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Archivio del Tag ‘finanza’

  • Della Luna: morte lenta, la nostra fine decisa all’estero

    Scritto il 02/11/13 • nella Categoria: idee • (5)

    «Italy is going the right way», dice l’umorista Obama al fido Enrico Letta. Solo che la “giusta via” ricorda la macellazione per dissanguamento: morte lenta. Così funziona la politica economica italiana, da qualche decennio al servizio di interessi stranieri: il trucco, sostiene Marco Della Luna, sta nello svuotare il paese di tutta la sua linfa, ma lentamente, in modo che non “muoia” e che non soffra troppo, perché potrebbe ribellarsi. All’avvio dell’euro, è bastato qualche anno di bassi tassi per la finanza pubblica, per gonfiare fabbisogno strutturale e debito. «Poi, di colpo, austerità e tassi alti (spread), per creare l’emergenza, imporre il presidenzialismo de facto e la “sospensione della democrazia” a tempo indeterminato». Ma già con la riforma monetaria del 1981-83 poi col Trattato di Maastricht, era stata scardinata la Costituzione: sovranità nazionale e primato del lavoro. «Fatto questo, tutto il resto è stato in discesa»: svuotare il paese di industrie pregiate, capitali e cervelli, in favore della finanza apolide e del suo feudatario-kapò europeo, la Germania.
    Si è tutto tragicamente avverato: lo dicono Pil, occupazione, flussi di capitale, investimenti, quote di mercato internazionale, qualità della scuola, prospettive per i giovani e per i pensionati. Una manovra che viene da lontano: blocco dei cambi, divieto di protezioni doganali, privatizzazione della gestione delle banche centrali, politiche di tagli e nuove tasse. «Queste mosse hanno prodotto e continuano a produrre esattamente i risultati opposti a quelli promessi e per cui erano stati imposti», scrive Della Luna nel suo blog. Ed è un declino “irreversibile”: «Il che dimostra che il vero fine per cui sono stati concepiti e imposti è molto diverso da quello dichiarato, probabilmente opposto, ossia di creare disperazione, paura, miseria, distruzione, la fine delle democrazie parlamentari, della responsabilità dei governanti verso i governati, della possibilità di un’opposizione e persino di un dissenso culturale, scientifico, giuridico».
    Lo stesso Fmi ha riconosciuto che, su 167 paesi colpiti da misure di “risanamento” e rigore, nessuno si è risanato né rilanciato, ma tutti sono peggiorati, soprattutto in quanto a Pil e debito pubblico. «I paesi che crescono sono quelli che non applicano questa ricetta e che mantengono il dominio della loro propria moneta: i Brics. La Russia ha superato l’Italia in fatto di Pil e ora l’Italia è nona, fuori dal G8». Già lo si era visto col primo aumento dell’Iva, quello di Monti, aumentata dal 20 al 21%: consumi scoraggiati, crollo della domanda, ulteriore recessione. Con Letta, obbligato a non sforare il tetto europeo del 3% per il deficit, l’Iva è al 22%. Risultato? Scontato: depressione. Che poi, per Della Luna, è esattamente l’obiettivo voluto, come già per Monti. Tutto a va a rotoli? Non è certo un caso: «I vent’anni di stagnazione, declino, delocalizzazioni ed emigrazioni, senza capacità di recupero, di questo paese, nonostante i diversi cambi di maggioranze parlamentari e di inquilini del Quirinale, sono un aspetto di questo processo di lungo termine. Vent’anni inaugurati dal Britannia Party e da Mani Pulite».
    A questo, continua Della Luna, sono serviti l’architettura dell’Ue, del mercato comune, dei parametri di convergenza, e soprattutto di quel sistema di blocco dei naturali aggiustamenti dei cambi monetari noto come “euro”. «A questo piano hanno lavorato molti governi e gli ultimi capi dello Stato: ne ho parlato ampiamente nei miei ultimi tre saggi, “Cimit€uro”, “Traditori al governo”, e “I signori della catastrofe”», pubblicati da Arianna-Macro Edizioni. E chi ha collaborato al piano di liquidazione dell’Italia «non ha mai avuto problemi giudiziari e, se ne aveva, gli sono stati risolti». Grande svendita del paese, a bordo del famoso panfilo inglese. Fine dell’Italia, altro che Ruby o diritti Mediaset. L’attuale governante Letta? Un continuatore: la sua finanziaria 2014 è pura «policy del dissanguamento lento e pacifico in favore dei paesi e dei capitali dominanti», e si basa sui due pilastri della politica italiana degli ultimi decenni: mantenere l’Italia sottomessa alla super-casta mondiale dell’élite finanziaria e, necessariamente, continuare a foraggiare la mini-casta nazionale incaricata di portare a termine la missione, agli ordini dell’euro-regime.
    «Una sorta di patto: tu, casta italiana, aiutaci a estrarre tutto quello che c’è di buono per noi in Italia, e ad annientare la capacità italiana di competere con noi sui mercati; in cambio, noi ti lasceremo continuare a mangiare come sei abituata sulle spalle della cosa pubblica, dei lavoratori, dei risparmiatori – ma non troppo voracemente, altrimenti il paese collassa o insorge, vanificando l’esecuzione del piano». Naturalmente l’operazione «deve apparire all’opinione pubblica come perfettamente legittima e democratica», meglio quindi se al governo ci sono larghe intese. Parliamoci chiaro: «Che cosa può mai fare, per rilanciare un paese, un governo che non può permettersi, nemmeno per fronteggiare una tragedia nazionale, di ridurre gli sprechi e le mangerie di una partitocrazia-burocrazia ladra e incapace quanto trasversale?». E’ una casta incompetente ma «selezionata, da decenni, solo per intercettare le risorse pubbliche». Non ci saranno svolte, ma solo promesse.
    Poi, continua Della Luna, l’Italia è invecchiata, tecnologicamente arretrata, sorpassata per le infrastrutture e in più sovra-indebitata, vessata da maxi-interessi. E infine devastata dalla disoccupazione. Il paese vacilla: «Non vi sono abbastanza giovani lavoratori per pagare le pensioni e le cure dei vecchi». Succede tutto questo perché l’Italia «è sottomessa a potenze straniere che la condizionano e la limitano». Lo profetizzò quarant’anni fa l’economista Nikolas Kaldor: bloccando i cambi e introducendo l’unione monetaria europea, sarebbe ulteriormente aumentato il vantaggio competitivo dei più forti, che avrebbero assorbito industrie, capitali e lavoratori dai paesi più fragili. Vent’anni fa ribadivano questa previsione economisti come Paul Krugman e Wynne Godley. Quindi, «tutti quelli che hanno architettato l’euro sapevano benissimo su che scogli era diretta la nave: il loro scopo era appunto quello di farla naufragare».
    Le previsioni continuano ad avverarsi in modo sempre più violento da almeno sette anni, ma non è stato introdotto alcun correttivo; al contrario, sono state inasprite le misure di squilibrio e sopraffazione. E chi ha osato anche solo accennare a un referendum sull’euro – Berlusconi, Papandreou – è stato «sostituito dalla Merkel», che ha imposto governi compiacenti (Monti, Letta) patrocinati dal Quirinale. Mentre in Gran Bretagna si fa largo l’Ukip di Nigel Farage e in Francia il Front National di Marine Le Pen, due formazioni fieramente all’opposizione di Bruxelles, «l’Italia si trova nella condizione di protettorato», quasi fosse tornata alla debolezza strutturale pre-unitaria, di entità politica «messa insieme artificialmente, per volontà straniera, mediante conquiste militari». Napolitano? «Si conferma un realista e un saggio disincantato». Inutile opporsi allo strapotere di forze soverchianti: «Poiché gli italiani sono in questa condizione, bisogna farli obbedire e agire anche contro il loro interesse, onde risparmiare loro un male peggiore». La consapevolezza? «Renderebbe la gente solo più infelice e inquieta» e anche «più esposta alle violenze repressive» se osasse ribellarsi. Come dice Obama, fiduciario del Washington Consensus e dei suoi super-banchieri, quella dell’Italia è proprio la “right way”.

    «Italy is going the right way», dice l’umorista Obama al fido Enrico Letta. Solo che la “giusta via” ricorda la macellazione per dissanguamento: morte lenta. Così funziona la politica economica italiana, da qualche decennio al servizio di interessi stranieri: il trucco, sostiene Marco Della Luna, sta nello svuotare il paese di tutta la sua linfa, ma lentamente, in modo che non “muoia” e che non soffra troppo, perché potrebbe ribellarsi. All’avvio dell’euro, è bastato qualche anno di bassi tassi per la finanza pubblica, per gonfiare fabbisogno strutturale e debito. «Poi, di colpo, austerità e tassi alti (spread), per creare l’emergenza, imporre il presidenzialismo de facto e la “sospensione della democrazia” a tempo indeterminato». Ma già con la riforma monetaria del 1981-83 poi col Trattato di Maastricht, era stata scardinata la Costituzione: sovranità nazionale e primato del lavoro. «Fatto questo, tutto il resto è stato in discesa»: svuotare il paese di industrie pregiate, capitali e cervelli, in favore della finanza apolide e del suo feudatario-kapò europeo, la Germania.

  • Web occulto: un algoritmo guida ogni nostro click

    Scritto il 01/11/13 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Libertà di espressione e discussione: sono le condizioni-base per un vero spazio aperto  secondo Jürgen Habermas, il padre del concetto di “sfera pubblica”. Siamo sicuri che il web sia corretto nel dare più spazio a certe informazioni rispetto ad altre? Niente affatto, rivela Francesca Musiani, perché a governare il digitale – e quindi noi, opinione pubblica – è soltanto un sistema di algoritmi. Secondo un giurista come Yochai Benkler, autore di studi sullo stato di salute democratica dei network, oggi viviamo in un “ordinamento globale” intrinseco alla Rete. Caratteristica centrale: la selezione decisiva delle informazioni più rilevanti non è più monopolio dei “gatekeepers” – giornalisti, bibliotecari, editori – ma è delegata agli utenti di Internet, editori essi stessi. Citandosi e raccomandandosi l’un l’altro in “nicchie conversazionali”, individui e gruppi selezionano l’informazione “di qualità” per gli algoritmi, i quali a loro volta la classificano e la ordinano per renderla disponibile attraverso i motori di ricerca. Così, l’ordinamento delle informazioni presenti sul web diventa una co-produzione degli utenti, inconsapevoli però della sintesi realizzata dagli algoritmi.
    Proprio agli algoritmi, spiega Francesca Musiani in un saggio pubblicato sull’“Internet Policy Review” e sintetizzato da “Doppiozero”, deleghiamo l’integrazione delle nostre conversazioni on-line. Gli argomenti vengono percepiti dal pubblico come “consenso universale implicito”, ma «hanno la debolezza di un’informazione che non può essere fatta risalire a nessun individuo specificamente», e al tempo stesso «la forza di un dato che si basa su un vasto aggregato di opinioni». I motori di ricerca costruiscono una gerarchia di visibilità dell’informazione, proponendola tra i primi risultati dell’indagine o dissimulandola tra gli ultimi. Decidendo, di fatto, “cosa dev’essere visto”, gli algoritmi di Google «possono scoraggiare o incoraggiare la discussione e la controversia», e di fatto contribuiscono a costruire l’agenda pubblica delle priorità politiche e sociali, selezionando gli interlocutori “che contano”. In particolare, grazie al quasi-monopolio di Google nel settore della ricerca web, l’algoritmo PageRank che ne è alla base è stato ampiamente esaminato come il nuovo gatekeeper e “dittatore benevolo” della sfera pubblica digitale.
    Secondo una ricetta che resta una sorta di segreto industriale, continua Musiani, quell’algoritmo-chiave comprende diversi criteri di misurazione, che valutano il grado di autorevolezza della fonte (secondo il numero di citazioni), l’ampiezza dell’audience (secondo il numero di visite o click), il livello di prossimità e di affinità (in base alle raccomandazioni) e la rapidità (dipendente dall’aggregazione dei risultati in real-time). In quanto “master switch” di Internet, proprio PageRank «centralizza e organizza la circolazione dell’informazione nella Rete, e per ogni interrogazione fatta al motore di ricerca, arbitra su ciò che è importante e rilevante». Milioni, miliardi di click: se siamo in cerca di informazioni siamo pilotati e manovrati, “governati” dall’intelligenza elettronica. Stessa storia per quanto riguarda l’e-commerce. Parla da solo il caso di Amazon, importante “prescrittore” che orienta il pubblico sulla base delle raccomandazioni dei clienti: lettori, ascoltatori, cinefili. Agli utenti registrati, il sito rivela quali sono gli altri acquisti fatti in passato da utenti che hanno acquisito lo stesso titolo.
    Acquisti raccomandati, consigli sistematizzati e condivisi per affinità: Amazon ha sviluppato un algoritmo particolarmente efficace, chiamato “filtraggio collaborativo elemento per elemento” (item-to-item collaborative filtering). Altro segreto industriale, dimostra ogni giorno la sua efficacia nel personalizzare le proprie raccomandazioni in base agli interessi di ciascuno dei clienti Amazon. Dietro a questo algoritmo, che “conosce” così bene i gusti dei clienti di Amazon, ci sono «anni di ricerca ed esperimenti in un recente campo dell’informatica le cui applicazioni pratiche sono sempre più diffuse, per quanto discrete: il data mining». Per i lettori, i “suggerimenti simili” formano un insieme di fonti d’informazioni personali, che alimentano un vasto database dove vengono combinate con altre “storie d’acquisto”, e finiscono per influenzare direttamente un numero considerevole di consumatori. «Viviamo in un mondo sempre più “algoritmico”», conclude Francesca Musiani, e le «invisibili strutture computazionali» che guidano il nostro accesso all’informazione e ai nostri acquisti «si estendono a numerosi altri contesti, dai software di riconoscimento facciale ai mercati finanziari».
    Come dimostra non solo la ricerca accademica, ma anche la più recente attualità, la relazione tra algoritmi e regole (diritto e politica) ha due facce, avverte la studiosa: «Da un lato, si tratta della regolazione degli algoritmi da parte delle istituzioni. La creazione di leggi riguardanti sistemi complessi e altamente automatizzati dovrebbe accordare una maggiore attenzione ai luoghi e ai tempi in cui si programmano gli algoritmi?». Una normativa più stringente dovrebbe essere applicata a contesti specifici? E nel caso: che forma prenderebbe, e quali sarebbero i suoi effetti? Quello di cui dobbiamo renderci assolutamente conto, insiste Misiani, è la vastità del “potere invisibile” degli algoritmi, in un mondo che ormai, di fatto, è largamente «gestito, regolato, governato» da essi. E se uno non fosse d’accordo? Sarebbe in grado di comprendere cosa significa, esattamente, “resistere” al dominio elettronico dei nuovi persuasori occulti?

    Libertà di espressione e discussione: sono le condizioni-base per un vero spazio aperto  secondo Jürgen Habermas, il padre del concetto di “sfera pubblica”. Siamo sicuri che il web sia corretto nel dare più spazio a certe informazioni rispetto ad altre? Niente affatto, rivela Francesca Musiani, perché a governare il digitale – e quindi noi, opinione pubblica – è soltanto un sistema di algoritmi. Secondo un giurista come Yochai Benkler, autore di studi sullo stato di salute democratica dei network, oggi viviamo in un “ordinamento globale” intrinseco alla Rete. Caratteristica centrale: la selezione decisiva delle informazioni più rilevanti non è più monopolio dei “gatekeepers” – giornalisti, bibliotecari, editori – ma è delegata agli utenti di Internet, editori essi stessi. Citandosi e raccomandandosi l’un l’altro in “nicchie conversazionali”, individui e gruppi selezionano l’informazione “di qualità” per gli algoritmi, i quali a loro volta la classificano e la ordinano per renderla disponibile attraverso i motori di ricerca. Così, l’ordinamento delle informazioni presenti sul web diventa una co-produzione degli utenti, inconsapevoli però della sintesi realizzata dagli algoritmi.

  • Cremaschi: diktat contro di noi, e Napolitano esegue

    Scritto il 31/10/13 • nella Categoria: idee • (2)

    Abbiamo corso il rischio di dover essere grati ai falchi berlusconiani. Nella disperata ricerca di rappresaglie contro il destino giudiziario del loro capo, hanno infatti provato a colpire in Parlamento il disegno di controriforma costituzionale. Purtroppo han fallito per pochi voti e grazie al soccorso prestato al governo dalla Lega, di cui è ben nota la sensibilità costituzionale. Così la riscrittura in senso autoritario della Carta uscita dalla resistenza antifascista prosegue. Anche questo dobbiamo mettere nel conto delle responsabilità del governo delle larghe intese e della sua guida assoluta, Giorgio Napolitano. All’attuale presidente della Repubblica sono oggi perdonate posizioni e scelte che non sarebbero mai state accettate da nessun suo predecessore. Tra questi va ricordato Francesco Cossiga, posto in stato d’accusa dal Pci per le sue ripetute prese di posizione a favore del cambiamento della Costituzione.
    Napolitano il cambiamento non lo propaganda, lo pratica, fino al punto di fare le riunioni dei capigruppo di maggioranza come qualsiasi segretario di partito. Siamo diventati una repubblica presidenziale di fatto e credo abbiano fatto un grave errore i promotori della manifestazione del 12 ottobre a non dirlo con forza dal palco, raccogliendo un sentimento profondo di chi era in quella piazza. Le timidezze e le reticenze sul ruolo negativo del presidente della Repubblica indeboliscono la lotta in difesa dei principi di fondo della Costituzione. D’altra parte un pesantissimo colpo a quei principi è già stato assestato, ancora una volta principalmente da Pd, Pdl e Lega, con la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio. La riscrittura dell’articolo 81 è infatti la madre di tutte le controriforme, perché cancella di fatto tutti i principi sociali contenuti nella prima parte.
    Come può la Repubblica rimuovere tutti gli ostacoli economici e sociali che si oppongono alla piena eguaglianza dei cittadini, se ogni anno deve tagliare di decine di miliardi le spese sociali, e solo per pagare gli interessi sul debito senza violare l’obbligo costituzionale di pareggio? Non può, e così con questa controriforma le politiche di austerità diventano obbligo perenne. Come aveva  chiesto il banchiere Morgan, prima di pagare 13 miliardi di dollari allo Stato americano per le truffe sui derivati. L’Europa deve capire che le politiche di austerità non sono una parentesi, ma il modo di condurre da qui in avanti un continente che deve accettare pienamente la società di mercato. Questo ha detto il banchiere americano a giugno sul “Wall Street Journal” e ha poi aggiunto che, per raggiungere questo obiettivo, i popoli europei devono liberarsi delle Costituzioni antifasciste e sinistrorse che promettono una eguaglianza che non ci può più essere. Si comincia ad accontentarlo.
    La controriforma costituzionale non è solo frutto delle classi dirigenti del nostro paese, ma viene prepotentemente richiesta dalla finanza internazionale, come venne formalizzato il 4 agosto 2011 dalla lettera al governo di Draghi e Trichet. Il Fiscal Compact e i patti ad esso connessi hanno fatto il resto: al di sopra dei nuovi costituenti, oltre i saggi incaricati di rivedere la nostra Carta, stanno i mandanti e i controllori. Sopra di loro stanno quelle istituzioni tecno-finanziarie che impongono le politiche di austerità con quei vincoli che per Giorgio Napolitano sarebbe da incoscienti mettere in discussione. Mentre sarebbe la sola scelta saggia da compiere. La difesa della Costituzione repubblicana oggi non si fa solo contro la destra berlusconiana, ma anche contro le scelte politiche di Giorgio Napolitano e contro quei vincoli europei che ci hanno imposto la costituzionalizzazione dell’austerità.
    (Giorgio Cremaschi, “Austerità costituzionale e presidenzialismo”, da “Micromega” del 25 ottobre 2013).

    Abbiamo corso il rischio di dover essere grati ai falchi berlusconiani. Nella disperata ricerca di rappresaglie contro il destino giudiziario del loro capo, hanno infatti provato a colpire in Parlamento il disegno di controriforma costituzionale. Purtroppo han fallito per pochi voti e grazie al soccorso prestato al governo dalla Lega, di cui è ben nota la sensibilità costituzionale. Così la riscrittura in senso autoritario della Carta uscita dalla resistenza antifascista prosegue. Anche questo dobbiamo mettere nel conto delle responsabilità del governo delle larghe intese e della sua guida assoluta, Giorgio Napolitano. All’attuale presidente della Repubblica sono oggi perdonate posizioni e scelte che non sarebbero mai state accettate da nessun suo predecessore. Tra questi va ricordato Francesco Cossiga, posto in stato d’accusa dal Pci per le sue ripetute prese di posizione a favore del cambiamento della Costituzione.

  • Il Club di Sofia: falsa Europa, in guerra contro di noi

    Scritto il 30/10/13 • nella Categoria: idee • (1)

    Quello che, per molti decenni, è stato considerato il cuore della civilizzazione europea è il modello sociale europeo. Esso viene ora demolito dall’offensiva neo-liberistica delle politiche estreme di austerità. L’istituto della famiglia come sorgente naturale di valori morali e come strumento essenziale di educazione e di socializzazione della persona umana è stato anch’esso demolito. Queste politiche minacciano l’idea stessa di Europa. L’imperativo presente è di ritornare alle radici dell’Europa unita, che nacquero già 200 anni fa, come idee di pace e di cooperazione. Come europei che credono nell’importanza dei diritti umani, noi sosteniamo l’idea di una Europa che muova verso valori sociali, democratici, pacifici e rispettosi dell’ambiente naturale, un’Europa del popoli e dei cittadini. Una tale visione dell’Europa è incompatibile con ogni forma di egemonismo, di xenofobia, di razzismo e di nazismo.
    Ora la competizione, che è stata la macchina dello sviluppo degli ultimi tre secoli, sta diventando la macchina che produce la guerra. Ciò è l’effetto dei limiti dello sviluppo, nel frattempo emersi, e della fine dell’“era dell’abbondanza”. Ciò si sta verificando in condizioni di profonda e generale disuguaglianza: nel campo della potenza militare; nel campo delle tecnologie; nel campo del consumo e dei redditi; nel campo del denaro; nel campo delle risorse, nel campo delle istituzioni. Se questi vincoli noi li mettiamo assieme alla vecchia idea della competizione è ovvio che il mondo sarà fatalmente spinto verso l’uso della forza. È ciò cui stiamo assistendo: coloro che sono più forti saranno spinti dalla circostanze a usare la loro forza. Lo faranno. Lo hanno già fatto. Lo stanno facendo ora in Siria. Chi sarà il prossimo della lista?
    Il contesto globale è orientato verso la falsa idea della società di consumatori. Noi riteniamo che muoversi in questa direzione significhi promuovere una successione di conflitti, sia globali, sia regionali – che condurranno il mondo intero in un vicolo cieco, in fondo al quale c’è la catastrofe di una nuova guerra mondiale. Una tale guerra sarà simile a quella che il mondo conobbe 100 anni orsono, ma ingigantita dall’esistenza di armi nucleari e di altro genere, dotate di un potere tremendamente distruttivo. I pericoli di guerra stanno aumentando. Molti segnali sono già visibili, ma molti preferiscono non vederli. Il collasso di una civilizzazione moderna basata sul consumo è inevitabile. Non è questione di buona o cattiva volontà. Il fatto è che la crisi mondiale si va estendendo sia in termini di complessità, e di dimensione, sia in termini di profondità, e non vi è chi abbia una soluzione in vista: non gli Stati, non la scienza del XX secolo, non le differenti culture e religioni.
    Siamo in presenza di una tremenda carenza di comprensione proprio della complessità della crisi. Essa non si riduce a una semplice somma di fattori, come la crisi finanziaria, quella dei cambiamenti climatici, quella dell’energia, dell’acqua, della disoccupazione, della crescita demografica, degli ecosistemi violati, della diversità biologica compromessa. Inoltre noi non siamo di fronte a una crisi lineare. Al contrario noi vediamo i rischi di una catastrofe senza precedenti che richiede, prima di tutto, di essere compresa e, insieme, controllata. Stiamo già assistendo a un accelerato percorso verso una catena di collassi interconnessi tra di loro e che possono demolire i pilastri portanti della civilizzazione umana. Noi riteniamo che soltanto una Nuova Europa Unita possa essere uno dei pilastri di una coesistenza pacifica multipolare nel XXI secolo.
    È un’Europa multiculturale che si adopera per gettare un ponte tra il Nord e il Sud, specialmente nell’area mediterranea. Un’Europa che venisse concepita come una fortezza dovrebbe affrontare non solo una ma molte Lampedusa tutto attorno ai suoi confini e perfino all’interno di essi. Noi siamo contro ogni tentativo di costruire un nuovo “Muro di Berlino” nella forma di “arco Mar Baltico-Mar Nero-Mar Caspio”, utilizzando i partner orientali dell’Unione Europea. La Russia – nonostante le differenze tra regimi politici – è già sotto molti profili interconnessa con l’Europa ed è il grande vicino che l’Unione Europea deve considerare partner affidabile. La Russia, la Turchia, l’Unione Europea e i suoi partner dell’est – Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Moldavia, Ucraina – devono considerare se stessi come componenti decisive di una indivisibile sicurezza europea. Questo sarà il contributo dell’Europa alla pace e alla sicurezza del mondo intero. Gli Stati Uniti d’America, che durante la Guerra Fredda hanno svolto il ruolo di un alleato “privilegiato e protettore” dell’Unione Europea, devono ora diventare partner con eguali diritti.
    Una Nuova e Unita Europa, capace di svolgere un attivo ruolo di pace, deve essere forte e autonoma nelle sue decisioni. Una Nuova e Unita Europa costruita su questi principi non ha nemici. Ciò significa che essa deve avere un proprio esercito, che dovrà essere utilizzato solo ed esclusivamente sotto l’autorizzazione delle Nazioni Unite. È giunto il tempo di abbandonare lo schema amici-nemici che fu caratteristico della Guerra Fredda. Esso è ormai il passato. La sicurezza è di ciascuno e di tutti. Ogni tentativo di costruire la sicurezza solo per noi stessi senza tenere contro di quella degli altri produrrà soltanto tensioni e conflitti. Il compito primario è dunque quello di costruire amicizie di lunga durata, cooperazioni strategiche in tutte le direzioni. Una nuova guerra globale sarebbe la fine dell’umanità e ogni piano che la preveda come possibile è un’idea folle. Noi, membri del Club di Sofia, ci impegniamo a costruire un tale approccio e a proporlo a tutti i soggetti di tutti i continenti, a trovare una via comune per la comprensione della nuova epoca che irrompe ad alta velocità nelle nostre vite e che tratteggia il destino delle future generazioni. Noi vogliamo agire non solo per il loro benessere, ma per la loro stessa sopravvivenza.
    (Sintesi della Dichiarazione costitutiva del “Club di Sofia”, think-tank paneuropeo costituitosi nella capitale bulgara il 26 ottobre, su iniziativa di Giulietto Chiesa, presidente del laboratorio politico “Alternativa”, con Antonio Ingroia di “Azione Civile”, il greco Panos Trigazis di “Syriza” e la lettone Tatjana Zdanoka, europarlamentare dei Verdi e co-presidente del “Partito per i diritti umani nella Lettonia Unita”. Tra i promotori anche altri parlamentari come l’ucraino Vadim Kolesnichenko, del “Partito delle Regioni”, e il deputato comunista moldavo Zurab Todua. Completano la lista dei fondatori del “Club di Sofia” il russo Sergey Kurginyan, presidente del partito “Essenza del Tempo”, il polacco Mateusz Piskorski, direttore esecutivo dell’“European Centre of Geopolitical Analysis”, il lituano Algirdas Paleckis, del partito “Fronte Socialista del Popolo” e il bulgaro Zakhari Zakhariev, presidente della “Sklavyani Foundation” e dirigente del Partito Socialista di Bulgaria).

    Quello che, per molti decenni, è stato considerato il cuore della civilizzazione europea è il modello sociale europeo. Esso viene ora demolito dall’offensiva neo-liberistica delle politiche estreme di austerità. L’istituto della famiglia come sorgente naturale di valori morali e come strumento essenziale di educazione e di socializzazione della persona umana è stato anch’esso demolito. Queste politiche minacciano l’idea stessa di Europa. L’imperativo presente è di ritornare alle radici dell’Europa unita, che nacquero già 200 anni fa, come idee di pace e di cooperazione. Come europei che credono nell’importanza dei diritti umani, noi sosteniamo l’idea di una Europa che muova verso valori sociali, democratici, pacifici e rispettosi dell’ambiente naturale, un’Europa del popoli e dei cittadini. Una tale visione dell’Europa è incompatibile con ogni forma di egemonismo, di xenofobia, di razzismo e di nazismo.

  • Jp Morgan si prepara alla cura-Cipro anche negli Usa?

    Scritto il 29/10/13 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Collasso imminente del sistema bancario e rischio-Cipro anche per gli Usa? Non è ancora calato il sipario sul teatrino dell’innalzamento del tetto del debito pubblico, che già i media americani rilanciano la notizia dello scandalo della Jp Morgan Chase, il colosso finanziario che detesta le Costituzioni antifasciste europee così piene di fastidiosi vincoli democratici. Attenzione: a vacillare – mettendo in pericolo anche l’economia reale – è la più grande banca statunitense per patrimonio, la seconda al mondo dopo l’Hsbc, con attivi da 2,3 trilioni di dollari e filiali in 60 paesi: un americano su sei è suo cliente, annota l’economista russo Valentin Katasonov. A settembre, la super-banca ha patteggiato con le autorità britanniche e statunitensi, riconoscendo di aver commesso reati analoghi a quelli della Lehman Brothers, che occultò perdite per 50 miliardi ed esibì ricavi inesistenti per ingannare clienti, partner e autorità di vigilanza, fino a finire in bancarotta e far collassare Wall Street e il resto del mondo. Ora ci risiamo: il caso “London Whale” rivela che la filiale inglese della Morgan «sopravvalutò il portafoglio crediti dei titoli derivati per nascondere 6,2 miliardi di dollari di perdite».
    La frode, spiega Katasonov in un post su “Strategic Cultuire” ripreso da “Come Don Chisciotte”, è stata realizzata all’interno dell’unità incaricata di migliorare le attività di “gestione del rischio”, compresa la supervisione sui depositi. «Le spericolate trovate contabili sarebbero state architettate per coprirsi dai rischi su altri investimenti, ma si risolsero solo in ingentissime perdite». La filiale inglese aveva acquistato una tale quantità di derivati “illiquidi”, cioè virtuali e rimasti senza compratori, che il suo responsabile per il trading Bruno Iksil fu soprannominato la “balena di Londra” (London whale, appunto) per la sua condotta spregiudicata. Poi la banca ha ammesso che i dipendenti londinesi avevano compiuto la frode utilizzando i depositi coperti dall’assicurazione statale. Risultato: capitolazione della Jp Morgan Chase, che accetta di pagare più di un miliardo di dollari, in risarcimenti e multe, a cinque autorità di vigilanza. Spiccioli, dice Katasonov, rispetto alle dimensioni di quei colossi. Il danno, semmai, è d’immagine: chi ci assicura che altri trucchi contabili, non ancora scoperti, non possano far esplodere il sistema?
    Dal 17 ottobre si sa che la super-banca ha introdotto dei limiti sulle transazioni in contanti dei clienti e vietato bonifici internazionali. Altro freno: dal 17 novembre la Jp Morgan limiterà le operazioni in contanti (inclusi depositi e ritiri) a soli 50.000 dollari al mese, e non permetterà più di inviare bonifici internazionali: qualora si superassero le soglie per il contante, saranno comminate penali. «Prima considerazione: queste misure metteranno in difficoltà le piccole e medie imprese americane», scrive Katasonov. «A molte aziende sarà impedito di compiere tutte le più importanti transazioni con l’estero. Sarà un grattacapo anche pagare gli stipendi». E alcuni giornalisti credono che sia solo l’inizio: le misure adottate dall’istituto, così come quelle degli altri “squali” di Wall Street, colpiranno anche le grandi imprese. La lettera non contiene spiegazioni, limitandosi ad accennare ai “nuovi requisiti legali” introdotti nel paese, cui la banca si adeguerebbe. «La domanda è spontanea: a quali “nuovi requisiti legali” si fa riferimento, visto che non vi è stata nessuna nuova legge americana in questo ambito?».
    Alcuni, continua Katasonov, sostengono che la banca stia cercando di controllare il deflusso di capitali dal paese. «Difficile da credere. Sino ad oggi gli Stati Uniti non hanno adottato misure in tal senso. Sono state preferite misure indirette. Per esempio la norma introdotta nel 2010, “Foreign Account Tax Compliance”, può essere considerata come un modo per limitare l’esportazione di capitali riducendo la convenienza di investimenti all’estero da parte di aziende americane». Misure che «si sono rivelate poco più che inutili, semplici tasse addizionali per coloro che investono all’estero». L’economista russo suggerisce due possibili spiegazioni. Prima ipotesi: le autorità hanno voluto impartire una lezione esemplare. «Se ci si scotta una volta, è difficile che ci si riprovi». Di qui la lettera «piena di buoni propositi sull’antiriciclaggio, sulla prevenzione del terrorismo, sulla lotta alla corruzione limitando le transazioni in contanti». Evidente: «Sono tutte trovate per rifarsi l’immagine, sperando che l’attenzione si sposti su altri istituti finanziari». Ma Katasonov trova più convincente la seconda spiegazione: «La banca si tiene pronta per fronteggiare una crisi» di proporzioni inaudite, come quando i clienti – impauriti per la sorte del proprio conto corrente – corrono allo sportello per prelevare i loro soldi.
    «E’ vero che la banca è la più importante degli Stati Uniti, ma non sono sicuro che questo basterebbe a salvarla», dice Katasonov. Il precedente di Lehman Brothers testimonia che non è sempre vera la formula del “troppo grande per fallire”, con l’implicito salvataggio pubblico per evitare il disastro dell’economia (solito schema: ai banchieri i profitti pregressi, ai contribuenti il costo del risanamento). La Morgan «ha imparato la lezione impartita a Cipro», quando la Commissione Europea, il Fondo Monetario e la Bce hanno costretto le autorità di Nicosia a far pagare agli innocenti correntisti le ingenti perdite delle banche del paese. «Per salvare il sistema bancario dalla fuga di capitali, la banca centrale cipriota ha introdotto rigidi controlli sul prelievo in contanti e sul trasferimento all’estero di somme depositate sui conti correnti». In attesa che analoghe misure vengano adottate anche negli Usa, in caso di grave crisi bancaria, è possibile che Jp Morgan stia giocando d’anticipo. «Quindi le limitazioni al prelievo, comunicate dall’istituto, potrebbero servire a prepararsi per il futuro. In questo caso – conclude Katasonov – Jp Morgan Chase starebbe agendo proprio come se avesse il presagio di una crisi bancaria imminente negli Stati Uniti».

    Collasso imminente del sistema bancario e rischio-Cipro anche per gli Usa? Non è ancora calato il sipario sul teatrino dell’innalzamento del tetto del debito pubblico, che già i media americani rilanciano la notizia dello scandalo della Jp Morgan Chase, il colosso finanziario che detesta le Costituzioni antifasciste europee così piene di fastidiosi vincoli democratici. Attenzione: a vacillare – mettendo in pericolo anche l’economia reale – è la più grande banca statunitense per patrimonio, la seconda al mondo dopo l’Hsbc, con attivi da 2,3 trilioni di dollari e filiali in 60 paesi: un americano su sei è suo cliente, annota l’economista russo Valentin Katasonov. A settembre, la super-banca ha patteggiato con le autorità britanniche e statunitensi, riconoscendo di aver commesso reati analoghi a quelli della Lehman Brothers, che occultò perdite per 50 miliardi ed esibì ricavi inesistenti per ingannare clienti, partner e autorità di vigilanza, fino a finire in bancarotta e far collassare Wall Street e il resto del mondo. Ora ci risiamo: il caso “London Whale” rivela che la filiale inglese della Morgan «sopravvalutò il portafoglio crediti dei titoli derivati per nascondere 6,2 miliardi di dollari di perdite».

  • Benessere sostenibile, togliendo la moneta ai banchieri

    Scritto il 28/10/13 • nella Categoria: idee • (2)

    Banchieri padroni e governi-fantoccio: così, riassume Marco Della Luna, può finire in ginocchio persino il governo Usa, travolgendo il mondo intero nel suo volontario default. Tutto questo, mentre l’Italia affonda nella recessione e nella disoccupazione per mancanza di investimenti. Siamo soffocati dalle tasse, dal crollo della domanda e dai tagli del welfare. Ridurre il debito pubblico? Operazione velleitaria, che si scontra col calo costante di Pil e produttività. Intendiamoci: «Il debito pubblico di quasi tutti i grandi paesi è praticamente inestinguibile in quanto al capitale, e sempre meno sostenibile in quanto agli interessi». La Banca dei Regolamenti Internazionali lancia l’allarme sull’indebitamento mondiale e la bolla speculativa, che hanno prodotto condizioni ancora più esplosive di quelle del 2008.
    E i “quantitative easing” della Fed, della Bce e di altre banche centrali si sono tradotti in prestiti a basso interesse, che le banche reinvestono nella speculazione e non nell’economia reale. La bolla finanziaria è tale da provocare il global meltdown: titoli pubblici svalutati nei portafogli delle banche su scala mondiale, e istituti di credito senza più soldi.
    Tutti questi fattori, spiega Della Luna nel suo blog, sono dovuti alla scarsità di denaro: il governo Usa non ha i soldi per pagare le spese della pubblica amministrazione, l’Italia non ha il denaro né per gli investimenti, né per ridurre il cuneo fiscale e pressione tributaria. Inoltre, nessuno Stato ha i soldi per ridurre lo stock di debito pubblico e le banche non hanno denaro da prestare all’economia reale a tassi ragionevoli. «Riflettiamo: se lo Stato avesse i soldi per investimenti, riduzione di tasse e tributi, sostegno alle imprese, rimborso del proprio debito, allora le cose cambierebbero radicalmente: abbatteremo impoverimento, disoccupazione, sfiducia, sofferenza, insicurezza. Il default sarebbe scongiurato per sempre». Ma allora che cosa impedisce allo Stato di dotarsi del denaro necessario? In teoria, nulla: se fosse libero e sovrano, lo Stato potrebbe emettere moneta a costo zero. E se il denaro produce economia, non c’è neppure rischio di inflazione. Allora dove sta il problema? Nel monopolio improprio che grava sulla creazione monetaria, che «non è concessa agli Stati, ma è appannaggio, diritto esclusivo, del sistema bancario».
    Finita la sovranità monetaria democratica, sono quasi ovunque le banche a gestire il denaro fin dalla sua emissione, perché ormai «vige il principio dell’autonomia del sistema bancario dalla politica». Giustificazione: per compiacere gli elettori, attingendo moneta sovrana i politici potrebbero eccedere irresponsabilmente nella spesa pubblica, scatenando l’inflazione. Al contrario, i “virtuosi” banchieri devoti solo al mercato, «emetterebbero la giusta quantità di moneta, al giusto tasso di interesse, prestandolo ai soggetti meritevoli e più produttivi», migliorando il sistema. La realtà ovviamente è ben altra: in alcuni periodi, i banchieri «concedono prestiti a tutti e a bassi tassi, facendo crescere l’economia reale e quella speculativa», poi tirano i cordoni alzando i tassi e i requisiti di credito, e comprimendo i volumi: «Così creano fame di denaro e svalutazione degli asset», rastrellando sottocosto «il frutto del lavoro e del risparmio dell’economia produttiva». Stesso trattamento verso gli Stati: «Li indebitano analogamente, per poi mandarli in crisi finanziaria ed esigere», come contropartita per evitare il default, «ulteriori cessioni di sovranità e ulteriore indebitamento per colmare i loro buchi e rifinanziare le loro bolle speculative, sotto il ricatto non solo del default pubblico ma di un collasso finanziario generale».
    I grandi banchieri, continua Della Luna, impongono inoltre agli Stati «l’abolizione di ogni restrizione legale alla loro facoltà di giocare d’azzardo coi soldi dei risparmiatori», salvo poi farsi rifinanziare proprio dallo Stato, con denaro che non finisce all’economia reale ma, ancora una volta, al circuito speculativo.  I politici? Complici, da Obama in giù: hanno rifinanziato le banche senza neppure pretendere che il credito commerciale, al servizio delle aziende e dei risparmiatori, venisse separato dalle banche d’azzardo. «Così, le banche centrali – da finanziatrici degli Stati e garanti della loro solvibilità – sono divenute compratrici in proprio, o finanziatrici di banche commerciali compratrici di titoli di debiti pubblici in difficoltà, quindi ad alto rendimento». Evidente: i debiti dei paesi in difficoltà, a rischio default, pagano interessi così elevati «proprio perché le banche centrali non svolgono più la loro naturale funzione di tutela degli interessi pubblici», ma si comportano come banche private, «a scopo di profitto».
    Senza contare che le bolle speculative – profitti facili e rapidi, nonché a rischio – distolgono liquidità dagli investimenti produttivi: sicché crolla l’industria, quindi il lavoro, e si va verso la catastrofe. Il sistema monetario odierno, conclude Della Luna, è perfetto solo per gli interessi dei monopolisti della moneta e del credito, che infatti lo dominano. E’ un sistema marcio, coperto da giustificazioni «false» e dalla «malafede» che accomuna «governi, capi di Stato, organi e autorità internazionali e sovranazionali, nonché il mainstream accademico», cioè tutti i soggetti che, a parole, «si propongono di risolvere la crisi e risanare l’economia». Coltivare il grande imbroglio sulla moneta – non più pubblica, ma divenuta strumento di «sfruttamento e dominazione» – ha portato il mondo «sull’orlo di una catastrofe tanto grande, che potrebbe non essere più governabile nemmeno dai detentori del monopolio monetario-bancario», mandando in pezzi il loro stesso gioco.
    Se il mondo vuole salvarsi, insiste Della Luna, riguardo al denaro deve riscrivere le regole partendo da zero. «In un utopico sistema monetario e creditizio efficiente e razionale rispetto agli interessi della popolazione generale, la moneta è emessa direttamente dallo Stato senza indebitarsi, esattamente come fa già ora col conio metallico; poiché la creazione-emissione di moneta non aurea e non convertibile non comporta un costo, non può comportare indebitamento, né contabilizzazione di debiti a carico dello Stato che la emette». L’emissione sovrana sarebbe quindi vincolata al pagamento graduale del debito capitale pregresso e ad investimenti produttivi e infrastrutturali, che però devono essere effettivamente utili. La libera emissione di denaro non deve venir usata per pagare spesa corrente improduttiva, né investimenti speculativi, evitando di “gonfiare” finanziariamente l’economia reale. Così, si farebbero razionalmente i conti «con i limiti posti allo sviluppo dai limiti delle risorse planetarie», usando la tecnologia per ridurre il peso dei limiti e creare nuovo benessere sostenibile, cioè compatibile col sistema-Terra.

    Banchieri padroni e governi-fantoccio: così, riassume Marco Della Luna, può finire in ginocchio persino il governo Usa, travolgendo il mondo intero nel suo volontario default. Tutto questo, mentre l’Italia affonda nella recessione e nella disoccupazione per mancanza di investimenti. Siamo soffocati dalle tasse, dal crollo della domanda e dai tagli del welfare. Ridurre il debito pubblico? Operazione velleitaria, che si scontra col calo costante di Pil e produttività. Intendiamoci: «Il debito pubblico di quasi tutti i grandi paesi è praticamente inestinguibile in quanto al capitale, e sempre meno sostenibile in quanto agli interessi». La Banca dei Regolamenti Internazionali lancia l’allarme sull’indebitamento mondiale e la bolla speculativa, che hanno prodotto condizioni ancora più esplosive di quelle del 2008. E i “quantitative easing” della Fed, della Bce e di altre banche centrali si sono tradotti in prestiti a basso interesse, che le banche reinvestono nella speculazione e non nell’economia reale. La bolla finanziaria è tale da provocare il global meltdown: titoli pubblici svalutati nei portafogli delle banche su scala mondiale, e istituti di credito senza più soldi.

  • Priebke, gli schiavi di Auschwitz e quelli di Bruxelles

    Scritto il 28/10/13 • nella Categoria: idee • (2)

    «La lugubre pagliacciata allestita attorno al cadavere di Priebke ha sortito l’effetto di attribuire anche a un personaggio del genere l’alone di vittima e di martire». Isterismo che ha fornito il pretesto per «reintrodurre in grande stile, nella legislazione, la criminalizzazione delle opinioni». Vero obiettivo: colpire ben altre convizioni, «come quelle di chi non crede alla versione ufficiale sull’11 Settembre». L’aspetto paradossale della vicenda, rileva il blog “Comidad”, sta nel fatto che «l’eredità del nazismo storico è stata raccolta proprio dal sistema di dominio vigente oggi in Europa, cioè da quella Unione Europea insignita del Premio Nobel per la Pace». I nazisti di allora? Pionieri di un esperimento sociale senza anestesia: applicare anche all’Europa i metodi più disumani fino ad allora sperimentati dal colonialismo solo in Africa, in America e in Australia. Là dove i camerati di Priebke fallirono, oggi regnano i commissari europei. E, come quella di Hitler, la loro legge non è democratica né sindacabile, anche se produce un genocidio economico.
    Ammiratore incondizionato del colonialismo anglosassone, osserva “Comidad”, lo stesso Hitler teorizzò nel suo “Mein Kampf” l’impiego di pratiche coloniali come la deportazione, la concentrazione e lo sterminio delle popolazioni dell’Europa dell’Est. Sino ad allora si pensava che queste tecniche fossero praticabili nelle società tribali, non certo nell’Europa dei lumi. «A guardar bene, il copyright del colonialismo nazista era ancora una volta di origine anglosassone, poiché il primo a resuscitare e usare un mito etnico a fini di destabilizzazione interna agli Stati nazionali era stato nel 1917 il ministro degli esteri britannico Balfour, allorché aveva inviato al banchiere Rothschild una lettera in cui si concedeva ai sionisti la possibilità di stabilire in Palestina un loro “focolare” nazionale», in riconoscimento di quanto gli ebrei stavano facendo per aiutare Gran Bretagna e Francia a vincere la Prima Guerra Mondiale contro la Germania. «La lettera si basava su un falso, dato che in quel periodo la stragrande maggioranza degli ebrei europei combatteva e moriva tra le file tedesche ed austro-ungariche, ma il falso funzionò al punto che in Germania molti imputarono la sconfitta nella prima guerra mondiale agli ebrei».
    Ma nel “Mein Kampf”, aggiunge “Comidad”, l’Ebreo diventa qualcosa di più di una razza o etnia “perfida e ostile”, dato che va a rappresentare un paradigma emergenziale che può essere riapplicato a chiunque e in ogni situazione. «Il Trattato di Maastricht del 1992 – con la sua appendice del Trattato di Lisbona del 2007 – ha ereditato e continuato questo sperimentalismo nazista, poiché ancora una volta si è trattato di trapiantare in Europa un colonialismo brutale e sbrigativo, identico a quello che il Fondo Monetario Internazionale aveva praticato per decenni in Africa, e che sino ad allora si credeva applicabile soltanto a Stati e società fragili, privi di tradizione amministrativa». Così, caduto il Muro di Berlino, anche l’Europa occidentale si è dovuta piegare alle stesse forche caudine – privatizzazioni e liquidazione del welfare – come se anch’essa fosse stata sconfitta al termine della Guerra Fredda. «Come l’antisemitismo, anche l’anticomunismo non si indirizzava solo contro un nemico definito, ma si rivelava un paradigma generale ed onnicomprensivo, a cui nessuno poteva sfuggire e che imponeva a tutti un percorso di “redenzione”».
    La colonizzazione dell’Europa dell’Est è diventata per il Fmi uno strumento per colonizzare anche l’Europa dell’Ovest, e i modelli di riferimento erano già stati tracciati dalle multinazionali tedesche durante la Seconda Guerra Mondiale. «Nel secondo dopoguerra», continua “Comidad”, «l’oligarchia industrial-finanziaria della Germania era riuscita a riciclarsi pressoché in blocco, scaricando per intero le responsabilità di quanto accaduto sul “tiranno” Hitler. Il ruolo fondamentale svolto dal lobbying delle multinazionali tedesche – e dei loro partner americani – per quanto conosciuto e documentato è rimasto invece in ombra. Come è noto, il campo di concentramento di Auschwitz “ospitò” il più grande stabilimento chimico d’Europa, appartenente alla multinazionale tedesca Ig Farben, un cartello di imprese di cui faceva parte anche la Bayer. La Ig Farben era a sua volta in partnership con la Standard Oil dei Rockefeller. Al finanziamento del campo di Auschwitz in Polonia partecipò, manco a dirlo, anche la onnipresente Deutsche Bank».
    La Ig Farben di Auschwitz «rappresentò un esempio avveniristico di “relocation” aziendale, in cui lavoravano deportati, ma anche “volontari” fatti arrivare da tutta Europa, compresa la Francia; perciò – conclude “Comidad” – lo schiavismo palese era integrato con altre forme di reclutamento del lavoro che già anticipavano aspetti del modello attuale». Che ancora oggi la Polonia costituisca una delle mete privilegiate delle rilocalizzazioni aziendali «costituisce una macabra ironia della storia». Una logica aziendale estremizzata ad Auschwitz, nella sua spaventosa chiarezza genocida: «Grazie alle deportazioni di massa, la “materia prima umana” veniva a costare meno del pasto che l’avrebbe dovuta mantenere». Da qui, «per mere ragioni di budget», la sottoalimentazione dei lavoratori e l’eliminazione sistematica degli inabili al lavoro. Se nell’economia il lavoro costituisce la variabile “flessibile” per eccellenza, «certe conseguenze criminali sono ovvie e inevitabili: al punto in cui sono arrivati attualmente i giochi, non è più necessario nemmeno un Hitler, basta un Marchionne qualsiasi».
    Erano invece le tanto vituperate “rigidità” a conferire qualche simmetria, e quindi anche quel po’ di equilibrio, ai rapporti aziendali. Il nazismo, «di solito fatto passare per un nazionalismo estremo», al contrario «anticipò i tempi anche nello spezzare le rigidità nazionali, configurando il modello che il Trattato di Maastricht avrebbe poi pienamente realizzato», rileva “Comidad”. «Tutto dev’essere “flessibile” in Europa, tranne i Trattati, perché la loro rigidità esprime gli interessi del lobbying multinazionale». Se il parallelismo può suscitare perplessità, data la distanza storica, «resta il fatto che l’avvento di strumentazioni come il denaro elettronico apre nuove possibilità di spezzare le antiche rigidità sociali, nazionali e territoriali. Ciò rende possibile anche il controllo e lo sfruttamento della pseudo-migrazione, cioè la forma moderna di deportazione di massa».

    «La lugubre pagliacciata allestita attorno al cadavere di Priebke ha sortito l’effetto di attribuire anche a un personaggio del genere l’alone di vittima e di martire». Isterismo che ha fornito il pretesto per «reintrodurre in grande stile, nella legislazione, la criminalizzazione delle opinioni». Vero obiettivo: colpire ben altre convizioni, «come quelle di chi non crede alla versione ufficiale sull’11 Settembre». L’aspetto paradossale della vicenda, rileva il blog “Comidad”, sta nel fatto che «l’eredità del nazismo storico è stata raccolta proprio dal sistema di dominio vigente oggi in Europa, cioè da quella Unione Europea insignita del Premio Nobel per la Pace». I nazisti di allora? Pionieri di un esperimento sociale senza anestesia: applicare anche all’Europa i metodi più disumani fino ad allora sperimentati dal colonialismo solo in Africa, in America e in Australia. Là dove i camerati di Priebke fallirono, oggi regnano i commissari europei. E, come quella di Hitler, la loro legge non è democratica né sindacabile, anche se produce un genocidio economico.

  • Letta sa che stiamo per crollare: sono dei figli di Troika

    Scritto il 26/10/13 • nella Categoria: idee • (1)

    La Troika è di nuovo al lavoro, la Bce e la Commissione stanno preparando il sacco dei risparmi, mentre il Fmi fa lo stesso in parallelo, specializzandosi su come far pagare ai cittadini il debito estero degli Stati. Un prelievo una tantum sui conti correnti a livello europeo? L’ipotesi del Fmi è parte della seconda fase della strategia di esproprio dei risparmi dei cittadini, avviata durante gli anni ’80 e ’90 e che ha avuto una sua prima prova di successo negli Stati Uniti e nell’Unione Europea con la rapina finanziaria del 2008-2010. Una rapina che ha portato un bottino nelle mani di pochi gruppi pari al 37% del Pil europeo. Cioè aiuti di Stato, tra ottobre 2008 e ottobre 2011, a favore degli enti finanziari pari a 4.500 miliardi di euro, a cui si aggiungono 6.500 miliardi di euro. Il che ha fatto ovviamente scoppiare il “debito sovrano” di molti paesi dell’Ue, stimato tra i 45 e i 65.000 miliardi di euro. Di questa rapina, definita da James K. Galbraith «il più grande crimine finanziario della storia del capitalismo», si conoscono gli autori e gli attori.
    Basta leggere il testo dell’indagine condotta negli Stati Uniti dalla Financial Crisis Inquiry Commission, che ne illustra i meccanismi e le collusioni politiche. Il rapporto spiega che tutte le leggi introdotte per legalizzare questa rapina sono in vigore e i responsabili sono ai loro posti e si accingono al secondo girone. La fase attuale ha avuto inizio a fine 2012 con il rastrellamento dei pochi risparmi ancora in giro mediante l’imposizione del conto in banca anche ai pensionati con mille euro al mese, seguito dalla legge che impone il trasferimento delle informazioni su tutti i conti correnti all’Agenzia delle Entrate e dalla Direttiva Barnier in corso di approvazione al Parlamento Europeo, che introduce a livello europeo la norma sperimentata a Cipro – e cioè che in caso di fallimento bancario sono i risparmiatori a pagare e non più i governi o la Bce. Si prepara a fine anno il fallimento delle maggiori banche europee e quindi il prelievo sui conti dei risparmiatori. Su quello che accadrà poi si è espresso con chiarezza il ministro Saccomanni, che ha di nuovo aperto alle “cartolarizzazioni” e ha dichiarato finita l’era delle banche per dare il benvenuto al “sistema finanziario ombra”.
    Il governo Letta è consapevole di tutto questo. Per questo è stato il governo dei rinvii, in attesa che lo scoppio della crisi e il fallimento degli Stati dell’Europa del sud annulli tutti gli impegni verso i cittadini, inesigibili dentro i parametri europei. La legge finanziaria presentata si muove dentro questa stessa logica per rassicurare i risparmiatori prima del collasso. Più che un’aspirina per combattere il cancro è un sonnifero, ammesso che funzioni. Letta che ribadisce l’assoluta necessità della “stabilità”, minacciata dalla crescita del “populismo antieuropeo”, e Draghi che ritiene l’euro “irreversibile”? Entrambi parlano come persone informate dei fatti, cioè consapevoli dei rischi di quello che stanno facendo. Per Letta e simili, le riforme devono creare un “presidente” forte per reprimere l’inevitabile reazione popolare che verrà a seguito di ciò che stanno preparando. Draghi continua a fare alla Bce quello che ha fatto in Italia al tempo delle privatizzazioni bancarie, che sono divenute il veicolo delle speculazioni successive di Goldman Sachs & Co. Ha coperto la crisi del 2008 come governatore della Banca d’Italia scaricandone i costi sui risparmiatori e i cittadini. Oggi ripete l’esercizio alla Bce. L’uomo giusto al posto giusto. E pochi ricordano che nella sua tesi di laurea svolta con Federico Caffè affermò, ben prima del disastro, che l’euro non si doveva e non si poteva fare.
    I debiti nascono perché qualcuno li chiede – per bisogno o magari inavvertitamente – e qualcuno li concede – per amore degli altri, come si fa in famiglia, o sperando di trarre vantaggio dalle disgrazie altrui. Quando il meccanismo si inceppa, come nel nostro caso, si rinegozia il tutto e entrambe le parti si accollano la loro parte di responsabilità. Continuare sull’austerità, come si sta facendo, porta ai disastri politici e sociali che conosciamo dalla storia. Cioè a quello a cui stiamo assistendo in questi giorni sulle nostre strade. Gli “incappucciati” individuati da Federico Caffè negli anni ’80, oggi si sono tolti il cappuccio e gestiscono in prima persona anche il potere politico in tutti i paesi europei. Il governo politico italiano ha nei posti di maggiore responsabilità individui che sono espressione diretta di quegli ambienti. Coloro che sino a qualche anno fa erano i controllori “incappucciati” della politica ora ne sono diretti rappresentanti. Una bella riforma costituzionale di fatto già attuata, mentre si fanno campagne per difendere qualcosa che ormai non c’è più. Si tratta semmai di ri-affermare la Costituzione, che però non nacque in seguito a qualche corteo o alle elezioni ma a una guerra, anche civile. Se c’è un modo pacifico di farlo, va scoperto rapidamente.
    Salvare il progetto di integrazione europea? Temo che sia troppo tardi per ricucire un rapporto di fiducia tra i cittadini europei e le istituzioni. Tuttavia, per quanti ancora credono che ciò sia possibile, è necessario spazzare via la Triade, dare potere al Parlamento Europeo in modo che esprima un governo politico europeo nei limiti delle competenze previste. Per quanto riguarda i paesi dell’Europa del sud, devastati dalla crisi e dalla Bce, si tratta di rinegoziare per intero il funzionamento dell’Eurozona, consentendo – dentro questa – due aree monetarie con margini di maggiore flessibilità e con un meccanismo di solidarietà tra nord e sud. Lo scoglio è rappresentato dalla Germania, quello scoglio che ha affondato oggi l’euro. O la Germania contribuisce a risollevare la nave, oppure è meglio abbandonarla prima che sia troppo tardi. Ma temo che sia già troppo tardi, e i primi ad abbandonarla saranno proprio i tedeschi.
    (Bruno Amoroso, estratti delle dichiarazioni rilasciate a Piero Ricca per l’intervista “Figli di Troika”, pubblicata dal blog di Grillo il 25 ottobre 2013. Economista dell’università danese di Roskide e co-firmatario del “Manifesto per l’Europa” redatto con Giulietto Chiesa e “Alternativa” per chiedere l’instaurazione di un regime democratico a Bruxelles con l’abolizione dell’attuale Commissione Europea, Amoroso è autore del recente saggio “Figli di Troika. Gli artefici della crisi economica”, edito da Castelvecchi).

    La Troika è di nuovo al lavoro, la Bce e la Commissione stanno preparando il sacco dei risparmi, mentre il Fmi fa lo stesso in parallelo, specializzandosi su come far pagare ai cittadini il debito estero degli Stati. Un prelievo una tantum sui conti correnti a livello europeo? L’ipotesi del Fmi è parte della seconda fase della strategia di esproprio dei risparmi dei cittadini, avviata durante gli anni ’80 e ’90 e che ha avuto una sua prima prova di successo negli Stati Uniti e nell’Unione Europea con la rapina finanziaria del 2008-2010. Una rapina che ha portato un bottino nelle mani di pochi gruppi pari al 37% del Pil europeo. Cioè aiuti di Stato, tra ottobre 2008 e ottobre 2011, a favore degli enti finanziari pari a 4.500 miliardi di euro, a cui si aggiungono 6.500 miliardi di euro. Il che ha fatto ovviamente scoppiare il “debito sovrano” di molti paesi dell’Ue, stimato tra i 45 e i 65.000 miliardi di euro. Di questa rapina, definita da James K. Galbraith «il più grande crimine finanziario della storia del capitalismo», si conoscono gli autori e gli attori.

  • Lavoro per tutti, e subito. Barnard: vi spiego come

    Scritto il 25/10/13 • nella Categoria: idee • (2)

    Piena occupazione. E cioè assumere, subito, milioni di italiani: tutti quelli che non trovano lavoro, che l’hanno appena perso o lo stanno perdendo, nel limbo della cassa integrazione. Non è una fiaba, è la teoria della moneta moderna basata sulla sovranità finanziaria dello Stato. Parola chiave: spesa pubblica, da investire in occupazione. Un colossale piano di assunzioni temporanee. Quanto basta per dare uno stipendio a tutti, consentire agli italiani di rilanciare i consumi e quindi ridare ossigeno anche al settore privato, che quindi potrebbe ricominciare a investire e assumere. Soldi che poi lo Stato potrebbe recuperare, sotto forma di entrate fiscali. Tutto questo, sostiene Paolo Barnard, si può fare ad un’unica condizione imprescindibile: «Il governo italiano comunichi all’Unione Europea che, per la salvezza nazionale, ignorerà il limite europeo del 3% di deficit, cioè porterà la spesa a deficit a un livello superiore, tanto quanto gli serve per ottenere in Italia la piena occupazione». Raggiunto l’obiettivo-lavoro, «il deficit dell’Italia si fermerà».
    L’ex inviato di “Report”, oggi attivista della Modern Money Theory sviluppata dall’economista americano Warren Mosler, protesta per l’indifferenza che accoglie lo spettacolo «pietoso e straziante» degli operai in via di licenziamento, inutilmente esibito dalla televisione. Pochi istanti di visibilità, «poi spariscono dal mondo abbandonati nella loro disperazione». Sono soli: «Nessuno gli spiega l’economia». Spesso incolpano “in politici” e “i padroni”, ma restano «incapaci di vedere quanto assurdi, falsari e ignoranti sono i loro sindacati», ormai rassegnati solo a negoziare «il grado di abolizione dei diritti» e annichiliti nell’orizzonte del pensiero unico neoliberista, quello che ha distrutto lo Stato come potente operatore anche economico, in grado di tutelare la comunità nazionale. La Mmt, fondata sull’economia democratica di Marx e Keynes, ribalta lo scenario: se il mercato è in crisi e il settore privato è in agonia, come oggi in Italia, c’è qualcuno che, se vuole, ha la forza per cancellare, in un colpo solo, la tragedia della disoccupazione, che è la prima conseguenza (ma anche la causa) della crisi. Chi può fare il “miracolo”? Un solo soggetto: lo Stato.
    Oggi, riassume Barnard, il settore privato di imprese e banche è impossibile che trovi le risorse per l’occupazione e gli investimenti. «Inutile sbraitare con loro: il settore privato è pro-ciclico», cioè segue l’andamento del ciclo economico. «Se questo va bene, allora i datori di lavoro assumono e non licenziano, e le banche prestano alle aziende. Ma se il ciclo economico va male, allora licenziano, cassintegrano, e le banche non prestano alle aziende, o prestano a tassi impossibili». Oggi l’economia dell’Italia «non va male, va da vomitare», e quindi non è possibile aspettarsi nulla da imprese e banche, cioè dal settore privato, che è pro-ciclico. In questa situazione, l’unico settore che può intervenire è l’altro, quello pubblico. Il governo, «essendo colui che elargisce i soldi al paese, può decidere di andare contro il ciclo economico (anti-ciclo)». Quindi, quando l’economia «va da schifo», proprio il settore governativo «può invece investire alla grande». In altre parole: «Solo il governo può spendere mentre la nave affonda, il settore privato non lo farà mai». La soluzione? Investimenti strategici, sotto forma di spesa pubblica, per assumere milioni di italiani.
    Gli attivisti della Mosler Economics lo chiamano Plg, programma di lavoro garantito transitorio. Un piano speciale, targato Me-Mmt, concepito appositamente per «salvare i lavoratori dalla disperazione dei licenziamenti e della cassintegrazione». Missione: assumere, subito, tutti i licenziati e i cassintegrati d’Italia, con l’obiettivo finale di rilanciare il settore oggi più in crisi, quello privato. «Il Plg – spiega Barnard – assume in lavori programmati tutti i lavoratori disoccupati, pagandogli un “reddito di dignità” che sta di un pelo al di sotto del reddito medio del settore privato per le stesse mansioni. A quel punto, milioni di disoccupati italiani immediatamente percepiscono un reddito», a spese del governo «Cosa accade? Che lo spendono. E questo cosa fa? Aumenta le vendite delle aziende». Un effetto a cascata: l’incremento del fatturato delle aziende rilancia il settore privato, fino a far ripartire le assunzioni ordinarie.
    Va da sé che il piano statale di piena occupazione, studiato per salvare l’economia italiana, produrrebbe milioni di salariati in più, quindi un aumento della base imponibile del prelievo fiscale, ma «senza alzare le tasse di un centesimo». Lo Stato recupererebbe soldi semplicemente consentendo a milioni di italiani (e a migliaia di aziende) di avere di nuovo un reddito. L’unica condizione perché il “miracolo” si compia è che l’Italia affronti l’Unione Europea, rifiuti la politica di rigore e annunci che ricorrerà all’aumento temporaneo del deficit per ragioni di salvezza nazionale. «Italiani che lavorate o che non lavorate più, credetemi: questa è l’unica via, l’unica speranza, cioè un programma economico figlio di un secolo di storia dell’economia», conclude Barnard. «I sindacati oggi sono incapaci di qualsiasi proposta», assistendo alla perdita graduale dei diritti del lavoro duramente conquistati nel dopoguerra. Da Barnard, un appello diretto ai lavoratori: «Dovete essere voi a capire le basi dell’economia e a organizzarvi per pretendere che quanto sopra divenga politica di governo. Ora sapete cosa fare, fatelo».

    Piena occupazione. E cioè assumere, subito, milioni di italiani: tutti quelli che non trovano lavoro, che l’hanno appena perso o lo stanno perdendo, nel limbo della cassa integrazione. Non è una fiaba, è la teoria della moneta moderna basata sulla sovranità finanziaria dello Stato. Parola chiave: spesa pubblica, da investire in occupazione. Un colossale piano di assunzioni temporanee. Quanto basta per dare uno stipendio a tutti, consentire agli italiani di rilanciare i consumi e quindi ridare ossigeno anche al settore privato, che quindi potrebbe ricominciare a investire e assumere. Soldi che poi lo Stato potrebbe recuperare, sotto forma di entrate fiscali. Tutto questo, sostiene Paolo Barnard, si può fare ad un’unica condizione imprescindibile: «Il governo italiano comunichi all’Unione Europea che, per la salvezza nazionale, ignorerà il limite europeo del 3% di deficit, cioè porterà la spesa a deficit a un livello superiore, tanto quanto gli serve per ottenere in Italia la piena occupazione». Raggiunto l’obiettivo-lavoro, «il deficit dell’Italia si fermerà».

  • Deficit al 3%: Renzi, Cuperlo e la Grecia che ci attende

    Scritto il 25/10/13 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Per Gianni Cuperlo, l’ultimo anonimo prodotto di quello che Diego Fusaro chiama «il tragicomico serpentone metamorfico Pci-Pds-Ds-Pd», cioè la macchina elettorale che da più di vent’anni drena voti di sinistra per fare politiche al servizio della destra neoliberista all’insaputa degli elettori, è possibile salvare l’Italia dalla catastrofe in cui sta precipitando anche senza superare il tetto “impossibile” del deficit, fissato al 3% del Pil dai signori di Bruxelles, che nessuno ha mai eletto. La pensano allo stesso modo anche i renziani: prima di rivendicare giustizia finanziaria in sede europea, l’Italia deve scontare i suoi “peccati” storici e spremere altri soldi tagliando gli sprechi: operazione che, da sola, basterebbe a rimettere in piedi il paese. In realtà, l’Italia è stremata dalla deflazione indotta dalla Bce, dalla mancanza di liquidità, dal crollo della domanda di consumi. Disoccupazione apocalittica. La causa: ridotto in bolletta dell’euro e costretto a tagliare la spesa pubblica vitale, lo Stato determina anche in crollo del settore privato. Lo conferma l’esperimento di genocidio economico più vicino a noi, quello della Grecia.
    La crisi del debito sovrano che ha travolto Atene ha avuto un effetto drammatico, quasi dimezzando il reddito disponibile degli ellenici rispetto a cinque anni fa, rileva il blog di Gad Lerner. Il reddito lordo disponibile è sceso del 29,5% tra il secondo trimestre del 2008 e lo stesso periodo del 2013, spiega il servizio statistico Elstat. Se si considera anche  l’inflazione, il calo si avvicina al 40%. «Questi dati – sottolinea il blog – illustrano l’impatto della brutale recessione e delle misure di austerità che il governo potrebbe essere costretto a estendere al prossimo anno: a causa della minaccia della bancarotta, il governo di Atene ha continuamente ridotto le spese sociali e alzato le tasse, al fine di ricevere i crediti internazionali che hanno finanziato parte delle attività statali dopo l’uscita del paese dai mercati dei capitali». Criminalizzata per il debito pubblico, la Grecia dell’euro – mentre il Giappone (moneta sovrana) veleggia verso un maxi-indebitamento espansivo pari al 250% del Pil, e senza scosse finanziarie perché la banca centrale garantisce per i titoli di Stato.
    Negli ultimi quattro anni, nella Grecia spolpata dalla Troika le prestazioni sociali sono state ridotte del 26%: «Una misura che ha pesantemente contratto i consumi, che rappresentavano circa tre quarti del Prodotto interno lordo, la proporzione maggiore dell’Eurozona». Salari in picchiata: «Gli stipendi dei lavoratori sono scesi del 34% dal secondo trimestre 2009, sempre secondo i dati Elstat». Il servizio statistico greco sottolinea come la crisi abbia interessato anche i livelli di risparmio delle famiglie, scesi dell’8,7% nel secondo trimestre del 2013 contro un calo del 6,7% dell’anno prima. E oltre il danno, la beffa: gli economisti mainstream considerano “buone notizie” quelle sui conti ellenici, dove si prevede un avanzo primario a fine 2013. I greci non sanno più come mangiare e come curarsi se sono malati, ma almeno il bilancio dello Stato non è più in rosso. Che consolazione. E chissà cosa ne pensano Renzi, Cuperlo e colleghi. Ben decisi ancora e sempre a presentare il debito pubblico come “problema”, sperando che alle elezioni europee del maggio 2014 si parli di tutto tranne che di soluzioni, a condizione che l’elettorato italiano continui a dormire.

    Per Gianni Cuperlo, l’ultimo anonimo prodotto di quello che Diego Fusaro chiama «il tragicomico serpentone metamorfico Pci-Pds-Ds-Pd», cioè la macchina elettorale che da più di vent’anni drena voti di sinistra per fare politiche al servizio della destra neoliberista all’insaputa degli elettori, è possibile salvare l’Italia dalla catastrofe in cui sta precipitando anche senza superare il tetto “impossibile” del deficit, fissato al 3% del Pil dai signori di Bruxelles, che nessuno ha mai eletto. La pensano allo stesso modo anche i renziani: prima di rivendicare giustizia finanziaria in sede europea, l’Italia deve scontare i suoi “peccati” storici e spremere altri soldi tagliando gli “sprechi”: operazione che, da sola, basterebbe a rimettere in piedi il paese. In realtà, l’Italia è stremata dalla deflazione indotta dalla Bce, dalla mancanza di liquidità, dal crollo della domanda di consumi. Disoccupazione apocalittica. La causa: ridotto in bolletta dell’euro e costretto a tagliare la spesa pubblica vitale, super-tassando famiglie e aziende, lo Stato determina anche il crollo del settore privato. Lo conferma l’esperimento di genocidio economico più vicino a noi, quello della Grecia.

  • Maradona, gli evasori e i pagliacci (tra sdegno e fiction)

    Scritto il 24/10/13 • nella Categoria: idee • (Commenti disabilitati)

    Maradona, il calcio e le tasse: quando il senso civico «finisce nelle mani dei pagliacci». Che sarebbero, nell’ordine: l’ex grande giocatore argentino e il tele-intrattenitore più coccolato d’Italia, Fabio Fazio. Con la “complicità” indiretta di un grande eretico della televisione italiana, Gianni Minà, “colpevole” di aver contribuito a mitizzare il Pibe de Oro, facendone una sorta di eroe da presentare in prima serata – tra la Littizzetto e l’anonimo Raffaele Fitto – nel bel mezzo del Grande Nulla italiano. E’ il grigio campo di gioco nel quale il mainstream di regime cincischia a bordo campo, proprio come il Dieguito dei bei tempi, pur di non parlare della crisi che sta scotennando il paese. Perfetto, nella grande finzione, anche il sapiente dosaggio emotivo del vicedirettore della “Stampa”, Massimo Gramellini, bravissimo nel dispensare ai telespettatori il suo Libro Cuore

  • Costituzione fai da te, Giulietto Chiesa: senatori golpisti

    Scritto il 24/10/13 • nella Categoria: segnalazioni • (Commenti disabilitati)

    Ma Laura Puppato non avrebbe dovuto opporsi al “golpe bianco” per cambiare la Costituzione, come annunciato da lei stessa in piazza il 12 ottobre? E’ stata “convinta” in extremis da Anna Finocchiaro a votare a favore, spiega lei stessa nella sua pagina Facebook. «La Costituzione è in mano a queste rocce saldissime», commenta Giulietto Chiesa, che annuncia: «Noi faremo resistenza», contro la manomissione della Carta. Per soli 4 voti, il Senato ha approvato il dispositivo che modifica l’articolo 138 e apre la strada a rapide modifiche dell’impianto costituzionale, come suggerito dal “garante” Napolitano. Risultato: per cambiare le regole della democrazia in Italia non sarà più necessario disporre del consenso dei due terzi del Parlamento: si potrà procedere più alla svelta, magari come auspicato da uno dei potenti della Terra, il “ceo” di Jp Morgan Chase, Jamie Dimon, ansioso di veder sparire dall’Europa le “vecchie” Costituzioni come quella italiana, così attente ai diritti del lavoro.
    Questo Senato sbrigativo non ci rappresenta, protesta su “Megachip” Giulietto Chiesa, presidente del laboratorio politico “Alternativa”. «E’ una Camera che ha una maggioranza di provocatori, di lanzichenecchi che operano contro l’ordine e la pace sociale». Dettaglio decisivo: questa «maggioranza indegna» non è certo appannaggio dei soli “berluscones”, di Casini e di Monti, visto che «ne è parte integrante il Partito Democratico», che dopo lo “smacchiatore” Bersani propone il neoliberista Renzi, col contraltare mediatico di un uomo d’apparato come Cuperlo, che richiama la sinistra ai suoi doveri storici ma senza ovviamente disturbare il manovratore europeo, che col limite del deficit al 3% rende vuoto qualsiasi proclama sociale e democratico. Molte delle attuali direttive europee e degli accordi-capestro (Maastricht, Lisbona, Fiscal Compact) da cui dipende la nostra crisi, accusa un giurista come l’ex ministro Giuseppe Guarino, sono tecnicamente illegali, Costituzione alla mano. E, anziché rimediare impugnando la Carta, la si preferisce cambiare, neutralizzandola, in modo che non possa più ostacolare il super-potere europeo.
    La maggioranza con cui è passato al Senato il testo della deroga all’articolo 138 della Costituzione, storico baluardo contro tentazioni manipolatorie della Carta su cui si è finora basata la Repubblica nata dalla Resistenza, ha superato i due terzi con appena 218 a favore rispetto ai 214 del quorum richiesto (58 i contrari e 12 gli astenuti). Hanno votato a favore la stragrande maggioranza dei senatori Pd, Pdl e “Scelta Civica”. Contrari M5S e Sel, cui si aggiungono 5 senatori Pd: Felice Casson astenuto, mentre non hanno partecipato al voto Walter Tocci, Silvana Amati e Renato Turano. Con loro anche l’ex direttore di “RaiNews24”, Corradino Mineo, che pure – accettando di candidarsi – sperava in una “legislatura costituente” di ben altro livello. Decisivo, osserva il “Fatto Quotidiano”, il supporto numerico offerto della Lega Nord per sostenere il provvedimento, fortemente voluto dal governo delle larghe intese su sollecitazione del Quirinale. Se il quorum dei due terzi venisse superato anche alla Camera, sarà possibile evitare il referendum confermativo per le leggi di riforma costituzionale.
    Molte, al Senato, anche le defezioni nel Pdl, tra cui quella di Francesco Nitto Palma, senatore campano e presidente della commissione giustizia. Nel Pdl, scrive il “Fatto”, il colpo di mano sulla Costituzione ripropone lo scontro tra “falchi” e “colombe”: la fronda interna al partito berlusconiano nel voto sul ddl costituzionale ha coinvolto 11 senatori, che si sono astenuti al momento del voto (al Senato, l’astensione vale come un voto contrario). Oltre a Palma, gli altri sono Maria Elisabetta Alberti Casellati, Vincenzo D’Anna, Domenico De Siano, Ciro Falanga, Pietro Iurlaro, Pietro Langella, Eva Longo, Antonio Milo, Domenico Scilipoti e l’ex direttore del Tg1, Augusto Minzolini. «Di questi solo Nitto Palma, Minzolini e Falanga hanno annunciato in aula la loro astensione, in disaccordo col fatto che il ddl non affronta il tema della riforma della giustizia. Altri 12 senatori del Pdl, compreso Silvio Berlusconi, non erano invece presenti in aula». Alla Camera, ovviamente, la strada sarà spianata. E gli appelli di Zagrebelsky e Rodotà per non manomettere pericolosamente la Costituzione? Tutto inutile. «Faremo quanto è possibile per cancellare questa vergogna», annuncia Giulietto Chiesa. «Un Parlamento di nominati non rappresenta il paese e, tanto meno, può arrogarsi il diritto di cambiarne la carta costituzionale con un colpo di mano. Questo è un golpe bianco, che esegue il piano eversivo della P2. Noi faremo resistenza».

    Ma Laura Puppato non avrebbe dovuto opporsi al “golpe bianco” per cambiare la Costituzione, come annunciato da lei stessa in piazza il 12 ottobre? E’ stata “convinta” in extremis da Anna Finocchiaro a votare a favore, spiega ora nella sua pagina Facebook. «La Costituzione è in mano a queste rocce saldissime», commenta Giulietto Chiesa, che annuncia: «Noi faremo resistenza», contro la manomissione della Carta. Per soli 4 voti, il Senato ha approvato il dispositivo che modifica l’articolo 138 e apre la strada a rapide modifiche dell’impianto costituzionale, come suggerito dal “garante” Napolitano. Risultato: per cambiare le regole della democrazia in Italia non sarà più necessario disporre del consenso dei due terzi del Parlamento: si potrà procedere più alla svelta, magari come auspicato da uno dei potenti della Terra, il “ceo” di Jp Morgan Chase, Jamie Dimon, ansioso di veder sparire dall’Europa le “vecchie” Costituzioni come quella italiana, così attente ai diritti del lavoro.

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