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Archivio del Tag ‘finanza’

  • La premiata macelleria Fmi propone di tagliare le pensioni

    Scritto il 15/10/14 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    «Ottenere risparmi significativi sarebbe difficile senza intervenire sulla grande spesa pensionistica». Parola di Christine Lagarde, la “comare secca” del Fmi. Quando parla la Signora con la Falce, generalmente si mette male – malissimo, in questo caso, per i pensionati italiani, cui sono rivolte le attenzioni della temutissima presidente del Fondo Monetario, che ora “consiglia” al bravo Renzi di accelerare le sue “coraggiose riforme” cominciando proprio da una vigorosa tosatura dell’Inps. Non è la prima volta che il Fmi punta il dito contro gli assegni pensionistici del Belpaese: l’élite tecno-finanziaria non tollera che la spesa sociale sia gonfiata dalle pensioni pubbliche, che del resto fanno “concorrenza” alle assicurazioni pensionistiche private, uno dei maggiori rami del grande business finanziario. Così, dopo gli schiaffoni dell’Ocse, Matteo Renzi deve incassare quelli della super-cupola diretta dalla Lagarde, che ha rivisto al ribasso le stime sul Pil italiano nel 2014, indicando una contrazione dello 0,1%.
    Il sistema-Italia è entrato in agonia dopo Maastricht, con l’adesione all’euro e la conseguente introduzione dell’austerity europea di marca tedesca, che predica il taglio drastico dello Stato. Nonostante ciò,  la Troika – di cui il Fmi è una colonna – propone esattamente la stessa “cura” che sta uccidendo il paziente, ovvero il taglio ulteriore della spesa pubblica, quello che “ammazza” i consumi e quindi l’occupazione, il Pil, il gettito fiscale, la capacità di sostenere l’economia nazionale. Con grande enfasi, i tecnocrati del Fmi fingono addirittura di stupirsi per le dimensioni del disastro, da essi essi progettato e generato con la contrazione progressiva dell’investimento pubblico: si parla apertamente di «rischi che restano ancorati al ribasso» e della «possibilità di stagnazione e bassa inflazione», come riporta il blog “Vox Populi”. «Nell’analisi degli esperti di Washington, la crescita è destinata a rimanere attorno all’1% fino a tutto il 2019: le stime sono infatti per un +1,3% nel 2016, un +1,2% nel 2017, un +1% nel 2018 e un +1% nel 2019. Poi, cattive notizie anche sulla disoccupazione».
    Quest’anno, la mancanza di lavoro salirà ai massimi dal dopoguerra, secondo le previsioni del Fondo Monetario: si arriverà al 12,6% rispetto al 12,2% del 2013. «La disoccupazione, inoltre, per il Fmi è destinata a restare a due cifre fino al 2017». In altre parole quello che abbiamo di fronte è «uno scenario pessimo, che potrebbe anche essere rivisto ulteriormente al ribasso», prima della fine di ottobre: lo ha spiegato senza peli sulla lingua Kenneth Kang, capo della missione annuale del Fmi in Italia. Di fatto non ci sono speranze, perché nessuna forza politica denuncia le cause della catastrofe. Senza un Piano-B, basato sull’unico rimedio possibile – l’interventismo diretto dello Stato, in barba al cappio dell’Ue – il bollettino clinico resterà quello di oggi, nutrito di un lessico che appare sempre più di natura psichiatrica, più che economica. Tutto sta crollando, e ancora si vaneggia di crescita del Pil, anziché dell’occupazione, in un mondo globalizzato nel quale l’Occidente fa sempre più fatica a piazzare le sue merci. L’Europa, poi, non ha più neppure il margine fisiologico di oscillazione della moneta: privatizzata anche quella, dalle stesse “istituzioni” che oggi propongono a Renzi di massacrare i pensionati italiani.

    «Ottenere risparmi significativi sarebbe difficile senza intervenire sulla grande spesa pensionistica». Parola di Christine Lagarde, la “comare secca” del Fmi. Quando parla la Signora con la Falce, generalmente si mette male – malissimo, in questo caso, per i pensionati italiani, cui sono rivolte le attenzioni della temutissima presidente del Fondo Monetario, che ora “consiglia” al bravo Renzi di accelerare le sue “coraggiose riforme” cominciando proprio da una vigorosa tosatura dell’Inps. Non è la prima volta che il Fmi punta il dito contro gli assegni pensionistici del Belpaese: l’élite tecno-finanziaria non tollera che la spesa sociale sia gonfiata dalle pensioni pubbliche, che del resto fanno “concorrenza” alle assicurazioni pensionistiche private, uno dei maggiori rami del grande business finanziario. Così, dopo gli schiaffoni dell’Ocse, Matteo Renzi deve incassare quelli della super-cupola diretta dalla Lagarde, che ha rivisto al ribasso le stime sul Pil italiano nel 2014, indicando una contrazione dello 0,1%.

  • Isis, l’Uomo Nero creato per distrarci dal disastro in arrivo

    Scritto il 15/10/14 • nella Categoria: idee • (24)

    L’Isis? «Sa fare marketing di ciò che rubano», cioè «petrolio, grano e altre materie prime». In più, gli jihadisti “venuti dal nulla” «sanno riciclare denaro, sanno fare show business mediatico come nessun altro». Date un’occhiata alla carta geografica: «Sono piantati come un’erbaccia proprio all’incrocio delle maggiori nazioni egemoni del Medioriente: Siria, Iran, Turchia, Iraq». Sono piazzati esattamente lì, e «destabilizzano tutto e tutti», scrive Paolo Barnard. «Questi predoni, e sono solo predoni, sono stati infiltrati dai servizi Usa-Israele proprio per destabilizzare tutta la politica e il pubblico internazionale nel momento in cui altri problemi stanno precipitando (finanza)». I loro metodi, così feroci e brutali? «Sono troppo lontani dai principi dell’Islam radicale che mi furono raccontati dal capo spirituale di Al-Qaeda di persona», garantisce Barnard, autore del saggio “Perché ci odiano” (Rizzoli) sullo scontro con gli arabi motivato dalla pulizia etnica della Palestina pianificata dal sionismo. I guerriglieri dell’Isis? «Sono troppo ben organizzati per non aver avuto aiuti occidentali».
    La domanda è: perché in vent’anni Al-Qaeda non è mai riuscita a fare quello che l’Isis oggi fa tranquillamente, sotto lo sguardo del mondo? «Bin Laden fu organizzato e finanziato dalla Cia durante tutta l’invasione sovietica dell’Afghanistan, poi fu abbandonato», prende nota Barnard nel suo blog. «Non vi dice qualcosa che Al Qaeda si sia ritrovata senza mezzi e nascosta in piccoli buchi del mondo dopo l’abbandono americano?». Attenzione: la cosiddetta Isis «commercia in “commodities” e lavora con le banche internazionali». Strano, no? «Credete che Isis possa vendere tonnellate di petrolio e grano ed essere pagata in contanti? Valigette di contanti? Camion di contanti? Treni di contanti? Sveglia!». E’ più che ovvio: chi li ha messi in campo, armati fino ai denti, continua a finanziarli e proteggerli. Sono il “nemico” perfetto, per una guerra che oggi si spera sia lunga, abbastanza lunga da oscurare, mediaticamente, le grane in arrivo, di ben altro genere.
    «I soliti predoni funzionali a distrarre l’Occidente», conclude Barnard. «L’ho scritto anni fa: si chiama “la Politica della Paura”. Isis, Ebola, oddio! Tu non pensare che due direttive Ue e una riunione della Fed ci faranno perdere 1 milione di posti di lavoro nei prossimi due anni. Isis…. Buuuuuu! L’uomo nero!». Chiaro, adesso, perché l’Isis si è incuneata nel cuore del Medio Oriente proprio ora? Alcuni osservatori scrissero osservazioni analoghe alla vigilia delle drammatiche tensioni con la Russia in Ucraina: un pretesto per minacciare la Cina scuotendo Mosca, il grande forziere energetico, ma soprattutto un pretesto per alzare i toni e invadere i media con notizie fabbricate, lontane dalla crisi occidentale. Ucraina, Isis, Ebola. Geopolitica e psicosi, “armi di distrazione di massa”. Seguite i soldi, consiglia Barnard, e scoprirete che la strada insanguinata dell’Isis non porta verso la Mecca, ma dalle parti di Wall Street e della Casa Bianca.

    L’Isis? «Sa fare marketing di ciò che rubano», cioè «petrolio, grano e altre materie prime». In più, gli jihadisti “venuti dal nulla” «sanno riciclare denaro, sanno fare show business mediatico come nessun altro». Date un’occhiata alla carta geografica: «Sono piantati come un’erbaccia proprio all’incrocio delle maggiori nazioni egemoni del Medioriente: Siria, Iran, Turchia, Iraq». Sono piazzati esattamente lì, e «destabilizzano tutto e tutti», scrive Paolo Barnard. «Questi predoni, e sono solo predoni, sono stati infiltrati dai servizi Usa-Israele proprio per destabilizzare tutta la politica e il pubblico internazionale nel momento in cui altri problemi stanno precipitando (finanza)». I loro metodi, così feroci e brutali? «Sono troppo lontani dai principi dell’Islam radicale che mi furono raccontati dal capo spirituale di Al-Qaeda di persona», garantisce Barnard, autore del saggio “Perché ci odiano” (Rizzoli) sullo scontro con gli arabi motivato dalla pulizia etnica della Palestina pianificata dal sionismo. I guerriglieri dell’Isis? «Sono troppo ben organizzati per non aver avuto aiuti occidentali».

  • La guerra che nessuno voleva, proprio come nel 1914

    Scritto il 12/10/14 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Un secolo è trascorso dalla Prima Guerra Mondiale, quella che alcuni definiscono la Grande Guerra e ancora pochi qualificano come dovrebbe: il grande massacro dei popoli europei. Per il grande storico Eric Hobsbawn è stata l’inizio del Secolo Breve. Per noi è stata la fine della Belle Epoqe, cioè della prima grande globalizzazione capitalista del pianeta che si concluse proprio con la guerra mondiale del 1914-18. Eppure, anche alla luce della retorica che imperversa in Europa, è difficile guardare alla Prima Guera Mondiale solo come passato, come fatto storico. La realtà di oggi ci consegna innumerevoli segnali che confermano che, se è vero che la storia non si ripete, “a volte fa rima”, come scrisse Mark Twain. La Prima Guerra Mondiale, in Europa, fu scatenata quasi per sbaglio da imperi e potenze riluttanti a scannarsi fra loro. Avrebbero preferito che si combattesse solo nelle colonie, lontano dai confini o dalle città europee ma la pallina sul piano inclinato prese la corsa e non si fermò più fino a quando non cominciarono le cannonate sui confini europei.
    Eppure il XX Secolo era cominciato alla grande per le maggiori potenze imperialiste dell’epoca. Tutte insieme (praticamente le stesse che compongono oggi il G8, escluso il Canada) mandarono i loro soldati a reprimere la rivolta dei Boxer in Cina nel 1900. Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Russia, Italia e Giappone si spartirono le spoglie della Cina alle prese con il declino dell’impero. Porti, concessioni commerciali, ferrovie, terre arricchirono il bottino dei grandi gruppi capitalisti europei e statunitensi che vivevano con euforia la fase di sviluppo imperialista. Il mercati mondiali erano a loro completa disposizione attraverso le colonie, i protettorati, le “concessioni per 99 anni” di snodi commerciali e geografici strategici.
    Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento la corsa alle colonie era stata impetuosa. Oltre all’espansione delle colonie di Francia e Gran Bretagna in Africa e Asia, perfino un piccolo paese come il Belgio si era pappato come colonia un gigantesco paese africano ricco di miniere come il Congo. La Spagna aveva messo le mani sul Marocco spartendoselo con la Francia. E l’Italietta si era fatta avanti nel Corno d’Africa e poi in Libia, prendendosi le colonie che alimentarono la mistificazione dell’Impero. In Asia i britannici spodestavano definitivamente gli olandesi, mentre la Russia zarista e il Giappone, potenza emergente, già nel 1905 si scannarono per prendersi la Corea. Ma in Africa i britannici prima si erano presi le terre sudafricane dei coloni olandesi (i Boeri) e poi avevano cominciato a contrastare l’invadenza delle colonie tedesche. Il Kaiser la vedeva lunga e nella famosa ferrovia che doveva portare da Baghdad all’Arabia Saudita, l’imperialismo tedesco si proiettava in Medio Oriente attraverso quello che – all’epoca – era l’indicatore dello sviluppo capitalistico: i chilometri di ferrovie.
    La Belle Epoqe vedeva le Borse crescere, i profitti aumentare e il capitale finanziario prendere solidamente nelle proprie mani il controllo su quello legato all’industria e all’agricoltura. Le colonie fornivano materie prime a prezzi stracciati e, ospitando gli investimenti occidentali, consentivano a loro volta una valorizzazione dei capitali investiti con ritorni stellari. Ma la Belle Epoqe della prima globalizzazione capitalista del mondo a un certo punto è finita, ha dovuto fare i conti con la crisi e il crollo della valorizzazione dei capitali investiti, e il piano inclinato che ha portato alla guerra ha visto la pallina cominciare a muoversi, prima lentamente poi più velocemente. Come è noto le maggiori potenze imperialiste non volevano combattersi apertamente. Nella peggiore delle ipotesi concordavano nello spartirsi le spoglie del declinante impero ottomano in Medio Oriente o nel ridefinire i confini sulle loro colonie africane.
    Le loro economie erano integrate. I magnati francesi, tedeschi, inglesi, austriaci e russi commerciavano, collaboravano o competevano dentro il “libero mercato”. Le dinastie che reggevano monarchie e imperi europei erano imparentate tra loro. Si incontravano ai matrimoni e agli anniversari e bevevano gli stessi champagne. L’accaparramento delle colonie e delle risorse avrebbe dovuto bastare a soddisfare gli appetiti di tutti. Ma gli avvenimenti presero una piega che nessuno voleva. L’attentato di Sarajevo da parte di un indipendentista serbo – Gavrilo Princip – contro il Granduca d’Austria Ferdinando non aveva di per sé la forza di un casus belli adeguato a scatenare una grande guerra totale. Eppure la rottura era lì a un passo. Le false e vere notizie sulle mobilitazioni di truppe sui confini europei dell’est e dell’ovest innescavano contromisure e contromanovre reciproche. I ministri furono via via sostituiti dai “tecnici” (in questo caso i militari). Le previsioni su costi e benefici passarono dalla lunghezza delle ferrovie o degli investimenti a quelli bellici.
    Le alleanze tra le varie potenze cambiavano di geometria. L’Italia stava con Austria e Germania, ma nel 1915 entrò in guerra insieme a Francia e Gran Bretagna contro i suoi ex alleati. In un certo senso ebbe una grande responsabilità nello scoppio della guerra a causa dell’invasione della Libia nel 1911 a danno dell’impero ottomano. L’avventurismo e le scommesse sulle mancate o parziali reazioni a questa o quella provocazione – come l’invasione della Serbia da parte dell’Austria o l’invasione della Libia tre anni prima – alzarono la soglia della tensione e dei fatti compiuti dai quali diventava poi difficile recedere senza perdere faccia e prestigio. La posizione più difficile era quella dell’imperialismo maggiore ma avviato al declino: la Gran Bretagna.
    La guerra che nessuno voleva fare cominciò ufficialmente nel 1914 e si concluse – di fatto – nel 1945. Il capitalismo arrivato alla sua fase suprema, l’imperialismo, non aveva trovato altra soluzione alla sua crisi iniziata con la fine della globalizzazione della Belle Epoqe ed esplosa con la Grande Crisi degli anni Trenta. Fu un evento scatenante della storia che ne innescò un altro, per noi di estrema importanza, la Rivoluzione d’Ottobre e la nascita del primo Stato socialista del mondo. Ma i dirigenti che resero possibile il socialismo non commisero affatto l’errore di schierarsi con l’una o l’altra potenza in campo, anzi dichiararono apertamente “guerra alla guerra” denunciandone il carattere imperialista e la natura di grande massacro dei popoli.
    Fin qui la storia. Ma questo scenario del passato è già domani. Gli apprendisti stregoni dell’imperialismo – statunitense ed europeo soprattutto – hanno nuovamente inclinato il piano già nei primissimi anni di questo XXI Secolo. Lo scenario di guerre, instabilità, provocazioni, escalation che dall’Ucraina al Medio Oriente all’Africa circonda l’Europa, è strettamente connesso alla crisi, alla fine della seconda globalizzazione capitalista del pianeta e alla ripresa della competizione globale tra poli imperialisti e nuove potenze capitaliste, declinanti o emergenti che siano. L’epoca delle facili guerre asimmetriche contro Stati immensamente più deboli sta finendo. Prima se ne prende coscienza, si avvia la mobilitazione per fermare la tendenza alla guerra e si mettono in campo alternative, meglio è.
    (Sergio Cararo, “Le guerra degli imperi riluttanti”, da pubblicato da “Contropiano” il 17 settembre 2014, alla vigilia della conferenza organizzata a Roma dalla Rete dei Comunisti, con Giuseppe Aragno, Giorgio Gattei e Mauro Casadio, quest’ultimo coautore di “Clash. Scontro tra potenze”, scritto dieci anni fa insieme a James Petras e Luciano Vasapollo: un libro che ha anticipato di molto gli scenari che abbiamo oggi sotto gli occhi).

    Un secolo è trascorso dalla Prima Guerra Mondiale, quella che alcuni definiscono la Grande Guerra e ancora pochi qualificano come dovrebbe: il grande massacro dei popoli europei. Per il grande storico Eric Hobsbawn è stata l’inizio del Secolo Breve. Per noi è stata la fine della Belle Epoqe, cioè della prima grande globalizzazione capitalista del pianeta che si concluse proprio con la guerra mondiale del 1914-18. Eppure, anche alla luce della retorica che imperversa in Europa, è difficile guardare alla Prima Guera Mondiale solo come passato, come fatto storico. La realtà di oggi ci consegna innumerevoli segnali che confermano che, se è vero che la storia non si ripete, “a volte fa rima”, come scrisse Mark Twain. La Prima Guerra Mondiale, in Europa, fu scatenata quasi per sbaglio da imperi e potenze riluttanti a scannarsi fra loro. Avrebbero preferito che si combattesse solo nelle colonie, lontano dai confini o dalle città europee ma la pallina sul piano inclinato prese la corsa e non si fermò più fino a quando non cominciarono le cannonate sui confini europei.

  • Quella serenità di trent’anni fa, quando non c’era paura

    Scritto il 10/10/14 • nella Categoria: idee • (3)

    Fa un certo effetto pensare a 30 anni addietro. Perché di 30 addietro ho memoria storica personale e ricordi vividi. Quando leggo di serie storiche, di anni Cinquanta e Sessanta, posso solo studiarne i dati e immaginare. Ma il comunicato di Confcommercio della settimana scorsa non lascia scampo: «I redditi delle famiglie sono tornati indietro di 30 anni». Io quei tempi me li ricordo. Io c’ero. I redditi di mio padre e di mia madre me li ricordo eccome. E mi ricordo come vivevamo proprio dal punto di vista economico.  Giornalista mio padre, impiegata mia madre, io decenne e mio fratello poco più piccolo in casa e altri due figli di una vita precedente di mio padre che però non vivevano con noi. Il reddito di allora. Il reddito dei miei. Il nostro “tenore di vita” (economico) e quello etico e morale. E me: cosa facevo? Cosa consumavo? Cosa mi mancava? Impossibile non fare confronti con oggi. Oggi che siamo quarantenni noi come allora lo erano i nostri genitori.
    Oggi, quasi all’indomani dell’apertura della scatola nera dei ricordi e degli oggetti svuotati dalla casa avita ormai disabitata per la morte dei miei e per la necessità ereditaria di doverla vendere. Giravano solo cari fantasmi ormai in quelle stanze e in quei corridoi, in quei disimpegni spariti dalle case moderne eppure così utili, così intimi, così indispensabili, così importanti. Fantasmi dei miei genitori e di me e mio fratello piccoli, di mia nonna, del nostro cane. E quei ricordi di come vivevamo allora di cui quasi sento ancora gli odori, i rumori, i ritmi e le consuetudini. Con il reddito dei miei di allora avevamo un appartamento a Roma, in un quartiere ancora vivibile, dove i negozianti ci conoscevano ad uno ad uno. Dove andavo “da Remo” ogni pomeriggio, tornando da scuola da solo, e prendevo un pezzo di pizza che poi mia madre passava a pagare. Dove ci portavano ancora il vino a casa con le damigiane e dove Taraddei, il pizzicarolo dietro l’angolo, un giorno mi accompagnò sin dietro la porta di casa, sul pianerottolo, per riconsegnarmi a mia madre dopo che mi ero acceso come un fiammifero strusciando sull’asfalto in seguito a una curva ardita sulla mia bicicletta rossa.
    Ora i palazzi di quel quartiere hanno appartamenti con dei confortevoli affacci vista traffico, smog e rumore h24. Roba da cui scappare, dunque. Ma allora era diverso. Torniamo ai consumi e imponiamoci di non divagare oltre. Una famiglia, dunque, un appartamento al quale poi si sarebbe aggiunto un piccolo villino fuori Roma, sul Lago di Bracciano per trascorrervi i mesi estivi – i mesi estivi, non i quindici giorni comandati di oggi – una Renault 4 bianca che ho detestato fino al compimento dei 18 anni e poi invece adorata per tanti motivi… Ma soprattutto una cosa: la certezza, nei miei genitori e dunque fatalmente trasferita inconsciamente anche a noi figli, di una vita serena. Limitata all’interno del possibile e dell’impossibile di quella condizione di allora, ma senza alcuna paura di precipitare. I nostri genitori allora riuscivano anche a risparmiare. Io allora e negli anni seguenti, e almeno sino ai vent’anni, non ho mai sentito la pesantezza di qualche mancanza grave. Poi il consumo della società prese a salire vertiginosamente. Per quasi tutti. E chi non si adeguava, in qualche modo, si sentiva automaticamente lasciato indietro. E dunque qualche azzardo personale, a rate. E dunque qualche preoccupazione. Qualche capitombolo. Qualche notte non proprio serena.
    Per tornare a quello stato di serenità provato anni prima, di consapevolezza di non aver bisogno d’altro, di non sentirne proprio l’esigenza, e dopo essere passati per le forche caudine degli orribili anni Ottanta e Novanta, quelli del consumo folle, c’è voluto almeno un altro decennio e qualche migliaio di libri letti. Una crisi economica colta e aspettata sin da prima che iniziasse sul serio e la volontà di abbracciare la decrescita fatale che ne è scaturita con la consapevolezza della maturità raggiunta, delle convinzioni acquisite. Un processo lungo, dunque. E in continuo aggiornamento. A ogni rinuncia, a ogni step di decrescita, un ulteriore passo verso la serenità. Ma che fatica, soprattutto all’inizio. Fatica del cambiamento. Malgrado aver interiorizzato il tutto, la trasformazione ha richiesto – e  richiede – impegno. Una lotta senza quartiere contro le abitudini incrostateci addosso.Voglio dire: in realtà oggi abbiamo infinitamente meno di allora, di 30 anni fa. Non di oggetti, naturalmente, di cui siamo pieni. Ma di speranze per il futuro.
    La privazione di allora era per qualche capriccio che non potevamo permetterci – e che a casa mia ci negavamo sino al momento in cui non vi fossero effettivamente stati i denari necessari per eventualmente acquistarlo. La privazione di oggi è in quella serenità che ci è stata sottratta. Allora dovevamo combattere per convincerci a rinunciare a qualche cosa, e magari risparmiare per continuare ad avere quella certezza di riuscire a vivere senza affanni all’interno di quei limiti ben precisi. Oggi si deve lavorare su se stessi per attraversare il guado che la nostra generazione ha davanti, dal mondo come era indirizzato negli ultimi vent’anni a quello che sarà. Per sopportare queste incertezze che abbiamo davanti. Insomma: con il reddito di allora ho la netta sensazione si vivesse meglio, nel senso più ampio della parola, rispetto a come si viveva con il reddito di una decina d’anni fa, nel periodo pre-crisi, per intenderci.
    Certo oggi, con un reddito come quello di trenta anni addietro, si vive molto peggio, perché ciò che allora era assicurato, con quel reddito, è ora invece avvicinabile solo con affanno, visto che i servizi dello Stato sono meno e i beni primari costano molto di più. Ma è negli anni prima del 2008 che si è compiuto il dramma. Perché in quella moltiplicazione di beni e servizi in vendita in comode rate è cambiata la nostra capacità di resilienza alla vita. È cambiata la nostra capacità di capire cosa serve e cosa no, cosa è più importante e cosa lo è meno. La sfida personale di oggi – oltre alle battaglie che è necessario combattere contro i titani della finanza e della speculazione – risiede dunque nel ritrovare gli equilibri interni che ci consentano di riprendere contatto con la realtà di cosa ci serve sul serio. Di ciò di cui possiamo fare tranquillamente – tranquillamente! – a meno, e che dunque non vale un solo minuto della nostra serenità perduta onde poterlo raggiungere. E di ciò che invece, certo, ci è sul serio indispensabile.
    Ma per trovare quella serenità interiore di trenta anni addietro serve un lavoro mostruoso su se stessi, che è possibile iniziare, peraltro, solo dopo il momento in cui ci si convince intimamente che quel mondo non tornerà. Che è meglio sia così. E che ci si deve iniziare a inventare “come vivere” in un mondo completamente differente. Chi aspetta unicamente che le cose tornino a girare come prima non solo è un ingenuo, perché va incontro immancabilmente a una delusione feroce, ma è spacciato, perché non riuscirà mai più a trovare un vero equilibrio. La nostra generazione deve abbracciare questo cambiamento e deve imparare ad apprezzarlo, sin quasi ad amarlo, per plasmare un nuovo modo di vivere che sia degno di essere vissuto. Fare altrimenti è condannarsi alle delusioni, alle paranoie, alle ansie. È condannarsi a non voler più vivere.
    (Valerio Lo Monaco, “Quella serenità di 30 anni fa”, da “Il Ribelle” del 17 settembre 2014).

    Fa un certo effetto pensare a 30 anni addietro. Perché di 30 addietro ho memoria storica personale e ricordi vividi. Quando leggo di serie storiche, di anni Cinquanta e Sessanta, posso solo studiarne i dati e immaginare. Ma il comunicato di Confcommercio della settimana scorsa non lascia scampo: «I redditi delle famiglie sono tornati indietro di 30 anni». Io quei tempi me li ricordo. Io c’ero. I redditi di mio padre e di mia madre me li ricordo eccome. E mi ricordo come vivevamo proprio dal punto di vista economico.  Giornalista mio padre, impiegata mia madre, io decenne e mio fratello poco più piccolo in casa e altri due figli di una vita precedente di mio padre che però non vivevano con noi. Il reddito di allora. Il reddito dei miei. Il nostro “tenore di vita” (economico) e quello etico e morale. E me: cosa facevo? Cosa consumavo? Cosa mi mancava? Impossibile non fare confronti con oggi. Oggi che siamo quarantenni noi come allora lo erano i nostri genitori.

  • Ieri Silvio e oggi Matteo, stesso film: colpire i lavoratori

    Scritto il 09/10/14 • nella Categoria: idee • (1)

    Vale la pena di riguardare il video nel quale Matteo Renzi aggredisce il sindacato italiano. Il vero talento del nostro premier è riuscire a tradurre, in maniera brillante, in pseudo-linguaggio televisivo e pubblicitario lo pseudo-pensiero neoliberista e padronale sui diritti dei lavoratori. Lo spartito è sempre il medesimo: se “Marta, 28 anni” (ecco lo pseudo-linguaggio) non trova tutele per la sua maternità, è per colpa delle sue amiche dipendenti pubbliche (ed ecco lo pseudo-pensiero). Chi non ha garanzie e diritti può prendersela con chi ancora ne ha qualcuno, la disoccupazione è responsabilità del sindacato, e così via. È un messaggio volto a rinfocolare l’odio di tutti contro tutti, e che trova terreno fertile nelle menti devastate del grande pubblico televisivo. Sbaglia chi vede qualcosa di nuovo o repentino nell’atteggiamento di Renzi: egli ripete queste cose da quando è salito sul palcoscenico, qualche anno fa. La sua è una aggressività coerente, e per nulla inaspettata.
    Il sindacato, dopo anni di compromessi, moderazione, ritirate strategiche (cioè fatte di corsa), inchini e salamalecchi, si trova sotto il fuoco del capo del suo partito di riferimento. La tattica della limitazione del danno ha fatto sì che il danno si ingigantisse. Se non ci fossero di mezzo anche i nostri diritti verrebbe da dire “ben vi sta!”. Fioriscono le analogie tra Renzi e Berlusconi, di cui avevamo discusso poco tempo fa. La loro missione era ed è giungere alla totale sottomissione del lavoro italiano alle ragioni della crescita e del capitale. Nel 2011, con il pieno accordo delle istituzioni europee, Berlusconi tentò un attacco in grande stile nei confronti del lavoro italiano (vedi “Lettera della Bce”). Fallì, e fu sostituito (non che lui non fosse d’accordo). Al suo posto venne Monti, e riuscì a sferrare colpi durissimi a quanto rimaneva del “welfare state” di questo paese. Fu una specie di Trojka fatta in casa.
    Se Renzi fallirà, se le residue forze del lavoro riusciranno a opporsi all’azione distruttrice del suo governo, è bene tenere presente il fiorentino “farà la fine” del suo predecessore: verrà semplicemente sostituito. Chi ha ancora intenzione di lottare dovrà dunque tenere fermo questo punto: quello cui assistiamo è solo il primo assalto. Alle spalle del ceto politico e del capitale italiano si staglia l’ombra del ceto politico e del capitale europeo. Esattamente come nel 2011. Naturalmente ci sono delle differenze. Il Renzi di oggi è molto più forte del Berlusconi del 2011; e il pretesto dell’emergenza-spread in questo momento non sussiste. Ma dal punto di vista dei lavoratori la situazione non è poi molto diversa: il primo assalto del 2014 sarà semplicemente più violento di quello del 2011, e sarà accompagnato da una propaganda ancora più fittizia e evanescente. Ciò che conta è non ripetere gli errori del passato, non concentrarsi troppo, non demonizzare la figura di Renzi come si è fatto con quella di Berlusconi. L’uno come l’altro rappresentano solo il primo assalto. È sulla resistenza al secondo che si decide il nostro futuro.
    (“Matteo Renzi farà la fine di Berlusconi?”, dal blog “Il-main-stream” del 20 settembre 2014).

    Vale la pena di riguardare il video nel quale Matteo Renzi aggredisce il sindacato italiano. Il vero talento del nostro premier è riuscire a tradurre, in maniera brillante, in pseudo-linguaggio televisivo e pubblicitario lo pseudo-pensiero neoliberista e padronale sui diritti dei lavoratori. Lo spartito è sempre il medesimo: se “Marta, 28 anni” (ecco lo pseudo-linguaggio) non trova tutele per la sua maternità, è per colpa delle sue amiche dipendenti pubbliche (ed ecco lo pseudo-pensiero). Chi non ha garanzie e diritti può prendersela con chi ancora ne ha qualcuno, la disoccupazione è responsabilità del sindacato, e così via. È un messaggio volto a rinfocolare l’odio di tutti contro tutti, e che trova terreno fertile nelle menti devastate del grande pubblico televisivo. Sbaglia chi vede qualcosa di nuovo o repentino nell’atteggiamento di Renzi: egli ripete queste cose da quando è salito sul palcoscenico, qualche anno fa. La sua è una aggressività coerente, e per nulla inaspettata.

  • Hollande molla la Merkel solo per vendere la Francia al Ttip

    Scritto il 09/10/14 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Hollande in rotta di collisione con l’austerity della Merkel? Per certi versi, avverte Piero Pagliani, è la riesumazione di alcune delle idee con le quali il socialista francese approdò all’Eliseo nel 2012. «All’epoca erano più o meno confezionate così: nei vincoli europei non deve essere conteggiata quella parte di deficit che serve a rilanciare lo sviluppo». Un programma «tenuto in sonno per due anni, nonostante la situazione economica in Francia peggiorasse in termini esponenziali». Ora, evidentemente, qualcosa è cambiato: «Gli Usa stanno stringendo i tempi della deglobalizzazione conflittuale. Il golpe nazista a Kiev ha contribuito a isolare la Ue, e in primis la Germania, dalla Russia». La Francia? «Interpreta con fedeltà la politica statunitense: i tempi di De Gaulle ormai appartengono ad altre epoche geologiche». Sicché, François Hollande «si è lanciato con entusiasmo nella tragica messa in scena della guerra all’Isis». E tutte le cancellerie europee sanno che «sta iniziando una nuova fase della crisi mondiale, che sarà condotta con feroci attacchi militari alla Siria (quindi alla Russia) con la scusa dell’Isis».
    Lo ha appena ammesso anche il principe Saud bin Faysal, ministro degli esteri saudita. Si attendono anche «atti di destabilizzazione in territorio russo», mentre quelli in Cina «sono già iniziati a tenaglia». Era difficile prevederlo? Proprio per nulla, scrive Pagliani su “Megachip”, ricordando il suo romanzo “Il punto fisso” (Mimesis), che prevedeva «l’inizio della deglobalizzazione». Dunque Hollande si agita e la Merkel sta a guardare perplessa e preoccupata? «La Germania è entrata in difficoltà e fa fatica a mantenere la barra europea di una politica di austerity. Dapprima le risultava vantaggiosa, ma ha infine iniziato a segare l’albero su cui era seduta, come era facilmente prevedibile». Lezione: «La sua strategia di resistere ai piani imperial-finanziari anglosassoni per via economico-finanziaria era destinata a fallire dopo aver procurato disastri politici, economici, sociali e umani impressionanti». Infine, «ci sono le difficoltà, più che ovvie, di tutti i governanti europei, che straparlano di nuovo sviluppo e di “riforme” (leggi “massacri sociali”)». In realtà «cercano, letteralmente, di barcamenarsi per non finire troppo presto nella pattumiera della storia, loro inevitabile destinazione».
    Di fronte alle nuove insofferenze di Hollande, secondo Pagliani, le «basi missilistiche finanziarie di New York» reagiranno «solo quanto basta per estorcere le “riforme”», dopodiché «Renzi seguirà Hollande e infine Draghi porterà gli affondi finali contro la Germania». Vero obiettivo? Confluire, docili, sotto l’ala del Ttip, il Trattato Transatlantico negoziato in segreto dalle multinazionali Usa per riscrivere le regole del business con l’Europa secondo gli interessi atlantici. «Lo “Sblocca Italia” anticipa le richieste del Ttip». Esito inevitabile, «a meno che intervengano i Brics con mosse finanziarie oggi difficili da prevedere». Da Monti in poi, passando per Draghi, Hollande e Obama, secondo Pagliani è stata condotta una “fronda” anti-tedesca «paradossalmente sotto la bandiera dell’austerity stessa». Infatti, quel conflitto «non escludeva l’utilizzo della crisi per “normalizzare” la società (una strategia che a Monti è sempre stata a cuore), cioè appiattirla in vista del disperato e disperante tentativo di estrarre tutto il plusvalore possibile e saccheggiare i beni comuni».
    Ora la sinistra esulta per la “ribellione” all’austerità e indica il “socialista” Hollande come esempio positivo, colui che ha avuto il coraggio di dire di no? Sarà solo «una vera e propria “rivoluzione colorata” anti-austerity e anti-tedesca, quel tipo di rivoluzione che più eccita le sinistre, incuranti dei “forti” che stanno dietro di esse». E il resto del mondo – cioè i sei miliardi su sette? «I paesi Brics, al contrario della Germania, hanno invece capito che possono parlare di Nuova Banca di Sviluppo e magari di Bancor (la soluzione per la moneta internazionale proposta da Keynes a Bretton Woods e rifiutata per questioni di potenza dagli Usa) solo se si è muniti adeguatamente di forze armate e di bombe atomiche. Questa è l’orrenda verità». D’altra, continua Pagliani, parte il “gold dollar standard” era nato da una guerra mondiale ed è stato confermato da due città incenerite dalle bombe atomiche, «che del gold-dollar standard sono state l’ostia della prima comunione: poi c’è chi crede che l’economia sia l’unica cosa che conti nel capitalismo!». Sempre secondo Pagliani, «l’imbelle rivoluzione colorata contro l’austerity imposta dalla Germania ha come scopo non unico, ma principale, quello di passare da un parziale a un totale infeudamento della Ue nelle politiche neoimperiali e di deglobalizzazione statunitensi».
    Le politiche di austerità sono un disastro? Certo, «ma è anche un disastro pensare che politiche “keynesiane” sic et simpliciter riportino all’age d’or del Dopoguerra». Non sarà così: «La Bce che compra titoli di Stato non è la Banca d’Italia degli anni Cinquanta che compra il debito italiano. E neppure se lo facesse oggi una rinata Banca d’Italia. Nemmeno lontanamente. Non sarebbe più una politica monetaria dopo un conflitto mondiale, all’ombra di una stabilità imperiale, in una fase di enorme espansione in presenza di un fortissimo movimento operaio. Sarebbe – ammesso che si possa realizzare – una politica obbligata da uno stato incipiente di guerra e nel pieno di una crisi e di un caos sistemici. Una politica dovuta al fatto che i mercati stanno dividendosi in aree geopolitico-economiche contrapposte». I profitti di una volta? «Semplicemente non ci sono più», perché ormai la coperta si è accorciata. La Germania? «E’ contraria alle linee di Draghi. Ma fino a quando si potrà opporre se sarà costretta ad adeguarsi agli embarghi e le sanzioni contro l’Est che le imporrà la Superpotenza che la occupa con 179 basi militari? Senza mercati di sbocco, che fine farà il suo famoso e famigerato mercantilismo?».
    Il timore di Pagliani è che la politica keynesiana, «che in molti, con speranza, vedono profilarsi all’orizzonte», di fatto «non sarà capace di riportare indietro le lancette della storia». Ovvero: «Non sarà in grado né di fermare l’impoverimento della società né di indurre un ribilanciamento della ricchezza». Dalla tragedia dell’euro, per esempio, ci si può affrancare «solo in una cornice politica nazionale e internazionale totalmente nuova». Previsioni: crisi nera, ancora e sempre, magari intrerrotta da «ripresine a singhiozzo», incapaci di invertire la rotta. «Se nuovo sviluppo capitalistico ci sarà in Occidente, ci sarà solo dopo una fase conclamata di guerra mondiale che inevitabilmente ne preparerà una quarta, a meno che non riduca fin da subito la Terra all’età della pietra», conclude Pagliani. «Oppure bisognerà cambiare registro, a livello internazionale: sul modo sociale ed ecologico di produrre e di consumare e quindi – e soprattutto – sui rapporti di potere, internazionali e nazionali».

    Hollande in rotta di collisione con l’austerity della Merkel? Per certi versi, avverte Piero Pagliani, è la riesumazione di alcune delle idee con le quali il socialista francese approdò all’Eliseo nel 2012. «All’epoca erano più o meno confezionate così: nei vincoli europei non deve essere conteggiata quella parte di deficit che serve a rilanciare lo sviluppo». Un programma «tenuto in sonno per due anni, nonostante la situazione economica in Francia peggiorasse in termini esponenziali». Ora, evidentemente, qualcosa è cambiato: «Gli Usa stanno stringendo i tempi della deglobalizzazione conflittuale. Il golpe nazista a Kiev ha contribuito a isolare la Ue, e in primis la Germania, dalla Russia». La Francia? «Interpreta con fedeltà la politica statunitense: i tempi di De Gaulle ormai appartengono ad altre epoche geologiche». Sicché, François Hollande «si è lanciato con entusiasmo nella tragica messa in scena della guerra all’Isis». E tutte le cancellerie europee sanno che «sta iniziando una nuova fase della crisi mondiale, che sarà condotta con feroci attacchi militari alla Siria (quindi alla Russia) con la scusa dell’Isis».

  • Ciao America, in 13 anni da Washington soltanto disastri

    Scritto il 08/10/14 • nella Categoria: idee • (1)

    Il declino degli Stati Uniti sta ormai galoppando, anche se i media raccontano che l’America avrebbe ritrovato salute economica e fiorente mercato del lavoro. Dicono anche che gli Usa si siano dotati di un futuro energetico veramente roseo e che continuino a essere un modello per l’Europa e per il mondo. Certo, gli indici di Borsa sono alle stelle, ma questo non significa che una società e un’economia siano uscite dalla crisi: il record, si legge su “Leap 2020”, è l’effetto della politica monetaria dei “soldi facili” praticata dalla Fed, mentre gli investitori «non trovano altri investimenti che non siano quelli sui sopravvalutati titoli azionari e sull’ingannevole finanza innovativa». L’America? E’ in bilico: «La smisurata arroganza di una nazione che considera se stessa “il paese di Dio”, la “numero uno” su tutte le cose di questo mondo, l’araldo di tutti i valori dell’umanità, sta spingendo gli Stati Uniti verso un abisso». Lo conferma la geopolitica: caos totale in Medio Oriente, dopo 13 anni di impegno militare diretto. Per non parlare della folla sfida lanciata alla Russia in Ucraina.
    La crisi ucraina, continua “Leap 2020”, ha le sue radici nella politica americana basata sul “contenimento della Russia”, che risale a un telegramma inviato da George Kennan, ambasciatore a Mosca, il 22 febbraio 1946. Kennan esprimeva la convinzione che, sul lungo termine, la pace con la Russia sarebbe stata impossibile, perché quel paese stava ancora cercando di ampliare la sua sfera d’influenza. Ora, «sarebbe profondamente preoccupante se chi è al potere a Washington non fosse in grado di cogliere la differenza tra l’Unione Sovietica sotto Stalin e la Russia di oggi sotto Putin», sopravvissuta al crollo dell’Urss e alle amputazioni territoriali, strategiche e demografiche. Inoltre, l’economia di Mosca «fu notevolmente compromessa dal programma “riformatore” del Fmi ispirato dagli Stati Uniti, che le fece perdere gran parte della sua ricchezza nazionale, con le famigerate privatizzazioni riservate alla nascente “classe degli oligarchi”». Oggi la Russia è circondata, «sia dall’alleanza militare avversa (la Nato, che si era fortemente ampliata) che dal blocco economico europeo, presente finanche all’interno del suo stesso ex territorio, il Baltico».
    L’obiettivo del “contenimento” in versione 2014 è legato essenzialmente a motivazioni di tipo economico: «L’aspirazione dei funzionari americani è quella di aprire l’Ucraina ai prodotti americani, di impossessarsi del suo immenso patrimonio agricolo (la speculazione si sta gettando sul settore alimentare) e delle sue grandi società, e di aprire infine il mercato energetico europeo al gas ed al petrolio di scisto americano». Ma gli Usa, sostiene “Leap 2020”, non dispongono neppure dei mezzi militari per un confronto con Putin. E scontano ancora tutti i fallimenti a catena degli ultimi 13 anni: «L’Afghanistan continua a essere destabilizzato ed è ancora il primo produttore di oppio al mondo, in Iraq l’autorità del governo centrale è implosa, mentre in Siria la lotta contro il dittatore Assad (che è ancora al potere) ha generato un nemico ancor più feroce, l’Isis». Morale: «Tutto ciò a cui i funzionari americani hanno dato inizio, negli ultimi tredici anni, si è trasformato in un disastro». E il conto è salato: da 4 a 6 miliardi di dollari, secondo gli analisti di Harvard, solo nel 2014.
    «Ormai da molti anni gli Stati Uniti non sono più la superpotenza in grado di risolvere qualsiasi problema attraverso una campagna militare», sostiene “Leap 2020”. «La causa è da ricercare innanzitutto nello squilibrio tra ambizione e sforzo, e subito dopo nella mancanza di risorse: e visto che il potere globale degli Stati Uniti è stato costruito sul potere militare, questo paese è ormai solo l’ombra di quello che era stato». Non è sorprendente, quindi, che il governo americano abbia riscoperto l’utilità della Nato per muovere le sue pedine in Ucraina: «Ha messo in atto un’enorme pressione sui governi dei paesi membri, perché essi aumentino il loro budget militare, ma l’esito è stato abbastanza incerto». L’obiettivo di effettuare nuove spese militari per un importo pari al 2% del Pil di ogni singolo paese, in effetti, è stato spalmato su un periodo che arriva fino al 2024. La Germania, inoltre, ha ulteriormente ridimensionato il proprio impegno. E la decisione di creare una forza d’attacco rapido, composta da 3.000-5.000 soldati, «impallidisce davanti ad un esercito russo pari a 1,15 milioni di soldati e a 2 milioni di riservisti pronti a combattere». La forza Nato, inoltre, avrebbe solo un equipaggiamento leggero, «in ossequio all’idea, veramente geniale, che tutto ciò permetterà ai soldati di schivare più facilmente i 6.500 carri armati russi».
    Nel confronto con la Russia, secondo “Leap 2020” la Nato «è come un’ape davanti a un orso», prova del fatto che «i funzionari americani hanno perso qualsiasi senso della realtà». Così, «il “colpo di stato” orchestrato dall’Occidente ha fatto perdere legittimità al governo centrale ucraino nei riguardi della popolazione di lingua russa, e ha quindi aperto la strada all’acquisizione dell’Ucraina Orientale da parte della Russia, probabilmente sotto forma di un’ampia autonomia all’interno di uno Stato Federale Ucraino, sottoposto ad una forte influenza russa». Analogamente a quanto già avvenuto in Medio Oriente, la politica e il comportamento del governo degli Stati Uniti, «basati sull’infallibilità delle strategie e sull’onnipotenza dell’America», hanno gettato nel caos un’intera regione, rafforzando in fin dei conti «le forze che si opponevano agli Stati Uniti».

    Il declino degli Stati Uniti sta ormai galoppando, anche se i media raccontano che l’America avrebbe ritrovato salute economica e fiorente mercato del lavoro. Dicono anche che gli Usa si siano dotati di un futuro energetico veramente roseo e che continuino a essere un modello per l’Europa e per il mondo. Certo, gli indici di Borsa sono alle stelle, ma questo non significa che una società e un’economia siano uscite dalla crisi: il record, si legge su “Leap 2020”, è l’effetto della politica monetaria dei “soldi facili” praticata dalla Fed, mentre gli investitori «non trovano altri investimenti che non siano quelli sui sopravvalutati titoli azionari e sull’ingannevole finanza innovativa». L’America? E’ in bilico: «La smisurata arroganza di una nazione che considera se stessa “il paese di Dio”, la “numero uno” su tutte le cose di questo mondo, l’araldo di tutti i valori dell’umanità, sta spingendo gli Stati Uniti verso un abisso». Lo conferma la geopolitica: caos totale in Medio Oriente, dopo 13 anni di impegno militare diretto. Per non parlare della folla sfida lanciata alla Russia in Ucraina.

  • Il Fmi vuole il nostro sangue, e Renzi glielo darà

    Scritto il 07/10/14 • nella Categoria: segnalazioni • (3)

    Salari più bassi, meno assistenza, tagli alle pensioni. Il programma dei governi nazionali? Lo scrive la Troika, ed è stupefacente che qualcuno ancora ne dubiti, specie “a sinistra”. Così, ad ogni periodico report, sono i pilastri della stessa Troika a ricordarcelo: di recente è toccato al Fmi, che ha rivisto anche al ribasso le previsioni di crescita per l’Italia, ovvero di recessione: -0,1%, secondo l’istituto internazionale guidato da Christine Lagarde. Le previsioni per gli anni successivi (+1,1 nel 2015, + 1,3 nel 2016) «appartengono al “wishful thinking” più che alle stime scientifiche», secondo Claudio Conti, «perché è ormai chiaro che le variabili macro-globali sono fuori dal controllo di qualsiasi ente». Semplicemente, «nessuno sa come andrà: si incrociano le dita e si sparano “ricette” a seconda degli interessi che si rappresentano». Dato che il Fmi è una sorta di braccio armato del capitalismo finanziario multinazionale, con preponderanza anglo-statunitense, «se l’obiettivo è trasferire quote di ricchezza dalle popolazioni alla finanza multinazionale, ecco che i “consigli” del Fondo assumono toni granguignoleschi».
    La chiave di volta resta il debito pubblico, scrive Conti su “Contropiano”: la finanza globale ama soltanto quello privato, ovvero fondamentalmente il proprio debito, e si scaglia contro quello “pubblico”, pretendendo trasferimenti diretti verso le proprie casse. Il debito italiano, come ormai ammette anche il ministro Padoan, è destinato a salire anche a dispetto (o meglio, a causa) dei tagli di spesa: toccherà il 136,4% del Pil entro fine 2014, per poi scendere progressivamente, ma restando comunque sopra il 130% fino al 2017. «Trattandosi di una proporzione e non di una cifra assoluta – osserva Conti – se a un governo vengono “consigliate” manovre recessive, il risultato sarà una contrazione del Pil». Dunque, la relazione debito-Pil «resterà negativa anche tagliando alla grande il debito». Di conseguenza, sentenzia il Fmi, il tasso di disoccupazione in Italia è destinato a salire ancora: 12,6%, il più alto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
    E qui arrivano i primi “complimenti” al governo Renzi, la cui “riforma del mercato del lavoro”, con tanto di precarizzazione universale e contrazione dei salari, «è vista come condizione ottimale per aumentare la quantità di persone da mettere al lavoro a salari da fame». Dunque la riforma Renzi «va nella giusta direzione», ma il premier deve «muoversi rapidamente sulle riforme». Bene anche l’idea di un «singolo contratto di lavoro», con «il 70% dei nuovi contratti a tempo determinato», nonché «ulteriore flessibilità». Tradotto: la precarietà è utile per le produzioni o le imprese “marginali” (piccole o piccolissime), ma l’attacco va condotto direttamente contro il nucleo centrale dell’occupazione «stabile e a tempo indeterminato», in modo da comprimere violentemente e una volta per tutte il costo del lavoro anche nei comparti-chiave dell’economia italiana.
    Benedizioni quindi anche per uno «strumento importante» come la “spendig review”, non a caso affidata a Carlo Cottarelli, un economista dello stesso Fmi, che ad ottobre rientrerà nei ranghi dell’organismo sovranazionale. Ma al Fondo sanno fare i conti, aggiunge “Contropiano”: per quanto si possa tagliare la spesa pubblica toccando le varie «sacche di inefficienza» o spreco, non si arriverà mai a sforbiciare abbastanza da riportare il debito pubblico entro quel 60% indicato dagli accordi di Maastricht. Come si può fare, allora?  «Ulteriori risparmi saranno difficili senza affrontare l’elevata spesa per le pensioni» e anche la spesa sanitaria. «Bingo! Il Fmi dice fuori dai denti che è ora di far fuori un po’ di anziani, riducendo le loro “aspettative di vita” grazie a pensioni ancora più basse e minori prestazioni sanitarie», scrive Conti. «Non serve, insomma, “tagliare gli sprechi”, il Fondo consiglia (prescrive? ordina?) di tagliare la carne viva della gente fino all’osso e anche oltre». Viceversa, ammonisce il Fmi, l’Italia rimarrà «vulnerabile a una perdita di fiducia del mercato» e al «contagio finanziario», diventando «fonte di contagio per il resto del mondo».
    «Per tutte queste ragioni – continua “Contropiano”– il Fmi promuove “l’ambiziosa agenda di riforme” del governo Renzi, suscitando la poco divertente impressione del burattinaio che dice “bravo!” alla marionetta». Il Fondo Monetario non ha dubbi: «Attuare le riforme strutturali simultaneamente genererebbe significative sinergie di crescita». Quanto sia “invasiva” la logica del Fondo, osserva Conti, è dimostrato da una delle tante raccomandazioni non direttamente economche: il progetto di legge elettorale delineato dall’“Italicum” è considerato un’ottima idea, perché «aiuta il sostegno e l’attuazione delle riforme». Chiosa Claudio Conti: «Non servirebbe la traduzione, ma ve la diamo egualmente: un programma di “riforme” così sanguinose e infami non avrebbe alcuna possibilità di esser approvato anche elettoralmente; bene dunque l’idea di escludere che il parere dei cittadini possa rallentare – o, orrore!, “impedire” – l’attuazione del programma. La democrazia non serve più al capitale, ergo si può e si deve metterla da parte».

    Salari più bassi, meno assistenza sanitaria, tagli alle pensioni. Il programma dei governi nazionali? Lo scrive la Troika, ed è stupefacente che qualcuno ancora ne dubiti, specie “a sinistra”. Così, ad ogni periodico report, sono i pilastri della stessa Troika a ricordarcelo: di recente è toccato al Fmi, che ha rivisto anche al ribasso le previsioni di crescita per l’Italia, ovvero di recessione: -0,1%, secondo l’istituto internazionale guidato da Christine Lagarde. Le previsioni per gli anni successivi (+1,1 nel 2015, + 1,3 nel 2016) «appartengono al “wishful thinking” più che alle stime scientifiche», secondo Claudio Conti, «perché è ormai chiaro che le variabili macro-globali sono fuori dal controllo di qualsiasi ente». Semplicemente, «nessuno sa come andrà: si incrociano le dita e si sparano “ricette” a seconda degli interessi che si rappresentano». Dato che il Fmi è una sorta di braccio armato del capitalismo finanziario multinazionale, con preponderanza anglo-statunitense, «se l’obiettivo è trasferire quote di ricchezza dalle popolazioni alla finanza multinazionale, ecco che i “consigli” del Fondo assumono toni granguignoleschi».

  • Caro Renzi, niente ripresa con moneta presa a credito

    Scritto il 06/10/14 • nella Categoria: idee • (1)

    «Alla luce dei fallimenti sistematici degli ultimi governi rispetto alle loro promesse», secondo Marco Della Luna ogni premier dovrebbe pubblicamente svolgere un “compito in classe” di economia politica. E’ in grado di spiegare, Renzi, con quali misure sia possibile mantenere l’equilibrio finanziario di uno Stato nelle condizioni di quello italiano? Bollettino di guerra: il rifinanziamento del debito pubblico si avvale solo dei titoli di Stato e quindi dei mercati speculativi, il debito pubblico supera il 130% del Pil ed è in costante crescita, la spesa pubblica è oltre il 50% del prodotto interno lordo e anche la pressione fiscale è sopra il il 50. Senza contare la disoccupazione che galoppa superando il 12%, la situazione di declino economico pluriennale in accelerazione, il costo dell’energia e della pubblica amministrazione superiore ai paesi concorrenti, la fuga di imprese e capitali. Pesa come un macigno l’impossibilità di aggiustamento del cambio valutario, bloccato a livelli elevati grazie all’euro. Ha qualche idea, il signor Renzi?
    Domanda: come mai lo Stato stringe la cinghia ormai da diversi anni, anche se da un paio d’anni beneficia di bassi rendimenti sul suo debito pubblico e per giunta realizza costanti aumenti del gettito tributario? Come mai, nonostante questo, il debito pubblico continua a crescere? Quali sono le voci di spesa che lo gonfiano? Della Luna cita l’impegno per l’assistenza dei migranti, le spese per le indennità di disoccupazione, «generosamente concesse per mettere una toppa (che può reggere solo nel breve termine) alla scelta di lasciar costantemente aumentare la disoccupazione per effetto della deindustrializzazione e della desertificazione economica, frutto della indiscriminata apertura delle frontiere commerciali nonché del blocco dell’aggiustamento dei cambi». Che ne dice, Renzi? Spieghi, almeno, «come in questa situazione si possa “rilanciare” abolendo l’elettività del Senato e dei consigli provinciali, nonché di quel poco che resta dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori (già sostanzialmente svuotato da Monti), o con la ventitreesima riforma del processo civile in 23 anni, o togliendo ai magistrati qualche settimana di vacanze».
    Al punto in cui siamo arrivati, aggiunge Della Luna, l’unico modo per fermare il disastro in tempi brevi – cioè far ritornare la fiducia azzerata e le imprese fuggite, e far davvero ripartire l’economia nazionale, «affrancandosi dai soldi che dovrebbero arrivare dall’estero» – sarebbe che lo Stato, «con l’Eurozona se ci sta, senza se non ci sta», si mettesse a stampare moneta senza indebitarsi. Emissione di moneta sovrana, dunque, «per far lavorare la gente e le imprese, per fare gli investimenti utili a innescare gli investimenti privati e la domanda interna, nonché per dimezzare la pressione fiscale e contributiva subito». Libera moneta, senza più debiti col mercato finanziario. Viceversa, nessuna soluzione funzionerà: «Chiunque dica di voler rimettere in corsa il paese senza fare ciò, non merita alcuna fiducia, ma calci nel sedere, perché o è un bugiardo o è uno stolto».

    «Alla luce dei fallimenti sistematici degli ultimi governi rispetto alle loro promesse», secondo Marco Della Luna ogni premier dovrebbe pubblicamente svolgere un “compito in classe” di economia politica. E’ in grado di spiegare, Renzi, con quali misure sia possibile mantenere l’equilibrio finanziario di uno Stato nelle condizioni di quello italiano? Bollettino di guerra: il rifinanziamento del debito pubblico si avvale solo dei titoli di Stato e quindi dei mercati speculativi, il debito pubblico supera il 130% del Pil ed è in costante crescita, la spesa pubblica è oltre il 50% del prodotto interno lordo e anche la pressione fiscale è sopra il il 50. Senza contare la disoccupazione che galoppa superando il 12%, la situazione di declino economico pluriennale in accelerazione, il costo dell’energia e della pubblica amministrazione superiore ai paesi concorrenti, la fuga di imprese e capitali. Pesa come un macigno l’impossibilità di aggiustamento del cambio valutario, bloccato a livelli elevati grazie all’euro. Ha qualche idea, il signor Renzi?

  • Guerra all’Isis, ecco il vincitore: l’industria delle armi

    Scritto il 05/10/14 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Che meraviglia, la guerra di Obama contro l’Isis: le commesse per armamenti e logistica si sono rimesse a volare. A fregarsi le mani sono soprattutto i fabbricanti di droni, che saranno largamente impiegati contro le milizie islamiste reclutate dagli Usa per la guerra civile in Siria e poi dirottate in Iraq vista la resistenza di Assad, sostenuto da Russia, Cina e Iran. Se da giugno a metà settembre le operazioni militari americane contro l’Isis erano costate circa 600 milioni di dollari, ora gli Stati Uniti stanno spendendo oltre 7,5 milioni al giorno. «Quando la macchina militare ingranerà la marcia superiore, ci saranno dei vincitori nell’industria della difesa», scrive Tory Newmyer su “Fortune”. «Più combattimenti significa più affari». E dopo il ritiro americano dall’Iraq e dall’Afghanistan, coi pesanti tagli di budget che hanno costretto il Pentagono a tirare la cinghia, «i fornitori militari si stanno adoperando per trovare nuove richieste per le loro merci». Obama parla di attacchi dal cielo per proteggere le truppe sul terreno? Tradotto: affari d’oro per chi produce aerei, droni, missili e bombe.
    «I costruttori di droni avranno un bel da fare», ammette Dov Zakheim, al Pentagono con George W. Bush. Il che significa «enormi profitti per la compagnia privata General Atomics, costruttrice del drone “Predator”, il capostipite della categoria, ancora ampiamente in uso, come anche del “Reaper” di seconda generazione, progettato per portare bombe del valore di 3.000 sterline», scrive Newmyer in un articolo tradotto da “Come Don Chisciotte”. Inoltre, per agevolare il monitoraggio di vaste aree desertiche, l’esercito potrà contare sul “Global Hawk” prodotto dalla Northrop Grumman (Noc, le cui quotazioni in borsa salgono), un drone in grado di volare ad altitudini di 50.000 piedi per quattro giorni di seguito. «Questi velivoli possono anche avere in uso il “Gorgon Stare”, un sensore sviluppato dall’azienda privata Sierra Nevada, capace di tenere sotto controllo un diametro di 4 chilometri attraverso nove telecamere».
    L’estendersi del conflitto rilancerebbe gli investimenti in tecnologia, sostiene Mark Gunzinger, colonnello in pensione della Us Air Force ed ex viceministro della difesa, ora in forza al Centro per le valutazioni strategiche e di bilancio: «Una delle cose che potrebbe facilitare una nuova capacità di sfondamento è un’intensificazione delle operazioni, come una più massiccia campagna aerea». Entreranno in azione anche soggetti minori che operano nel settore aereo: Zakheim ha cita la Aero Vironment (Avav), che produce velivoli telecomandati abbastanza piccoli da essere lanciati a mano (compreso il “Nano Hummingbird”, un mezzo minuscolo, che pesa meno di due pile elettriche AA). Jason Gursky, analista che si occupa di industria per Citigroup, scommette sulla Digital Globe (Dgi), azienda di satelliti il cui principale business consiste nel vendere alle agenzie federali immagini digitali “non classificate”: l’esercito le utilizzerà per localizzare gli obiettivi, man mano che estenderà il suo intervento.
    «Saranno comunque i produttori di armi a ottenere i maggiori benefici, soprattutto a breve termine», scrive Newmyer. «In cima alla classifica troviamo la Lockheed Martin (Lmt), produttrice del missile “Hellfire”, arma di precisione che può essere lanciata da diverse piattaforme, inclusi i droni “Predator”». Sempre secondo Zakheim, si trovano in buona posizione anche Raytheon (Rtn), che produce i “Tomahawk”, missili a lunga gittata lanciati dal mare, e General Dynamics (Gd), anch’essa operante nel settore degli armamenti. «I casi più ovvi sono ciò che io chiamo il commercio di stivali, fagioli e proiettili», dice Ronald Epstein, analista della Bank of America. In altri termini, spiega “Fortune”, «i costruttori navali non possono aspettarsi molto lavoro da questo conflitto, ma coloro che riforniscono le forze americane sono già elettrizzati dalla prospettiva di nuove ordinazioni». Gunzinger sottolinea che «le bombe di piccolo diametro possono essere un grande affare, perché un aereo può portarne parecchie in una sola uscita». Un ulteriore vantaggio, tra gli altri, per la linea di produzione della Raytheon.
    Zakheim stima che questa cifra potrebbe raddoppiare «se le operazioni si intensificheranno e il teatro di guerra si allargherà alla Siria, con una significativa componente di spesa per le munizioni». Avverte Newmyer: «Il costo totale di questa guerra senza fine, che probabilmente va misurata in anni piuttosto che in mesi, nessuno lo può ipotizzare. Tuttavia, nell’immediato, la Casa Bianca sta facendo pressione sul Congresso perché approvi un finanziamento di 500 milioni di dollari per addestrare ed equipaggiare i gruppi ribelli pro-occidentali in Siria. Soltanto questo potrebbe significare un supplemento di lavoro per una vasta platea di fornitori per la prima difesa, secondo l’opinione di Gursky». Sul lungo termine, dicono i lobbisti della difesa, l’America non potrà badare a spese. Si annunciano affari miliardari per l’intera filiera delle armi, con co-produzioni ramificate in tutto il mondo. Epstein cita l’Iraq ma anche l’Ucraina, la Russia e tensioni tra Cina e Giappone: «Per chi investe, il panorama di questi conflitti regionali nel mondo, almeno da un punto di vista emotivo, non può essere male».

    Che meraviglia, la guerra di Obama contro l’Isis: le commesse per armamenti e logistica si sono rimesse a volare. A fregarsi le mani sono soprattutto i fabbricanti di droni, che saranno largamente impiegati contro le milizie islamiste reclutate dagli Usa per la guerra civile in Siria e poi dirottate in Iraq vista la resistenza di Assad, sostenuto da Russia, Cina e Iran. Se da giugno a metà settembre le operazioni militari americane contro l’Isis erano costate circa 600 milioni di dollari, ora gli Stati Uniti stanno spendendo oltre 7,5 milioni al giorno. «Quando la macchina militare ingranerà la marcia superiore, ci saranno dei vincitori nell’industria della difesa», scrive Tory Newmyer su “Fortune”. «Più combattimenti significa più affari». E dopo il ritiro americano dall’Iraq e dall’Afghanistan, coi pesanti tagli di budget che hanno costretto il Pentagono a tirare la cinghia, «i fornitori militari si stanno adoperando per trovare nuove richieste per le loro merci». Obama parla di attacchi dal cielo per proteggere le truppe sul terreno? Tradotto: affari d’oro per chi produce aerei, droni, missili e bombe.

  • Di finanza si muore: ed ecco la bolla finale della Bce

    Scritto il 04/10/14 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Le bolle finanziarie obbediscono a una legge ferrea: più crescono e più si avvicina la loro fine. Così, annunciando misure per sostenere la bolla, Mario Draghi ne ha appena avvicinato lo scoppio. Le misure annunciate sono la riduzione del tasso Bce allo 0,05%, un “Quantitative Easing” (Qe) nella forma di acquisti di cartolarizzazioni (“Asset-Backed Securities”) e di “covered bonds” da parte della Bce a cominciare dal quarto trimestre. Poi un’altra ondata di Ltro, prestiti di fatto gratis alle banche. L’ultima misura è chiamata “funding for lending” e dovrebbe servire ad aumentare il credito al settore produttivo. «In realtà fallirà l’obiettivo», secondo “Movisol”, «come lo ha fallito il modello originale, applicato in Gran Bretagna». L’intento della Bce è descritto con franchezza in uno studio di 104 pagine pubblicato dallo stratega di Deutsche Bank, Jim Reid, l’11 settembre: il sistema finanziario, scrive Reid, è un’unica, gigantesca bolla, che deve essere continuamente pompata per non collassare.
    «Negli ultimi due decenni, l’economia globale è passata da una bolla all’altra con eccessi che non sono mai stati pienamente rivelati. Invece, una politica aggressiva ha incoraggiato il rifinanziamento con nuove bolle. Ciò ha discutibilmente fatto del sistema finanziario moderno, così come lo conosciamo, una preoccupazione costante», si legge nel rapporto. La bolla è ora “migrata” nel mercato obbligazionario, ed è diventata «una condizione necessaria per mantenere in piedi il superindebitato sistema finanziario». Non c’è più un luogo dove migrare, visto che ora la bolla è nelle mani dei governi e delle banche centrali, i prestatori di ultima istanza, e perciò «pensiamo che questa bolla vada mantenuta per assicurare la solvibilità dell’attuale sistema finanziario». Prevedibilmente, azioni e obbligazioni sono salite dopo l’annuncio di Draghi. Secondo alcune fonti, non sono solo i privati a speculare, ma le stesse banche centrali starebbero acquistando “futures” e altri titoli derivati per sostenere direttamente il mercato.
    Mentre non è certo quale sarà la domanda di Ltro, il pezzo forte della Bce è il programma di acquisto di Abs. Il 12 settembre lo stesso Juncker ha dichiarato che una delle priorità della nuova Commissione Europea sarà rivitalizzare il mercato Abs. La Bce si è avvalsa della consulenza del colosso statunitense BlackRock, a sua volta grande possessore di titoli Abs, delineando quindi un «leggero conflitto di interessi». Ma la Bce, avverte “Movisol”, non vuole rischiare in proprio: «Sta già pensando di scaricare il peso degli Abs tossici sulle spalle del contribuente». Benoit Coeure, membro dell’esecutivo di Francoforte, ha chiarito: perché un programma di acquisti di Abs raggiunga tutto il suo potenziale, i governi devono garantire almeno parte del debito. «L’Europa si trova ad affrontare una scelta fondamentale se vuole muoversi verso un mercato Abs che abbia la stessa profondità e la liquidità del mercato americano», ha detto Coeure in un’intervista alla rivista “Risk”, distribuita dalla Bce.
    «Per raggiungere questo obiettivo», aggiunge Coeure, «il mercato delle cartolarizzazioni richiederà una quantità significativamente maggiore di sostegno pubblico di quella attuale». In altre parole, riassume “Movisol”, «la Bce pompa la bolla finale, in parte stampando soldi, in parte con soldi pubblici (i contribuenti), in una mossa futile e disperata che non impedirà alla bolla di scoppiare ma piuttosto ne accelererà la fine». Nel frattempo, «la recessione nell’Ue sta rivelandosi una depressione». Infatti, «la disoccupazione di massa ha raggiunto livelli da anni Trenta e in alcuni casi le istituzioni democratiche sono state compromesse irreversibilmente». E’ il “capolavoro” della moneta non-sovrana, che mette in crisi gli Stati e le economie nazionali, obbligandole a elemosinare credito presso il mercato finanziario internazionale attraverso il sistema bancario privato. E la Bce è il gestore dell’euro-regime, il braccio armato della grande crisi. «Liberiamoci del pilota pazzo ai comandi!», conclude “Movisol”.

    Le bolle finanziarie obbediscono a una legge ferrea: più crescono e più si avvicina la loro fine. Così, annunciando misure per sostenere la bolla, Mario Draghi ne ha appena avvicinato lo scoppio. Le misure annunciate sono la riduzione del tasso Bce allo 0,05%, un “Quantitative Easing” (Qe) nella forma di acquisti di cartolarizzazioni (“Asset-Backed Securities”) e di “covered bonds” da parte della Bce a cominciare dal quarto trimestre. Poi un’altra ondata di Ltro, prestiti di fatto gratis alle banche. L’ultima misura è chiamata “funding for lending” e dovrebbe servire ad aumentare il credito al settore produttivo. «In realtà fallirà l’obiettivo», secondo “Movisol”, «come lo ha fallito il modello originale, applicato in Gran Bretagna». L’intento della Bce è descritto con franchezza in uno studio di 104 pagine pubblicato dallo stratega di Deutsche Bank, Jim Reid, l’11 settembre: il sistema finanziario, scrive Reid, è un’unica, gigantesca bolla, che deve essere continuamente pompata per non collassare.

  • Barnard: De Bortoli sa chi sono davvero i poteri forti?

    Scritto il 30/9/14 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Matteo Renzi minacciato dai Poteri Forti è la più indicibile puttanata mai scritta da un giornalista negli ultimi 160 anni. Ferruccio De Bortoli è un comico formidabile, giuro che ho riso due giorni su ’sta stronzata, non sa di cosa parla. Prima di tutto Renzi conta per i Poteri Forti come un attaccante del San Giuliano di Mezzadrino conta nella nazionale del Brasile. Ma poi, cosa sono per te Ferruccio i Poteri Forti? Per caso quella faccia da uovo di John Elkann e la Fiat che tirano i fili del tuo pupazzetto? Madonna, sono 100 anni che fanno le più brutte auto del mondo coi soldi dei contribuenti (dovremmo esultare che se ne vanno, ’sti parassiti dello Stato), e la loro finanziaria, la Exor, è un nano confronto ad altri gruppi (vedi sotto). Confindustria, Ferruccio? Quelli che ti tiravano i fili prima? Squinzi è il secondo uomo più stupido del mondo, e credo che Jeffrey Immelt manco sappia che esista. La Massoneria? Nooo, no. De Bortoli, non ci siamo.
    Vogliamo parlare di Poteri Forti? Allora che ne diciamo di Bill Gross, l’ex di Pimco? Controlla fondi d’investimento SUPERIORI a tutto il Pil della Germania… no, dico, ’sto tizio da solo ha più potere d’investimento di tutta la Germania messa assieme. Solo lui. Poi ha altri amichetti che seguono (Black Rock?). E vogliamo parlare dei signori Derivati e di chi li controlla? Sai quanti soldini sono Ferruccio? Sono 710.000.000.000.000 di dollari. E’ 10 volte il Pil di tutto il mondo in mano a una quarantina di banche. Oplà. O vogliamo parlare del “Council on Foreign Relations” e del “National Endowment for Democracy” Usa? Quelli in un pomeriggio fanno scoppiare due ‘rivoluzioni colorate’ e quattro guerre nel mondo, e se poi ci mettiamo il caro Zbignew Brzezinsky, questo tipo con una telefonata manda in colite spastica tutta la famiglia reale saudita.
    Sono tipetti che possono decidere che la tua Massoneria di puzzette italiane, caro De Bortoli – quella che può certo rovinare qualche carriera, o farmi schiantare in auto contro un muro – sparisce dal Pianeta in un mesetto e non ci rimangono neppure gli autisti del Fratelli. Matteo Renzi sarà minacciato (forse) dai poteri del pollaio Italia, ma neppure: è il coccige della Merkel, obbedisce, non lo tocca nessuno. De Bortoli, scrivi di quello che sai, non far ridere.
    (Paolo Barnard, “De Bortoli, sei un comico”, dal blog di Barnard del 29 settembre 2014).

    Matteo Renzi minacciato dai Poteri Forti è la più indicibile puttanata mai scritta da un giornalista negli ultimi 160 anni. Ferruccio De Bortoli è un comico formidabile, giuro che ho riso due giorni su ’sta stronzata, non sa di cosa parla. Prima di tutto Renzi conta per i Poteri Forti come un attaccante del San Giuliano di Mezzadrino conta nella nazionale del Brasile. Ma poi, cosa sono per te Ferruccio i Poteri Forti? Per caso quella faccia da uovo di John Elkann e la Fiat che tirano i fili del tuo pupazzetto? Madonna, sono 100 anni che fanno le più brutte auto del mondo coi soldi dei contribuenti (dovremmo esultare che se ne vanno, ’sti parassiti dello Stato), e la loro finanziaria, la Exor, è un nano confronto ad altri gruppi (vedi sotto). Confindustria, Ferruccio? Quelli che ti tiravano i fili prima? Squinzi è il secondo uomo più stupido del mondo, e credo che Jeffrey Immelt manco sappia che esista. La Massoneria? Nooo, no. De Bortoli, non ci siamo.

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