Archivio del Tag ‘feticci’
-
Pura magia: la scienza diventa religione, negando la verità
Il metodo socratico rappresenta un elemento portante nello sviluppo epistemologico, cui si ispireranno sia l’età dell’Umanesimo che quella dell’Illuminismo, dove l’interesse per la scienza troverà massima espressione, elevandosi a ideale contro l’oscurantismo, l’intolleranza e ogni forma di assolutismo. L’approccio odierno alla scienza la allontana notevolmente dal suo fine massimo di raggiungimento del sapere quale emancipazione dell’essere umano, attraverso il percorso arduo e incessante della ricerca della conoscenza. Al contrario, lo scientismo attuale costringe l’individuo dentro una gabbia ristretta di norme e dogmi che appaiono imperscrutabili al comune intelletto, divenendo roccaforte di un gruppo di eletti, forti del prestigio conferito loro dall’appartenenza a enti rappresentativi del sapere in quello specifico settore. Rinnegando la strada percorsa dai grandi scienziati del passato che pagarono con la propria vita l’aver messo in dubbio le credenze contemporanee, gli attuali preferiscono muoversi nel solco del conformismo e dell’omologazione. Non c’è spazio per il dubbio, elemento fondamentale della ricerca della sapienza, ma solo per l’assertività, la dogmaticità inconfutabile e autoreferenziale delle proprie affermazioni. Uno scientismo imperante e anti-dialogico sta contaminando tutti gli ambiti della conoscenza, con una smania positivista che ha pervaso persino le scienze umane.
-
Ipazia, la filosofa martire a cui i cristiani cavarono gli occhi
Nella primavera di sedici secoli fa, ad Alessandria d’Egitto, una donna fu assassinata. Fu aggredita per strada, spogliata nuda e trascinata nella chiesa «che prendeva il nome dal cesare imperatore», il Cesareo, come riferisce una delle fonti contemporanee ai fatti, lo storico ecclesiastico costantinopolitano Socrate Scolastico. Qui fu dilaniata con cocci aguzzi. Mentre ancora respirava le furono cavati gli occhi. Poi i resti del suo corpo smembrato vennero dati alle fiamme. A massacrarla furono fanatici cristiani, i cosiddetti parabalani, monaci-barellieri venuti dal deserto di Nitria, di fatto miliziani al servizio di Cirillo, allora potente e bellicoso vescovo della megalopoli d’Egitto fertile di grano e di intelletti, di matematica e poesia, musica, gnosi e filosofia. Il nome di quella donna era Ipazia e quel nome in greco evocava un’idea di “eminenza”. Chi fosse nei lati più segreti della sua eminente personalità e cosa avesse fatto per attirare su di sé la sadica violenza collettiva maschile che la uccise, non lo sappiamo quasi più. Sappiamo meglio chi non era, e di cosa certamente era incolpevole. Conosciamo le maschere che la propaganda o la fantasia o semplicemente l’incoercibile tendenza umana alla manipolazione e alla bugia hanno sovrapposto alla sua pura sembianza di filosofa platonica.La storiografia l’ha strumentalizzata, la letteratura l’ha trasfigurata e tradita: scienziata punita per le sue scoperte, eroina protofemminista, martire della libertà di pensiero, illuminista e romantica, libera pensatrice e socialista, protestante, massone, agnostica, vestale neopagana e perfino santa cristiana. Ma Ipazia non era nulla di tutto questo. Nell’Alessandria del V secolo, Ipazia apparteneva all’aristocrazia intellettuale della scuola di Plotino e dalla tradizione familiare aveva ereditato la successione (diadoché) del suo insegnamento. Una cattedra pubblica, in cui insegnava «a chiunque volesse ascoltarla il pensiero di Platone e di Aristotele e di altri filosofi», come narrano le fonti antiche. In questo senso era anche una scienziata: la sapienza impartita nelle scuole platoniche includeva la scienza dei numeri e lo studio degli astri. Era dunque anche una matematica e un’astronoma, ma nel senso antico e prescientifico. Non fece alcuna scoperta, non anticipò nessuna rivoluzione copernicana, non fu un Galileo donna. Tutto quello che sappiamo è che costituì devotamente il testo critico del terzo libro dell’Almagesto di Tolomeo, perché suo padre Teone potesse svolgerne il commento, e compose di persona commentari didattici a quelli che erano i libri di testo dell’epoca: le Coniche di Apollonio di Perga e l’Algebra di Diofanto. Non certo per questo fu assassinata.Oltre che una filosofa platonica Ipazia era una carismatica. C’era, nelle accademie platoniche, un risvolto esoterico, che implicava la trasmissione di conoscenze “segrete” – nel senso di non accessibili ai principianti – che riguardavano il divino. Oltre all’insegnamento pubblico (demosia), che teneva presso il Museo o altrove nel centro della città, sappiamo di riunioni “private” (idia), che teneva nella sua dimora, in un quartiere residenziale fuori mano, verde di giardini. Fu nel tragitto in carrozza tra l’uno e l’altra che venne aggredita e uccisa. La furia di Cirillo, che secondo la testimonianza delle fonti coeve fu il mandante del suo assassinio, venne scatenata proprio dalla scoperta di queste riunioni. Perché queste riunioni portavano Ipazia al centro della vita non solo culturale ma anche politica di Alessandria. Perché stringevano in un sodalizio non solo intellettuale ma anche politico le élite pagane della città, convertite al cristianesimo per necessità, dopo che i decreti teodosiani lo avevano proclamato religione di Stato, ma unite dalla volontà di conservare le proprie tradizioni e convinzioni: quell’“educazione ellenica” che si chiamava ancora paideia, quel “modo di vita greco” che il discepolo prediletto di Ipazia, Sinesio, definiva «il metodo più fertile ed efficace per coltivare la mente».Alle riunioni di questa sorta di massoneria in cui la classe dirigente alessandrina, pagana, cristiana e forse anche ebraica, si stringeva per fare fronte al cambiamento e tutelare i propri interessi nel trapasso dall’una all’altra egemonia di culto e pensiero, partecipavano anche i membri della classe dirigente inviati dal governo centrale di Costantinopoli. «I capi politici venuti ad amministrare la polis erano i primi ad andare ad ascoltarla a casa sua. Perché, anche se il paganesimo era finito, il nome della filosofia sembrava ancora grande e venerabile a quanti avevano le massime cariche della città». Anche il prefetto augustale Oreste apparteneva a quella cerchia più riservata, se non segreta, in cui Ipazia prodigava insegnamenti che le valevano gli appellativi sacerdotali di “madre, sorella, maestra, patrona”, “supremo giudice”, “signora beata dall’anima divinissima” che leggiamo riferiti a lei nell’epistolario di Sinesio. A quella cerchia Ipazia impartiva, insieme agli altri tipici delle accademie platoniche, un insegnamento sommesso particolarmente utile in quei tempi di transizione. Non era necessario tradire la propria fede o buona fede per convertirsi. L’Uno di Plotino e il Dio dei cristiani potevano identificarsi. Le religioni non dovevano lottare tra loro perché non differivano l’una dall’altra se non in dettagli fiabeschi destinati ai più semplici.I miti degli dèi dell’olimpo pagano, i dogmata o credenze “vulgate” dell’insegnamento cristiano, tra cui quella sulla resurrezione della carne, erano destinati a chi non era “filosofo”. «Riguardo alla resurrezione di cui tanto si parla sono ben lontano dal conformarmi alle opinioni del volgo», scrive in una delle sue lettere Sinesio, allievo di Ipazia ma anche vescovo cristiano di Tolemaide. Ipazia non era solo maestra e direttrice di coscienza dei quadri politici. Era una politica lei stessa. Le fonti la descrivono «eloquente e persuasiva (dialektike) nel parlare, ponderata e politica (politike) nell’agire, così che tutta la città aveva per lei un’autentica venerazione e le rendeva omaggio». Lo stile dei suoi discorsi era così franco da essere secondo alcuni elegantemente insolente. Era spesso la sola donna in riunioni riservate agli uomini, ma la compagnia maschile non la metteva in imbarazzo né la rendeva meno impassibile e lucida nella sua dialettica. Ipazia interveniva in senso pacificatore negli affari della città e principalmente nelle lotte religiose che la insanguinavano. Difendeva, influenzando direttamente in questo il prefetto augustale Oreste, i diversi gruppi dai tentativi delle fasce fondamentaliste di ciascuno di sopraffare gli altri.In particolare, poco prima di venire assassinata, aveva difeso l’antica comunità ebraica di Alessandria dal devastante pogrom ordinato da Cirillo, la cui azione politica aveva due linee ben precise: la lotta economica contro gli ebrei, che dominavano il trasporto del grano da Alessandria a Costantinopoli, e la tendenza a «erodere e condizionare il potere dello Stato oltre ogni limite mai concesso alla sfera sacerdotale», come riportano le fonti. Solo questo la tolleranza filosofica di Ipazia non tollerava, e su questo l’Ipazia politica era inflessibile quanto era flessibile l’Ipazia filosofa: l’ingerenza di qualunque chiesa sul potere laico dello Stato. Bastò questo, con ogni probabilità, a motivare il suo assassinio, che fu a tutti gli effetti un assassinio politico. Nulla a che fare con la scienza o con il femminismo o con gli altri vari feticci in cui la storia del pensiero o della letteratura o della poesia, sempre guidata dal demone dell’attualizzazione e dal fantasma dell’ideologia, ha via via trasformato in sedici secoli il suo volto, irrigidendolo in tratti tanto schematici quanto lontani dalla verità, sovrapponendo un intrico di definizioni a quell’unica ancorché non universalmente accessibile parola che gli antichi riferivano a lei: filosofia.Il rogo di Ipazia è stato da alcuni considerato il primo esempio di caccia alle streghe dell’inquisizione cristiana. In effetti il proselitismo armato di Cirillo contraddiceva in pieno la pur astratta idea di tolleranza propugnata cento anni prima dall’editto di Costantino del 313, così come la tendenza conciliatoria del cristianesimo con il paganesimo d’élite che il primo imperatore cristiano aveva appoggiato politicamente e sancito giuridicamente. Cirillo, rivendicando l’accesso della chiesa alla conduzione della politica, aspirava a un vero e proprio potere temporale, più vicino al promiscuo modello del papato romano che alla rigorosa separazione dei poteri sancita dal cesaropapismo bizantino. Anche per questo, forse, la posizione ufficiale della chiesa di Roma, malgrado la gravità e la natura quasi terroristica dell’antico assassinio di Ipazia, non ha mai voluto mettere in discussione Cirillo, la sua santità, la sua probità. Ancora a fine Ottocento Leone XIII lo ha proclamato dottore della chiesa.Nella celebrazione che ne ha fatto nel 2007 Benedetto XVI ha elogiato «la grande energia» del suo governo ecclesiastico. Più recentemente, una chiesa di San Cirillo Alessandrino è stata edificata a Roma nel quartiere di Tor Sapienza. Oggi nelle vicinanze di quella chiesa si inaugura il giardino che l’Ufficio Toponomastico del Comune di Roma ha dedicato a Ipazia, accogliendo una petizione che non solo chiedeva di intitolarle uno spazio pubblico, ma di individuarlo proprio in quell’area. Perché la tolleranza laica non impedisce certo di continuare ad annoverare tra i santi del calendario un integralista condannato come assassino dal tribunale della storia. Ma i fedeli cristiani hanno il diritto di ricordare la sua antica vittima e la spirale di conseguenze dell’intolleranza religiosa.(Silvia Ronchey, profilo storico di Ipazia d’Alessandria pubblicato da “Repubblica” l’8 marzo 2017. Storica e filologa, come ricorda il “Post”, Silvia Ronchey è una delle massime studiose di Ipazia; alla filosofa-martire, massacrata dal fondamentalismo cristiano, ha dedicato, tra gli altri, il libro “Ipazia. La vera storia”, che uscì nel 2011 per Bur-Rizzoli e ottenne grande successo anche tra il pubblico non specializzato. Sempre a Ipazia è dedicato il recente volume “Ipazia di Alessandria e l’enigma di Santa Caterina”, di Nicola Bizzi, pubblicato nel 2018 da Aurora Boreale. Ancora: a Ipazia è dedicato il film “Agora” di Alejandro Amenábar, con Rachel Weisz, Max Minghella e Oscar Isaac. Girato in inglese, il film ha ottenuto un vasto consenso, aggiudicandosi 7 Premi Goya 2010 – sceneggiatura, fotografia, scenografia, costumi, trucco, produzione ed effetti speciali – nonché il Nastro d’Argento 2010 per i migliori costumi e il Premio Lumia per la migliore storia. Presentato al Festival di Cannes 2009 come film fuori concorso e al Festival internazionale del film di Toronto del 2009, era uscito il 9 ottobre 2009 in Spagna. Uscì però solo il 23 aprile 2010 in Italia, dove la distribuzione sarebbe stata ostacolata da ambienti vaticani. La Chiesa cattolica ha ancora «un rapporto ambiguo con Cirillo, vescovo di Alessandria che ordinò l’assassinio di Ipazia», rammenta il “Post”: «Cirillo è stato fatto santo ed è ancora celebrato della Chiesa: l’ultima volta è stato ricordato nel 2007 da Papa Benedetto XVI, mentre i suoi crimini sono in gran parte dimenticati»).Nella primavera di sedici secoli fa, ad Alessandria d’Egitto, una donna fu assassinata. Fu aggredita per strada, spogliata nuda e trascinata nella chiesa «che prendeva il nome dal cesare imperatore», il Cesareo, come riferisce una delle fonti contemporanee ai fatti, lo storico ecclesiastico costantinopolitano Socrate Scolastico. Qui fu dilaniata con cocci aguzzi. Mentre ancora respirava le furono cavati gli occhi. Poi i resti del suo corpo smembrato vennero dati alle fiamme. A massacrarla furono fanatici cristiani, i cosiddetti parabalani, monaci-barellieri venuti dal deserto di Nitria, di fatto miliziani al servizio di Cirillo, allora potente e bellicoso vescovo della megalopoli d’Egitto fertile di grano e di intelletti, di matematica e poesia, musica, gnosi e filosofia. Il nome di quella donna era Ipazia e quel nome in greco evocava un’idea di “eminenza”. Chi fosse nei lati più segreti della sua eminente personalità e cosa avesse fatto per attirare su di sé la sadica violenza collettiva maschile che la uccise, non lo sappiamo quasi più. Sappiamo meglio chi non era, e di cosa certamente era incolpevole. Conosciamo le maschere che la propaganda o la fantasia o semplicemente l’incoercibile tendenza umana alla manipolazione e alla bugia hanno sovrapposto alla sua pura sembianza di filosofa platonica.
-
Tra CasaPound e NoTav, a Torino il Salone dell’Ipocrisia
Centomila persone alla camera ardente dell’Avvocato, ma solo duemila al funerale di Primo Levi. Due lutti che in qualche modo fotografano Torino: folla oceanica per il patron della Fiat e dalla Juventus, di cui ora si scoprono i miliardi di euro “riparati” all’estero, lontano dal fisco italiano. Molto più intime, invece, le esequie dell’autore di “Se questo è un uomo”, massimo capolavoro della memorialistica mondiale sulla Shoah. Unico paese in cui il libro non fu tradotto, per decenni: Israele. Motivo tutto politico: Primo Levi non tollerava gli abusi del sionismo contro i palestinesi. Il regime di Tel Aviv fu costretto a “sdoganarlo” solo dopo la spettacolare operazione di Philip Roth, che finalmente presentò il chimico-scrittore al pubblico statunitense negli anni ‘80, tributandogli gli onori di un eroe civile e di una grande firma della letteratura internazionale. Ebrei e antifascismo? Torino non smentisce la sua ambivalenza: scatena l’inferno per mettere al bando CasaPound dal Salone del Libro, ma tace sul brutale pestaggio inflitto, pochi giorni prima, ai NoTav che sfilavano pacificamente per le strade del centro, al corteo del Primo Maggio.La città che esibisce la sua ostilità militante verso l’apologia del fascismo (nostalgia ostentata da Francesco Polacchi, presidente della casa editrice Altaforte), poi non riesce a tollerare il popolo della vicina valle di Susa, che resiste da vent’anni contro un progetto-monstre dalla comprovata inutilità, imposto al territorio da tutte le forze politiche (tranne una, i 5 Stelle) ridotte a cinghie di trasmissione del potere neoliberista europeo che lucra in modo imperiale e feudale sulle grandi opere, impedendo alla politica di far emergere la voce dei cittadini. Tecnicamente: sospensione della democrazia. Destra o sinistra, è uguale: sul Tav Torino-Lione, Giorgia Meloni e Matteo Salvini (e pure CasaPound) la pensano come il Pd. Che i centomila valsusini siano contrari all’opera, a loro non importa. In questi anni, con l’aiuto dei migliori tecnici universitari, i NoTav hanno demolito sistematicamente qualsiasi ragione a supporto dell’infrastruttura, ma invano. L’Italia ha un bisogno disperato di infrastrutture utili, eppure Torino preferisce svenare il bilancio nazionale per una ferrovia desolatamente inutile. E tace, la città, se la polizia carica i manifestanti al corteo del Primo Maggio, colpevoli di sventolare bandiere NoTav.Perché il Pd torinese aveva tanta paura dei valsusini, nel giorno della festa del lavoro? Ovvio: avrebbero contestato i sindacati-fantasma che – Cgil in testa – il lavoro se lo sono lasciato sfilare di mano a colpi di controriforme neoliberali convalidate dai funesti governi di centrosinistra. Precarizzazione, flessibilità, delocalizzazioni, cancellazione dei diritti sociali. Arresasi su ogni fronte, la Cgil però tiene duro sul Tav, un feticcio ridicolo – poche centinaia di addetti, a tempo determinato – per il quale però Sergio Chiamparino s’è inventato le “madamine”, pronte a scendere dalle residenze in collina (zona Agnelli) per invocare il ritorno dell’occupazione (e soprattutto seppellire mediaticamente gli insopportabili NoTav). Così piovono manganellate sugli inermi, che il Primo Maggio avrebbero contestato l’ignavia dei sindacati italiani di fronte allo sfacelo del paese, culminato con la strage sociale messa in atto dai tecnocrati di Monti, coadiuvati dalla torinese Fornero, fino al pareggio di bilancio inserito nella Costituzione anche con i voti delle anime morte del Pd guidate da Bersani.A salvare la situazione – ripulendo le cattive coscienze – ora ci pensano i brutti e cattivi di CasaPound: che fortuna, per molti torinesi, potersela vedere con loro, rispolverando (piuttosto abusivamente) l’identità antifascista della città di Gobetti, la capitale operaia dove Gramsci e Togliatti studiavano da rivoluzionari nel biennio rosso, quasi cent’anni prima che gli stessi torinesi applaudissero Marchionne, il manager venuto dalla finanza per smontare la Fiat per portarla lontano da Torino. Sfila l’orgoglio antifascista, al Salone dell’Ipocrisia, tra i cerotti e i lividi dei manifestanti ai quali, il Primo Maggio, è stato fisicamente impedito di presenziare in piazza, sotto il palco dei sindacalisti che hanno svenduto i diritti del lavoro e puntellato la guerra sociale dell’élite contro il popolo lavoratore. Il primo a denunciarlo fu l’ennesimo grande torinese, il sociologo Luciano Gallino, anch’esso scomparso senza che la sua città se ne accorgesse.Centomila persone alla camera ardente dell’Avvocato, ma solo duemila al funerale di Primo Levi. Due lutti che in qualche modo fotografano Torino: folla oceanica per il patron della Fiat e dalla Juventus, di cui ora si scoprono i miliardi di euro “riparati” all’estero, lontano dal fisco italiano. Molto più intime, invece, le esequie dell’autore di “Se questo è un uomo”, massimo capolavoro della memorialistica mondiale sulla Shoah. Unico paese in cui il libro non fu proposto nelle scuole, per decenni: Israele. Motivo tutto politico: Primo Levi non tollerava gli abusi del sionismo contro i palestinesi. Il regime di Tel Aviv fu costretto a “sdoganarlo” solo dopo la spettacolare operazione di Philip Roth, che finalmente presentò il chimico-scrittore al pubblico statunitense negli anni ‘80, tributandogli gli onori di un eroe civile e di una grande firma della letteratura internazionale. Ebrei e antifascismo? Torino non smentisce la sua ambivalenza: scatena l’inferno per mettere al bando CasaPound dal Salone del Libro, ma tace sul brutale pestaggio inflitto, pochi giorni prima, ai NoTav che sfilavano pacificamente per le strade del centro, al corteo del Primo Maggio.
-
Salvini assediato, ha tutti contro: perfetto, così stravincerà
Chissà quanti popcorn si sta mangiando, Matteo Salvini, al pensiero che altrove stiano sbocciando champagne per festeggiare la sentenza del tribunale del riesame, quella per cui la Lega dovrà restituire i 49 milioni di rimborsi elettorali fittizi risalenti alla gestione Bossi-Belsito. Perché basterebbe scorrere le cronache a ritroso per capire come è dal 2013 che la Lega e Salvini si stanno preparando a questo momento. E che la strategia politica stessa del partito di Via Bellerio è figlia di questa consapevolezza: allargare la base del consenso e proiettarsi su scala nazionale per dar vita, qualora le condizioni lo richiederanno, a un nuovo movimento autonomo rispetto al passato leghista. Attenzione: non stiamo dicendo che la svolta sovranista della Lega sia esclusivamente figlia della necessità di salvare il partito dallo tsunami giudiziario. Stiamo dicendo che la strategia del leader della Lega è stata contemporaneamente di attacco a uno spazio politico da riempire, e di difesa della sopravvivenza del partito stesso e della sua sostenibilità finanziaria.A Salvini va riconosciuto di aver intuito che ci fosse una domanda di nazionalismo inevasa, che in Italia e in Europa, mentre Renzi veleggiava al 40% e Tsipras e Podemos sembravano le uniche alternative possibili, stesse iniziando a soffiare vento da destra, e dall’Est, che negli Stati Uniti di Obama e nel Regno Unito saldamente tra le mani di David Cameron vi fosse aria di rivoluzione. Nessuno ci credeva, lui sì. Un po’ per virtù, un po’ per necessità. Un po’ perché aveva capito che i voti di Berlusconi in Meridione erano in libera uscita, un po’ perché allargare la propria base elettorale al di fuori del perimetro settentrionale – con tanti saluti alla Padania e al Sole delle Alpi – gli avrebbe consentito di tentare il colpo gobbo: il sorpasso ai danni di Forza Italia e la presa di tutto il centrodestra, nel giorno del tramonto definitivo della stella di Re Silvio, attraverso la creazione di un soggetto politico nuovo. È stato un lavoro lungo e faticoso che Salvini ha intrapreso con una costanza e una tenacia da applausi. Un giorno andava a prendersi sputi e insulti a Napoli, il giorno dopo era ai cancelli dell’Ilva di Taranto, quello dopo ancora in giro sui treni regionali per la campagna elettorale in Sicilia.Nel frattempo, gli antichi feticci della Lega Nord che fu cadevano come petali di un fiore. Prima il simbolo della Padania, poi il colore verde, sostituito dal blu, quindi gli slogan, da “Prima il Nord” a “Prima gli italiani”, lui che nemmeno tifava la nazionale di calcio. Infine il nome stesso del partito, Lega, senza più alcun riferimento al settentrione. Se la strategia ha avuto successo, è perché tutti gli altri gli hanno concesso spazio e libertà per portarla avanti. Né Forza Italia, né il Movimento Cinque Stelle, né il Partito Democratico, ognuno con le proprie responsabilità, sono riusciti a togliere alla Lega e a Salvini mezzo elettore lombardo o veneto, nonostante federalismo e autonomia – al netto della burla dei referendum – siano state messe in soffitta, nonostante gli scandali bancari, nonostante i guai giudiziari. E nessuno, nel contempo, è riuscito a contrapporsi a Salvini nel centrosud, dove oggi, stando ai sondaggi, veleggia attorno al 20%, cinque punti sopra al Partito Democratico, quasi quindici più di Berlusconi.Contemporaneamente, il leader leghista le ha provate tutte per mettere al sicuro i soldi del partito. Ci ha provato col nuovo movimento “Noi con Salvini”, senza successo. E, ancora, con la mossa a sorpresa di Roberto Calderoli, che sul finire della scorsa legislatura è uscito dal gruppo della Lega Nord per fondare quello della Lega e basta. Nessuna scissione: solo la dimostrazione che quello che oggi governa è un nuovo soggetto politico, del tutto indipendente da quello che si era intascato illegalmente i rimborsi elettorali. Se oggi la Lega fosse identica a cinque anni fa sarebbe praticamente spacciata. Oggi, senza Nord, senza Padania, senza felpe e bandane verdi, non lo è. Non sappiamo cosa succederà domani. Se effettivamente la nuova Lega (senza Nord) dovrà sborsare 49 milioni sino all’ultimo centesimo, o se sarà necessario un’ulteriore allontanamento dalle radici della vecchia Lega (col Nord) attraverso la nascita di un nuovo soggetto politico unitario di centrodestra, del tutto alieno, almeno formalmente, alla vicenda giudiziaria che fu.Quel che sappiamo è che Salvini ci è arrivato nelle migliori condizioni possibili in cui ci poteva arrivare: al governo, da ministro dell’interno, con un consenso popolare stellare, con una linea politica completamente diversa da quella del Carroccio di cinque anni fa, con una marea di deputati e senatori di Forza Italia e Fratelli d’Italia che non vedono l’ora di saltare il fossato e di passare armi e bagagli sotto le insegne della Lega. E con la possibilità di guadagnarsi il centro della scena invocando un nuovo complotto, quello della magistratura ai suoi danni, e un nuovo nemico da abbattere. In altre parole, pronto a ogni evenienza. «Io non mollo e lavoro ancora più duro. Sorridente e incazzato», ha scritto sui suoi canali social. Avete capito, adesso, perché sorride?(Francesco Cancellato, “Se sperate che Salvini cada sui 49 milioni, state andando a sbattere contro a un muro”, da “Linkiesta” del 7 settembre 2018).Chissà quanti popcorn si sta mangiando, Matteo Salvini, al pensiero che altrove stiano sbocciando champagne per festeggiare la sentenza del tribunale del riesame, quella per cui la Lega dovrà restituire i 49 milioni di rimborsi elettorali fittizi risalenti alla gestione Bossi-Belsito. Perché basterebbe scorrere le cronache a ritroso per capire come è dal 2013 che la Lega e Salvini si stanno preparando a questo momento. E che la strategia politica stessa del partito di Via Bellerio è figlia di questa consapevolezza: allargare la base del consenso e proiettarsi su scala nazionale per dar vita, qualora le condizioni lo richiederanno, a un nuovo movimento autonomo rispetto al passato leghista. Attenzione: non stiamo dicendo che la svolta sovranista della Lega sia esclusivamente figlia della necessità di salvare il partito dallo tsunami giudiziario. Stiamo dicendo che la strategia del leader della Lega è stata contemporaneamente di attacco a uno spazio politico da riempire, e di difesa della sopravvivenza del partito stesso e della sua sostenibilità finanziaria.
-
Gregge o branco, schiavi della stessa paura: essere liberi
I modelli educativi ed estetici della società contemporanea pongono in evidenza una oscillazione comportamentale tra l’essere “gregge” e l’essere “branco”. Tale aspetto risulta molto più evidente nei giovani in quanto meno strutturati sul piano psichico. La differenza tra il gregge e il branco sembra evidente: l’uno (il gregge) è destinato ad essere ‘vittimizzato’ dall’altro (il branco); il gregge rappresenta una massa chiusa nel recinto delle convenzioni, mentre il branco mette in discussione ogni convenzione vivendo di regole proprie a volte a scapito degli altri. Il gregge è sinonimo di vigliaccheria e impotenza, mentre per il branco sembrerebbe valere il contrario. In realtà stiamo parlando di due cose molto simili ed accumunate dal medesimo sentimento: la Paura. Ci troviamo innanzi a due modalità comportamentali differenti che possiedono però lo stesso modello estetico. Quale potrebbe essere l’estetica che accomuna il gregge al branco? Utilizzando i contributi della psicologia clinica si potrebbe pensare all’estetica del gregge/branco come ad una reazione contro-fobica all’abbandono e ad una paura dell’individuazione. Essere individui implica anche la suggestione paranoide di essere individuati e diventare visibili con le proprie fragilità e difetti. Sia il gregge che il branco convergono verso la necessità di ‘mascherarsi’ in modo conformista per passare inosservati: il gregge lo farà in modo “social” il branco in modo “anti-social”.Mimetizzarsi per vivere nel gregge o nel branco implica l’abnegazione della propria soggettività e la costruzione di un Falso Sé Collettivo che può portare a delle conseguenze molto pericolose sul piano della salute fisica, mentale ed emotiva. Una buona fetta di responsabilità va di certo attribuita al contesto socio-culturale, familiare, scolastico, urbano e nazionale, che risulta essere sempre più indefinito ed astratto e la cui tendenza è quella di attribuire ai modelli etici sani una estetica noiosa, poco attraente e poco eccitante. Ne deriva quindi la legittimazione indiretta di un’etica in cui tutto è ridotto ad “oggetto di consumo”: relazioni, sentimenti, amore, ecc… tutto ciò con l’aggravante che ogni cosa possa essere comprata, venduta o rubata e diventare un possesso esclusivo dell’ego. Nell’illusione di un possesso egocentrico della realtà si arriva all’asservimento dell’Io che in una sorta di legge del contrappasso, diventa prigioniero degli oggetti stessi. In una situazione in cui la persona diventa dipendente da un oggetto, feticcio della sua libertà, l’appartenenza ad un “gregge” o ad un “branco” diventa necessaria per metabolizzare la paura della perdita simbolica delle propria autonomia, attraverso la perdita dell’oggetto.Una tale situazione finisce con l’essere intollerabile, e per questo deve essere ricacciata fuori dall’orbita della coscienza: nel preconscio o proiettata all’esterno. Nel primo caso (preconscio) possiamo avere come risultato un comportamento da gregge, nel secondo un comportamento da branco. Nel gregge l’emarginazione diventa il fattore estetico da evitare, ma così facendo si arriva anche all’esclusone di prospettive analitiche nuove e migliori; nel branco invece l’emarginazione assume il ruolo di una reazione alla paura, che si esprime nella necessità di infrangere le regole. L’estetica dell’emarginazione, come quella del degrado, presentano al loro interno un’etica invertita disumanizzante e passivizzante, legata alla tutela degli oggetti piuttosto che alle persone. Tale etica si rispecchia in una estetica dell’impersonale che si muove nel “social”, ma che tende a sconfinare nell’“anti-social” e nella necessità di annullare l’altro, credendo che sia vantaggioso per l’Io; in realtà tale atteggiamento non fa altro che danneggiare il soggetto che agisce in quel modo.Del resto è la società contemporanea che propaganda una morale del consumo acritico che favorisce i comportamenti gregari, fondati sul possesso, che determinano una libertà basata sulla dipendenza (emotiva e comportamentale) da oggetti inanimati. Tutto questo viene espresso poi in una affollata esteriorità, al di sopra di una interiorità solitaria e misera. Il destino del gregge e del branco è il medesimo, ossia è quello di essere inconsapevolmente manipolati nella costante ricerca di un brand, di un marchio, di un “come essere”, ma senza avere individuato un “perché”. Pensando al marchio, la memoria va a quel passo dell’Apocalisse in cui il marchio della Bestia era la garanzia del commercio… anche di anime. Inoltre è curioso rilevare come nel Vecchio West americano fosse in uso chiamare i fuorilegge con il soprannome di “The Brand”, ossia il marchio che faceva riferimento alle azioni predatorie contro il bestiame marchiato. Occorre rendersi conto che essere liberi è doloroso, e coloro che si rifugiano nel gregge o nel branco tentano di sfuggire, invano, a questa sofferenza e alla paura di una vera libertà fondata su aspetti etici ed estetici.(Stefano Pica, “Gregge e branco, schiavi dello stesso marchio”, dal blog del Movimento Roosevelt del 26 aprile 2018).I modelli educativi ed estetici della società contemporanea pongono in evidenza una oscillazione comportamentale tra l’essere “gregge” e l’essere “branco”. Tale aspetto risulta molto più evidente nei giovani in quanto meno strutturati sul piano psichico. La differenza tra il gregge e il branco sembra evidente: l’uno (il gregge) è destinato ad essere ‘vittimizzato’ dall’altro (il branco); il gregge rappresenta una massa chiusa nel recinto delle convenzioni, mentre il branco mette in discussione ogni convenzione vivendo di regole proprie a volte a scapito degli altri. Il gregge è sinonimo di vigliaccheria e impotenza, mentre per il branco sembrerebbe valere il contrario. In realtà stiamo parlando di due cose molto simili ed accumunate dal medesimo sentimento: la Paura. Ci troviamo innanzi a due modalità comportamentali differenti che possiedono però lo stesso modello estetico. Quale potrebbe essere l’estetica che accomuna il gregge al branco? Utilizzando i contributi della psicologia clinica si potrebbe pensare all’estetica del gregge/branco come ad una reazione contro-fobica all’abbandono e ad una paura dell’individuazione. Essere individui implica anche la suggestione paranoide di essere individuati e diventare visibili con le proprie fragilità e difetti. Sia il gregge che il branco convergono verso la necessità di ‘mascherarsi’ in modo conformista per passare inosservati: il gregge lo farà in modo “social” il branco in modo “anti-social”.
-
Cabras: Siria, solo bugie. Per annullare le elezioni italiane?
Usare l’intervento occidentale nella crisi siriana per giustificare in Italia un governo che annacqui i risultati del 4 marzo? «Nulla è come appare nel grande groviglio siriano», premette Pino Cabras, coordinatore del blog “Megachip” e ora neoeletto parlamentare 5 Stelle. La Siria? E’ l’ombelico di un intrico ancora più grande, che si propaga sul mondo. Primo guaio: la narrazione dei mass media dominanti. «E’ la risultante di infinite manipolazioni», al punto che «per chi la accetta passivamente è impossibile capire la realtà». Quella narrazione, poi, in Italia «si intreccia con le eterne pressioni che si scaricano da sempre sulla politica italiana». Cabras segue da molti anni la crisi siriana, che il riflesso di una crisi più vasta, in cui «certi equilibri cambiano ogni giorno, mentre certi cliché non cambiano mai». Prima notizia: il bombardamento della notte del 14 aprile tecnicamente non ha avuto nessun impatto strategico-militare reale. «Del centinaio di missili lanciati il 70% è stato abbattuto dall’antiaerea siriana che usa vecchi sistemi sovietici. Il rimanente 30% ha colpito perlopiù edifici abbandonati privi di qualsiasi interesse strategico e un laboratorio dove si producevano farmaci». Il raid missilistico avrebbe colpito una fabbrica di armi chimiche? Notizia ridicola, interamente falsa.Molti missili, spiega Cabras, sono stati lanciati contro il centro di ricerca e sviluppo di Barzah, ritenuto colpevole, secondo le dichiarazioni ufficiali, di “produrre clorina e Sarin”. Solo che il 22 novembre scorso, aggiunge, l’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (Opcw) aveva ispezionato proprio il centro di Barzah e aveva escluso che producesse armi chimiche. I risultati sono stati riconfermati il 23 e il 28 febbraio di quest’anno, come documentato da un report del 13 marzo. «In pochi minuti – scruve Cabras su “Megachip” – le forze armate statunitensi hanno mandato in fumo proprie dotazioni per un valore di duecento milioni di dollari e i fornitori di missili si sono sfregati le mani perché saranno loro a ricostituire le scorte. Mi pare chiaro – aggiunge – che a Washington non abbiano nemmeno lontanamente voluto sfidare la vera capacità di risposta dell’alleato di Damasco, la Russia, che disponeva sia di sistemi antimissile di trent’anni più avanzati rispetto a quelli delle forze armate siriane, sia di capacità di rappresaglia in grado di annichilire tutti i punti di lancio dei missili (navi o altro)». Questo, secondo Cabras, significa che all’interno dell’amministrazione Trump «quelli che volevano una guerra di grandi proporzioni sono stati gentilmente accompagnati a un vicolo cieco, almeno per ora».Altra deduzione: «C’erano canali di comunicazione fra le capitali occidentali e Mosca per assicurarsi che la costosissima e rischiosissima rappresentazione teatrale non generasse equivoci ed escalation». Risultato: «Alla fine tutti salvavano la faccia». Nondimeno, «fa impressione che dentro questa consapevolezza in qualche misura “collaborativa” sul limite da non oltrepassare (dove comunque i russi erano in massima allerta), la pièce dovesse comunque svolgersi con tutti i suoi sviluppi obbligati, dalle esplosioni alle indignazioni ai titoloni alle riunioni Onu. Tutto dannatamente teatrale, eppure autentico». Le armi di distruzione di massa? Fantasma evocato poche settimane prima a Londra, con il presunto “gas” impiegato contro l’ex spia in pensione Sergeij Skripal. «Vengono richiamate come un feticcio, un’allusione a un tabù storico che fa oltrepassare una “linea rossa”: laddove si allude a un gas si allude a un qualche nuovo Hitler da strapazzare. Per chi spinge alla guerra, le prove non contano più nulla: conta solo un’opinione sul gas, non importa se sia cloro, Sarin, o il misteriosissimo gas “di consistenza gelatinosa” di cui parla l’imprenditore mediatico Roberto Saviano», unitosi al coro russofobo (non si sa in basi a quali informazioni e competenze).«Si prendono per oro colato notizie inverificabili provenienti da ambienti compromessi con l’oscurantismo jihadista e le si usa per una rapida hitlerizzazione di un qualche governante da abbattere con i mezzi della guerra totale in un contesto alle soglie della guerra atomica, come se i disastri e le menzogne delle aggressioni all’Iraq e alla Libia non avessero insegnato nulla», sottolinea Cabras. «Di fronte a rischi così forti risulta essere un gravissimo errore intellettuale e politico (purché non si tratti di malafede) il sollecitare nel pubblico reazioni emotive incontrollate ed esasperate, basate su dicerie rilanciate da un circuito politico-mediatico gravato da pessimi precedenti che lo rendono inattendibile». Se non alro, aggiunge il neo-parlamentare, è confortante notare che in questo contesto difficoltoso, in cui le pressioni sono molto intransigenti, emergano prese di coscienza ragionate come quella dell’ex ambasciatore britannico in Siria, Peter Ford, che punta il dito sull’ultimo “caso gas” in Siria, da lui visto come «l’ennesima creazione della premiata ditta jihadista per giustificare il pretesto per una guerra totale». E comunque, per quanto il bombardamento del 15 aprile fosse sostanzialmente “contraffatto”, gli Stati Uniti, il Regno Unito e la Francia hanno violato in modo “vero” la legalità internazionale, eccome.«Si è trattato di un’aggressione – l’ennesima – a carico di un paese sovrano che fa parte dell’Onu, con effetti indiretti in grado di generare comunque pericolose ripercussioni». Ad esempio, aggiunge Cabras, non è la prima volta che in occasione di aggressioni dirette delle potenze occidentali a danno delle forze armate siriane, i tagliagole dell’Isis lancino delle offensive con qualche successo: anche in questa circostanza, infatti, l’esercito siriano – in vista dell’attacco annunciato – ha dovuto lasciare sguarnite certe aree contese con l’Isis, che ne ha approfittato all’istante. «Non va mai dimenticato che chi ha retto l’urto dell’Isis fino a infliggergli sconfitte decisive è stata la Siria, con l’aiuto decisivo della Russia. È imperdonabile oggi voler offrire altre chances all’Isis». Usa, Gran Bretagna e Francia sono, al tempo stesso, membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite con diritto di veto e membri del “club nucleare”: «In questa veste si sono ripreso ancora una volta il ruolo abusivo di potenze sciolte dal vincolo di dover sottostare a importantissime norme internazionali». Con queste azioni, «fanno valere un peso speciale che comprime le alleanze sovranazionali di cui fanno parte, soggette costantemente a subire la loro preponderanza».Nella Nato e nella Ue, questi paesi sono “animali più uguali degli altri”, per usare la metafora orwelliana. «Dispongono di mezzi diplomatici fortemente orientati a far valere questa preponderanza», e quindi «presidiano abilmente l’ordine del giorno dei principali media per stabilire l’agenda delle notizie e condizionare le mosse degli attori internazionali nonché il sentimento medio dell’opinione pubblica». E così facendo «zavorrano gli spazi di manovra delle personalità politiche nazionali con lacci e lacciuoli». In Italia, nella scorsa legislatura, la commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro «ha messo agli atti alcune importanti scoperte sulle dinamiche che hanno condizionato nel corso dei decenni la sovranità italiana per via del peso di alleati che da un lato ci sono amici, dall’altro ci investono con mille pressioni e azioni ostili e perfino golpiste», ricorda Cabras. «Non è solo materia sanguinosa di una storia passata, è ancora carne viva e dolente della politica italiana attuale: vi saremo ancora dentro finché non rinunceremo ad esercitare un ruolo nel Mediterraneo e nel Medio Oriente». Per uscirne, dovremmo smettere di «appaltare tutta la nostra politica estera a potenze straniere», e cessare di concepire le alleanze «come meri vassallaggi, anziché come partecipazioni più equilibrate».Ognuno degli attori politici attuali, aggiungeil neo-deputato Cabras, sa perfettamente di affrontare «una perenne corrente di influenze esterne profondamente radicate nel sistema», influenze «a cui non par vero di sfruttare ogni spiraglio generato da una crisi di governo difficilissima come quella di oggi». Per cuio, se “nulla è come appare”, ogni parola spesa per risolvere la crisi di governo «nasce in un contesto che non ammette semplificazioni». Il quadro degli accordi di governo possibili in Italia, ammette Cabras, «è gravemente condizionato dal fatto che pezzi significativi del sistema politico (e molti apparati) hanno un’abitudine ormai rodata a sottomettersi a coloro che dicono “fate presto”». Lo spiega bene Debora Billi su “ByoBlu”: «I media come sempre fanno la loro parte, che è poi quella del leone. Remano con forza nella direzione del governo “responsabile”, con la speranza che le leve del comando siano riconsegnate a chi le ha tenute saldamente finora, tradendo così la volontà popolare del 4 marzo. Ma anche molti media alternativi sul web – forse non volontariamente – contribuiscono allo stesso “frame”, pretendendo a gran voce dai politici più in vista dichiarazioni adamantine contro la guerra, contro la Nato, contro gli alleati, e stigmatizzando come servo e zerbino chi non ottempera all’istante».I social fanno il resto – aggiunge la Billi – alimentando tra gli stessi cittadini quella battaglia ideologica, «e chiudendo così il cerchio destinato a legare inestricabilmente il futuro governo agli eventi di questi giorni in Siria». Molti stanno inconsapevolmente lavorando, come si usa dire, per il Re di Prussia. E rischiano di far sì che si abbiano «i missili sulla Siria come movente perfetto per cancellare con un colpo di spugna la scomoda volontà popolare: sta quindi a noi non cadere nella trappola, e continuare a reclamare un governo che rispecchi ciò che è accaduto il 4 marzo e non ciò che è accaduto il 14 aprile». Per Cabras, è importante risolvere la partita del governo senza farsi vincere dalla fretta, anche in materia di politica estera. Il programma esteri con cui il Movimento 5 Stelle si è presentato alle elezioni – sostiene Cabras – offre spunti «decisivi» per costruire assieme ad altre forze parlamentari «un accordo di governo grazie al quale la Repubblica Italiana possa recuperare il proprio importante ruolo di grande mediatore del Mediterraneo, con un governo in grado di vantare un approccio profondamente iscritto nella vocazione storica dell’Italia democratica». Un approccio «molto più equilibrato rispetto a quello imposto da chi in questi anni ha usato la guerra per nuove avventure neocoloniali, tutte dannose anche per la nostra repubblica».Usare l’intervento occidentale nella crisi siriana per giustificare in Italia un governo che annacqui i risultati del 4 marzo? «Nulla è come appare nel grande groviglio siriano», premette Pino Cabras, coordinatore del blog “Megachip” e ora neoeletto parlamentare 5 Stelle. La Siria? E’ l’ombelico di un intrico ancora più grande, che si propaga sul mondo. Primo guaio: la narrazione dei mass media dominanti. «E’ la risultante di infinite manipolazioni», al punto che «per chi la accetta passivamente è impossibile capire la realtà». Quella narrazione, poi, in Italia «si intreccia con le eterne pressioni che si scaricano da sempre sulla politica italiana». Cabras segue da molti anni la crisi siriana, che il riflesso di una crisi più vasta, in cui «certi equilibri cambiano ogni giorno, mentre certi cliché non cambiano mai». Prima notizia: il bombardamento della notte del 14 aprile tecnicamente non ha avuto nessun impatto strategico-militare reale. «Del centinaio di missili lanciati il 70% è stato abbattuto dall’antiaerea siriana che usa vecchi sistemi sovietici. Il rimanente 30% ha colpito perlopiù edifici abbandonati privi di qualsiasi interesse strategico e un laboratorio dove si producevano farmaci». Il raid missilistico avrebbe colpito una fabbrica di armi chimiche? Notizia ridicola, interamente falsa.
-
Tarchi: un altro mondo è impossibile, dicono. E ci crediamo
Benvenuti nell’era della rassegnazione, in cui siamo costretti ad accettare falsi valori ormai crollati, in un Occidente che non ha mantenuto nessuna delle sue promesse, dopo l’ultima immensa illusione aperta dal crollo del Muro di Berlino. A parlare è il politologo Marco Tarchi, docente di scienze politiche a Firenze e già ideologo della cosiddetta “nuova destra” italiana, esperienza metapolitica abbandonata nel 1994 insieme alla dicotomia destra-sinistra. Oggi, lo scenario che Tarchi illumina in una lunga riflessione affidata al blog “La Crepa nel Muro”, è segnato dalla disillusione. «Chi ha più di trentacinque anni e ha speso una quota del proprio tempo occupandosi del mondo che gli ruota intorno, difficilmente avrà dimenticato il clima che si diffuse negli ambienti politici ed intellettuali nei giorni e nei mesi che seguirono la caduta del Muro di Berlino». Quella data – ottobre 1989 – parve universalmente segnare un evento fatidico, un punto di svolta. E il crollo dell’impero sovietico, che di lì a poco ne seguì, non fece che confermare là prima impressione. «Quanti avevano in uggia il duopolio che dalla conferenza di Yalta in poi aveva indirizzato le sorti del mondo esultarono. Dilagarono i sogni di nuovi scenari in cui i vincoli oppressivi del bipolarismo si sarebbero sciolti».Sgombrato il campo dalle suggestioni di un “socialismo reale” ormai fallito, e sgretolate le fondamenta dell’apparente opposizione tra destra e sinistra, si pensò a un progetto che all’individualismo contrapponesse «la solidarietà organica, la promozione dell’interesse collettivo, il recupero del senso di comunità e la tutela del diritto alla specificità dei popoli». Al posto del «cosmopolitismo omogeneizzante», l’elogio delle «identità plurali» e della diversità culturale. E al dominio dell’economia sulla politica si opponeva il riconoscimento primario dei valori non-economici, spirituali, e di “qualità della vita”. Stop al «culto delle forme istituzionali», meglio «la sostanza della democrazia: il controllo popolare sul potere». Scrive Tarchi: «Erano sogni, ma gli oltre vent’anni trascorsi li hanno derubricati ad illusioni». La realtà è nuda: «Il tracollo del “blocco orientale” non ha restituito all’Europa alcuna compattezza sostanziale, e soprattutto non le ha restituito l’indispensabile sensazione di possedere, in mancanza di una lingua o di una radice etnoculturale, un’anima comune».Al bipolarismo Usa-Urss, che «aveva fondato un condominio sul pianeta», si è sostituita «una voglia unilaterale di egemonia che ha prodotto instabilità e guerre a getto continuo», verso «un ordine planetario a sovranità limitata controllato da un unico gendarme riconosciuto». E i guasti «provocati da un capitalismo sempre meno umano e produttivo» sono stati «moltiplicati dall’espansione parossistica dello strapotere della speculazione finanziaria, che tramite la globalizzazione ha inaugurato l’era delle delocalizzazioni e dell’economia virtuale». Conseguenza immediata: l’esplosione dei flussi migratori di massa. Un fenomeno che esalta i cantori delle “società multietniche” capaci di dissolvere le “barriere” identitarie, «in nome e per conto di una “società di mercato” la cui pietra miliare è un individuo visto come il titolare di interessi esclusivi, e pertanto egoistici».Ancora: «La diffusione degli stili di vita ispirati al consumismo, considerati l’unica tangibile prova dell’accesso ad un mondo migliore (prima di tutto perché emancipato dall’impiccio di regole dettate dalla tradizione), ha propagato ovunque un materialismo pratico che ha ridotto la coltivazione della dimensione spirituale dell’esistenza a grottesca sopravvivenza di superstizioni fuori moda». E la consacrazione dell’ideologia dei diritti dell’uomo, che Tarchi considera «ipocrita nella sua geometria, variabile secondo le convenienze del momento», di fatto «ha sepolto la nozione del dovere verso qualunque entità che trascenda la soggettività individuale, fatto salvo uno strumentale culto formale di istituzioni che vengono considerate democratiche solo fintanto che servono gli interessi delle élites di potere, e quando cessano di farlo, magari per un voto “sbagliato” del corpo elettorale a favore di qualche outsider, sono additate alla pubblica esecrazione».In questo scoraggiante panorama, aggiunge l’analista, gli ex “non conformisti degli anni Ottanta” hanno offerto pessima prova di sé, a cominciare da «alcuni intellettuali di punta formatisi in ambienti di sinistra largamente predominanti nelle università e nell’editoria», che nel volgere di pochi anni «si sono allineati al nuovo Zeitgeist, limitandosi tutt’al più a connotare la loro marcia di avvicinamento a tappe forzate all’ideologia liberale di qualche accento di apertura “sociale”, fornendo una sequenza disarticolata di versioni progressiste dell’accettato modello occidentale». Un tragitto comodo, «date le posizioni di privilegio e di prestigio che da tempo detenevano e il favore dell’apparato massmediale che ne ha amplificato e lodato le esternazioni, le conversioni, i ripensamenti, le prese di posizione». Percorso analogo, anche se «più accidentato», quello delle «molto più esigue truppe» del perimetro “di destra”, ansionse di «cogliere l’occasione finalmente maturata per riguadagnare il campo della legittimità», a costo di abbandonare la “diversità” coltivata per decenni.Tarchi parla di un inglorioso «ripiegamento convergente, da sinistra e da destra», verso il “centro” liberale che ha «fagocitato pressoché ogni velleità di pensiero critico». Per l’intellettuale fiorentino, è stato «l’avvio di un’era della rassegnazione». Ovvero: «Rassegnazione a vivere in un eterno presente, nel migliore dei mondi possibili – quello che Fukuyama aveva sottilmente descritto e predetto nell’immagine della “fine della Storia”, che vedeva nel modello politico, culturale e sociale del liberalismo realizzato il non plus ultra del cammino della civiltà umana». Ma anche «rassegnazione ad accettare in un primo momento la mentalità diffusa del nostro tempo come sgradevole ma immodificabile, salvo poi, cammin facendo, convincersi che in fondo non è poi così sbagliata: che il consumismo è divertente, che forse la spiritualità è un ingannevole feticcio, che l’orizzonte del vivere è tutto qui e ora, che essere tutti uguali e cancellare ogni segno distintivo fra gli individui – e non fra le persone, concetto troppo impegnativo e complicato – sarebbe più “giusto” che continuare a riconoscersi reciprocamente diversi».Rassegnazione: pensare che, «in fondo, ad Occidente il mondo è libero da tradizioni, convinzioni, regole e convenzioni che impediscono a ciascuno di comportarsi come più gli aggrada, e occidentalizzare l’intero pianeta non sarebbe male». E, soprattutto, «rassegnazione a rinunciare ad ogni progetto di modificare lo stato di cose vigente, perché si sa che cosa si lascerebbe ma non che cosa potrebbe scaturire dal cambiamento». E’ per questo, scrive Tarchi, che – a sinistra come a destra – anche in ambienti che un tempo si volevano ribelli e radicali, cresce la propensione a condividere pubblicamente giudizi storici su eventi del passato che sono stati per decenni oggetto di accese contese, «pensando che una memoria “condivisa” possa favorire compromessi bilateralmente utili sul terreno politico, spartizioni di risorse, alternanze pacifiche e quindi, a turno, vantaggiose». Ed ecco che «prosperano le professioni di fede nei valori del politicamente corretto, nella filosofia dei diritti dell’uomo, nell’universalismo omologante. Mentre annoiano, disturbano, appaiono ripetitive ed inefficaci le critiche ai capisaldi dell’ordine vigente».Criticare l’americanismo? «E’ passato di moda». Aprire gli occhi sulle tante forme in cui, dietro le presunte esplosioni del “desiderio di libertà” qua e là per i continenti, si mettono in opera i dispositivi di un’ulteriore fase di occidentalizzazione del mondo? «Dà un fastidio quasi fisico, puzza di complottismo», come «indignarsi di fronte ai crimini che gli Usa ed i loro alleati perpetrano in nome dei sacri principi che ci assicurano di voler difendere, denunciare le menzogne dietro cui li celano». Tutto questo, ormai, «sa di litania risaputa». Sconveniente e inutile anche «prendersela con la Nato, con l’Onu, con quel profluvio di organizzazioni internazionali che servono realmente solo gli interessi di quella Nuova Classe che a buon diritto Christopher Lasch ha fustigato». E così, «dopo due secoli fin troppo effervescenti, siamo entrati in un tempo nel quale l’orizzonte delle teorie politiche e sociali è integralmente desertificato». Il panorama è piatto: «Non si profilano modelli alternativi all’esistente. E tutti i segnali di insofferenza che le rivolte, i voti di protesta, le ondate di “indignazione” inviano, faticano ad uscire dal recinto di soluzioni già sperimentate».Scommettere sulla legittimità del cosiddetto populismo? Lo scenario è fosco: crisi economica, calo demografico e invecchiamento della popolazione, con il dubbio futuro dei sistemi pensionistici. E poi l’immigrazione, l’avvento “spaesante” dell’universo telematico. E ancora: la messa in crisi degli antichi paradigmi della sessualità, della procreazione e della genitorialità: tutto contribuisce a diffondere nei meno istruiti, nei più anziani, nei soggetti deboli (cioè nella maggioranza) un clima di inquietudine, «di ricerca non tanto di sicurezza quanto di certezze, di valori stabili e riconosciuti», per dirla con Ernesto Galli della Loggia). Ma, obietta Tarchi, quelle stesse tendenze che spaventerebbero «una componente residuale – debole, anziana, meno istruita: insomma, una sorta di relitto», sono invece accolte con favore dai “forti”, «i giovani, gli istruiti». Il vero problema? E’ che «quelle certezze, quei valori stabili e riconosciuti di cui si parla, nel quadro attuale nessuno è in grado di fornirli». Peggio ancora: «Nessuno indaga la possibilità di battere altre vie. Ci si rassegna alla propagazione virale della mentalità del materialismo consumistico e individualista veicolata dall’ideologia liberale. E si punta sul fatto che gli inquieti, i delusi, gli insofferenti, i ribelli, ingabbiati nella logica dell’insuperabilità dello status quo, finiranno per accettare il destino degli animali selvatici rinchiusi, o nati, in uno zoo: preoccuparsi giorno per giorno della mera sopravvivenza, aspettando inconsapevolmente il giorno della fine».Benvenuti nell’era della rassegnazione, in cui siamo costretti ad accettare falsi valori ormai crollati, in un Occidente che non ha mantenuto nessuna delle sue promesse, dopo l’ultima immensa illusione aperta dal crollo del Muro di Berlino. A parlare è il politologo Marco Tarchi, docente di scienze politiche a Firenze e già ideologo della cosiddetta “nuova destra” italiana, esperienza metapolitica abbandonata nel 1994 insieme alla dicotomia destra-sinistra. Oggi, lo scenario che Tarchi illumina in una lunga riflessione affidata al blog “La Crepa nel Muro”, è segnato dalla disillusione. «Chi ha più di trentacinque anni e ha speso una quota del proprio tempo occupandosi del mondo che gli ruota intorno, difficilmente avrà dimenticato il clima che si diffuse negli ambienti politici ed intellettuali nei giorni e nei mesi che seguirono la caduta del Muro di Berlino». Quella data – ottobre 1989 – parve universalmente segnare un evento fatidico, un punto di svolta. E il crollo dell’impero sovietico, che di lì a poco ne seguì, non fece che confermare là prima impressione. «Quanti avevano in uggia il duopolio che dalla conferenza di Yalta in poi aveva indirizzato le sorti del mondo esultarono. Dilagarono i sogni di nuovi scenari in cui i vincoli oppressivi del bipolarismo si sarebbero sciolti».
-
Moresco: perché non firmo la petizione per Erri De Luca
Sono solidale con Erri De Luca, sotto processo per avere sostanzialmente affermato che, di fronte alla sordità nei confronti delle ragioni e dei sentimenti di un’intera popolazione, il sabotaggio può essere l’unico modo per fare sentire la propria voce inascoltata e tentare di modificare il corso prevedibile degli eventi. Mettere sotto processo una persona (importa poco che sia scrittore o meno) perché in un’intervista giustifica chi fa uso di cesoie per tagliare reticolati, e questo di fronte all’enormità di questo rifiuto, mi sembra una cosa inaccettabile e grave. Io non mi sono fatto della velocità un feticcio ideologico negativo. Mi piace la lentezza, ma mi piace anche la velocità. Però qui siamo di fronte a un progetto contestato da un’intera popolazione, da sindaci e da esperti che ne hanno rilevato in modo documentato le gravi pecche e i risvolti negativi legati all’impatto ambientale e alla salute degli abitanti (la montagna d’amianto che si vorrebbe bucare) e che hanno anche presentato progetti alternativi, ma che non sono stati ascoltati. E questo in nome di un’idea astratta di “progresso”, oltre che dei grandi e concreti interessi legati a questa astrazione.Così una persona che si è fatta portavoce di questo motivato rifiuto è finita sotto processo, mentre altre persone, amministratori, tecnici e anche politici di primo piano, che pure hanno ricevuto un mandato elettorale dai cittadini e che quindi dovrebbero ascoltarne le ragioni, sarebbero invece gli eroi positivi del progresso contro i negativi e retrivi abitanti della valle che rifiutano il progresso. Tutto ciò pone dei gravi interrogativi sul nostro futuro di specie e sulle scelte che bisognerà avere il coraggio e l’immaginazione di fare di fronte al deteriorarsi del nostro rapporto con l’ambiente planetario in cui viviamo, lacera il rapporto tra elettori ed eletti e straccia il velo di una simile democrazia a senso unico. Perciò – per quanto può valere la mia solidarietà – non posso che essere dalla parte di Erri De Luca, senza riserve, senza se e senza ma. Però, nello stesso tempo, non posso firmare la mozione di solidarietà con lui in nome della libertà di espressione. E questo non per viltà o per ragioni di opportunità, ma perché dissento profondamente da come la questione è stata posta in questa mozione. Cercherò di spiegare il perché.Io non credo che le parole siano un insieme dove sono tutte interscambiabili e ineffettuali, non credo che ci sia una zona franca e neutra dove ogni parola possa venire astrattamente permessa e nello stesso tempo depotenziata e disinnescata in nome della libertà di opinione. Firmare una mozione posta in questi termini sarebbe per me come dire: “Che bello! Avete proprio ragione. Le parole non contano niente. Possiamo dire tutto quello che vogliamo, tanto non conta niente”. Vorrebbe dire che io sono d’accordo sul fatto che le parole non hanno peso, che non vanno prese sul serio, vorrebbe dire che accetto la dimensione vuota in cui si vorrebbero collocare le persone che si esprimono anche attraverso parole, e questo non posso farlo, come uomo e come scrittore. Inoltre, a firmare questa mozione – cui vedo stanno aderendo noti scrittori, capi di Stato e altri paladini di questa idea di libertà – mi sentirei un ipocrita, perché io non sono affatto sicuro di poter essere sempre e comunque solidale con chi esprime determinate opinioni, e questo in nome della sola e astratta libertà di espressione.Se, per esempio, domani qualcuno sostenesse – in un suo libro, in un’intervista o in qualsiasi altro modo – che bisogna schedare e bruciare le case e i negozi degli ebrei, oppure incendiare i campi rom o radere al suolo la Cappella Sistina, io certo non firmerei una mozione in sua difesa. Perciò mi sentirei un ipocrita a firmare oggi una mozione posta in questi stessi termini e che poggia sulle stesse astratte motivazioni. Né credo che questa contraddizione si possa aggirare con una capriola dialettica, come altri fanno, mettendomi cioè al riparo da questo rischio stabilendo a priori ciò che non rientra in questo campo di possibilità, come ad esempio le ideologie totalitarie di destra, negatrici di libertà. E poi, oltre a tutto questo, mi domando anche perché questa libertà dovrebbe essere privilegio di uno scrittore più che di qualsiasi altra persona. Questo spazio sostanzialmente infantile e deresponsabilizzato concesso agli scrittori è qualcosa che infantilizza e deresponsabilizza anche le loro stesse parole. Si mostra di concedere loro qualche lusso in più, ma al prezzo di rendere depotenziate, ineffettuali e inerti le loro parole.Strana cosa questo destino che, in nome della “tolleranza” (grande mito delle nostre società avanzate, che bisognerebbe prendere a scatola chiusa e senza vederne i risvolti), si vorrebbe riservare alle parole degli scrittori o di chiunque ne faccia un uso mediatico pubblico. Infatti, mentre in ogni altro campo si attribuisce un potere effettuale e vincolante alle parole (in un documento di matrimonio o divorzio, in un rogito, in un testamento, ecc…), in quello che riguarda invece il cosiddetto discorso pubblico e in particolare nelle cose dette da uno scrittore o da chiunque sia visto come accreditato a esprimere opinioni le si riduce appunto a “opinioni”, le si fa rientrare nella dimensione ineffettuale, insiemistica e deresponsabilizzante della “libertà di opinione e di espressione”. E allora è concesso tutto, è concesso tutto perché è stato tolto tutto.Certo, questo può sembrare un passo in avanti rispetto a ciò che succede nei regimi totalitari, siano essi di natura politica o religiosa. Basti pensare a quanto hanno sofferto scrittori e poeti nell’Unione Sovietica di Stalin (chiusi nei lager e condotti a morte da un regime che prendeva maledettamente sul serio le loro parole), o altri più vicini a noi, costretti a vivere nascosti perché minacciati di morte e/o sottoposti a mostruosi editti religiosi e fatwe, quando non massacrati da feroci giudici-boia, come è successo poco fa in Francia ai vignettisti di “Charlie Hebdo”. Però, se guardiamo a fondo, non è anche questo un altro modo (umanamente preferibile, certo) di togliere peso e forza alle parole, di rendere interscambiabile e gratuito ciò che dicono non prendendolo sul serio, di impedire la loro effettualità e il contagio che ne può derivare? E anche, allargando il campo, non è un altro modo di rendere neutra, ineffettuale e depotenziata l’intera letteratura?Io sono particolarmente sensibile a questo, e lo sono non solo per ragioni di principio ma anche perché l’ho vissuto sulla mia pelle. Mi è capitato infatti, dopo i vent’anni, di venire incarcerato per un reato cosiddetto d’opinione, perché avrei cioè vilipeso l’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone durante un comizio tenuto in un paese dell’Oltrepo Pavese. Per questo reato sono stato arrestato, portato via in manette e poi, con i ferri ai polsi tra due carabinieri armati di mitra, ho visitato un paio di prigioni dove sono stato sottoposto a ispezione rettale e dove ho passato diversi giorni in isolamento in una cella sotto terra con paglione e bugliolo, sono stato poi scarcerato per gravi errori contenuti nel documento di carcerazione, processato a piede libero e condannato a un anno e due mesi.Perciò lo so bene: il reato di opinione è una cosa grottesca e orribile. Ma non è altrettanto grottesco e orribile depotenziare le parole e le convinzioni dei viventi, ridurle a scatole vuote, non entrare mai nel merito delle parole stesse, che possono essere molto diverse le une dalle altre e meritare diversa riflessione e ascolto, invece che essere collocate nella categoria insiemistica della libertà di opinione in cui è concesso tutto perché è stato sottratto tutto alla radice? Se io domani dovessi venire processato o condannato per un reato di questa natura, mi piacerebbe certo sentire la vicinanza e l’amore delle persone libere ma, a torto o a ragione, non me la sentirei di chiedere a nessuno la solidarietà in nome di un principio che nega l’urgenza, la necessità e la verità delle stesse parole che ho pronunciato o scritto. Per tutto questo e per altro ancora sto con Erri De Luca, ma non sto con una generica libertà di espressione e di opinione che toglie ogni verità, responsabilità e forza a espressioni e opinioni.(Antonio Moresco, “A proposito di Erri De Luca e della libertà di espressione”, da “Il Primo Amore” del 23 settembre 2015).Sono solidale con Erri De Luca, sotto processo per avere sostanzialmente affermato che, di fronte alla sordità nei confronti delle ragioni e dei sentimenti di un’intera popolazione, il sabotaggio può essere l’unico modo per fare sentire la propria voce inascoltata e tentare di modificare il corso prevedibile degli eventi. Mettere sotto processo una persona (importa poco che sia scrittore o meno) perché in un’intervista giustifica chi fa uso di cesoie per tagliare reticolati, e questo di fronte all’enormità di questo rifiuto, mi sembra una cosa inaccettabile e grave. Io non mi sono fatto della velocità un feticcio ideologico negativo. Mi piace la lentezza, ma mi piace anche la velocità. Però qui siamo di fronte a un progetto contestato da un’intera popolazione, da sindaci e da esperti che ne hanno rilevato in modo documentato le gravi pecche e i risvolti negativi legati all’impatto ambientale e alla salute degli abitanti (la montagna d’amianto che si vorrebbe bucare) e che hanno anche presentato progetti alternativi, ma che non sono stati ascoltati. E questo in nome di un’idea astratta di “progresso”, oltre che dei grandi e concreti interessi legati a questa astrazione.
-
Addio Costituzione, l’Ue è fuorilegge e cospira contro di noi
Non c’è neanche un solo diritto fondamentale enunciato dalla Costituzione che non risulti alterato in maniera sostanziale dall’applicazione dei trattati europei: la critica dell’Ars non è solo critica all’euro, ma critica all’Unione Europea. L’Italia ha giocoforza subìto una rivoluzione, che è maggiore rispetto ad altri Stati appartenenti all’unione: dai primi anni ‘90 abbiamo modificato il sistema processuale penale, il sistema di distribuzione dei poteri dal centro alla periferia, il sistema elettorale (ribaltandone completamente i presupposti), ci si è spinti verso l’aziendalizzazione delle università spacciandola per “autonomia” e infine si è modificata la legge bancaria del 1936, che fu posta a fondamento del nostro sistema economico. Con una “legge-delega” (che toglie di fatto dal dibattito democratico del Parlamento l’attività legislativa) venne introdotto con il Tub (Testo Unico Bancario, 1994) un nuovo concetto di banca come non più “istituzione pubblica”, ma moderna “società di diritto privato”; il Tuf (Testo Unico Finanza, “legge Draghi”, 1998) liberalizzò mercati e intermediari finanziari dettando i “principi generali” e lasciando, in delega agli stessi, le modalità di regolamentazione in barba ai principi costituzionali.Nel 1992 Carli formalizzò la separazione della banca centrale dal Tesoro e consentì il processo di costituzione della Bce, banca centrale di uno “Stato che non c’è”. Questa rivoluzione è avvenuta, ed è fondamentale ricordarlo, non a causa dell’euro, ma ancor prima per responsabilità dei trattati dell’Ue: dagli anni ‘80, e poi definitivamente con Maastricht, i princìpi fondamentali delle costituzioni europee sono diventati feticci, la Costituzione italiana è stata presa di mira poiché in contrasto coi trattati, e conseguentemente disinnescata. Questo meccanismo perpetrato di disinnesto delle sovranità nazionali ci ha condotti verso l’impossibilità giuridica di disciplinare numerose materie di interesse pubblico. Un paese liberista, come l’Ue impone ai propri membri, è per forza globalista. Un paese che viceversa pianifica la propria economia, come ci imporrebbe il dettato costituzionale, è un paese dove il popolo, la legge e lo Stato controllano, disciplinano e dirigono la res publica in modo più o meno socialista.Una norma fondamentale contenuta nella nostra Costituzione, l’articolo 41, enuncia: “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. La parte più nobile del trattato costituzionale è dunque la parte che disciplina i rapporti economici: ristabilire la legalità costituzionale significa pertanto prevedere partecipazioni statali ed aiuti di Stato ad imprese in settori strategici (misura che portò la nostra industria pubblica ad essere avanguardia nel mondo). Oggi, all’interno dell’Unione Europea, tutto questo risulta essere inapplicabile. Inoltre, per imporre di nuovo un sistema progressivo di imposizione bisognerebbe limitare la circolazione dei capitali: non esiste nessun esperienza socialista o socialdemocratica che non abbia applicato questo principio come era applicato da noi prima della distruzione economica, ma soprattutto sociale, di questo nostro intero continente. L’unico internazionalismo (parola tanto abusata quanto ostica) accettabile è quello in cui si ha un rapporto di pace tra stati socialisti. E sovrani.(Martina Carletti, “Euro, Unione Europea o socialismo?”, da “Appello al Popolo” del 23 ottobre 2014).Non c’è neanche un solo diritto fondamentale enunciato dalla Costituzione che non risulti alterato in maniera sostanziale dall’applicazione dei trattati europei: la critica dell’Ars non è solo critica all’euro, ma critica all’Unione Europea. L’Italia ha giocoforza subìto una rivoluzione, che è maggiore rispetto ad altri Stati appartenenti all’unione: dai primi anni ‘90 abbiamo modificato il sistema processuale penale, il sistema di distribuzione dei poteri dal centro alla periferia, il sistema elettorale (ribaltandone completamente i presupposti), ci si è spinti verso l’aziendalizzazione delle università spacciandola per “autonomia” e infine si è modificata la legge bancaria del 1936, che fu posta a fondamento del nostro sistema economico. Con una “legge-delega” (che toglie di fatto dal dibattito democratico del Parlamento l’attività legislativa) venne introdotto con il Tub (Testo Unico Bancario, 1994) un nuovo concetto di banca come non più “istituzione pubblica”, ma moderna “società di diritto privato”; il Tuf (Testo Unico Finanza, “legge Draghi”, 1998) liberalizzò mercati e intermediari finanziari dettando i “principi generali” e lasciando, in delega agli stessi, le modalità di regolamentazione in barba ai principi costituzionali.
-
Bifo: noi e la barbarie dell’Ue, fabbrica di miseria e guerra
Si può fermare l’offensiva liberista in Italia? La manifestazione nazionale indetta a Roma dalla Cgil il 25 ottobre può essere l’inizio di un’onda di rivolta dei lavoratori italiani contro il soffocante austeritarismo dell’Unione Europea, e contro il governo Renzi-Berlusconi, vassalli locali del potere finanziario. Speriamo che lo sia, facciamo tutto quel che possiamo perché lo sia, ma con poche illusioni. Non si può più fermare fermare l’offensiva padronale, la precarizzazione, l’impoverimento, lo smantellamento delle strutture sociali, perché tutto questo è già avvenuto, con la collaborazione dei sindacati. E’ meglio saperlo. Nel 1980, di fronte a 25.000 licenziamenti decisi da Agnelli, Berlinguer chiamò gli operai Fiat a occupare la fabbrica, ma il suo partito negli anni precedenti aveva lavorato a disgregare la forza operaia, e ne aveva isolato le avanguardie fino al punto di avallare il licenziamento di 62 lavoratori “estremisti”. Naturalmente fu una sconfitta dalla quale gli operai italiani non si sono ripresi più.Così oggi il sindacato si mobilita contro la precarizzazione che ormai dilaga, contro l’impoverimento e lo smantellamento del sistema economico italiano che ormai sono cosa fatta. Ancora una volta si chiude la stalla dopo che i buoi sono scappati. L’articolo 18 è un feticcio vuoto perché la precarietà è divenuta forma generale del rapporto di lavoro salariato, e a questo si aggiunge l’espansione continua del lavoro schiavistico, mascherato da lavoro volontario. La cancellazione dell’articolo 18 è il colpo di grazia, il sacrificio rituale che il dio della finanza chiede a Renzi per concedergli in cambio un po’ di flessibilità finanziaria. Nonostante tutto questo la mobilitazione contro la ferocia del ceto politico-finanziario può avere un effetto positivo nel lungo periodo, riaprendo una dinamica di solidarietà e organizzazione che negli ultimi anni si è progressivamente spenta. Ma qual è il contesto?L’Unione Europea è un morto che cammina. A che punto è la notte europea? Purtroppo la notte è appena cominciata, anzi quel che stiamo vivendo forse è solo il tramonto. Il tramonto della speranza di democrazia e di pace nel continente. La democrazia è parola svuotata dalla pratica austeritaria, mentre dovunque cresce il nazionalismo come hanno dimostrato le elezioni del maggio che il ceto finazista europeo non ha voluto neppure considerare. Al finazismo della Bce e al revanscismo tedesco risponde un nuovo nazionalismo nei paesi economicamente più impoveriti dall’offensiva finazista. Il disegno del finazismo globale è stato da sempre ed è oggi più che mai lo smantellamento definitivo dell’Unione Europea, e la sottomissione della popolazione europea alla condizione semi-schiavistica della precarietà. Il punto di precipitazione definitiva dell’Unione, e di inizio della nuova guerra civile europea si trova nel confronto franco-tedesco. La probabile vittoria del Front National è destinata a segnare la fine dell’Unione con conseguenze inimmaginabili, sullo sfondo della guerra russo-ucraina.Non occorre molta sapienza storica per capire che il nazionalismo francese non può tollerare che l’Europa sia unita sotto il dominio tedesco, anche se la Deutsche Bank ha preso il posto che nel 1941 aveva la Wehrmacht. La sceneggiatura è già scritta: crollo del partito di Hollande, affermazione dei nazionalisti, sgretolamento dell’Unione Europea. E dopo? Un articolo di George Soros uscito sulla “Repubblica” del 26 ottobre chiama l’Europa a prepararsi alla guerra con la Russia. Alcuni auspicano l’uscita dell’Italia dall’Unione come se questo fosse la soluzione di qualcosa. L’Italia è uno stato fallito, una società disgregata, depressa, corrotta, un’economia smantellata, un patrimonio industriale distrutto o svenduto come Alitalia. Parlare di Italia è idiota. Occorre parlare della classe operaia che da Torino a Napoli – per quanto decimata, tradita, sconfitta – può mettere in moto un processo che coinvolga il lavoro precario, e soprattutto il lavoro cognitivo disperso fuori dai confini nazionali. Non per la riscossa nazionale di un paese la cui unica azienda in attivo è la mafia, ma per aprire e guidare un processo di rivolta e di autonomia dei lavoratori europei.Siamo entrati in un’epoca oscura e non serve fingere di non vederlo: non si può restaurare la democrazia, l’occupazione non è destinata a crescere ma a diminuire, la pace civile si sta sgretolando, e la crescita non ha più senso economico né ecologico. Occorre prepararsi al pieno dispiegamento delle condizioni che stanno iscritte nella disgregazione sociale, e nella cultura della competizione e della paura: prepararsi alla miseria e alla guerra, per dirlo in chiaro. E’ in questa prospettiva che si devono creare le condizioni per l’autonomia sociale e il dispiegamento delle potenzialità contenute nell’alleanza possibile tra tecnologia e lavoro.Che caratteri avrà un nuovo movimento di emancipazione, dentro e oltre il disastro che liberismo e finazismo hanno preparato con l’aiuto servile della sinistra?Si uscirà dall’epoca buia solo quando la cultura sociale si orienterà verso la riduzione generale del tempo di lavoro. Metà dei posti di lavoro sono inutili, se si applica a pieno la potenza tecnologica. Nelle condizioni del capitalismo questo è un disastro senza rimedio. In condizioni libere dalla stretta del capitalismo questa potenza tecnica può diventare fattore di arricchimento egualitario e di rinascimento culturale. La potenza dell’intelletto generale in rete riduce il tempo di lavoro necessario. L’effetto di questa riduzione è stato finora riduzione del salario, aumento dello sfruttamento relativo e assoluto, aumento della disoccupazione e della miseria. Il sindacato ha testardamente e inutilmente difeso il posto di lavoro mentre si trattava (ormai dagli anni ’80) di scatenare la forza della società e l’immaginazione del lavoro cognitivo per la liberazione di tempo sociale dal lavoro salariato. La sconfitta politica e l’arretramento culturale di questi anni derivano direttamente dall’incapacità della sinistra e del sindacato di allearsi con la tecnologia e il lavoro cognitivo, e di battersi per la riduzione del tempo di lavoro generale.Ora siamo in un tunnel molto nero. La luce verrà soltanto dal rovesciamento della cultura lavorista. Non il produttivismo, non la difesa della composizione esistente del lavoro, non la partecipazione alla corsa del topo liberista. Ma la riduzione generale del tempo di lavoro, la redistribuzione della ricchezza, la liberazione delle energie affettive, educative, culturali dalla morsa imbecille della competizione. Occorre cominciare subito, mentre il tramonto volge verso il buio assoluto. Occorrerà continuare mentre nel buio l’uomo si farà lupo per l’uomo. I lavoratori italiani possono riprendere il ruolo di avanguardia che ebbero nel passato non per salvare il cadavere d’Europa che sta ammorbando l’atmosfera, ma per mettere in moto un processo di lotta europea e internazionalista, per la liberazione del tempo dal lavoro, per la liberazione dell’intelligenza dall’oscurantismo economicista.(Franco “Bifo” Berardi, “Al tramonto d’Europa”, da “Micromega” del 25 ottobre 2014).Si può fermare l’offensiva liberista in Italia? La manifestazione nazionale indetta a Roma dalla Cgil il 25 ottobre può essere l’inizio di un’onda di rivolta dei lavoratori italiani contro il soffocante austeritarismo dell’Unione Europea, e contro il governo Renzi-Berlusconi, vassalli locali del potere finanziario. Speriamo che lo sia, facciamo tutto quel che possiamo perché lo sia, ma con poche illusioni. Non si può più fermare fermare l’offensiva padronale, la precarizzazione, l’impoverimento, lo smantellamento delle strutture sociali, perché tutto questo è già avvenuto, con la collaborazione dei sindacati. E’ meglio saperlo. Nel 1980, di fronte a 25.000 licenziamenti decisi da Agnelli, Berlinguer chiamò gli operai Fiat a occupare la fabbrica, ma il suo partito negli anni precedenti aveva lavorato a disgregare la forza operaia, e ne aveva isolato le avanguardie fino al punto di avallare il licenziamento di 62 lavoratori “estremisti”. Naturalmente fu una sconfitta dalla quale gli operai italiani non si sono ripresi più.
-
L’Aspen: rivolte senza rivoluzione, non ci fanno paura
Per fortuna le nostre sono proteste senza un vero progetto politico, capace di cambiare le cose e costruire un’alternativa sociale basata sulla giustizia. Lo dichiara l’Aspen Institute, influente think-tank dell’oligarchia mondiale, che in Italia annovera tra i suoi dirigenti personaggi come Enrico Letta e Giulio Tremonti. Finanziato da fondazioni come Rockefeller, Ford e Carnegie Corporation, l’Aspen lavora per «la creazione di un terreno comune di comprensione approfondita in uno scenario non ideologizzato». Originale l’ultimo studio commissionato al bulgaro Ivan Krastev, presidente del “Centro di strategie liberali” di Sofia e tipico esponente di quella “nuova classe dirigente” dell’Est europeo cresciuta a forza di commissioni internazionali, liberismo e “formazione liberale delle leadership”. Lo studio «fornisce lo sguardo dei “padroni del globo” nel trattare le rivolte degli ultimi anni», come se fossimo giunti alla fine di un’epoca fondata sui diritti.«L’unica “ideologia” che conquista cuore e menti, di fronte al feticcio meccanico del capitalismo disincantato attuale, resta tristemente la religione», scrive Dante Barontini su “Contropiano”. «Ma le rivolte nascono dalla crisi economica, dal peggioramento delle condizioni di vita, dalla confusa sensazione che “non ci sia futuro”, e tantomeno “miglioramento”». L’ideologia «arriva dopo, come “spiegazione” e promessa». Per questo «siamo arrivati, come mondo, ad un punto limite: e nessuno sa dove sia costruibile il passaggio epocale ad un altro modello di vita». All’Aspen, aggiunge Barontini, non interessa ovviamente “superare” il capitalismo: «La posizione “ideologica” è dunque saldamente conservatrice, ma questo non ha mai impedito ai padroni del mondo di guardare in faccia ai problemi reali per trovare anche ciò che serve alla conservazione». Lo sguardo di Krastev coglie momenti rilevanti, comuni a paesi lontani fra loro, per intercettare lo “spirito del tempo” e ovviamente neutralizzare la richiesta di cambianento.Per conto dell’Aspen, il bulgaro Krastev «analizza i movimenti di rivolta come da un osservatorio satellitare, disinteressandosi dei dettagli» e andando al sodo. Dice: «Le proteste differivano, ma gli slogan erano incredibilmente simili: ai quattro angoli del globo i manifestanti si scagliavano contro la corruzione delle élite, le crescenti diseguaglianze economiche, la mancanza di solidarietà e di giustizia sociale e il disprezzo per la dignità umana». Ma aggiunge: «I manifestanti, a differenza dei loro padri rivoluzionari, non mirano a un rovesciamento violento dell’ordine costituito». La nuova generazione degli “indignados” – di Grecia e Spagna, Italia e Ucraina, Brasile e Portogallo – non ci pensa proprio a “cambiare il sistema”: «Non possiede le conoscenze di base, le categorie, la cultura per poter pensare che questo “sistema” sia rovesciabile; non è insomma in grado di immaginare un altro realistico modo di vivere». Soprattutto, aggiunge Barontini, «è ai margini del pensiero politico, non dentro».Per Krastev, «si tratta di una rivoluzione senza ideologia e senza scopi definiti: in mancanza di alternative politiche, si risolve in uno scoppio di indignazione morale». Una febbre passeggera, che non spaventa affatto il potere. Lo studioso bulgaro, continua “Contropiano”, sembra profondamente consapevole del fatto che la gestione del mondo è troppo complessa per lasciarla decidere a opinioni labili, poco consapevoli e altamente disinformate («insomma, a libere elezioni»). Ed è perfettamente a suo agio nell’affontare in modo ironico il mantra dei “social network” come mezzo d’elezione delle nuove proteste planetarie: «I nuovi movimenti si concepiscono come reti, nella convinzione che queste possano avere la meglio sulla gerarchia: l’onnipotente rete è l’arma organizzativa d’elezione, allo stesso modo in cui il piccolo ma disciplinato partito rivoluzionario era l’arma d’elezione dei comunisti».E qui, osserva Barontini, scatta l’ironia crudele di chi è seduto in una lussuosa suite nel cielo del capitale nei confronti delle formiche formicolanti sulla superficie o nelle viscere della terra: «Uno che sa benissimo che “la rete” ha dei gestori, dei proprietari, dei sorveglianti». E lo sa ovviamente anche Krastev, che dice: «I governi hanno appreso in fretta a esercitare il controllo e la manipolazione nell’universo digitale. “Caro utente, sei stato schedato come partecipante a una massiccia turbativa dell’ordine pubblico”: questo il messaggio che i manifestanti ucraini si sono ritrovati sul cellulare a metà gennaio, nel momento esatto in cui la legislazione anti-dimostrazioni veniva approvata dal Parlamento. La stessa tecnologia che aveva portato la gente in strada l’ammoniva di tornarsene a casa». Gli attivisti di Occupy Wall Street sono stati trattati con forse più irritante sufficienza dall’establishment Usa: il pacchetto dei profili Facebook dei “sensibilizzati al movimento” è stato valutato 25 milioni di dollari. E qualche multinazionale delle vendite online o della pubblicità mirata – oltre che le agenzie di intelligence degli Stati Uniti – se l’è certamente comprato.Negli Stati Uniti o in Spagna, prosegue Barontini, gli esecutivi hanno prontamente riconosciuto la legittimità delle preoccupazioni espresse dai manifestanti e hanno dato mostra di ascoltare la piazza. Le proteste non hanno inciso sulle politiche dei governi; piuttosto, hanno cambiato il modo in cui questi comunicano ciò che fanno. Chiaro, no? «Un governo furbo non spiana le proteste popolari a manganellate, ma le “rintontonisce de bucie”. O, come si dice adesso, “cambia la comunicazione”». Il quasi-conflitto di oggi è pressoché innocuo, «molto più “potabile” della guerra rivoluzionaria novecentesca». Chiarisce Krastev: «Oggi, il sistema non interessa quasi più a nessuno. La rivoluzione attuale non è fatta di lettori; gli odierni studenti radicali si preoccupano solo di come essi stessi vivono il sistema, non della sua natura e dei meccanismi che lo governano. Non pensando in termini di gruppi sociali, questi ragazzi hanno un’esperienza comune, ma mancano di un’identità collettiva», in assenza di cultura politica.Riflettendo sulle proteste di São Paulo dell’estate scorsa, il ricercatore brasiliano Pablo Ortellado ha osservato che in tutto il Brasile i manifestanti protestavano sulla scorta di due messaggi simultanei e tra loro contraddittori: “Il governo non ci rappresenta” e “Vogliamo servizi pubblici migliori”. Era una protesta di consumatori radicali, più che di rivoluzionari utopici. Così, quando le condizioni di vita diventano intollerabili, chi oggi protesta «è portato a ritenere che ci sia una “ingiustizia” (dei ladri, una “casta”) che fa funzionare in modo distorto o inefficace un meccanismo altrimenti “buono”», sottolinea “Contropiano”. «I manifestanti sono individui esasperati: amano stare insieme e combattere insieme, ma non hanno un progetto collettivo», sostiene Krastev. «Diffidano delle istituzioni, ma non sono interessati a prendere il potere: sono una miscela tra un desiderio genuino di comunità e un incoercibile individualismo».I manifestanti di oggi, in fondo, si comportano come “consumatori” insoddisfatti. E così, l’arretramento politico dell’attuale società “ribelle” è tale che l’analista dell’Aspen «affonda il coltello nella piaga con autentica gioia», spiegando che «le proteste del XXI secolo somigliano, per alcuni versi, a quelle medioevali», quando le persone «non scendevano in piazza con l’ambizione di rovesciare il re o di sostituirlo con un altro a loro più gradito», ma si limitavano a manifestare «per obbligare il sovrano a fare qualcosa in loro favore, o per impedirgli di far loro del male». L’etica del rigetto può essere radicale e totale, come il rifiuto del capitalismo globale di Occupy Wall Street, oppure modesta e localistica, come le proteste contro la nuova stazione ferroviaria di Stoccarda. «Ma il principio è lo stesso: le proteste possono riuscire o fallire, ma ciò che ne definisce il profilo politico è un generalizzato “no”. Per essere gridato, questo “no” non ha più bisogno di leader o istituzioni: bastano telefonini e social network». Il potere ne ride apertamente, sapendo benissimo come aggirare e manipolare la protesta, mentre il neoliberismo totalitario dell’élite sta mandando in pensione la vecchia democrazia liberale, con elezioni ormai svuotate di senso e Stati senza più sovranità.«Per molti aspetti – chiosa l’analista dell’Aspen – le odierne proteste di massa sono atti in cerca di concetti, pratica senza teoria. Sono l’espressione più plateale della convinzione diffusa che le élite non governino nell’interesse del popolo e che l’elettorato ha perso il controllo sugli eletti». Ma oltre le manifestazioni non si va mai, aggiunge Barontini: «Proteste impolitiche, strumenti organizzativi affidati alla Rete, assenza di identità collettiva e progetto politico, legami reciproci labili… Una contestazione con queste caratteristiche non ha possibilità di mettere in crisi il potere. Basta un cerino di violenza – controllato da una mente politica (posizionata nel satellite iperuranio della finanza globale, per cui conto Krastev scrive) – per “far sciogliere come neve al sole” piazze anche più di grandi di Tahrir, al di là delle buone intenzioni o dell’estrazione sociale di chi le riempie». Nessuno progetta alternative al capitalismo globalizzato. «L’unica cosa di cui abbia timore questo potere è il sempre possibile riaffacciarsi del “comunismo”, il diavolo di San Pietroburgo, il soffio liberatore degli anni ‘60 e ‘70, dal Vietnam al ‘68, dal ‘77 a L’Avana». Krastev alla fine diventa esplicito: le proteste, come le elezioni, servono a tenere il più lontano possibile la rivoluzione, la promessa di un futuro radicalmente diverso. «Il “laureato senza futuro” non è il nuovo proletario», perché «confonde “ideologia” e “visione del mondo”». E il cambiamento continua a non apparire all’orizzonte.Per fortuna le nostre sono proteste senza un vero progetto politico, capace di cambiare le cose e costruire un’alternativa sociale basata sulla giustizia. Lo dichiara l’Aspen Institute, influente think-tank dell’oligarchia mondiale, che in Italia annovera tra i suoi dirigenti personaggi come Enrico Letta e Giulio Tremonti. Finanziato da fondazioni come Rockefeller, Ford e Carnegie Corporation, l’Aspen lavora per «la creazione di un terreno comune di comprensione approfondita in uno scenario non ideologizzato». Originale l’ultimo studio commissionato al bulgaro Ivan Krastev, presidente del “Centro di strategie liberali” di Sofia e tipico esponente di quella “nuova classe dirigente” dell’Est europeo cresciuta a forza di commissioni internazionali, liberismo e “formazione liberale delle leadership”. Lo studio «fornisce lo sguardo dei “padroni del globo” nel trattare le rivolte degli ultimi anni», come se fossimo giunti alla fine di un’epoca fondata sui diritti.