di merci e passeggeri) sulla tratta Torino-Lione, ormai ridottosi in modo inesorabile, nonostante il quasi mezzo miliardo speso negli ultimi anni per rendere transitabile l’attuale traforo valsusino del Fréjus anche da parte di treni a con a bordo Tir e grandi container “navali”.
    La decisione di realizzare l’opera, ricorda Gionco, fu presa sulla base di previsioni di crescita del traffico merci: una prima previsione del 1999, una seconda del 2004 e una terza del 2012. L’andamento reale del traffico merci – che sarebbe dovuto aumentare – non ha fatto invece che calare, fino a rendere quasi semideserta la ferrovia internazionale Torino-Modane che già oggi collega Torino a Lione attraverso la valle di Susa. Davide Gionco sa bene che la decisione di realizzare un’opera del genere deve essere innanziutto politica, ma i dati tecnici – avverte – dovrebbero «aiutare gli statisti a decidere in nome degli interessi degli italiani e non di altri interessi (personali o di partito)». Altrimenti, si rischia di fare la fine toccata a francesi e spagnoli con l’alta velocità che collega Montpellier a Barcellona: un catastrofico buco nell’acqua. La tratta Perpignan-Girona fa anch’essa parte dell’ex “Corridoio 5” Lisbona-Kiev, ora declassato a “Corridoio Mediterraneo”. Qualche anno fa, i media francesi esaltavano la possibilità di “filare” da Montpellier a Barcellona in sole 2 ore e 45 minuti entro la fine del 2013. Peccato però che Francia e Spagna avessero “dimenticato” di realizzare uno studio costi-benefici indipendente: l’unico disponibile era quello prodotto dai costruttori dell’opera.
    Due anni dopo l’inaugurazione, nel 2015, la società franco-spagnola Tp Ferro è finita sotto amministrazione giudiziaria, per i troppi debiti accumulati. La colpa? Troppo scarso il traffico di merci e passeggeri. Dopo aver costruito la Barcellona-Mompellier, nel 2016 la Tp Ferro ha dichiarato il fallimento. E i debiti? Finiti «a totale carico dei contribuenti francesi e spagnoli». Ora, anche dopo il fallimento di Tp Ferro – continua Gionco – la tratta (Perpignan-Girona) risulta essere fortemente sottoutilizzata, con soli 4.800 treni sui 34.000 attesi nei primi anni di esercizio. «Si tratta quindi di un’opera costantemente in perdita», anche perché «coloro che vogliano andare da Parigi a Barcellona o da Milano a Barcellona, ma anche da Lione e da Marsiglia, ci vanno comodamente in aereo». Il traffico merci? «Non decolla, causa le politiche di austerità sia lato francese che spagnolo». Ma poi: «Per quale ragione i francesi dovrebbero aumentare a dismisura il consumo di merci spagnole e viceversa? Il consumo di merci non è una funzione matematica (come quelle che insegnano alla Bocconi), ma è la conseguenza dei bisogni delle persone, che non crescono indefinitamente». In altre parole: il trend è questo, e non c’è grande opera che possa invertirlo. Vale, a maggior ragione, per l’improbabilissima Torino-Lione.
    «Davvero Matteo Salvini – si domanda Gionco – vuole assumersi la responsabilità politica e storica di buttare via 10 miliardi di euro (o quanti sono) per realizzare un’opera la cui utilità concreta è molto dubbia, se la si guarda senza preconcetti ideologici?». Salvini ha ragione, ovviamente, a sostenere che per rilanciare l’economia del paese abbiamo bisogno di realizzare opere pubbliche. «Noi di “Scenari Economici” diciamo da anni che dalla crisi economica si esce rilanciando gli investimenti pubblici – conferma Gionco – senza farsi imporre le stupide e criminali politiche di austerità». Ma, aggiunge: «Perché investire in un’opera “poco utile”, quando in tutta Italia non abbiamo nemmeno le risorse per riparare le buche delle strade?». Mancano soldi per mettere in sicurezza le scuole e per la sistemazione idrogeologica del territorio (a proposito, «a quando i prossimi morti?»). Non ci sono risorse «per investire sull’efficientamento energetico di edifici pubblici e privati, per garantire trasporti pubblici locali funzionanti, per far funzionare gli ospedali». L’elenco di lavori urgenti da realizzare subito in Italia è sterminato. «In Svizzera effettivamente realizzano tunnel ferroviari per l’alta velocità, come il San Gottardo, il Monte Ceneri o il Lötschberg, ma se lo possono permettere – dice Gionco – dopo che tutte le infrastrutture pubbliche di base ci sono già e funzionano bene. Non è questa la situazione dell’Italia».
    Gionco si augura che Salvini «non voglia dimostrarsi come uno dei tanti politicanti che hanno fatto danni all’Italia». E’ il caso degli attuali partiti di opposizione come il Pd, Forza Italia e Leu: «Con la loro incompetenza e i loro conflitti di interessi, hanno messo l’Italia in balia dei poteri finanziari internazionali, facendo pagare sempre il conto ai (sempre più poveri) cittadini italiani». Questi 10 miliardi del Tav Torino-Lione, insiste Gionco, «spendiamoli in altre opere utili, urgenti e necessarie». Tanto per cominciare, si creerebbero più posti di lavoro di quelli destinati alla realizzazione del tunnel, «dato che una parte rilevante dei costi di realizzazione delle opere del Tav è consumo di energia per forare le montagne». In altre parole, «senza Tav risparmiamo energia e investiamo gli stessi importi per impiegare più personale in altre opere, utili». Conclude l’analista di “Scenari Economici”: «Ci auguriamo che Salvini dimostri di essere uno statista, comprendendo che la questione del Tav è del tutto irrilevante per portare l’Italia fuori dalla crisi economica». Piuttosto, Gionco considera determinante il fatto che l’attuale governo vada avanti, «per sottrarre l’Italia al giogo dell’Unione Europea e delle politiche di austerità». Sintetizzando: «Personalmente, non mi interessa nulla guadagnare un’ora per andare da Torino a Lione fra vent’anni, mentre mi interessa molto porre fine – ora – alla crisi economica in Italia».

    Salvini sa benissimo che quelli per il traforo Tav Torino-Lione sono 10 miliardi buttati dalla finestra: abbia il coraggio di essere uno statista, capace di parlare con franchezza anche al suo stesso elettorato. Meglio usare quei soldi per i tantissimi cantieri utili, di cui l’Italia ha un disperato bisogno. Lo scrive Davide Gionco su “Scenari Economici”: possibile che il leader della Lega voglia ridursi a fare il mestierante della politica, come gli “eroi” che trascinarono l’Italia nella catastrofe dell’Eurozona? «Ciò che deve distinguere uno statista dai troppi politicanti che hanno fatto disastri in Italia negli ultimi decenni – scrive Gionco – dev’essere la capacità di confrontarsi con la realtà, andando oltre alle proprie posizioni ideologiche o alle proprie convenienze personali e avendo la capacità, se il caso, di spiegarlo ai propri elettori». Per intenderci: politicanti, sostiene Gionco, sono quelli che hanno ingannato gli italiani, raccontando loro che l’euro sarebbe stato un paradiso. «I vari Prodi, D’Alema, Berlusconi, Ciampi (ma anche Bossi) lo hanno fatto per convinzione ideologica o, se in mala fede, per convenienza personale, politica o economica (lascio a voi giudicare). Se avessero analizzato dal punto di vista tecnico l’opzione politica “moneta unica” – dice Gionco – avrebbero dovuto, anche con coraggio, sostenere pubblicamente che si trattava di una opzione non conveniente per gli italiani».

  • Torino-Lione, la Banda del Buco farà fallire le Fs italiane?

    Scritto il 11/3/19 • nella Categoria: segnalazioni • (6)

    Vuoi vedere che il progetto Tav Torino-Lione, che nasce morto e votato al fallimento, servirà a indebitare le Ferrovie dello Stato per poi privatizzarle e magari svenderle proprio ai francesi? Un sospetto che Rosanna Spadini, su “Come Don Chisciotte”, argomenta con estrema precisione, esaminando la sconfortante opacità del super-affare (per pochissimi) che da un quarto di secolo incombe sulla valle di Susa, dietro al fantasma della ferrovia-doppione che ora sta mettendo in croce il governo gialloverde. Com’è noto, si vorrebbe creare un secondo corridoio ferroviario italo-francese, sempre in valle di Susa, nonostante sia pressoché semideserta, senza passeggeri né merci, l’attuale linea che già unisce Torino e Lione via Modane, attraverso il traforo del Fréjus. Finora è stato scavato solo il cunicolo esplorativo di Chiomonte: nemmeno un metro del futuro traforo. In origine, sarebbe stato il passante alpino del Corridio 5 Kiev-Lisbona, ora defunto. L’Ue ha ripiegato sull’assai meno ambizioso Corridoio Mediterraneo, facendo un altro buco nell’acqua: la linea Parigi-Barcellona è già archiviata come binario morto, e la società che ha costruito il tunnel sotto i Pirenei è appena fallita. Analogo destino potrebbe attendere i committenti statali del futuro traforo valsusino da 57 chilometri? Maxi-opera faraonica e surreale: se anche si scavasse il super-tunnel, la Francia comincerebbe a pensare alla nuova linea (binari) solo nel 2039.
    «Meglio di David Copperfield – scrive Spadini – il premier Conte ha fatto sparire i bandi per il Tav sotto gli occhi di tutti». Una sua lettera dice infatti di aver «ricevuto la conferma da parte di Telt del consenso a ridiscutere l’opera e a congelare i bandi». In altre parole, «un modo per rinviare il problema a dopo le elezioni europee, ma non una soluzione definitiva». Per Alberto Perino, storico portavoce dei NoTav, «Telt vince, Conte e i 5 Stelle perdono, Salvini gode». Il dibattito sul Tav segna l’inizio della campagna elettorale per Strasburgo, tra mille forzature e fake news. In realtà, osserva Spadini, «l’affare Tav è considerato irrinunciabile e vitale dal sistema che vive da decenni sulla spoliazione di soldi pubblici, perché può trasformarsi in un pozzo di San Patrizio inesauribile, che continuerà a foraggiare l’Alta Voracità delle classi dirigenti più avide della storia d’Italia». Da qui la battuta d’arresto «imposta dalla banda affaristica del Tav», con l’improvviso rischio di una crisi di governo. «Non è un caso che il Tav abbia la maggioranza di Salvini, Berlusconi, Meloni e di Zingaretti», dichiara Gianluigi Paragone: «Evidentemente quando c’è una grande torta, ci sono interessi da tutelare». Per ora, l’esecutivo s’è rifugiato in corner: «La via più di buon senso è quella di pubblicare i bandi con la “clausola della dissolvenza”, così come previsto dal diritto francese, che consente in qualsiasi momento di poterli revocare», spiega il sottosegretario alle infrastrutture, Armando Siri.
    Per il momento la strada della “dissolvenza” sembra essere l’unica soluzione indolore, scrive Rosanna Spadini, nel senso che i bandi francesi si terranno, e allo stesso tempo il governo prende tempo. Lo conferma Danilo Toninelli, quando sostiene che si può allo stesso tempo dire sì ai bandi e no al Tav. Il Cda di Telt resta comunque convocato, con l’ordine del giorno per il via libera ai bandi da 2,3 miliardi di euro per l’avvio del “tunnel di base”. Però la faccenda è ancor più complicata, annota Spadini su “Come Don Chisciotte”, perché la Telt (Tunnel Euralpin Lyon Turin) è un’azienda francese di proprietà al 50% dello Stato francese e al 50% delle Ferrovie dello Stato italiane con sede a Le Bourget-du-Lac, nel dipartimento della Savoia, in Francia, con lo scopo di progettare, realizzare e gestire la sezione transfrontaliera della futura linea ferroviaria Torino-Lione. Premessa: «Dal 24 maggio del 2011 le Ferrovie dello Stato sono diventate una Spa». Sono sempre un organismo di diritto pubblico, «però in forma di società per azioni». A marzo del 2016, l’accordo sulla distribuzione dei costi totali: 8,3 miliardi di euro (valore datato, risalente a una stima del 2012).
    Il nuovo super-tunnel, completamente inutile secondo la commissione tecnica presieduta dal professor Marco Ponti del Politecnico di Milano, dovrebbe quindi essere finanziato per il 40% dall’Unione Europea, per il 35% dall’Italia e per il restante il 25% dalla Francia. «Condizioni a dir poco disoneste per l’Italia, cui spetta il tratto minore». L’abbinamento è piuttosto curioso, fa notare Rosanna Spadini: «Se lo Stato francese non può mai fallire, Fs invece – essendo una Spa – potrebbe fallire, soprattutto se si espone ad opere insostenibili e se nella sua galassia esistono soggetti privati che cercano di vampirizzarla, creando flussi finanziari distrattivi dall’interno». Esempio recentissimo: la Tp Ferro, società che ha gestito la ferrovia e il tunnel per la linea Parigi-Barcellona sotto i Pirenei, è stata costretta a portare i bilanci in tribunale nel 2015. «La linea è ampiamente sottoutilizzata: solamente 70 treni passeggeri e 32 merci a settimana, ben al di sotto delle previsioni. Il costo della sezione transfrontaliera fra Perpignan e Figueras, comprendente il traforo, è stato di 1,2 miliardi di euro, e ora il debito della Tp Ferro supera i 400 milioni. Il tratto di linea in questione fa parte del fantasioso Corridoio Mediterraneo, e la sua costruzione era stata finanziata dall’Unione Europea. Lo stesso corridoio della Torino-Lione, e la società ora in fallimento ci teneva a sottolinearlo».
    Attenzione: la sezione transfrontaliera della Torino-Lione «costa oltre sette volte la Figueras-Perpignan, ma nulla lascia intravedere un futuro più roseo per la linea francoitaliana rispetto a quella franco-spagnola». A maggior ragione se si considera che fra Italia e Francia «già esiste una ferrovia, che passa per la val Susa, in grado di trasportare le merci e su cui transitano regolarmente i Tgv». Linea anch’essa sottoutilizzata: spariti i passeggeri grazie ai voli low-cost, è crollato anche il traffico merci (né si prevede che possa risorgere: la direttrice dei trasporti mercantili è la Genova-Rotterdam). Nel frattempo, scrive Spadini, Fs è entrata in affari con quella stessa Francia che ha appena boicottato Fincantieri per impedirle di acquisire Stx France, ora Chantiers de l’Atlantique. Per la Torino-Lione, la società Fs Spa è ora la capo-holding. E’ nata nell’ambito delle famigerate privatizzazioni decise tra il ‘92 e il ‘93. Inoltre, nel caso della Torino-Lione «la concessione per l’esercizio del servizio ferroviario di trasporto pubblico ha una durata di 60 anni, quindi fino al 2053». La premiata ditta Prodi-D’Alema ha poi separato Trenitalia dalla gestione dell’infrastruttura Rfi Spa, «che ha appena svenduto tutto il commercio in franchising di Grandi Stazioni Spa ad una società franco-italiana con sede in Lussemburgo».
    Quindi Fs, che dovrebbe essere di Stato, «continua a svendere gioielli di famiglia, grandi patrimoni statali che invece dovrebbero essere inalienabili». Grandi Stazioni Spa, infatti, comprende le maggiori stazioni monumentali del paese, «già controllate da Fs ed Eurostazioni Spa, quest’ultima controllata dalle società di Caltagirone, Benetton, Pirelli e dalla Società “francese” delle Ferrovie, cedendo inoltre tutto il “retail” ad un privato, che sfrutterà una manodopera schiavizzata». Tutto questo, secondo Rosanna Spadini, «dovrebbe bastare per stracciare gli accordi e non procedere», con la Torino-Lione, «se volessimo mantenere pubbliche le nostre stazioni e la ferrovia, ed evitare un molto probabile fallimento, visto che tutta l’operazione Tav puzza anche di una squallida porcata per indebitare Fs e poi privatizzarla, magari svendendola proprio ai francesi». Non stupisce che la potente lobby del Tav abbia mobilitato anche i sindacati, «che ormai servono da cassa di risonanza della intramontabile casta dei vecchi partiti, che hanno dovuto ingoiare diversi rospi: legge spazzacorrotti, pene fino a 15 anni per il voto di scambio politico-mafioso, il reddito di cittadinanza e lo stop alla prescrizione, il taglio dei finanziamenti pubblici all’editoria».
    L’inutile Tav Torino-Lione come ultimo appiglio per i vecchi consorzi mangia-Italia? Le imprese coinvolte nel progetto della maxi-opera valsusina sono sempre le stesse, sottolinea Spadini. Ltf è la società madre, responsabile della realizzazione. Curriculum: «Paolo Comastri, direttore generale di Ltf, nel 2011 è stato condannato in primo grado per turbativa d’asta; oggetto: la gara per la direzione dei lavori per il tunnel esplorativo della Torino-Lione». Dettaglio: l’avvocato difensore di Comastri era Paola Severino, ministro della giustizia del governo Monti. Poi c’è l’intramontabile Cmc di Ravenna (Cooperativa Muratori e Cementisti): una coop rossa, quinta impresa di costruzioni italiana, al 96esimo posto nella classifica dei principali 225 “contractor” internazionali. La Cmc vanta un ex amministratore illustre, Pierluigi Bersani. «Si è aggiudicata l’incarico (affidato senza gara) di guidare un consorzio di imprese (Strabag Ag, Cogeis Spa, Bentini Spa e Geotecna Spa) per la realizzazione del cunicolo esplorativo a Chiomonte». Valore della fetta di appalto della Cmc, 96 milioni di euro. Convergenze parallele: da Bersani a Lunardi (Pietro, governo Berlusconi) attraverso la Rocksoil Spa, società di geoingegneria. Lunardi ha poi ceduto le azioni ai familiari, ottenuto il dicastero delle infrastrutture nel 2001, tenuto fino al 2006.
    Nel 2002, prosegue Rosanna Spadini, la Rocksoil ha ricevuto un incarico di consulenza dalla società francese Eiffage, che a sua volta era stata incaricata da Rfi (Rete Ferroviaria Italiana, di proprietà dello Stato) di progettare il tunnel per la Torino-Lione, oggi quotato 13 miliardi di euro. Lunardi si difese dall’accusa di conflitto d’interessi dicendo che la sua società lavorava «solo all’estero». Poi c’è Impregilo, la principale impresa di costruzioni italiana. È il general contractor del progetto Torino-Lione, nonché del progetto per l’altrettanto famigerato ponte sullo Stretto di Messina. Impregilo appartiene ad Agrofin (Gavio), ad Autostrade (Benetton) e a Immobiliare Lombarda (Ligresti). Argofin: marchio del gruppo Gavio. Marcellino Gavio è stato latitante negli anni 92-93, «ricercato per reati di corruzione legati alla costruzione dell’autostrada Milano-Genova», infine «prosciolto per prescrizione del reato». Autostrade: gruppo Benetton, noto in Italia per il disastro del viadotto Morandi a Genova e conosciuto anche all’estero «per lo sfruttamento dei lavoratori delle sue fabbriche di tessile in Asia e per aver sottratto quasi un milione di ettari di terra alle comunità Mapuche in Argentina e Cile». Infine, Immobiliare Lombarda (gruppo Ligresti). Salvatore Ligresti è stato condannato dopo l’inchiesta Tangentopoli, pattuendo una condanna a 4 anni e due mesi «dopo la quale è tornato tranquillamente alla sua attività di costruttore». Qualcuno può ancora chiedersi il perché delle mostruose pressioni sui 5 Stelle per dare il via libera ai miliardi dell’intile Torino-Lione?

    Vuoi vedere che il progetto Tav Torino-Lione, che nasce morto e votato al fallimento, servirà a indebitare le Ferrovie dello Stato per poi privatizzarle e magari svenderle proprio ai francesi? Un sospetto che Rosanna Spadini, su “Come Don Chisciotte”, argomenta con estrema precisione, esaminando la sconfortante opacità del super-affare (per pochissimi) che da un quarto di secolo incombe sulla valle di Susa, dietro al fantasma della ferrovia-doppione che ora sta mettendo in croce il governo gialloverde. Com’è noto, si vorrebbe creare un secondo corridoio ferroviario italo-francese, sempre in valle di Susa, nonostante sia pressoché semideserta, senza passeggeri né merci, l’attuale linea che già unisce Torino e Lione via Modane, attraverso il traforo del Fréjus. Finora è stato scavato solo il cunicolo esplorativo di Chiomonte: nemmeno un metro del futuro traforo. In origine, sarebbe stato il passante alpino del Corridoio 5 Kiev-Lisbona, ora defunto. L’Ue ha ripiegato sull’assai meno ambizioso Corridoio Mediterraneo, facendo un altro buco nell’acqua: la linea Parigi-Barcellona è già archiviata come binario morto, e la società che ha costruito il tunnel sotto i Pirenei è appena fallita. Analogo destino potrebbe attendere i committenti statali del futuro traforo valsusino da 57 chilometri? Maxi-opera faraonica e surreale: se anche si scavasse il super-tunnel, la Francia comincerebbe a pensare alla nuova linea (binari) solo nel 2039.

  • Zingaretti pro-Tav: s’incunea tra i 5 Stelle, Salvini e Maroni

    Scritto il 07/3/19 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    L’elezione plebiscitaria di Nicola Zingaretti alla guida del Pd inaugura una nuova stagione per il governo Conte: «Quella del tiro alla fune, con in mezzo una banderuola chiamata Movimento 5 Stelle». La scelta di Torino come prima tappa del “nuovo” Pd è simbolica, scrive Antonio Fanna sul “Sussidiario”: puntando sul Tav Torino-Lione, Zingaretti prova a dare «uno strattone alla fune per accentuare lo sfilacciamento nella maggioranza». In questo modo, il neo-segretario Pd s’incunea tra Lega e 5 Stelle, gettando sale sulla ferita: bruciano «le differenze tra i contraenti del contratto di governo, che nel braccio di ferro sulla Tav stanno giocando una partita molto rischiosa». Il calo elettorale, spiega Fanna, non consente ai 5 Stelle di cedere altro terreno a Salvini. E dal canto suo, il leader leghista «deve tenere duro sul fronte degli investimenti al Nord», dal momento che «non può permettersi che un ex di lusso come Roberto Maroni arrivi a ipotizzare un nuovo partito del Nord, autonomista e rappresentativo dei ceti produttivi che si sentono sempre più trascurati». Brinda il cartello trasversale pro-Tav: la grande opera inutile, doppione della ferrovia attuale, ottiene una nuova chance grazie alle debolezze dei gialloverdi.
    La svolta alla segreteria Pd, sottolinea Fanna, segna l’apertura della caccia al voto grillino, «un movimento che oggi sembra composto più da delusi che da militanti convinti». Torino è pur sempre la città in cui il Movimento 5 Stelle ha mandato a casa un dinosauro come Piero Fassino. Ora però i pentastellati «potrebbero subire una nuova batosta alle regionali, dopo quelle rimediate in Abruzzo e Sardegna». Molti delusi, aggiunge Fanna, «sono andati a ingrossare l’esercito dell’astensionismo, che in Sardegna ha toccato quasi il 50%». Rappresentano quindi un vasto bacino elettorale da riconquistare, e il Pd zingarettiano «sembra non volere più lasciare campo libero alla Lega, che in questo momento fa man bassa di consensi». I sondaggi dicono che il Pd sta recuperando, e che il voto delle ultime due regionali – con i 5 Stelle che scivolano al terzo posto, rilanciando l’antico “bipolarismo apparente” tra centrodestra e centrosinistra – indica una tendenza che investe tutto il paese. Ma non è tutto, aggiunge Fanna: «Luigi Di Maio teme poi di venire scavalcato dai duri e puri del suo movimento guidati dal presidente della Camera Roberto Fico, che ha molti punti di contatto con il Pd».
    Così, conclude l’analista, il “tiro alla fune” di Zingaretti potrebbe allargarsi e strattonare non solo il governo, per ottenere elezioni anticipate al momento poco ipotizzabili, ma soprattutto i grillini. «Questo invece è un obiettivo che, a partire dalle prossime elezioni regionali piemontesi, è già più a portata di mano». Paradigmatica la partita del Tav: a premere per l’infrastruttura più contestata d’Europa sono Zingaretti e l’eterno Chiamparino, portavoce di Confindustria. Con loro Salvini, tallonato da Maroni, più il solito Berlusconi e persino la Meloni. Operazione preliminare: tiro al piccione sul ministro grillino Toninelli, presentato come un minus habens nonostante abbia affidato la commissione sulla Torino-Lione (verdetto: negativo) al più prestigioso trasportista d’Europa, il professor Marco Ponti del Politecnico di Milano, già consulente della Banca Mondiale. La grande opera non servirebbe a nulla? Pazienza: non è cosa che turbi la Lega e Forza Italia, perfettamente allineate al Pd, nonostante la recita politica che opporrebbe virtualmente l’ex centrodestra all’ex centrosinistra. La farsa crolla, davanti alla prospettiva miliardaria degli appalti Tav.

    L’elezione plebiscitaria di Nicola Zingaretti alla guida del Pd inaugura una nuova stagione per il governo Conte: «Quella del tiro alla fune, con in mezzo una banderuola chiamata Movimento 5 Stelle». La scelta di Torino come prima tappa del “nuovo” Pd è simbolica, scrive Antonio Fanna sul “Sussidiario”: puntando sul Tav Torino-Lione, Zingaretti prova a dare «uno strattone alla fune per accentuare lo sfilacciamento nella maggioranza». In questo modo, il neo-segretario Pd s’incunea tra Lega e 5 Stelle, gettando sale sulla ferita: bruciano «le differenze tra i contraenti del contratto di governo, che nel braccio di ferro sulla Tav stanno giocando una partita molto rischiosa». Il calo elettorale, spiega Fanna, non consente ai 5 Stelle di cedere altro terreno a Salvini. E dal canto suo, il leader leghista «deve tenere duro sul fronte degli investimenti al Nord», dal momento che «non può permettersi che un ex di lusso come Roberto Maroni arrivi a ipotizzare un nuovo partito del Nord, autonomista e rappresentativo dei ceti produttivi che si sentono sempre più trascurati». Brinda il cartello trasversale pro-Tav: la grande opera inutile, doppione della ferrovia attuale, ottiene una nuova chance grazie alle debolezze dei gialloverdi.

  • Viareggio, strage-vergogna: Moretti premiato dopo il rogo

    Scritto il 24/2/19 • nella Categoria: segnalazioni • (6)

    Difficilmente mi occupo di questioni legate alla giustizia, ma quando si tratta della strage di Viareggio non posso tacere, essendo io nativo e abitante di quelle terre, e data la atrocità oggettiva di quanto accadde in quell’inferno esploso proprio nel centro cittadino. L’esplosione del convoglio avvenne sotto il sovrappasso che unisce via Ponchielli e Burlamacchi, percorso che fino a quel momento era legato ai ricordi delle moltissime persone che come me lo utilizzavano per recarsi ai rioni notturni di Carnevale. Toccato da tanto dolore e drammaticità scrissi anche una poesia quasi per sprigionare tutta l’emozione, il coinvolgimento, l’angoscia, l’incredulità: 31 morti carbonizzati, 11 dei quali “disciolti” all’istante, 2 infarti e 25 feriti, alcuni dei quali con lesioni gravissime). L’11 febbraio 2019 sono stati chiesti 15 anni e 6 mesi dalla Procura generale di Firenze (appello) per Mauro Moretti: la strage risale al 29 giugno 2009 quando egli era amministratore delegato di Fs e Rfi. Puntualmente gli organi della giustizia e del potere, perché Moretti di potere ne ha da vendere, mostrano una prevedibile resistenza, rispettivamente, a giudicare ed esser giudicati, soprattutto quando il soggetto in questione può disporre dei migliori avvocati e di enormi agganci politici. Presto saranno passati ben 10 anni.
    Non so se noi italiani ce ne rendiamo conto e se ci sta bene, ma i media italiani, chiacchieroni, a seconda dei propri interessi sono i più disinvolti nell’enfatizzare questioni pretestuose e inconsistenti, magari parlandone per mesi, sostanzialmente ignorando quelle notizie come QUESTA, che meriterebbero adeguato risalto. Segnalo solo alcune posizioni assunte dal Moretti: ha fatto carriera nella Cgil tra gli anni ’80 e gli anni ‘90 arrivando ai vertici del sindacato, dal 2006 al 2014 è stato Ad di Ferrovie dello Stato su nomina dell’ex ministro Pd Tommaso Padoa Schioppa (quello che definiva i giovani disoccupati “bamboccioni”) e dal 2014 al 2017 è stato “promosso” come direttore generale e Ad di Finmeccanica-Leonardo a 1,7 milioni di “salario”: il doppio, più o meno, rispetto ai tempi di Fs quando, nel 2012, si lamentava praticamente di guadagnare troppo poco, cioè quasi 900 mila euro all’anno, più i “premi”. Tutte “cosine” avvenute dopo la strage…
    Tra le varie posizioni assunte, anche ruoli internazionali come quello di presidente della Community of European Railway and Infrastructure Companies, sindaco di Mompeo per due mandati, presidente della Fondazione Ferrovie dello Stato, presidente dell’Associazione Europea delle Industrie per l’Aereospazio e la Difesa, membro del consiglio direttivo degli amici dell’Accademia dei Lincei. Per dire come funzionavano le cose all’epoca (nei meandri dello Stato profondo italiano ancora oggi) il 31 maggio 2010 Moretti fu nominato, dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, cavaliere del lavoro. Una vergogna e una beffa, 11 mesi dopo la strage. Bene ha fatto il M5S (tramite Gianluca Ferrara, senatore di Viareggio da me criticato per altre questioni ma in questo caso molto opportuno) a farsi “ricevere” (dovremmo dire che si “sale” da lui?) dal presidente emerito (emerito…) per avere risposte. Risposte che, se si legge l’articolo linkato, hanno il sapore delle lacrime di coccodrillo (mi si perdoni il tono emotivo e meno “professionale” del solito), con un retrogusto di scaricabarile; sono certo che esse si trasformerebbero in tutt’altro, in sordità e arroganza, qualora il presidente ringiovanisse 20 anni e si ritrovasse al Colle.
    Presidente Napolitano che, ricordo bene, quando militavo nel M5S (2012-2017), “c’era da stare attenti” a chiamare in causa anche “solo” per chiedergli (inutilmente) di incontrare i familiari delle vittime, perché c’era il rischio di essere accusati da parte delle altre forze politiche di “strumentalizzare” la strage. Ebbene, una parte di italiani ricorda, io ricordo, e adesso che non faccio politica (ma anche all’epoca non mi tiravo indietro ed elaborai anche il testo di una mozione in merito) posso esprimere tutto il mio disprezzo, non solo contro questo pannolone mantenuto dallo Stato, ma anche verso quei politici locali che, anziché percorrere una strada di accusa, seguendo un impulso naturale umano, facevano un compromesso tra ciò che “si dovrebbe” e ciò che “non si poteva” (per non ledere la propria ambizione di poltrona) magari perché della stessa “ditta” della prima carica dello Stato.
    Perfino l’ex presidente del Consiglio Letta si macchiò di una grave colpa, non permettendo allo Stato di costituirsi parte civile. Ancora oggi, quando qualcuno descrive Napolitano per quello che è, viene sottoposto alla fanfara starnazzante di fango mediatico, al fuoco incrociato degli organi di “informazione” di destra e sinistra, come avvenuto per Di Battista recentemente. Gli italiani evidentemente dimenticano troppo in fretta, perfino cosa è stato Napolitano – e non mi riferisco alla carica che rivestiva…basta un po’ di alone, la consueta bolla mediatica di pensiero dominante e l’indottrinamento orwelliano porta a stigmatizzare (stigma = base del pregiudizio e della vergogna) chi si distingue solo perché dice la verità. Eppure qualcosa sta cambiando, molti tabù stanno emergendo dalla loro intoccabilità. Concludo con una richiesta al presidente Mattarella: vada in televisione e chieda la revoca di tutti i titoli di cavalierato a tal Moretti; e chieda una iniziativa di legge che determini, per i condannati in via definitiva per reati gravissimi quali strage, associazione mafiosa e stupro, un tetto massimo di pensione pari al minimo nazionale (780 euro).
    (Marco Giannini, “Viareggio, la strage della vergogna: almeno, si infligga a Moretti la pensione minima”, da “Libreidee” del 24 febbraio 2019).

    Difficilmente mi occupo di questioni legate alla giustizia, ma quando si tratta della strage di Viareggio non posso tacere, essendo io nativo e abitante di quelle terre, e data la atrocità oggettiva di quanto accadde in quell’inferno esploso proprio nel centro cittadino. L’esplosione del convoglio avvenne sotto il sovrappasso che unisce via Ponchielli e Burlamacchi, percorso che fino a quel momento era legato ai ricordi delle moltissime persone che come me lo utilizzavano per recarsi ai rioni notturni di Carnevale. Toccato da tanto dolore e drammaticità scrissi anche una poesia quasi per sprigionare tutta l’emozione, il coinvolgimento, l’angoscia, l’incredulità: 31 morti carbonizzati, 11 dei quali “disciolti” all’istante, 2 infarti e 25 feriti, alcuni dei quali con lesioni gravissime). L’11 febbraio 2019 sono stati chiesti 15 anni e 6 mesi dalla Procura generale di Firenze (appello) per Mauro Moretti: la strage risale al 29 giugno 2009 quando egli era amministratore delegato di Fs e Rfi. Puntualmente gli organi della giustizia e del potere, perché Moretti di potere ne ha da vendere, mostrano una prevedibile resistenza, rispettivamente, a giudicare ed esser giudicati, soprattutto quando il soggetto in questione può disporre dei migliori avvocati e di enormi agganci politici. Presto saranno passati ben 10 anni.

  • Piano Usa: guerra, per rovesciare Maduro (e frenare la Cina)

    Scritto il 08/2/19 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    A Donald Trump non pare vero di poter contribuire al crollo del governo di Caracas, ultimo baluardo in Sudamerica contro lo strapotere statunitense dopo la caduta dell’Argentina e del Brasile, tornate saldamente sotto il dominio imperiale neoliberista. Scontata la debolezza dell’entourage di Maduro, votato nel 2018 da appena 6 milioni di elettori (i venezuelani sono 30 milioni). Alcuni analisti sottolineano il carattere endogeno del declino “bolivariano”, non imputabile alle recenti sanzioni: Hugo Chavez non seppe sfruttare il fiume di petrodollari, incamerato in tanti anni, per differenziare l’economia nazionale. Il Venezuela, tenuto in piedi dalla sola rendita petrolifera, ha perso la sua capacità di produrre beni essenziali: per questo, oggi, è facile stritolarlo nella morsa a cui lavorano attivamente gli Usa, che con Chavez – quasi certamente assassinato, avvelenato con agenti radioattivi – si sono liberati dell’ultimo grande produttore di petrolio nazionalizzato. Gli altri oustider furono Saddam Hussein e Muhammar Gheddafi, che collaborarono con Chavez, in sede Opec, per tenere alto il prezzo del barile. Oggi il Venezuela è nel baratro, soprattutto per colpa del regime militare di Maduro. E quindi è una preda più facile per i poteri che da vent’anni cospirano per la caduta del governo socialista. Caduta forse imminente, drammatica e sanguinosa, alla quale gli Usa stanno lavorando attivamente, con ogni mezzo. Anche per tagliare la strada alla Cina, che in un altro paese “ribelle” della regione – il Nicaragua sandinista – sta costruendo un grande canale transoceanico, capace di far concorrenza a quello di Panama.
    A fornire gli elementi di questa analisi geopolitica è il giovane Giacomo Gabellini, redattore di “Scenari Internazionali” e collaboratore di “Eurasia”, rivista di studi geopolitici. Gabellini è autore di diversi volumi, in cui si analizzano questioni storiche ed economiche, il più recente dei quali è “Eurocrack”, sul disastro politico-economico e strategico dell’Europa, uscito nel 2015 per Anteo Edizioni. Sul sito di Arianna Editrice, ora Gabellini inquadra le grandi manovre del fronte statunitense per accelerare il collasso del regime di Maduro. «La decisione di Trump – e dei suoi alleati nel continente latino-americano (Brasile, Argentina, Paraguay, Colombia), a cui si è aggiunto l’immancabile presidente canadese Justin Trudeau – di riconoscere come legittimo leader di Caracas il capo dell’Assemblea Nazionale Juan Gaidò – premette Gabellini – rischia di far scivolare la situazione venezuelana sul piano inclinato della guerra civile, rendendola sempre più affine a quella delineatasi in Siria nel 2011». Un’analogia che emerge anche dal pesante coinvolgimento degli Stati Uniti nell’escalation, fino al recente embargo finanziario, al congelamento dei beni venezuelani in territorio Usa e al declassamento del debito di Caracas.
    Nel momento in cui il governo venezuelano ha cercato di difendersi svincolando la propria economia dal dollaro attraverso la creazione del “petro”, criptovaluta ancorata alle ricchezze minerarie ed energetiche, l’amministrazione Trump ha reagito vietando qualsiasi transazione nella nuova moneta all’interno degli Stati Uniti ed estendendo le sanzioni al settore dell’oro, minerale di cui il Venezuela è particolarmente ricco. «Una mossa, quest’ultima, che ha impedito al Venezuela di ricevere certificazioni straniere sulla qualità del proprio metallo prezioso, con conseguente interruzione o forte limitazione dei rapporti commerciali con le imprese operanti nel settore aurifero venezuelano». Simultaneamente, aggiunge Gabellini, Trump ha imposto pesanti sanzioni contro otto magistrati del Tribunal Supremo de Justicia (Tsj), con lo scopo di colpire quegli apparati istituzionali venezuelani ritenuti colpevoli di aver bloccato la proposta di intervento militare contro l’esecutivo, avanzata dal Parlamento controllato dall’opposizione. «In precedenza, una delegazione senatoriale Usa aveva sondato il terreno con il presidente colombiano Manuel Santos, maggiore alleato degli Usa in America Latina, per lanciare un’operazione militare congiunta atta a «permettere alla Colombia di difendersi dalle provocazioni venezuelane».
    Proprio in Colombia, ricorda Gabellini, staziona il più corposo contingente militare di cui gli Stati Uniti dispongano in tutto il continente. E accanto ai soldati americani operano le formazioni paramilitari di estrema destra vicine all’ex presidente Alvaro Uribe, «resesi responsabili di innumerevoli scorribande in territorio venezuelano». In quest’ambito rientrano anche operazioni sotto falsa bandiera: «In passato, alcuni miliziani colombiani erano stati arrestati dalle forze dell’ordine di Caracas con indosso divise della polizia venezuelana». Circostanze, osserva Gabellini, che rendono il ruolo svolto dalla Colombia nella crisi venezuelana «molto simile a quello esercitato dalla Turchia rispetto al conflitto siriano». Il presidente colombiano Manuel Santos ha infatti fornito «supporto attivo alle frange paramilitari annidate nella giungla colombiana in funzione anti-bolivariana». Sono le stesse milizie che, scrive l’analista, nella scorsa primavera presero d’assalto una stazione della polizia venezuelana al confine con la Colombia, «al fine di assumere il controllo di alcune aree strategicamente fondamentali per condurre operazioni di sabotaggio verso le regioni più interne».
    Ma le analogie con la crisi siriana non finiscono qui: già nel 2002, le forze venezuelane di opposizione tentarono un colpo di Stato contro Hugo Chavez, nel corso del quale «cecchini mai identificati aprirono il fuoco tanto sui civili quanto sulle forze di polizia, con lo scopo di invelenire il clima e destabilizzare l’ordine pubblico». Stesso schema in Romania nel 1989, in Russia nel 1993, in Thailandia e Kirghizistan nel 2010. Poi in Tunisia, Egitto, Libia e Siria nel 2011, e in Ucraina nel 2014. «Tutte manovre finalizzate al cambio di regime, dietro le quali si è intravista in controluce la longa manus degli Stati Uniti». In molte di esse, il clima preparatorio era stato predisposto tramite l’infiltrazione di Ong «riconducibili a George Soros o direttamente al Dipartimento di Stato», le quali «allacciarono contatti con partiti di opposizione e gruppi organizzati». Sotto questo aspetto, aggiunge Gabellini, il caso del Venezuela appare paradigmatico, se anche una fonte insospettabile come “The Independent” è arrivata a riconoscere che «oltre ad appoggiare le forze che arrestarono Chavez nel 2002, gli Usa hanno inviato centinaia di migliaia di dollari ai suoi avversari attraverso la National Endowment for Democracy».
    Le manovre di Washington però non si limitano a questo, rivela Gabellini: lo conferma un documento di 11 pagine firmato già nel 2018 dall’ammiraglio Kurt Tidd, comandante del SouthCom (Southern Command), in cui si dichiara apertamente che gli Usa «hanno già predisposto un piano operativo finalizzato al rovesciamento del presidente Nicolas Maduro». Un’analisi spietata: la tenuta della “dittatura chavista” è ormai minata da problemi interni, a partire dalla scarsità di cibo e dalla caduta dei proventi petroliferi, oltre che dalla corruzione dilagante. Ma il problema, per l’ammiraglio Tidd è che le forze d’opposizione «che combattono per la democrazia e il ripristino di livelli di vita accettabili per la popolazione» cioè gli uomini di Juan Guaidò, «non sono in grado di porre fine all’incubo in cui il paese è sprofondato». Motivo? Gli oppositori di Mauduro, secondo l’ammiraglio, scontano tra le loro fila il peso di «una corruzione comparabile a quella dei loro nemici». Corruzione che «impedisce loro di prendere le decisioni necessarie a ribaltare la situazione».
    Ecco perché, se questo è lo scenario, non resta che «l’entrata in scena negli Sati Uniti», sottolinea Gabellini, «per “recuperare” il Venezuela e reinserirlo nel novero dei paesi latino-americani alleati di Washington». Un club in cui hanno appena fatto ritorno nazioni di grande rilevanza, dall’Argentina del neoliberista Mauricio Macrì al Brasile del parafascista Jair Bolsonaro. Per far cadere anche il Venezuela, prosegue Gabellini, secondo il documento di Tidd, occorre «indebolire le strutture politiche su cui si basa il movimento “bolivariano” collegandole al narcotraffico», nientemeno. Poi bisognerebbe “lavorare ai fianchi” il regime di Maduro per favorire la diserzione dei tecnici più qualificati, alienandogli così il favore della borghesia di lingua spagnola, la stessa su cui fecero perno gli Usa durante il tentato golpe contro Chavez del 2002. Per Tidd, si tratta di agire «fomentando discordia e insoddisfazione popolare, minando l’ordine pubblico, lavorando per aggravare la penuria di cibo, esacerbando le divisioni interne alla struttura di potere chavista», nonché ovviamente «screditando il presidente Maduro, presentandolo come un leader incapace, degradato al grado di fantoccio di Cuba». Attenzione: è necessario anche «provocare vittime, stando attenti a far ricadere la responsabilità sul governo», e inoltre «ingigantire agli occhi del mondo le proporzioni della crisi in atto».
    L’ammiraglio Tidd raccomanda di far ulteriormente esplodere l’inflazione attraverso nuove sanzioni, così da incoraggiare una fuga di capitali dal paese, scoraggiare eventuali investitori stranieri e far colare a picco la quotazione della moneta nazionale. Occorre inoltre avvalersi di «tutte le competenze acquisite dagli Usa in materia di guerra psicologica», per orchestrare una campagna di disinformazione mirata a screditare le iniziative finalizzate all’integrazione continentale – quali l’Alba e il Petrocaribe – promosse da Caracas nel corso degli ultimi anni. «Tutto il necessario, insomma – scrive Gabellini – per scatenare lo sdegno della popolazione e indirizzarlo contro le autorità, secondo uno schema già palesatosi con le “rivoluzioni colorate” in Georgia, Ucraina e anche nello stesso Venezuela». Come già nel 2002, si suggerisce di mettere in crisi il rapporto di fedeltà che lega le forze armate al governo. Come agire? Utilizzando «gli alleati interni», incoraggiandoli a «organizzare manifestazioni e fomentare disordini e insicurezza, mediante saccheggi, furti, attentati e sequestro di mezzi di trasporto, in modo da mettere a repentaglio la sicurezza dei paesi limitrofi».
    Dal punto di vista statunitense, continua Gabellini, esacerbare le tensioni tra il Venezuela e i suoi vicini rappresentava un fattore determinante a garantire il conseguimento del “regime change”, nel caso in cui la rivolta interna fomentata dall’estero non si rivelasse sufficiente a scalzare Maduro dal potere. Nel documento si sottolinea infatti l’importanza di approfittare del crescente attivismo dell’Esercito di Liberazione Nazionale colombiano, che sta rapidamente colmando la voragine apertasi con la cessazione delle attività da parte delle Farc. Altra pedina menzionata cinicamente da Tidd: i narcos del Cartello del Golfo, utili per alimentare la tensione lungo il confine con la Colombia, «così da provocare incidenti con le forze di sicurezza schierate lungo il confine venezuelano». Occorrerebbe inoltre favorire «la moltiplicazione delle incursioni armate da parte di gruppi paramilitari», i cui ranghi dovrebbero essere rinfoltiti attraverso «reclutamenti presso i campi che ospitano i rifugiati della Cúcuta, della Huajira e nel nord della provincia di Santander», vaste aree abitate da cittadini colombiani che emigrarono in Venezuela e ora intendono rientrare nel loro paese.
    Il tutto, con l’obiettivo finale di «gettare le basi per il coinvolgimento delle forze alleate in appoggio agli ufficiali venezuelani» eventualmente disertori. Fondamentale, a questo riguardo, risulta ingraziarsi «il supporto e la cooperazione delle autorità dei paesi amici (Brasile, Argentina, Colombia, Panama e Guyana)», ma anche organizzare l’approvvigionamento delle truppe e l’appoggio logistico, di concerto con Panama. E quindi: dislocare «aerei da combattimento, elicotteri e blindati», oltre a installare «centri d’intelligence destinati ad ospitare anche unità militari specializzate nell’ambito della logistica». Per dare una parvenza di legalità all’intervento, si suggerisce di ottenere l’avallo dell’Organizzazione degli Stati Americani e di adoperarsi affinché si stabilisca una «unità di intenti da parte di Brasile, Argentina, Colombia e Panama», paesi «la cui posizione geografica e la cui collaudata capacità ad operare in scenari non convenzionali come la giungla assumono un’importanza capitale». La dimensione internazionale dell’operazione «verrà rafforzata dalla presenza di forze speciali Usa, che andranno ad affiancarsi alle unità da combattimento degli Stati summenzionati». È bene, a questo proposito, «far sì che le operazioni scattino prima che il dittatore abbia il tempo di consolidare il proprio consenso e il controllo sullo scacchiere interno».
    Tutto ciò, osserva Gabellini, si inscrive alla perfezione nel disegno strategico dell’amministrazione Trump, «che ambisce in tutta evidenza a riportare saldamente l’America Latina nella sfera egemonica statunitense attraverso l’appoggio a tutta una serie di clientes locali». Tra questi Lenin Moreno (Ecuador), Enrique Peña Neto (Messico) e Luis Almagro (Uruguay), oltre ai già citati Macrì e Bolsonaro. Attori continentali «con i quali concordare il ripristino di una sorta di nuova Operazione Condor rivisitata e corretta». Affidando le redini del potere nei vari Stati dell’America Latina a questi nuovi e ben più concilianti interlocutori, aggiunge Gabellini, Washington «prevede di realizzare un’integrazione economica su scala continentale, concepita appositamente per contrastare la penetrazione cinese». Ecco il punto: negli ultimi anni, osserva l’analista, la Cina ha infatti investito qualcosa come 50 miliardi di dollari per la costruzione di un canale interoceanico in Nicaragua. Sarebbe in grado di rivaleggiare con quello di Panama, controllato dagli Stati Uniti. Pechino ha inoltre messo in cantiere una ferrovia per collegare Pacifico e Atlantico attraverso Brasile e Perù.
    Un anno fa, il ministro degli esteri cinese Wang Yi ha presenziato al vertice annuale della Communiy of Latin American and Caribbean States tenutosi a Santiago del Cile, per estendere ai 33 Stati membri l’invito a partecipare al progetto della Belt and Road Initiative, con lo scopo di «costruire collegamenti attraverso il continente, farli convergere verso le coste affacciate sul Pacifico e agganciarli ai porti locali da cui si diramano le linee di rifornimento marittimo verso la costa cinese». Una sorta di “Via della Seta Pacifica”. Nessuna competizione geopolitica, aveva sostenuto Wang Yi: «Il progetto è conforme al principio di raggiungere una crescita condivisa attraverso la discussione e la collaborazione». Ma gli Stati Uniti non sono dello stesso avviso. Dal canto suo, l’ammiraglio Tidd ha ricordato a una commissione del Senato che la Cina ha già investito 500 miliardi di dollari in progetti per lo sviluppo dell’America Latina, e ha in programma di mettere sul piatto altri 250 miliardi entro il 2030. Tidd ha inoltre aggiunto che «la più grande sfida strategica posta dalla Cina in questa regione non è ancora una sfida militare: è una sfida di tipo economico, che potrebbe richiedere un nuovo approccio da parte nostra, che ci permetta di affrontare efficacemente gli sforzi coordinati della Cina nelle Americhe».
    La raccomandazione di Tidd, accolta con entusiasmo da Trump, secondo Gabellini era quindi quella di rispolverare e riadattare alle esigenze del momento la cara, vecchia Dottrina Monroe, che all’epoca in cui fu enunciata (1823) contemplava la chiusura totale del cosiddetto “emisfero occidentale” a qualsiasi ingerenza europea. «Oggi, a differenza di allora, si tratta di sbarrare alla Cina la porte dell’America Latina, attraverso il collegamento di quest’ultima alla comunità economica nordamericana costituita pochi mesi fa con la radicale ristrutturazione del Nafta». In questo senso, conclude l’analista, «lo scatenamento del caos in Venezuela si configura come una tappa cruciale in vista della “risistemazione” definitiva dell’America Latina». In altre parole: il governo Maduro sembra avere le ore contate. Si trova nei guai anche per gravi errori nella sua gestione della politica economica. Ma il giorno che cadesse, non sarà per un moto spontaneo del popolo venezuelano ridotto all’esasperazione: i piani sono pronti – e non da oggi – per tornare a far sventolare la bandiera americana sul paese dove crebbe, a furor di popolo, il sogno indipendentista di Hugo Chavez.

    A Donald Trump non pare vero di poter contribuire al crollo del governo di Caracas, ultimo baluardo in Sudamerica contro lo strapotere statunitense dopo la caduta dell’Argentina e del Brasile, tornate saldamente sotto il dominio imperiale neoliberista. Scontata la debolezza dell’entourage di Maduro, votato nel 2018 da appena 6 milioni di elettori (i venezuelani sono 30 milioni). Alcuni analisti sottolineano il carattere endogeno del declino “bolivariano”, non imputabile alle recenti sanzioni: Hugo Chavez non seppe sfruttare il fiume di petrodollari, incamerato in tanti anni, per differenziare l’economia nazionale. Il Venezuela, tenuto in piedi dalla sola rendita petrolifera, ha perso la sua capacità di produrre beni essenziali: per questo, oggi, è facile stritolarlo nella morsa a cui lavorano attivamente gli Usa, che con Chavez – quasi certamente assassinato, avvelenato con agenti radioattivi – si sono liberati dell’ultimo grande produttore di petrolio nazionalizzato. Gli altri oustider furono Saddam Hussein e Muhammar Gheddafi, che collaborarono con Chavez, in sede Opec, per tenere alto il prezzo del barile. Oggi il Venezuela è nel baratro, soprattutto per colpa del regime militare di Maduro. E quindi è una preda più facile per i poteri che da vent’anni cospirano per la caduta del governo socialista. Caduta forse imminente, drammatica e sanguinosa, alla quale gli Usa stanno lavorando attivamente, con ogni mezzo. Anche per tagliare la strada alla Cina, che in un altro paese “ribelle” della regione – il Nicaragua sandinista – sta costruendo un grande canale transoceanico, capace di far concorrenza a quello di Panama.

  • Poteri oscuri, anche Salvini obbedisce al Tav Torino-Lione

    Scritto il 02/2/19 • nella Categoria: segnalazioni • (8)

    Non basterebbe neppure Dan Brown. Ci vorrebbe almeno Tolkien, per svelare – attraverso una fiaba – il mistero del Tav Torino-Lione, cioè il sortilegio nero che vuole che si spendano 20-30 miliardi per costruire quella linea ferroviaria “maledetta”. Si tratta dell’inutile e faraonico doppione della ferrovia che esiste già, e che da 150 anni collega Torino a Lione attraverso la valle di Susa e il Traforo del Fréjus, riammodernato qualche anno fa (costo, 400 milioni di euro) per consentire il transito dei treni con a bordo i Tir e anche i grandi container “navali”, della massima pezzatura. L’unico problema è che non ci sono più merci da trasportare: l’asse strategico del terzo millennio è quello che unisce Genova e Rotterdam, mentre la direttrice Torino-Lione è ormai un binario morto, dal destino segnato. Secondo la Svizzera, incaricata dall’Ue di monitorare il traffico alpino, l’attuale Torino-Modane, semideserta, potrebbe incrementare addirittura del 900% il suo volume di trasporti. E allora che bisogno c’è di scavare – da zero – un nuovo traforo, lungo 57 chilometri, di cui non esiste ancora neppure un metro?
    L’unico mini-tunnel realizzato, quello di Chiomonte, è solo una galleria esplorativa accessoria, geognostica: non potrebbe mai passarci nessun treno, anche se Matteo Salvini arriva a sostenere – davanti alle telecamere, proprio a Chiomonte – che costerebbe meno “finire il lavoro” piuttosto che “tappare il buco”. Dichiarazione ingannevole: Salvini sa benissimo che il “lavoro” per il tunnel destinato al treno non è mai neppure cominciato. Pur di premere sui 5 Stelle, il leader leghista – come già Renzi – arriva a ipotizzare un progetto “low cost”, parlando di appena 4 miliardi (cioè il costo della parte italiana dell’ipotetico futuro traforo, non quello della linea ferroviaria fino a Torino). Di più: il ministro dell’interno aggiunge che, “risparmiando” (ad esempio, rinunciando alla surreale “stazione internazionale” di Susa), si potrebbero costruire finalmente anche opere utili, come la metropolitana di Torino. Su questo ha ragione: il capoluogo piemontese, a lungo amministrato dalla dinastia Castellani-Chiamparino-Fassino, dispone solo di un’unica, patetica linea.
    Torino, la metropoli più inquinata della penisola, è anche la grande città italiana peggio servita dai mezzi pubblici veloci: è l’unica a non disporre di una vera rete metropolitana. In compenso, i suoi ex sindaci sono tra i più fanatici sostenitori dell’inutile Tav Torino-Lione. Chiamparino, in particolare, è il capo degli hooligan pro-Tav. Un caso esemplare di mistero italico: dopo aver fatto il sindaco è passato senza colpo ferire alla guida di una potentissima centrale finanziaria come la Compagnia di San Paolo, per poi tornare tranquillamente alla politica. L’uomo di fiducia dei grandi banchieri è oggi presidente della Regione Piemonte, poltronissima da cui martella il governo gialloverde per ottenere a tutti i costi la grande opera “maledetta”. Ci sta riuscendo? Stando a Salvini, parrebbe di sì. Sulla maxi-torta dell’appalto alpino, il capo della Lega è perfettamente allineato al fantasma del Pd.
    A questo punto, la ragione vacilla. Per chi ha seguito i vent’anni di protesta popolare in opposizione alla Torino-Lione, i conti non tornano. Il movimento NoTav – ormai appoggiato da vasti strati dell’opinione pubblica nazionale – è stato il primo vero esempio, in Italia e non solo, di denuncia politica “glocal”. Dal particulare all’universale, dicevano gli umanisti rinascimentali. Agire localmente e pensare globalmente, ripetevano negli anni ‘80 i primi Verdi ispirati da Alex Langer. I valsusini – popolo sulle barricate, che nel 2005 riuscì a fermare il progetto con una spettacolare protesta nonviolenta guidata dai sindaci in fascia tricolore – per molti aspetti hanno come anticipato gli americani di Occupy Wall Street, adottando un metodo di lotta, dal sit-in fino al blocco stradale, che oggi i Gilet Gialli si limitano a replicare. L’intuizione: se il potere “bara” a casa nostra, sulla base di dati falsificati, è lecito sospettare che “imbrogli” ovunque. E’ lecito supporre che si limiti a eseguire gli ordini di un’oligarchia del denaro mossa da interessi inconfessabili.
    Sta barando da vent’anni, il potere che insiste – come un disco rotto – nel voler imporre quella super-linea inutile in valle di Susa, facendola pagare carissima all’Italia? Vedete voi, ma sappiate che la Torino-Lione non serve: lo dicono tutti i maggiori esperti di trasporti, tra cui il professor Marco Ponti del Politecnico di Milano, ora collocato dal ministro Toninelli nella scomodissima posizione di presidente della commissione incaricata di formulare un giudizio decisivo sul rapporto costi-benefici della grande opera. La Torino-Lione non serve: lo ribadirono ben 360 professori e tecnici dell’università italiana, in accorati e inutili appelli rivolti al Quirinale e a Palazzo Chigi. Costi immensi, e nessun risultato: perché le merci devono comunque viaggiare a bassa velocità, per motivi di sicurezza. Quanto alla Francia, spesso usata in Italia come alibi “europeo” per costruire a tutti i costi l’infrastruttura, ha deciso ufficialmente che di Torino-Lione, a Parigi, si riparlerà eventualmente solo dopo il 2030.
    Il progetto Torino-Lione è un relitto ormai obsoleto degli anni ‘80: era nato come sogno di collegamento veloce per passeggeri, ed è stato archiviato dall’avvento dei voli low-cost. Al che, è stato trasformato in Tac, treno ad alta capacità per le merci, fingendo di non sapere che i convogli commerciali devono viaggiare lentamente, e che la chiave del trasporto merci non è la velocità, ma la puntualità della logistica: il sistema più efficiente al mondo è quello degli Usa, fatto da treni che viaggiano a 60 miglia utilizzando tunnel dell’800 che valicano le Montagne Rocciose. I costi territoriali della Torino-Lione sarebbero folli: le montagne della valle di Susa sono piene di amianto e tuttora traforate dalle gallerie scavate dall’Agip negli anni ‘70, ai tempi del nucleare italiano, perché il Massiccio dell’Ambin è un immenso giacimento di uranio. Senza contare la devastazione ambientale e urbanistica (vent’anni di cantieri), l’incognita maggiore è quella idrogeologica: quei monti fra Italia e Francia, dicono i geologi, ospitano un enorme bacino sommerso. Bucarlo potrebbe comportare conseguenze impensabili, con ripercussioni sui fiumi fino alla Valle d’Aosta.
    Il compianto Luca Rastello, giornalista di “Repubblica”, in un saggio sul tema spiega che poi, una volta alle porte di Torino, la nuova linea potrebbe congiungersi alla Torino-Milano solo sbancando interi quartieri o procedendo per via sotterranea, e quindi perforando la falda idropotabile che alimenta l’area metropolitana torinese. Non se ne rendono conto, gli abitanti di Torino, perché nessun politico – prima di Chiara Appendino – si è mai premurato di spiegarlo chiaramente. Né si interrogano, i torinesi, sul motivo di tanta ostinazione, da parte dei valsusini, nell’opporsi al progetto. Non sospettano, i torinesi, che la criminalizzazione a reti unificate del movimento NoTav è servita a nascondere due verità imbarazzanti. La prima: in vent’anni, la politica non ha mai voluto o saputo dimostrare l’utilità della grande opera, neppure a fronte di una protesta così rumorosa. La seconda: il progetto Torino-Lione è nato sotto una cattiva stella, la peggiore di tutte: la strategia della tensione.
    Negli anni ‘90, appena si cominciò a insistere sull’opera come “inevitabile” prospettiva strategica, la valle di Susa fu terrorizzata da 12 attentati dinamitardi. Alcuni furono rivendicati in modo delirante: volantini firmati “Valsusa Libera” e “Lupi Grigi” contenevano farneticazioni “guerriere” contro l’alta velocità. I giornali, all’unisono, puntarono il dito contro gli “ecoterroristi” e gli “anarco-insurrezionalisti”. Poco dopo vennero arrestati tre giovani anarchici, di cui due – Edoardo Massari e Maria Soladed Rosas, “Sole e Baleno” – trovati morti (impiccati) mentre erano in stato di detenzione. Contro di loro, l’accusa aveva vantato “prove granitiche”, che poi al processo evaporarono: non erano stati loro a mettere quelle bombe. Chi, allora? Non s’è mai saputo: caso chiuso. I valsusini però non dimenticano. Sanno che quello di Bardonecchia, santuario del turismo bianco, vicino a Sestriere, è stato il primo Consiglio Comunale italiano – a nord del Po – a essere disciolto per mafia. E sanno che, sempre negli anni ‘90, la procura di Torino intercettò un traffico di armi che collegava l’armeria di Susa a una cosca calabrese, con il placet di settori del Sismi e del Sisde. Erano gli anni della “trattativa”, in cui Falcone e Borsellino saltavano per aria, in Sicilia.
    Si può immaginare lo stato d’animo dei valsusini, quando – dopo tutto questo – si sono visti arrivare, nel cortile di casa, anche lo spettro della maxi-opera più controversa della storia, al pari del Ponte sullo Stretto. A parlare è il buon senso della geografia: Moncenisio, Fréjus e Monginevro. Ovvero: statali, autostrada, ferrovia, trafori. Nessun’altra valle alpina è altrettanto collegata al resto d’Europa, attraverso valichi internazionali. Perché aggiungere anche l’assurda Torino-Lione? Quale mistero indicibile trasforma la valle di Susa in un oscuro crocevia di mafie e affari, bombe e appalti? E soprattutto: com’è possibile che, in vent’anni, la politica non si sia mai degnata di dare una risposta chiara? E’ evidente che, se l’utilità della Torino-Lione venisse finalmente dimostrata, le bandiere della protesta finirebbero per venir ammainate. Basterebbe spiegare per quale motivo l’opera è ritenuta indispensabile. La valle di Susa lo chiede da vent’anni. E la risposta non è mai arrivata. Perché?
    Visto che la politica tace, tanto varrebbe chiedere lumi ai romanzieri come Dan Brown o all’autrice di Harry Potter, non essendo più possibile interpellare il Signore degli Anelli. Magia? Se una verità viene palesemente taciuta da decenni, il minimo che possa accadere è che si scatenino anche i complottismi più fantasiosi. Ha suscitato sconcerto, nel 2016, l’inaugurazione teatrale del traforo del Gottardo, con l’inquietante coreografia dedicata a un Dio Caprone. Fausto Carotenuto, già analista strategico dell’intelligence ora passato al network “Coscienze in Rete”, sostiene che la Torino-Lione sarebbe una sorta di “attentato energetico” per violare la Linea di Michele, notissima ley-line che unisce Israele all’Irlanda attraverso i santuari dedicati all’arcangelo Michele, con epicentro proprio la Sacra di San Michele in valle di Susa. Paolo Rumor, nipote del più volte premier Mariano Rumor, nel libro “L’altra Europa” racconta una storia sconvolgente, rivelata a suo padre dall’europeista francese Maurice Schuman: il medesimo potere, di natura dinastica (denominato “La Struttura”) governerebbe il pianeta da 12.000 anni, e la stessa Unione Europea sarebbe opera sua.
    Non potendo interpellare Tolkien o scomodare la Rowling, non resta che tralasciare le suggestioni e attenersi ai fatti: sarebbe capace, Matteo Salvini, di spiegare il motivo per cui l’Italia, insieme alla Francia, dovrebbe scavare – da zero – un tunnel di 57 chilometri per costruire il doppione della ferrovia Torino-Lione che esiste già? Se la risposta la conosce, perché non la svela? Perché anche lui si limita, come tutti gli altri, a dire stupidaggini, sapendo che i media mainstream le ripeteranno con successo, confidando nell’ignoranza del grande pubblico? C’è davvero un grande potere-ombra che – per motivi ignoti e imperscrutabili – ha lanciato un’Opa misteriosa sulla stramaledetta Torino-Lione? Un grande affare finanziario, d’accordo, ma per pochi intimi (pochissimi i lavoratori coinvolti). E, secondo il giallista Massimo Carlotto, anche una virtuale “lavanderia” di denaro: un magistrato come Ferdinando Imposimato ha dimostrato che vasti tratti della rete Tav italiana sono stati costruiti proprio da aziende mafiose.
    Poi ci sarebbe il triste indotto politico della filiera, affidato ai soliti yesman che in realtà lavorano da sempre per le consorterie affaristiche che hanno costruito le loro carriere istituzionali. Ma non può essere tutto qui, il problema. Cos’altro può muovere i fili di una follia pubblica così estrema, e così potente da piegare persino i bulletti del “governo del cambiamento”? Lo spettacolo non è edificante: Salvini con l’elmetto a Chiomonte, ormai arruolato alla causa, mentre Di Maio e Toninelli non osano neppure lontanamente minacciare le dimissioni, nel caso dovessero perdere il braccio di ferro (e quindi la faccia). Li si può capire: dal canto suo, il primo ministro Conte cazzeggia beatamente al bar con Angela Merkel, l’amicona di Macron e dell’Italia, ridacchiando alle spalle di quei fessi dei 5 Stelle (e degli italiani che li hanno votati). Nel frattempo, l’inesorabile ecomostro finanziario e ferroviario avanza, passo dopo passo. E l’umorista Salvini pensa di cavarsela con le battute sui mitici “risparmi”: come se davvero si trattasse di tre o quattro miliardi, e non invece di un grottesco attentato alla sovranità democratica del paese, evidentemente organizzato – con tenacia impressionante – da poteri che possono mettersi in tasca qualsiasi politico, anche se indossa la maschera di cartone del sovranismo.
    (Giorgio Cattaneo, “Quale oscuro potere ha piegato anche l’ex sovranista Salvini alla teologia dell’inutile Tav Torino-Lione?”, dal blog del Movimento Roosevelt del 2 febbraio 2019).

    Non basterebbe neppure Dan Brown. Ci vorrebbe almeno Tolkien, per svelare – attraverso una fiaba – il mistero del Tav Torino-Lione, cioè il sortilegio nero che vuole che si spendano 20-30 miliardi per costruire quella linea ferroviaria “maledetta”. Si tratta dell’inutile e faraonico doppione della ferrovia che esiste già, e che da 150 anni collega Torino a Lione attraverso la valle di Susa e il Traforo del Fréjus, riammodernato qualche anno fa (costo, 400 milioni di euro) per consentire il transito dei treni con a bordo i Tir e anche i grandi container “navali”, della massima pezzatura. L’unico problema è che non ci sono più merci da trasportare: l’asse strategico del terzo millennio è quello che unisce Genova e Rotterdam, mentre la direttrice Torino-Lione è ormai un binario morto, dal destino segnato. Secondo la Svizzera, incaricata dall’Ue di monitorare il traffico alpino, l’attuale Torino-Modane, semideserta, potrebbe incrementare addirittura del 900% il suo volume di trasporti. E allora che bisogno c’è di scavare – da zero – un nuovo traforo, lungo 57 chilometri, di cui non esiste ancora neppure un metro?

  • Sì Tav: Salvini sta con i partiti che hanno sfasciato l’Italia

    Scritto il 12/1/19 • nella Categoria: segnalazioni • (5)

    Non mi interessa quello che racconti, non voglio nemmeno sentirlo. Così è Torino, con chi ripete – per la milionesima volta – che la linea ferroviaria Tav Torino-Lione sarebbe un doppione inutile della linea esistente, deserta. Una nuova manifestazione promossa dai partiti che hanno sfasciato l’Italia (più la Lega di Salvini) è tornata a riempire di slogan demenziali la centralissima piazza Castello, il 12 gennaio, stavolta con anche i sindaci di mezzo Piemonte, per lo più arruolati tra le macerie del Pd su cui campeggia il redivivo Sergio Chiamparino, presidente della Regione e già sindaco del capoluogo, transitato – tra un incarico e l’altro – alla guida della Compagnia di San Paolo, potentissima fondazione bancaria. In piazza i peones piemontesi della Lega, impegnata in un braccio di ferro coi 5 Stelle, ma anche il presidente ligure Giovanni Toti, il fantasma ufficiale del Pd (Maurizio Martina) e vari yesmen di Forza Italia. In pratica: la Seconda Repubblica al gran completo, i commissari fallimentari che hanno gestito la bancarotta politica ed economica del paese negli ultimi 25 anni. Sono loro, ancora e sempre, a voler azzannare – a tutti i costi – la maxi-torta degli appalti per l’opera faraonica più inutile del pianeta.
    I difensori del buon senso – in questo caso i 5 Stelle con il ministro Toninelli – appaiono deboli e accerchiati. L’alleato Salvini non esita a schierarsi con l’opposizione, pur di riuscire (anche lui) a veder passare l’inutile super-treno per la valle di Susa, destinato – secondo tutte le previsioni – a restare fatalmente vuoto, senza merci da trasportare. Lo stesso Toninelli, ben sapendo che il Tav Torino-Lione è una specie di tragica barzelletta, ha dovuto inscenare la manfrina della commissione speciale, incaricata di valutare il rapporto costi-benefici dell’opera, come se il risultato non lo si conoscesse già, dopo decenni di analisi. Il presidente della commissione è il più autorevole trasportista italiano, il professor Marco Ponti del politecnico di Milano, autore di saggi estremamente dettagliati nei quali si dimostra che la Torino-Lione sarebbe perfettamente superfua, oltre che devastante per il suo impatto (un traforo di 57 chilometri) e per il suo costo miliardario. Ma non c’è speranza che i grandi media – giornali e televisioni – facciano il minimo sindacale, se non altro per decenza professionale, per riassumere anche le ragioni del “no”, nel raccontare l’ennesima mobilitazione a favore del “sì”, promossa dai poteri che hanno spolpato e piegato l’Italia.
    Non una delle argomentazioni NoTav è citata, nella narrazione ufficiale di quella che è descritta come “onda Sì Tav”, programmata dalle opposizioni per approfittare della debolezza politica del governo, sulla quale si avventa lo stesso Salvini, proponendosi in questo caso come nuovo garante del peggior affarismo politico, quello della cantieristica per le grandi opere. Zero trasparenza, come sempre, dalle forze ibride – politico-finanziarie – che hanno svenduto il paese negli ultimi decenni. Parla da sola la maschera di Chiamparino, che oggi intima al governo di sbrigarsi a capitolare, minacciando di indire un referendum (sul quale lo stesso Chiamparino costruirebbe le basi per il rilancio delle sue ambizioni politiche). Il peggio è che, oggi, Matteo Salvini è schierato al fianco dell’oppositore Chiamparino, che attacca Toninelli e Di Maio. Non una parola – né da Salvini, né da Chiamparino – per motivare, seriamente, l’infrastruttura. Si deve fare, punto e basta. Sviluppo, progresso. Slogan vuoti e fuori luogo, come quelli che la cattiva politica ha usato per rovinare gli italiani. Europa, flessibiltà, sacrifici, privatizzazioni: i mantra della post-democrazia. Sì-Tav, dunque. Ma perché? Perché sì. Lo dice, senza vergogna, anche Salvini.

    Non mi interessa quello che racconti, non voglio nemmeno sentirlo. Così è Torino, con chi ripete – per la milionesima volta – che la linea ferroviaria Tav Torino-Lione sarebbe un doppione inutile della linea esistente, deserta. Una nuova manifestazione promossa dai partiti che hanno sfasciato l’Italia (più la Lega di Salvini) è tornata a riempire di slogan demenziali la centralissima piazza Castello, il 12 gennaio, stavolta con anche i sindaci di mezzo Piemonte, per lo più arruolati tra le macerie del Pd su cui campeggia il redivivo Sergio Chiamparino, presidente della Regione e già sindaco del capoluogo, transitato – tra un incarico e l’altro – alla guida della Compagnia di San Paolo, potentissima fondazione bancaria. In piazza i peones piemontesi della Lega, impegnata in un braccio di ferro coi 5 Stelle, ma anche il presidente ligure Giovanni Toti, il fantasma ufficiale del Pd (Maurizio Martina) e vari yesmen di Forza Italia. In pratica: la Seconda Repubblica al gran completo, i curatori fallimentari che hanno gestito la bancarotta politica ed economica del paese negli ultimi 25 anni. Sono loro, ancora e sempre, a voler azzannare – a tutti i costi – la maxi-torta degli appalti per l’opera faraonica più inutile del pianeta.

  • Tav, la strana guerra contro i palestinesi della val di Susa

    Scritto il 22/12/18 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Ormai, parlare dell’orrido Tav che incombe sulla valle di Susa è gradevole quanto lo è inoltrarsi tra il filo spinato del conflitto israelo-palestinese, degenerato in cancrena da decenni e trasformato in tumore fisiologico, incurabile. Di qua i buoni, di là i cattivi. Nemici, odio: il banchetto che qualcuno sperava di allestire fin dall’inizio? Non che ci tenessero, i palestinesi della valle di Susa: ne avrebbero fatto volentieri a meno, dell’intifada che li ha opposti periodicamente ai reparti antisommossa. Una sfida costata moltissimo in termini di conseguenze giudiziarie, tra arresti in massa e processi. Contro Golia, il piccolo Davide brillò nel 2012, quando rinunciò alla fionda: emozionò l’Italia (obbligando ad accorrere sul posto persino le telecamere di Santoro) il drammatico volo dell’acrobata Luca Abbà, che sfiorò la morte precipitando dal traliccio dell’Enel sul quale si era arrampicato, per protesta – lui anarchico, alle prese con una classica dimostrazione di resistenza nonviolenta. Ma durò poco: le cariche dispersero i manifestanti scesi a bloccare l’autostrada, messi in fuga e rincorsi casa per casa, dopo giorni di tensione. Tutto doveva tornare all’ordine fisiologico delle cose, cioè a come si presume che il pubblico s’immagini sia la realtà: un’aspra lotta tra opposti che si detestano, una partita feroce in cui difficilmente vincerà il migliore.
    Nemmeno l’umorismo iperbolico di Paolo Villaggio, forse, sarebbe riuscito a dipingere il carattere lunare, gaglioffo e cialtrone del fantasma ferroviario che insidia da più di vent’anni l’estremo nord-ovest italiano: un ipotetico super-treno pensato negli anni ’80 del secolo scorso per i passeggeri, surclassato in capo a un decennio dall’avvento dei voli low-cost e infine umiliato anche dal traffico merci, defunto pure quello. La globalizzazione “cinese” sbarca a Genova e punta verso Rotterdam, snobbando il Piemonte e le Alpi del Rodano. Dalla Fortezza Bastiani del Tav, a lungo presidiata dall’ineffabile Pd con la collaborazione del centrodestra (leghisti compresi), ormai si guarda con malinconia ai dati, impietosi, sciorinati ufficialmente anche a Palazzo Chigi: il flusso di merci è crollato, e la ferrovia internazionale che già collega Torino a Lione attraversando l’infelice valle di Susa (via Modane, traforo del Fréjus) potrebbe tranquillamente reggere un incremento di traffico del 900%, se solo ci fossero merci da trasportare. Bel guaio: cosa bisognerà inventare, ancora, per spillare soldi euro-italiani da spalmare su appalti e subappalti? Avverte il giallista Massimo Carlotto, vicino ai NoTav: le grandi opere sono perfette per riciclare denaro, nell’immensa “lavanderia a cielo aperto” chiamata Europa. Business is business: non è che si possa smontare così, su due piedi, un grande affare destinato a pompare milioni (miliardi) in una filiera che include industria e indotto cantieristico, studi e consulenze, progettisti, banche e partiti.
    Se sento ancora parlare di Tav Torino-Lione, scrisse Giorgio Bocca nel 2005, vado a ripescare il mio vecchio Thompson dal pozzo in cui l’avevo gettato alla fine della guerra partigiana. Si era documentato, l’ultimo grande vecchio del giornalismo italiano: aveva capito che i palestinesi inermi le avevano buscate in modo selvaggio, riempiti di botte – uomini e donne, ragazzi e anziani – dai robocop venuti da lontano, in piena notte, per sgomberare il prato di Venaus occupato dalle famiglie impegnate in una sorta di sit-in permanente. Ne seguì una sommossa popolare a carattere insurrezionale: qualcosa che in Italia s’era visto soltanto nei moti di Reggio Calabria del 1970. Un popolo sulle barricate, armato solo di indignazione. Scudi umani, i sindaci in fascia tricolore (e le loro auto, quelle dei vigili urbani, spedite a sbarrare le strade, coi lampeggianti accesi). Due giorni di follia collettiva, dopo il pestaggio notturno, fino alla paralisi della tangenziale di Torino e alla capitolazione del governo: progetto sospeso, ritirato, archiviato. Clamorosa vittoria dei palestinesi, che da quel momento cominciarono a credersi invincibili. O meglio: ritennero invincibile la forza della ragione, la sovranità democratica del cittadino, la legittimità della protesta di una comunità coesa e fasciata di tricolore.
    Durò anni, l’illusione. Una speranza radicata: il governo centrale si sarebbe deciso a cestinare il dossier – poi bocciato anche da 360 tecnici universitari – per concludere che sì, avevano ragione i palestinesi della valle di Susa: quella ferrovia andava dimenticata, gettata nella spazzatura della storia. Ma le trivelle tornarono, dopo un quinquennio di silenzio. Era il 2010. La tensione emotiva era scemata, molti sindaci erano spariti – non rieletti, o semplicemente rimasti a casa, non più disposti a fare da caschi blu. Fu allora che cominciò l’accerchiamento, lento e inesorabile. Senza più i sindaci in prima fila, i NoTav erano nudi. “Siete finiti”, li avvertì cordialmente il sindaco di Torino, Chiamparino. Risposero in quarantamila, con una marcia sotto la neve. I piani di Roma, intanto, erano cambiati: il cantiere per la prima galleria esplorativa, inizialmente programmato nel prato poi “espugnato” a Venaus nel 2005, sarebbe stato reimpiantato a Chiomonte, sopra le gole della Dora Riparia, in posizione militarmente difendibile. I NoTav risposero asserragliandosi proprio lì, tra le loro Termopili. Nacque la Libera Repubblica della Maddalena, il villaggio di Asterix attrezzato – con barricate – per tentare di resistere all’esercito imperiale. I reparti antisommossa, duemila uomini, si presentarono puntuali all’alba del 27 giugno 2011. Agirono con calma, minimizzando la loro forza d’urto. In cabina di regia il ministro Maroni e il capo della polizia Manganelli. Niente più cariche, solo lacrimogeni.
    Ci rimasero malissimo, i palestinesi: avevano sperato di ripetere il “miracolo” del 2005, quand’erano riusciti – sciamando in 80.000 attraverso i boschi – a sfrattare la polizia da Venaus. Una settimana dopo lo sgombero della “Libera Repubblica”, il 3 luglio 2011 tentarono di riprendersi Chiomonte. Erano in centomila: un corteo lungo chilometri. Pullman da tutta Italia, decine di migliaia di valsusini. E anche giovani dei centri sociali: quelli che poi, nel pomeriggio, avrebbero contribuito a trasformare la protesta in guerriglia. “Volevano il morto”, dichiarò Maroni. Bilancio ufficiale: 200 feriti per parte. E fine di una lunga, gloriosa anomalia: la lotta popolare esclusivamente nonviolenta, nata e cresciuta in mezzo ai monti, che tanto aveva spaventato la politica. Inammissibile che una comunità di sessantamila valligiani riuscisse a fermare le ruspe. Intollerabile, che lo facesse in modo pacifico. Inaccettabile, che imponesse al governo di lasciarsi ascoltare, e lo costringesse a prender nota del fatto che, secondo tutti gli esperti, la linea Tav Torino-Lione era (ed è) una pazzia completamente inutile, destinata a pesare per decine di miliardi sul debito pubblico dopo aver reso invivibile il territorio, cioè i 50 chilometri che separano Torino dalla Francia. Rocce piene di amianto, montagne dove l’Agip scavò decine di gallerie per estrarre l’uranio al tempo del nucleare italiano. Falde acquifere a rischio, salute in pericolo e addio agricoltura. Dissesto idrogeologico irrimediabile, apocalisse urbanistica, catastrofe idrica incombente sulla stessa area metropolitana torinese. Ma perché, di grazia? A beneficio di chi?
    “Diteci almeno a cosa servirebbe, tutto questo”. Domanda rimasta sempre inevasa. Lo vuole l’Europa, c’è un impegno con la Francia. Davvero? Sì e no. L’Europa ha cambiato idea: ha archiviato l’originaria, fantascientifica direttrice Kiev-Lisbona, di cui la Torino-Lione sarebbe stata il passante alpino. Quanto alla Francia, varie istituzioni parigine hanno via via intiepidito la loro posizione. Analoga retromarcia tattica dal governo Renzi: è vero, la nuova linea costa troppo; meglio limitarsi al solo traforo, facendo poi passare i treni sull’attuale linea (perfettamente idonea, dunque – percorsa, già oggi, dal Tgv francese). Nel frattempo, sui NoTav si è scatenata una campagna di demonizzazione parossistica, da parte della politica istituzionale e dei grandi media. E il movimento valsusino, senza più la tutela diretta dei sindaci, ha fatto miracoli per arginare il pericolo di infiltrazioni da parte delle frange virtualmente violente (un conto è gestire un corteo, un altro controllare manifestanti in ordine sparso, nei boschi). Anni durissimi, rischiosi, in bilico, ma durante i quali – nonostante tutto – la resistenza dei palestinesi ha conquistato piena cittadinanza in larghi strati del paese, anche grazie al generoso impegno di opinion leader di prima grandezza, scrittori e artisti, cantanti, giuristi, intellettuali. Senza con questo riuscire minimamente a scalfire il muro di omertoso silenzio che ancora protegge, misteriosamente, il progetto della grande opera: un dogma marmoreo, quasi mistico, che sembra imposto da una religione sconosciuta, alla quale gli stessi politici (ministri, premier) appaiono sottomessi.
    C’è altro, poi, che i valsusini sanno e gli altri italiani per lo più ignorano. E’ una storia complicata, tra loro e il governo. Una storia tormentata e opaca, per molti aspetti, che risale addirittura alla Liberazione, quando molti partigiani – in maggioranza comunisti – rifiutarono di consegnare le armi agli alleati, per poi tirarle fuori, occupando fabbriche, in risposta all’attentato a Togliatti. Ha radici antiche, il ribellismo della valle di Susa, industriale e operaia già alla fine dell’800. Dopo il Sessantotto, mentre i padri issavano bandiere rosse sui cotonifici, decine di figli cedettero alla tentazione della lotta armata. La valle di Susa è stata l’unica area non metropolitana, in tutta Italia, ad allevare una colonna di terroristi, arruolati tra le file di Prima Linea. Poi vennero gli anni ’80, con l’autostrada del Fréjus che la valle non voleva. Le solite mazzette e, a seguire, la relativa Tangentopoli, con arresti eccellenti, mentre la commissione parlamentare antimafia denunciava il radicamento della ‘ndrangheta nell’alta valle, il paradiso sciistico che a Sestriere avrebbe ospitato i Mondiali di sci e poi le Olimpiadi Invernali. Quello di Bardonecchia è stato il primo Consiglio comunale italiano, a nord del Po, a essere disciolto per mafia.
    L’onorata società tornò a occupare la cronaca della valle di Susa poco dopo gli attentati siciliani costati la vita a Falcone e Borsellino, quando la magistratura di Torino scoprì che erano finite a una cosca calabrese le pistole uscite illegalmente, a centinaia, da un’armeria di Susa. Chi avrebbe dovuto vigilare non l’aveva fatto: emerse l’ombra dei servizi segreti. Gli inquirenti avevano scoperto il traffico di armi grazie a un pentito della ‘ndrangheta, che smise di parlare (di colpo) dopo che gli fu ucciso il fratello, proprio in valle di Susa, da un ex agente del Sismi, reo confesso. Uno stillicidio di notizie inquietanti, che il valsusino medio – non ancora palestinese – apprendeva con sgomento, a metà degli anni ’90. A seguire, cominciarono a esplodere bombe: una dozzina di attentati dinamitardi, notturni e devastanti ma tutti incruenti, colpirono le prime trivelle del futuro Tav ma anche centraline Enel, tralicci telefonici, ripetitori televisivi. I giornali, in coro, parlarono di eco-terrorismo anarco-insurrezionalista. Comparve una sigla, “Lupi Grigi”, con rivendicazioni deliranti contro le grandi opere. Finirono in manette tre giovani anarchici, due dei quali (“Sole e Baleno”) poi trovati morti in stato di detenzione, impiccati. L’accusa: banda armata e associazione sovversiva. Lui, Edoardo Massari, un anarchico piemontese. Lei, Maria Soledad Rosas, argentina, giovanissima, venuta in Europa in vacanza premio, dopo il liceo, e poi rimasta in Italia perché innamoratasi del suo “Edo”. Il pm annunciò di avere “prove granitiche”, contro di loro. Salvo poi ammettere il tragico errore, fuori tempo massimo. Scagionati post mortem, alla fine del processo: non erano stati quei ragazzi, a far saltare in aria mezza valle di Susa. Chi, allora?
    Aveva in testa anche questi pensieri, il valsusino medio (mediamente colto e informato, mediamente scettico) quando cominciò a diventare un po’ palestinese, trascinando la famiglia nei prati di Venaus dove, nel 2005, si era accampata la polizia, spedita lassù da un governo che sosteneva fosse fondamentale far passare proprio di lì, spianando l’intera vallata, la famosa super-ferrovia miliardaria destinata a collegare il Portogallo all’Ucraina. Non può essere, si dicevano i valligiani: avranno capito male, a Roma. E così studiarono, si documentarono, mobilitarono i migliori specialisti. Non sta né in cielo né in terra, conclusero: è un’opera faraonica e devastante, tragicamente inutile. Ne parlavano anche coi poliziotti infreddoliti, inviati a Venaus a presidiare il prato prescelto per accogliere il primo cantiere. Dai NoTav, una protesta formato famiglia: bambini, polenta, bicchieri di tè caldo offerti agli stessi agenti – non quelli che li avrebbero sgomberati (per l’operazione, il reparto presidiario fu avvicendato). Gli incursori notturni colpirono alla cieca, travolgendo tende e sacchi a pelo. Una gradine di manganellate, al buio. Le ambulanze, le urla, i feriti. L’inizio della saga, già l’indomani: i valsusini, a migliaia, nelle strade. La circolazione paralizzata, i treni fermi. Il ministro dell’interno, Pisanu, scomparso dai radar. Imbarazzo, fra i palazzi romani. I palestinesi in rivolta ospitati per la prima volta in televisione, da Gad Lerner, per poi ricevere i primi rumorosi endorsement a reti unificate: Beppe Grillo, Dario Fo. E quei benedetti sindaci, avvolti nel tricolore, a ripetere che la legalità comincia dal rispetto del cittadino, democraticamente sovrano e tutelato da diritti costituzionali.
    Era solo il 2005, ma sembrano passati cent’anni. Le famiglie di allora avevano una luce particolare, negli occhi. La crisi era ancora lontana. C’era lavoro per tutti, i negozi non avevano ancora cominciato a chiudere, uffici e fabbriche funzionavano. All’ora dell’aperitivo i bar tracimavano di giovani – tutti palestinesi, naturalmente, tra svolazzi di bandiere NoTav. Un clima festoso, di fiducia. “Capiranno, a Roma. Si decideranno a ragionare”. I valsusini: riscopertisi comunità, proprio grazie allo scampato pericolo. Idee politiche forse rudimentali, antiche: la destra, la sinistra. A dire il vero, nella valle ribelle non s’era visto nessuno dei big: tutti spariti, i grandi partiti. La parte del cattivo era toccata a Berlusconi, ma poi Prodi (frenato dai ministri filo-valsusini Paolo Ferrero e Alfonso Pecoraro Scanio) non aveva comunque mai mostrato entusiasmo, per il fervore democratico dei palestinesi garibaldini, alle prese con quello strano risorgimento alpino, montanaro, periferico ma non provinciale. E’ come se si fosse laureato honoris causa, il valsusino medio, in questi anni grami: si è probabilmente conquistato il suo diploma di cittadino di prima classe, quanto a consapevolezza, mentre buona parte dell’Italia dormiva ancora sugli allori, prima di essere svegliata nel peggiore dei modi dal professor Monti, dalla professoressa Fornero.
    Si racconta che dal massiccio dell’Ambin, nel quale si è andato scavando il dannato tunnel esplorativo, sia disceso Annibale coi suoi elefanti. In direzione opposta avanzò Giulio Cesare alla conquista delle Gallie, facendo base a Susa, dove poi l’imperatore Costantino assediò Massenzio. Poco più a valle, Carlomagno sbaragliò i Longobardi manzoniani di Adelchi e Desiderio per poter fondare il Sacro Romano Impero, il cui erede Barbarossa mise a soqquadro Susa. Napoleone aprì la strada del Moncenisio, Cavour fece scavare il traforo del Fréjus. Quasi ogni sasso, in valle di Susa, ha molti secoli da raccontare, all’ombra dell’imponente Sacra di San Michele, monumento simbolo del Piemonte, eretto prima dell’anno Mille. Sul versante opposto, da una roccia emerge il Giove Dolicheno, scolpito dai soldati mediorientali arruolati da Roma nella Legione Siriana, di stanza nella valle conquistata dai Cesari. I valsusini amano le loro montagne, le frequentano con devozione. Le guardano diventare rosse, e poi viola, quando il tramonto illanguidisce nel crepuscolo lungo la cordigliera transalpina, dalla piramide del Rocciamelone alla mole nevosa del Niblè. Prima di altri, a loro spese, hanno imparato che il nuovo impero ha un’unica legge davvero sacra, quella dei soldi. A loro modo, da palestinesi, sono stati tra gli ultimi difensori di una repubblica di cui tutti gli italiani, oggi, hanno nostalgia.
    (Giorgio Cattaneo, “Tav, la strana guerra contro i palestinesi della valle di Susa”, dal blog “Petali di Loto” dell’11 dicembre 2018).

    Ormai, parlare dell’orrido Tav che incombe sulla valle di Susa è gradevole quanto lo è inoltrarsi tra il filo spinato del conflitto israelo-palestinese, degenerato in cancrena da decenni e trasformato in tumore fisiologico, incurabile. Di qua i buoni, di là i cattivi. Nemici, odio: il banchetto che qualcuno sperava di allestire fin dall’inizio? Non che ci tenessero, i palestinesi della valle di Susa: ne avrebbero fatto volentieri a meno, dell’intifada che li ha opposti periodicamente ai reparti antisommossa. Una sfida costata moltissimo in termini di conseguenze giudiziarie, tra arresti in massa e processi. Contro Golia, il piccolo Davide brillò nel 2012, quando rinunciò alla fionda: emozionò l’Italia (obbligando ad accorrere sul posto persino le telecamere di Santoro) il drammatico volo dell’acrobata Luca Abbà, che sfiorò la morte precipitando dal traliccio dell’Enel sul quale si era arrampicato, per protesta – lui anarchico, alle prese con una classica dimostrazione di resistenza nonviolenta. Ma durò poco: le cariche dispersero i manifestanti scesi a bloccare l’autostrada, messi in fuga e rincorsi casa per casa, dopo giorni di tensione. Tutto doveva tornare all’ordine fisiologico delle cose, cioè a come si presume che il pubblico s’immagini sia la realtà: un’aspra lotta tra opposti che si detestano, una partita feroce in cui difficilmente vincerà il migliore.

  • Gilet Gialloverdi, ora gli italiani si aspettano risposte vere

    Scritto il 20/12/18 • nella Categoria: idee • (11)

    In campagna elettorale sembravano impazziti: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero. Baravano? Ovvio, ma lo facevano anche gli altri. Loro di più? Infatti hanno vinto. O meglio: hanno vinto i 5 Stelle, col doppio dei voti di Salvini. Già l’indomani, però, Di Maio disorientava il pubblico votante, dichiarandosi disposto ad allearsi con chicchessia, dalla Lega al Pd, pur di andare al governo. D’accordo, ma per fare cosa? Poi è arrivato il Contratto, con dentro quasi tutto: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero. Baravano ancora? Possibile, ma forse a fin di bene: sapevano che sarebbe stata dura, con Bruxelles, ma ne erano consapevoli e si preparavano a dare battaglia. Davvero? Non si direbbe, vista la mala parata di fronte ai cani da guardia della Commissione Europea, gli stessi che invece ora si preparano a condonare all’anti-italiano Macron persino il massimo sacrilegio possibile, nell’euro-santuario: la violazione del sacro vincolo del 3% nel rapporto deficit-Pil. Prima ancora che il “governo del cambiamento” nascesse, del resto, i gialloverdi avevano dovuto ingoiare un super-rospo: il “niet” del Quirinale su Paolo Savona all’economia. Di Maio ventilò l’impeachment per Mattarella, Salvini se ne guardò bene. Oggi Di Maio è in caduta libera, mentre Salvini si muove da padrone della scena. Un caso?
    Salvini è abile, si dice. Ha osato rompere il tabù dell’accoglienza obbligatoria a costo di fare la faccia feroce coi più deboli, anche per smascherare l’ipocrisia egoistica dell’Ue e quella di chi – sui migranti – ha costruito carriere milionarie. Poi però è arrivato il decreto sicurezza, con limitazioni allarmanti alle libertà personali, specie quelle di chi ha motivo di esprimere la propria sofferenza sociale e quindi potrebbe protestare: pesantissime sanzioni per il blocco stradale e l’occupazione di terreni. Poi Salvini ha difeso a oltranza il topo morto che sta marcendo nella pancia del Piemonte, cioè un progetto-vergogna come il Tav Torino-Lione, notoriamente utile solo a chi costruisse tunnel e ferrovia. Infine, dopo aver chiesto mandato “a 60 milioni di italiani” per trattare con l’Ue, ha proposto alla Germania “un asse Roma-Berlino” (alla Germania, cioè al paese che più di ogni altro ha danneggiato l’Italia da quando esiste l’Eurozona). Poco dopo s’è involato verso Israele per la più classica delle genuflessioni diplomatiche, sperando di ottenere l’agognato sdoganamento come leader credibilmente moderato. Solo che si è fatto fotografare “alla Salvini”, tra soldati sorridenti e Stelle di David. Una foto lo ritrae mentre, addirittura, impugna una mitragliatrice. Non pago, il neoleghista post-padano s’è sbilanciato sul terreno della politica estera, definendo “terrorista” il network libanese Hezbollah, impegnato in Siria contro i terroristi veri, quelli dell’Isis.
    Baravano fin dall’inizio, i gialloverdi? Hanno preso in giro gli elettori italiani fin dal primo giorno di vita del “governo del cambiamento” o si sono semplicemente accorti di aver catastroficamente sottovalutato l’avversario? La flessione ingloriosa di fronte ai ragionieri finto-europeisti della Commissione Europea è un ultimo tentativo (tattico) per prendere tempo in attesa di una prossima controffensiva pro-Italia o è solo il classico inizio della fine, con la sepoltura delle illusioni e la rassegnazione alla consueta chemio-economia del rigore ammazza-Stati? Domande sospese ma ormai ridondanti, vista la rapida evoluzione dello scenario: i francesi nelle strade fanno tremare l’ex onnipotente Macron costringendolo alla resa, mentre il governo italiano (“populismo” in carica, regolarmente insediato) anziché rilanciare sull’onda dei Gilet Gialli si lascia prendere a sberle dal primo Moscovici di passaggio. Era sbagliato sbilanciarsi in campagna elettorale per un’espansione del deficit? Niente affatto. Però poi bisognava tenere il punto, a tutti i costi, pena la perdita della propria reputazione pubblica, italiana e internazionale. Era così assurdo, dare credito ai gialloverdi? No, perché l’espansione del deficit è esattamente la direzione appropriata – necessariamente eretica – per sconfessare il pretestuoso economicismo delle oligarchie finanziarie che utilizzano per i loro scopi la tecnocrazia di Bruxelles.
    Chi sono, in realtà, i due politici che avrebbero dovuto condurre una storica vertenza “sindacale” a favore dell’Italia? Di Maio è sbucato quasi dal nulla, attraverso il videogame elettorale interno messo in piedi da Grillo e Casaleggio, e prima delle elezioni vagava tra gli Usa e Londra in cerca di endorsement nei palazzi del massimo potere, quello che ha organizzato la globalizzazione unilaterale che ha messo in ginocchio anche l’Italia. Fino ad allora, sull’euro e l’Europa, i 5 Stelle erano riusciti a dire tutto e il contrario di tutto, senza mai delineare né un’analisi chiara né una linea politica definita, fino alla clamorosa pagliacciata del trasloco (tentato, ma non riuscito) tra gli ultra-euristi dell’Alde al Parlamento Europeo. La nuova Lega salviniana, per converso, è partita da posizioni radicalmente euroscettiche, arrivando a portare in Parlamento un economista keynesiano come Bagnai, salvo poi cominciare progressivamente a cedere ai soliti diktat di Bruxelles – spettacolo triste, solo in parte occultato dal quotidiano agitarsi di Salvini, nel tentativo di distrarre l’opinione pubblica dai fallimenti governativi. Al di là dei limiti strutturali di un’alleanza debole – i grillini “anticasta” e i leghisti “anti-migranti” – restano oscuri i piani della sovragestione da parte del vero potere, vista la confusione che regna sovrana dalle parti dell’esecutivo.
    Ancora non è dato sapere quanto durerà la coabitazione gialloverde, e se per caso i suoi sponsor dietro le quinte non abbiano già mollato Di Maio per puntare sul solo Salvini, a patto che scenda a più miti consigli – cosa che ha tutta l’aria di fare, a giudicare dalle recenti sterzate verso l’elettorato più tradizionalmente cauto. C’è un disegno di più lungo respiro, non ancora visibile? L’unica vera certezza riguarda la crisi dell’assetto europeo: la Francia in panne, la Germania in affanno, la Gran Bretagna ancora alle prese con l’irrisolta Brexit, l’Est Europa che scalpita per ritagliarsi spazi di autonomia. Salvini e Di Maio avevano illuso moltissimi spettatori, lasciando credere che l’Italia potesse diventare il motore di un cambiamento capace di smontare i dogmi dell’Ue, che hanno rapidamente impoverito il continente. Se non altro, i due esponenti gialloverdi hanno costretto gli italiani (e gli europei) a prendere atto, almeno, della necessità di una diversa narrazione: non è più possibile continuare ad accettare passivamente le politiche di rigore, che l’élite finanziaria neoliberista somministra alle nazioni attraverso i tecnocrati dell’Unione. Il funesto “ce lo chiede l’Europa” non è più proponibile, anche grazie a Salvini e Di Maio. Troppo poco, certo.
    Persino il tormentato governo Conte, comunque, potrebbe rivelare a posteriori una sua effettiva utilità, se domani – dopo le europee – prendesse corpo un vasto movimento politico, trasversale, disposto a rivendicare per l’Europa il diritto alla sovranità democratica, cominciando da una Costituzione Europea che insedi finalmente a Bruxelles un vero governo federale, regolarmente votato dal Parlamento Europeo eletto dai cittadini. Sogni, speranze e grandi incognite, a cominciare dalla paventata grande recessione in arrivo, che potrebbe far precipitare tutte le crisi politiche in atto. E gli italiani come reagirebbero, se dovessero arrendersi all’evidenza di una vera e propria resa? Che fine farebbe Di Maio, se non riuscisse a varare neppure l’ombra dello sbandieratissimo reddito di cittadinanza? E dove finirebbero i tatticismi del disinvolto Salvini, di fronte alla porta che l’Ue pare stia per sbattere il faccia all’Italia? Da più parti si osserva come manchi, tuttora, una classe dirigente all’altezza della situazione politica. Grazie al governo gialloverde sono caduti alcuni tabù e un bel po’ di leggende, per esempio sull’intoccabilità dei deficit. Ma resta, a monte, il macigno di un’Europa non democratica, non alleata, non amica. Anche grazie alla Lega e ai 5 Stelle, oggi gli italiani il problema lo vedono benissimo. A farsi attendere, ancora, è la soluzione.
    (Giorgio Cattaneo, “Bravi i gialloverdi a denunciare il rigore Ue, ma ora gli italiani si aspettano i fatti”, dal blog del Movimento Roosevelt del 14 dicembre 2018).

    In campagna elettorale sembravano impazziti: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero. Baravano? Ovvio, ma lo facevano anche gli altri. Loro di più? Infatti hanno vinto. O meglio: hanno vinto i 5 Stelle, col doppio dei voti di Salvini. Già l’indomani, però, Di Maio disorientava il pubblico votante, dichiarandosi disposto ad allearsi con chicchessia, dalla Lega al Pd, pur di andare al governo. D’accordo, ma per fare cosa? Poi è arrivato il Contratto, con dentro quasi tutto: reddito di cittadinanza, Flat Tax, abolizione della legge Fornero. Baravano ancora? Possibile, ma forse a fin di bene: sapevano che sarebbe stata dura, con Bruxelles, ma ne erano consapevoli e si preparavano a dare battaglia. Davvero? Non si direbbe, vista la mala parata di fronte ai cani da guardia della Commissione Europea, gli stessi che invece ora si preparano a condonare all’anti-italiano Macron persino il massimo sacrilegio possibile, nell’euro-santuario: la violazione del sacro vincolo del 3% nel rapporto deficit-Pil. Prima ancora che il “governo del cambiamento” nascesse, del resto, i gialloverdi avevano dovuto ingoiare un super-rospo: il “niet” del Quirinale su Paolo Savona all’economia. Di Maio ventilò l’impeachment per Mattarella, Salvini se ne guardò bene. Oggi Di Maio è in caduta libera, mentre Salvini si muove da padrone della scena. Un caso?

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