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Archivio del Tag ‘finanza’

  • Derby tra Mélenchon e Le Pen: un incubo, per i bankster Ue

    Scritto il 15/4/17 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    «Jean-Luc Mélenchon cresce nei sondaggi», titola l’“Huffington Post”: «La paura della Francia per un ballottaggio con Marine Le Pen». Ma se la Le Pen e Mélenchon rappresentano la maggioranza dei francesi, chi è “la Francia” che ne avrebbe “paura”? Parziale spiegazione: «Più cresce nei sondaggi (gli ultimi lo danno tra il 18% e il 19%), più i mercati mandano segnali negativi». Ok, i “mercati”: non “la Francia”. Spaventati – fosse vero – per quello che (per loro) potrebbe rivelarsi un incubo: il derby per l’Eliseo affidato a due alfieri entrambi anti-Ue, la signora del Front National e l’ex socialista di sinistra, che rimprovera a Hollande di essersi piegato all’oligarchia finanziaria che domina l’Europa attraverso i trattati-capestro di Bruxelles. «L’astro del “comunista” Jean-Luc Mélenchon non cessa di brillare e inizia a impensierire gli altri candidati alla presidenza della Francia che si sfideranno al primo turno, previsto per domenica 23 aprile», scrive l’“Huffington”. «Tanto che nei media inizia a non essere escluso a priori un ballottaggio per l’Eliseo che avrebbe del clamoroso: il rosso Mélenchon contro la nera Marine Le Pen. Un incubo per i partiti tradizionali e per il favorito centrista Emmanuel Macron».
    Tra parentesi, il “centrista” Macron proviene dalla filiale francese della banca dei Rothschild, mentre l’altro candidato “istituzionale”, l’ex premier François Fillon, propone un supplemento di austerity con altri tagli al spesa pubblica e al welfare. Ancora qualcuno si stupisce se “la Francia” ha tutto, meno che “paura”, di Marine Le Pen e Jean-Luc Mélenchon, entrambi ultra-critici sull’euro, la Nato e le sanzioni alla Russia? «Davanti a questo scenario – continua il “Post” – il presidente francese, Francois Hollande, ha rotto il silenzio: secondo il quotidiano “Le Monde” moltiplicherà gli appelli contro il pericolo “populista”». Ballottaggio tra il candidato della sinistra alternativa e la candidata del Front National? Uno scenario che secondo i media mainstream intimorisce i “mercati”, con l’innalzamento dei tassi sul debito pubblico francese. Senza spingersi fino a chiedere un voto per il candidato di “En Marche”, cioè Macron, l’incolore Hollande sembra invece scaricare in modo definitivo il candidato socialista (almeno sulla carta compagno di partito) Benoit Hamon. «L’emotività sta prevalendo sulla ragione», sentenzia Hollande, rivelatosi il presidente meno stimato di tutta la storia repubblicana francese.
    Anziché per il suo disastroso bilancio politico ed economico, l’Eliseo è preoccupato per la spettacolare impennata, nei sondaggi, del candidato della “France Insoumise”, che allarmerebbe i “bankster”, gli squali della finanza, al pari della Le Pen. Hollande però si guarda bene, per ora, dallo schierarsi con Macron: sa perfettamente che la mossa «potrebbe rivelarsi controproducente», dato il vasto discredito di cui gode il presidente uscente. Nel frattempo, al finto indipendente Macron e al gollista Fillon non resta che giocare di sponda per arginare Mélenchon. A Besançon, racconta l’“Huffington Post”, Macron si è scagliato contro «il rivoluzionario comunista che era giù senatore socialista quando io ancora andavo al college». Fillon, che sinora ha sempre avuto come bersaglio Macron e – seppur in minor misura – la Le Pen, ha inserito tra i suoi nemici anche Mélenchon. Ma il candidato della sinistra radicale ha contro “Le Figaro”, che lo definisce «il Chavez francese», mentre su “France Inter” si denuncia il “pericolo comunista”, fino al ridicolo: per il giornalista Patrick Cohen, «non siamo lontani dallo spauracchio dei carri armati russi del 1981».

    «Jean-Luc Mélenchon cresce nei sondaggi», titola l’“Huffington Post”: «La paura della Francia per un ballottaggio con Marine Le Pen». Ma se la Le Pen e Mélenchon rappresentano la maggioranza dei francesi, chi è “la Francia” che ne avrebbe “paura”? Parziale spiegazione: «Più cresce nei sondaggi (gli ultimi lo danno tra il 18% e il 19%), più i mercati mandano segnali negativi». Ok, i “mercati”: non “la Francia”. Spaventati – fosse vero – per quello che (per loro) potrebbe rivelarsi un incubo: il derby per l’Eliseo affidato a due alfieri entrambi anti-Ue, la signora del Front National e l’ex socialista di sinistra, che rimprovera a Hollande di essersi piegato all’oligarchia finanziaria che domina l’Europa attraverso i trattati-capestro di Bruxelles. «L’astro del “comunista” Jean-Luc Mélenchon non cessa di brillare e inizia a impensierire gli altri candidati alla presidenza della Francia che si sfideranno al primo turno, previsto per domenica 23 aprile», scrive l’“Huffington”. «Tanto che nei media inizia a non essere escluso a priori un ballottaggio per l’Eliseo che avrebbe del clamoroso: il rosso Mélenchon contro la nera Marine Le Pen. Un incubo per i partiti tradizionali e per il favorito centrista Emmanuel Macron».

  • Magaldi: riusciranno i 5 Stelle a dirci cosa vogliono fare?

    Scritto il 13/4/17 • nella Categoria: idee • (38)

    Prima o poi ce la faranno, i 5 Stelle, a farci sapere come governerebbero l’Italia? Ce l’hanno, qualche idea, su come regolarsi con l’Ue e la Bce? «Insomma: qual è l’approdo programmatico sostanziale del Movimento 5 Stelle? Ancora non ce ne siamo accorti. Se poi si accontentano di ottenere il consenso, prendere tante poltrone e stare lì a fare come stanno facendo a Roma, allora povera Italia». Parola di Gioele Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, reduce da un forum a Roma sul futuro della democrazia con Nino Galloni, Giulietto Chiesa, Ferdinando Imposimato. Una due giorni nella quale si è anche parlato di un ipotetico, futuro partito (il Pdp, Partito Democratico Progressista), da mettere in campo se la politica italiana continuasse a “dormire”, cioè a subire i diktat dell’oligarchia finanziaria che manovra dagli uffici di Bruxelles. Nell’ultimo collegamento con David Gramiccioli su “Colors Radio” (filo diretto con gli ascoltatori, per discutere dei maggiori temi dell’attualità, anche internazionale) a tenere banco sono le primarie del Pd e le schermaglie tra Renzi e i 5 Stelle: ancora una volta nulla di strategico in vista, per il futuro dell’Italia, alle prese con una crisi ormai cronica, per risolvere la quale nessuno propone vere ricette. Una su tutte: costringere l’Ue a rimangiarsi i suoi trattati-capestro.
    Se le primarie del Pd sembrano annunciare una scontata vittoria di Renzi, Magaldi si permette «un piccolo endorsement» in favore di Michele Emiliano: «Quantomeno, sembra cogliere alcune istanze di denuncia della inefficacia assoluta sul piano del rapporto tra l’Italia e l’Europa, che è il vero tema fondante». Tralasciando l’incolore Andrea Orlando, già ministro renziano, continua «la pantomima» di Renzi, che «si continua a proporre come uno che risolverà il rapporto con l’austerity». La verità è tristemente un’altra: «Ha avuto due anni, per farlo: non l’ha fatto. C’è anzi una continuità sostanziale del governo Renzi rispetto a quelli di Letta e Monti, cioè una subalternità di questo grande paese, l’Italia, rispetto ai trattati europei e a un’egemonia, svolta attraverso alcune cancellerie, da parte di gruppi sovranazionali che rendono sempre più insopportabile la camicia di forza imposta al vecchio continente». Pensando sempre agli elettori Pd, Magaldi ipotizza che «forse, un voto a Emiliano testimonierebbe meglio l’esistenza di un malessere necessario e giusto, rispetto alle figure di Orlando e Renzi, che rappresentano la continuità». Ma se il Pd piange, di sicuro i 5 Stelle non ridono: o meglio, non hanno ancora spiegato con quali misure attuerebbero una politica davvero alternativa.
    «Mi fa piacere che ci stato un bell’evento, a Ivrea», premette Magaldi, riferendosi alla convention tematica guidata da Davide Casaleggio. «Ma il Movimento 5 Stelle ha bisogno di evolvere», insiste il presidente del Movimento Roosevelt. «Lo ripeto, e voglio essere noioso come un moscone socratico: il giorno in cui, giustamente, non votando né il centrodestra né il centrosinistra (legge elettorale permettendo), il Movimento 5 Stelle andasse al governo, non staremmo meglio – dopo qualche mese, o anno, di questo governo – se dovessimo scoprire che le cose vanno esattamente come vanno nel governo della città di Roma». Quindi, per favore, «si diano una svegliata, i 5 Stelle: qui non si tratta di autocelebrarsi. E’ passata la fase politica dell’auto-compiacimento per la novità – e del piagnisteo (giusto, perché gli altri ti delegittimano)». Peraltro, «saranno brutte, le parole di Renzi verso il Movimento 5 Stelle, ma non sono nemmeno tenere quelle dei 5 Stelle verso Renzi». Ma stiamo parlano di quisiquilie: «Il problema è che c’è un’età per tutto». Magaldi cita Jean-Paul Sartre e il suo saggio “L’età della ragione” per dire che è venuta “l’età della ragione”, della maturità, anche per il Movimento 5 Stelle. «Non può continuare così: è come votarsi al fallimento».
    «Le linee-guida su cui il Movimento 5 Stelle chiede il consenso sono ormai fragili», osserva Magaldi. «Ha bisogno, il Movimento 5 Stelle, di una iniezione di idee forti». Per esempio: «Cosa pensa, il Movimento 5 Stelle, e cosa ha detto, a proposito dell’eliminazione del Fiscal Compact, e del pareggio di bilancio dalla Costituzione?». Per ora, silenzio. «E’ inutile invocare il referendum sull’euro», se poi non si dice chiaramente che il futuro governo pentastellato – come prima mossa – andrebbe a Strasburgo, a Bruxelles, «a dire: o noi riscriviamo i trattati, oppure in Italia ne sospendiamo la vigenza». Domande ancora senza risposta: «Che programma c’è? Esiste un piano per una moneta complementare, per alimentare una ripresa economica anche con questi trattati? E poi: quale paradigma per la spesa pubblica e per gli investimenti? Queste – ribadisce Magaldi – sono le cose che possono sostanziare un governo sano e giusto per il paese, non i discorsi sui vitalizi o le fumosità sulla democrazia diretta». Dai 5 Stelle, finora, nessun segnale in questa direzione: «Se vincessero le prossime elezioni, non sappiamo ancora come si comportebbero, rispetto alle questioni più cruciali per il futuro del paese».

    Prima o poi ce la faranno, i 5 Stelle, a farci sapere come governerebbero l’Italia? Ce l’hanno, qualche idea, su come regolarsi con l’Ue e la Bce? «Insomma: qual è l’approdo programmatico sostanziale del Movimento 5 Stelle? Ancora non ce ne siamo accorti. Se poi si accontentano di ottenere il consenso, prendere tante poltrone e stare lì a fare come stanno facendo a Roma, allora povera Italia». Parola di Gioele Magaldi, fondatore del Movimento Roosevelt, reduce da un forum a Roma sul futuro della democrazia con Nino Galloni, Giulietto Chiesa, Ferdinando Imposimato. Una due giorni nella quale si è anche parlato di un ipotetico, futuro partito (il Pdp, Partito Democratico Progressista), da mettere in campo se la politica italiana continuasse a “dormire”, cioè a subire i diktat dell’oligarchia finanziaria che manovra dagli uffici di Bruxelles. Nell’ultimo collegamento con David Gramiccioli su “Colors Radio” (filo diretto con gli ascoltatori, per discutere dei maggiori temi dell’attualità, anche internazionale) a tenere banco sono le primarie del Pd e le schermaglie tra Renzi e i 5 Stelle: ancora una volta nulla di strategico in vista, per il futuro dell’Italia, alle prese con una crisi ormai cronica, per risolvere la quale nessuno propone vere ricette. Una su tutte: costringere l’Ue a rimangiarsi i suoi trattati-capestro.

  • Mediobanca: nessuno peggio di UnipolBanca oggi in Europa

    Scritto il 13/4/17 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    «Questo non è uno scoop», premette Paolo Barnard, che però prende nota di «cosa pensano i nipotini di Enrico Cuccia, a Mediobanca, della banca più marcia d’Europa, per non parlare d’Italia». Tutto questo è «divertente», perché così uno «impara cosa davvero sta dando coliche seriali ai vertici del Pd, e non sono Renzi, Bersani o Grillo: è Unipol Banca, cioè il disastro finanziario più irrimediabile del Belpaese». In premessa, il giornalista fa una precisazione “per la zia Marta”, ricordando che le grandi banche si dividono in due categorie: quelle di tipo A, «pericolose per risparmiatori e correntisti (quasi tutte)», e quelle di tipo B, «definite come pericolo “sistemico”», e cioè «banche talmente grandi che, se falliscono, si portano dietro uno o due continenti». In Italia, aggiunge Barnard, «la banca “sistemica” più fallita è Unicredit, sprofondata all’ultimo posto in Ue dopo Hscb, Bnp, Ing, Swedbank, Ubs, Lloyds, Commerzbank, Deutsche Bank, Intesa, Credit Suisse e tutte le altre». Ma, torniamo alle banche del gruppo A, quelle dove «ci smenano» i piccoli risparmiatori, le famiglie e le piccole e medie aziende, Mediobanca ne cita addirittura 114. E «ci dice che la più rottamata, la più marcia, la più pezzente è appunto Unipol Banca».

  • Davide Casaleggio, poco o nulla di fronte a problemi epocali

    Scritto il 12/4/17 • nella Categoria: idee • (6)

    La recente convention di Ivrea, fatta per ricordare Casaleggio senior e lanciare i lineamenti di visione della società da parte di Casaleggio junior, è sembrata, a molti osservatori non certo pro Pd, piuttosto deludente. Visto il filo conduttore della giornata di Ivrea, il futuro, non si può dire però che questa dimensione temporale sia stata fatta intravedere agl italiani. Non è venuta fuori un’idea di società, verso la quale un eventuale governo M5S tenderebbe, quanto una serie di immagini da proporre a differenti segmenti di pubblico. Niente di male, solo che qui non si cerca di proporre una nuova serie di paste da cucina (gli spaghetti a un tipo di pubblico, le pennette lisce ad un altro e il brand per tutti) ma si è davanti a una crisi economica storica, ad un Pil in declino da un trentennio ad una società con problemi drammatici ed inediti. Un’idea di futuro invece deve connettere, e mobilitare, un’intera società. Non per il rispetto dell’etichetta ma perché il M5S vuol governare da solo e che, per farlo secondo la legge elettorale attuale, deve raggiungere il 40% ovvero almeno 1/3 in più in più dei voti attuali. Sempre, s’intende, seguendo le stime delle attuali intenzioni di voto.
    Per arrivare a questo risultato la mobilitazione deve essere inedita, almeno per questi anni, e per ora questo non si è visto. La stessa definizione che Davide Casaleggio dà del Movimento 5 Stelle («siamo Netflix, mentre i partiti sono ancora Blockbuster») non pare adatta a suscitare questa mobilitazione. Confonde, infatti, l’immaginario dell’impresa della comunicazione con quello dell’impresa tout court e quello dell’impresa tout court con quello della società. L’idea di futuro di una impresa e quello di una società, per quanto intrisa di aziendalismo come la nostra, vanno separate. Lo stesso Berlusconi, che scese in campo portandosi dietro un immaginario di ricchezza non comparabile con quello della Casaleggio, per prendere voti di massa a livello di opinione dovette ricorrere alla coltivazione, reiterata, di un immaginario di maschio-alfa che stava molto più nel profondo della società italiana di quello dell’impresa. Cercare di costruire un futuro con un immaginario da start-up è, infatti, prepararlo allo stesso rischio di fine precoce che corrono questo tipo di aziende.
    Davide Casaleggio aveva poi aperto, sul “Corriere della Sera”, all’interrogativo principale della giornata di Ivrea: la rivoluzione robotica e il suo impatto nella società. Roba un po’ schematica, sulla velocità della rivoluzione tecnologica ci sarebbe più da ragionare che fare marketing, ma che sicuramente tocca la struttura della società italiana: dall’organizzazione del lavoro a quella dell’amministrazione dello Stato, della formazione, della ricerca scientifica e del diritto. Per non parlare del tipo di economia che si vuole, e in che modo produce ricchezza (e che tipo di ricchezza produce), in una società a forte tasso di invecchiamento. Questioni da far tremare i polsi, sulle quali non si è visto un lineamento di risposta, sempre tenute sullo sfondo grazie alla questione del “come” finanziare il reddito di cittadinanza. Quella del possibile impatto – sociale, economico, amministrativo – di questa misura rimane invece taciuta. E, essere generico su questi temi, non è solo un difetto di Casaleggio ma anche di tanta sinistra: pensare che il reddito di cittadinanza, misura comunque inevitabile, sia una sorta di derivato della carità (che una volta assolta fa sentire la società uguale a prima solo piu’ solidale) o una misura che riguarda comunque la periferia del corpo sociale.
    Non siamo più nel ‘900: il reddito di cittadinanza, se erogato davvero, non è una misura di equilibrio sociale che sta tra welfare e mercato. Di fronte a una rivoluzione tecnologica, che distrugge strutturalmente più posti di lavoro di quanti ne produce (a differenza, appunto, del ‘900), il reddito di cittadinanza ha un impatto fortissimo sul mercato del lavoro, sulla forma delle istituzioni e dell’amministrazione. Fa uscire strutturalmente dal lavoro, se è reddito di cittadinanza, non più una nicchia ma una parte consistente di società. In maniera inedita dalla rivoluzione industriale. Presupponendo cambiamenti tali da mettere in discussione anche la presa della forma impresa nelle pieghe della società e nella estrazione della ricchezza. È uno dei motivi, oltre al fatto che la ricchezza in Europa va nei paesi “core” come finiva nel nord ricco dell’Italia postunitaria, per cui questo paese non ha mai trasformato la propria struttura di welfare consociativo, tra le parti sociali come si era configurato nella sua epoca matura, in welfare di cittadinanza. Sarebbe saltata la struttura del potere reale tanto che gli attori in campo hanno preferito trasformare, di volta in volta, il welfare consociativo in uno strumento, in parte borbonico in parte neoliberista, di allineamento alle esigenze di sviluppo della Ue e dell’Eurozona. Insomma, problemi epocali ai quali è impossibile rispondere con un immaginario da start-up. Ma quando ti nutri, in modo totemico, del sapere dell’impresa certi salti in avanti non li puoi fare.
    Oltretutto, quando in tv Casaleggio jr. si è trovato davanti alla classica domanda, sul come finanziare il reddito di cittadinanza come antidoto alla disoccupazione tecnologica, ha risposto non cercando di conquistare nuovo pubblico ma parlando a quello già conquistato. Ha parlato infatti di «partire dal taglio delle pensioni d’oro», eccetera, ovvero la già vincente retorica sugli sprechi che, anche se fosse praticata allo spasimo, non arriverebbe mai a finanziare una posta di spesa così grande. Segno, perlomeno, di grande confusione, prima di tutto su cosa fare dopo l’evento epocale (e lo è) della rivoluzione tecnologica. Segno che, nonostante i desideri sul futuro, non si arriva a produrre novità politiche e non resta che parlare il solito linguaggio della “casta che ruba”. Davide Casaleggio ha anche aggiunto che, sul finanziamento del reddito di cittadinanza, in fondo, è una questione dei tecnici. Nel migliore dei casi siamo alla visione naif della politica che traccia un’idea e i tecnici la praticano. Quando invece ogni “dettaglio” tecnico porta, nel momento in cui va risolto, a drammatiche scelte politiche, oltretutto quando il provvedimento è destinato a produrre (complesse) ondate di impatto sulla struttura sociale e amministrativa.
    Qui ci vogliono non i tecnici ma idee di indirizzo politico chiare, e robustamente organizzate, per arrivare a praticare una riforma del welfare, dell’amministrazione e degli obiettivi dello Stato, tale è il reddito di cittadinanza altro che misura “tecnica”, che entrerebbero sicuramente in conflitto con Bruxelles e Francoforte (per non dire Berlino). Insomma, l’evento dell’associazione Gianroberto Casaleggio, che è distinta dal Movimento 5 Stelle, si è impantanato nei difetti della solita convegnistica di impresa che un giorno tocca l’idea di banda ultralarga e l’altro di Industria 4.0: un po’ di spettacolo, un tema di fondo magari azzeccato e tanta genericità a contorno dell’evento. L’invito al Ceo di Google Italia, al direttore della Trilateral e a quello del Tg7 (nonché a qualche sociologo che questa convegnistica se l’è fatta tutta in area Pd-Bassolino), da parte di Casaleggio, stavano in questa cornice. Il problema è che questo genere di convegnistica è fatta, soprattutto, per sviluppare il capitalismo di relazione in settori specializzati. Se il format viene riproposto per delineare il futuro di un paese, le crepe si vedono tutte. La forma start-up non è in grado di rappresentare la profondità di un paese come il nostro. Ma difficile che su quelle rive si cambi idea.
    Certo se dall’associazione Casaleggio c’è questa confusione in campo 5 Stelle, e ci riferiamo alla politica monetaria, le turbolenze non mancano. Il referendum, previsto come consultivo dal M5S, sulla permanenza nell’euro o meno assumerebbe, in questa cornice, i tratti della più spettacolare manna dal cielo per la speculazione finanziaria (che le borse “banchino” i referendum ormai è prassi consolidata) e quello della paralisi delle politiche di un paese in attesa del risultato. Sicuramente in tutto questo c’è molta propaganda ma anche occhi molto smaliziati stentano a trovarci coerenza e sostanza. Nessuno si augura un domani di riveder di nuovo pascolare i Gentiloni, i Renzi, gli Alfano, le Camusso. Ma bisogna anche essere consapevoli di cosa sta accadendo anche da altre parti della politica. Perché si sta preparando l’ennesima turbolenza per questo paese, comunque vada. E i convegni del genere “imprese per un paese che cambia” queste turbolenze non le governano, al massimo ne vengono governati. Oppure vengono spazzati via e avanti il prossimo.
    (“Davide Casaleggio, poco o nulla di fronte a problemi epocali”, da “Senza Soste” dell’11 aprile 2017).

    La recente convention di Ivrea, fatta per ricordare Casaleggio senior e lanciare i lineamenti di visione della società da parte di Casaleggio junior, è sembrata, a molti osservatori non certo pro Pd, piuttosto deludente. Visto il filo conduttore della giornata di Ivrea, il futuro, non si può dire però che questa dimensione temporale sia stata fatta intravedere agl italiani. Non è venuta fuori un’idea di società, verso la quale un eventuale governo M5S tenderebbe, quanto una serie di immagini da proporre a differenti segmenti di pubblico. Niente di male, solo che qui non si cerca di proporre una nuova serie di paste da cucina (gli spaghetti a un tipo di pubblico, le pennette lisce ad un altro e il brand per tutti) ma si è davanti a una crisi economica storica, ad un Pil in declino da un trentennio ad una società con problemi drammatici ed inediti. Un’idea di futuro invece deve connettere, e mobilitare, un’intera società. Non per il rispetto dell’etichetta ma perché il M5S vuol governare da solo e che, per farlo secondo la legge elettorale attuale, deve raggiungere il 40% ovvero almeno 1/3 in più in più dei voti attuali. Sempre, s’intende, seguendo le stime delle attuali intenzioni di voto.

  • Berlino ha stravinto, ora può solo scegliere come perdere

    Scritto il 12/4/17 • nella Categoria: idee • (3)

    L’euro sta per crollare, questo è certo: ma agli Usa conviene che l’Europa finisca ko? Secondo l’economista Alberto Bagnai, sarebbe meglio la seconda opzione: aiutare l’Europa a uscire dall’euro in modo non disastroso, dando comunque per scontato che la moneta unica europea è ormai al capolinea, visto che l’unione monetaria è stata «la peggiore strada possibile» per rimodellare l’unità europea oltre la Nato, caduto il Muro di Berlino. «Una cattiva economia non può generare una buona politica», afferma Bagnai: «Quello che avrebbe dovuto unire l’Europa oggi la sta lacerando». La Gran Bretagna ha già deciso di togliere il disturbo, mentre l’Europa continentale è di fronte a una scelta: alzare il livello dello scontro con Berlino o arrendersi all’egemonia della Germania. «Gli Stati Uniti, come qualsiasi altro attore a livello globale, devono porsi di fronte a questa realtà: l’euro ha dissepolto senza motivo la questione tedesca, provocando esattamente ciò che avrebbe dovuto prevenire». A Washington l’ardua sentenza: meglio un’Europa sul lastrico o un partner ancora in piedi, relativamente solido?
    «Se gli Stati Uniti decidono che a loro conviene avere a che fare con un’Europa politicamente divisa, economicamente a pezzi e socialmente instabile, allora sostenere l’euro è per loro la scelta migliore», quella del “divide et impera”. Ma siamo sicuri che convenga, a Washington? Se invece gli Stati Uniti ritengono che un’Europa in buona salute dal punto di vista politico ed economico possa essere un alleato più utile sullo scenario globale, allora – sempre secondo l’analisi di Bagnai, ripresa da “Voci dall’Estero” – dovrebbero «promuovere uno smantellamento controllato dell’euro». Attenzione: «Disfare l’euro non sarà privo di costi». In ogni caso, però, «saranno costi comunque inferiori a quelli che comporta l’alternativa», ovvero il protrarre questa paurosa stagnazione dell’economia europea e quindi mondiale, oltre al rischio crescente di una grave crisi finanziaria. Stagnazione che, peraltro, produce gravi conseguenze sull’economia globale, derivando anche da «regole europee sbagliate per gestire gli enormi squilibri creati da istituzioni europee viziate in partenza».
    L’integrazione economica europea, insiste Bagnai, ebbe un ruolo-chiave nel promuovere la prosperità della parte occidentale del continente, quando quella orientale era sotto il dominio dell’Urss. Poi, di colpo, la caduta la Cortina di Ferro «riportò sulla scena quella che era stata per secoli la causa principale di grandi sofferenze: la difficile relazione tra Francia e Germania». Il motivo del fallimento dell’euro, definito “sbrigativo matrimonio di convenienza” tra Parigi e Berlino? «E’ lo stesso che diede il colpo di grazia agli accordi di Bretton Woods», che stabilirano il dollaro come valuta internazionale: «Entrambe le due istituzioni promuovono la nascita di squilibri esterni, anche se per ragioni diverse». C’è sempre un peccato originale: quello del sistema di Bretton Woods «era stato l’adozione della valuta di uno Stato come valuta mondiale», mentre quello dell’euro «è stato l’adozione di una valuta senza Stato come valuta regionale». Il loro difetto comune? «La presenza di un tasso di cambio fisso, che impedisce l’aggiustamento della bilancia dei pagamenti».
    Il sistema di Bretton Woods è durato a lungo, ricorda Bagnai, grazie al carattere dei mercati finanziari, che allora erano regolamentati, e alla capacità di visione del paese leader, gli Stati Uniti. «Di entrambe le cose non c’è traccia in Eurozona, dove è promossa una libertà di movimento dei capitali senza restrizioni, in assenza di qualsivoglia autorità regionale di supervisione, e dove il leader regionale, la Germania, è con ogni evidenza ossessionato da una oltremodo miope smania di accrescere il più possibile il suo surplus esterno». L’estrema rigidità dell’euro «ha incentivato il mercantilismo», cioè «la tentazione di tesaurizzare i capitali internazionali invece di reinvestirli nell’economia mondiale», e la pulsione mercantilista orienta il commercio a vantaggio dei paesi del nucleo centrale, la cui valuta in termini reali è sottovalutata, preservando il valore delle loro attività nette sull’estero. «Ma il presunto vincitore nella gara dell’euro, la Germania, si ritrova ora in un vicolo cieco», continua Bagnai. «Se vuole mantenere in vita l’Eurozona, deve accettare le politiche monetarie estremamente espansive della Bce». Viceversa, «una politica monetaria più restrittiva darebbe sollievo ai creditori, ma esattamente per lo stesso motivo provocherebbe il crollo istantaneo dei paesi debitori, rendendo loro ben difficile sostenere il debito».
    Se invece crescessero i redditi, nei paesi debitori, questo «rilancerebbe il debito estero, tornando a incentivare gli squilibri che hanno provocato la crisi». Secondo il Tesoro Usa, la Germania è riuscita a stravincere «grazie a manipolazioni del Forex», il mercato globale decentralizzato, nel quale tutte le valute del mondo vengono scambiate in ogni momento ad un prezzo concordato. I tedeschi si sono serviti di un euro «fortemente svalutato» per sfruttare gli Usa e gli altri partner commerciali: questa l’accusa di Peter Navarro, capo del National Trade Council degli Stati Uniti, secondo cui «l’euro è un marco travestito». Ma ora, aggiunge Bagnai, Berlino può solo scegliere come perdere: tutto in un colpo (per il collasso dei suoi debitori) o a poco a poco (a causa di tassi di interesse nulli o negativi). L’Europa è in declino, conclude l’economista, ma è ancora troppo grande per crollare senza terremotare il resto del mondo. Secondo i massimi economisti Usa, l’euro ha le ore contate. «La causa più probabile sarà un collasso del sistema bancario italiano, che trascinerà con sé quello tedesco. È nell’interesse di qualsiasi potere politico, certamente dei vacillanti leader europei, ma probabilmente anche degli Stati Uniti, gestire – piuttosto che subire – questa conclusione».

    L’euro sta per crollare, questo è certo: ma agli Usa conviene che l’Europa finisca ko? Secondo l’economista Alberto Bagnai, sarebbe meglio la seconda opzione: aiutare l’Europa a uscire dall’euro in modo non disastroso, dando comunque per scontato che la moneta unica europea è ormai al capolinea, visto che l’unione monetaria è stata «la peggiore strada possibile» per rimodellare l’unità europea oltre la Nato, caduto il Muro di Berlino. «Una cattiva economia non può generare una buona politica», afferma Bagnai: «Quello che avrebbe dovuto unire l’Europa oggi la sta lacerando». La Gran Bretagna ha già deciso di togliere il disturbo, mentre l’Europa continentale è di fronte a una scelta: alzare il livello dello scontro con Berlino o arrendersi all’egemonia della Germania. «Gli Stati Uniti, come qualsiasi altro attore a livello globale, devono porsi di fronte a questa realtà: l’euro ha dissepolto senza motivo la questione tedesca, provocando esattamente ciò che avrebbe dovuto prevenire». A Washington l’ardua sentenza: meglio un’Europa sul lastrico o un partner ancora in piedi, relativamente solido?

  • Praga si sgancia dall’euro, nuovo schiaffo all’Unione Europea

    Scritto il 11/4/17 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Addio euro. Dopo la Brexit, nuovo schiaffo all’Unione Europea, stavolta da Praga, all’indomani del deludente vertice Ue a Roma. Brutte notizie, per Bruxelles, mentre si avvicinano le elezioni francesi, col Front National di Marine Le Pen, sostenitore dell´uscita dalla moneta unica, forte nei sondaggi. La banca nazionale cèca ha deciso di sganciare la valuta nazionale, la corona, dall´euro. Il tasso di riferimento, praticamente fisso (27 corone cèche per euro, in vigore da tre anni) viene abbandonato, scrive Andrea Tarquini su “Repubblica”. Gli osservatori si chiedono allarmati se la Cèchia, paese piccolo ma altamente industrializzato e strettamente integrato con le maggiori economie dell´Eurozona, pensi anche di rinunciare al suo obiettivo finora dichiatato: entrare nella moneta unica. Area alla quale appartiene invece la Slovacchia, che insieme ai cèchi formò – dal primo dopoguerra alla scissione pacifica post-comunista – la Cecoslovacchia, cioè il paese che prima dell’invasione nazista del 1938 e della successiva comunistizzazione imposta dall’Urss dopo il 1945, era una delle maggiori economie mondiali, tra le più tecnologicamentre avanzate.
    Finora, scrive Tarquini, il cambio minimo era stato adottato per impedire che rimesse e investimenti dei cittadini cèchi all´estero divenissero troppo cari e che il tasso d´inflazione, attualmente attestato al 2,5% annuo (cioè ben oltre il tetto del 2% fissato come obiettivo dall’istituto d´emissione di Praga) aumentasse ancora. Adesso, la banca centrale cèca ha scelto come male minore lo sganciamento totale dall´euro. «La decisione ha un doppio sfondo», secondo “Repubblica”. «Primo, le elezioni del prossimo autunno, il cui esito si annuncia incerto, e a cui il premier socialdemocratico Bohuslav Sobotka vuole arrivare da posizioni della minor debolezza possibile. Secondo, negli ultimi tempi la corona cèca era nel mirino degli speculatori internazionali. I fondi hedge, in genere di carattere speculativo, hanno scommesso 65 miliardi di dollari su una rivalutazione della divisa cèca, costringendo la banca nazionale di Praga a interventi sui mercati. Turbolenze sul bilancio pubblico e sulle riserve in valuta cèche hanno spinto l’istituto alla misura estrema».
    La decisione, aggiunge Tarquini, ricorda agli operatori dei mercati la scelta fatta nel gennaio 2015 dalla Svizzera (non membro della Ue) di sganciare il franco dall´euro, «scelta che provocò un terremoto finanziario internazionale colpendo l´euro con il piú massiccio deprezzamento da quando esiste». Un ´Czexit´ limitato allo sgancio della corona dall’euro avrebbe conseguenze più limitate. «Al momento, l´euro si è deprezzato a fronte della divisa cèca, restando però stabile sul dollaro. Ma gli esperti si dividono sul grande interrogativo, se ciò potrà allontanare la piccola ma decisiva democrazia industriale centroeuropea dall’Unione in generale, a medio termine anche a livello politico». A fronte del recente apprezzamento della corona verso l´euro, e quindi della perdita di valore delle riserve cèche in valute forti, Praga non ha visto altra scelta. Uniche alternative? Massicce vendite delle riserve o un ingresso accelerato nell´euro. Ma la moneta unica europea, specie nel gruppo di Visegrad (Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia e Ungheria) appare sempre meno attraente. E a Praga come altrove, all´Est, «la stessa Ue è vista da non pochi politici ed elettori come una lontana e inefficiente entità burocratica che può costituire una minaccia potenziale alla sovranità nazionale», che Praga ha riconquistato dopo mezzo secolo di dominazione dell’Urss.

    Addio euro. Dopo la Brexit, nuovo schiaffo all’Unione Europea, stavolta da Praga, all’indomani del deludente vertice Ue a Roma. Brutte notizie, per Bruxelles, mentre si avvicinano le elezioni francesi, col Front National di Marine Le Pen, sostenitore dell´uscita dalla moneta unica, forte nei sondaggi. La banca nazionale cèca ha deciso di sganciare la valuta nazionale, la corona, dall´euro. Il tasso di riferimento, praticamente fisso (27 corone cèche per euro, in vigore da tre anni) viene abbandonato, scrive Andrea Tarquini su “Repubblica”. Gli osservatori si chiedono allarmati se la Cèchia, paese piccolo ma altamente industrializzato e strettamente integrato con le maggiori economie dell´Eurozona, pensi anche di rinunciare al suo obiettivo finora dichiatato: entrare nella moneta unica. Area alla quale appartiene invece la Slovacchia, che insieme ai cèchi formò – dal primo dopoguerra alla scissione pacifica post-comunista – la Cecoslovacchia, cioè il paese che prima dell’invasione nazista del 1938 e della successiva comunistizzazione imposta dall’Urss dopo il 1945, era una delle maggiori economie mondiali, tra le più tecnologicamentre avanzate.

  • Buoni e Cattivi, la fiaba della guerra per il Fatto Quotidiano

    Scritto il 10/4/17 • nella Categoria: segnalazioni • (16)

    «Uno spettro si aggira in Medio Oriente. E’ quello della tentazione. La tentazione, cioè, della guerra. Non più “prove di Terza Guerra Mondiale”, come è stato detto. Lo scenario è drammatico, i primi a capirlo sono i mercati finanziari che infatti hanno cominciato a soffrire». A scrivere è Leonardo Coen, sul “Fatto Quotidiano”, all’indomani del raid missilistico ordinato da Trump sulla base area siriana da cui, secondo gli Usa, sarebbero decollati aerei con bombe al gas Sarin destinate a far strage della popolazione di Idlib. Non ci sono ancora prove certe: per il “Fatto Quotidiano” non è importante? Poi, continua Coen, «ad inquietare e ricordare come certe situazioni di oggi assomiglino molto all’inanità del 1938 verso Hitler e alle sue mire d’espansione, c’è il silenzio di Cina ed Europa, che sembrano convitati di pietra». Suggestivo parallelismo: il giornalista del “Fatto” paragona nientemeno che Adolf Hitler, fondatore del nazismo e capo dell’allora maggior potenza militare europea, al presidente di un piccolo paese mediorientale come la Siria, che  – come è a tutti noto (tranne che al “Fatto Quotidiano”?) – da cinque anni tenta di sopravvivere all’assalto di sanguinarie milizie terroriste finanziate e protette dall’Occidente.
    Cina ed Europa, i “convitati di pietra”, secondo Coen «si accontentano di formali condanne appellandosi ai diritti umani». Mosca e Washington? «Per ora si confrontano, ma ancora non si affrontano. Non possono. E’ un braccio di ferro troppo rischioso. E forse, sia per gli Stati Uniti, sia per la Russia, è venuto il tempo di liquidare il dittatore di Damasco e il suo regime criminale». Voilà: il presidente (eletto) diventa “dittatore”, naturalmente a capo di un “regime criminale”: nulla a che vedere con gli altri regimi, amici dell’Occidente, notoriamente campioni in tema di diritti umani: Giordania, Arabia Saudita, Qatar, Turchia e via inorridendo. Ma forse non è il caso di ricordarlo ai lettori del “Fatto”. Meglio il perfido Bashar Assad, che «per la Russia, è un alleato che la scredita e la impiomba». E per l’America, è «l’occasione buona per ricollocarsi in Medio Oriente, e dimostrare che non si è abbassata la guardia». Ricollocarsi in Medio Oriente? Viene da chiedersi dove fosse, Leonardo Coen, quando si scatenavano le “rivoluzioni colorate” in tutti i paesi arabi dopo lo storico discorso di Obama al Cairo. Dov’era, Coen, quando gli americani spianavano la Libia e facevano scannare Gheddafi? Non l’hanno vista, alla redazione del “Fatto”, la foto-ricordo di John McCain in Siria, in intimità con il “califfo” Al-Baghdadi?
    La narrazione che il “Fatto” offre in questo caso sembra di tipo lunare, genere fantasy. «Così, Trump minaccia. E agisce. Putin minaccia, ma non può agire. Entrambi, giocano una mano di poker: per capire chi bluffa di più. Il magnate americano rischia il salto nel buio. Putin sventola il pericolo del suo “ombrello” militare in Siria. La flotta del Mar Nero è in preallarme. Quella del Baltico, pure. I missili di Kaliningrad, l’enclave russa tra Polonia e Lituania – cioè in piena Unione Europea – sono puntati sulle capitali del Vecchio Continente. L’Alleanza Atlantica è già in allerta». E’ tutto vero, naturalmente. Ma è come spiegare la pioggia senza citare le nuvole. Primo round: nel 2013 gli Usa cercano di far cadere Assad per poter poi minacciare direttamente l’Iran, ma Putin glielo impedisce schierando la flotta russa a difesa della Siria. Secondo round: Washington “risponde” organizzando il golpe in Ucraina con l’intento di sfrattare Mosca dal Mar Nero, ma – di nuovo – Putin riesce a tenersi la Crimea. Terzo round: furioso per le sconfitte a catena, Obama dispone un mostruoso dispiegamento militare in Est Europa a ridosso della frontiera russa, senza precedenti nella storia recente. Al che, ai russi non resta – come contromossa difensiva – che la base missilistica di Kalilingrad. Missili russi puntati sull’Europa? Mai quanto quelli che l’America ha puntato contro la Russia, trasformando la Romania in una rampa di lancio. Possibile che ai lettori del “Fatto” non interessi?
    «In verità», continua Coen, «Trump ha riscoperto – o meglio, il Pentagono – il ruolo di gendarme globale degli Stati Uniti». Trump, il Pentagono: i Buoni. E Putin, il Cattivo? «E’ rimasto platealmente vittima delle sue ambizioni imperiali», scrive Coen, come se, evidentemente, le uniche “ambizioni imperiali” ammissibili – e davvero imperiali, lontane mille miglia dalle proprie frontiere – fossero quelle americane. Il presidente russo è rimasto addirittura «invischiato nelle complesse trame che ha tessuto per riassegnare al suo paese il ruolo di superpotenza perduto dopo la caduta del Muro di Berlino e lo sbriciolamento dell’Unione Sovietica». Non si premura di rammentare ai suoi lettori, il giornalista del “Fatto”, che – prima di mettere il naso fuori dalla Russia – Putin ha dovuto innanzitutto spegnere l’incendio della Cecenia, acceso dalla Cia, e poi quello dell’Ossezia del Sud, devastata dalla Georgia su mandato di George W. Bush. Due focolai micidiali: uno nella Federazione Russa, l’altro sulla porta di casa. Succedeva nel 2008: non così tanto tempo fa, specie se si hanno a cuore le fatali vicende del lontano 1938.
    “Il Fatto”, però, non è prodigo di spiegazioni. Sembra preferire il racconto lineare, unilaterale e semplificato, rassicurante. «In apparenza, dunque, l’imprevedibile Donald ha cambiato di colpo tattica nei confronti dell’amico Vladimir. E ha ritirato la mano tesa, che tanto aveva turbato i sonni dei patrioti Usa». I missili di Trump, continua Coen, «hanno sparigliato le carte della grande partita internazionale: il mondo si è diviso in due, come ai tempi della Guerra Fredda. “Sostegno totale” degli alleati degli Stati Uniti. Condanna dei suoi avversari. Le cancellerie hanno rispolverato il lessico dei blocchi contrapposti». Leonardo Coen sembra pefettamente al corrente dell’accaduto: «Assad, insistono i russi, è innocente (per forza: sono loro che l’armano e lo proteggono). I gas, una balla. I russi negano l’evidenza e le testimonianze: tutto il mondo ha visto gli effetti del gas. E questo li ha moralmente isolati». Ecco, infatti: tutto il mondo ha visto gli effetti dei gas, ma nessuno al mondo, per ora, può provare che li abbia sganciati Assad. Solo che, a quanto pare, l’identità del vero killer non è importante. Nemmeno se, come già accadde nel 2013, poi si scoprisse che l’assassino non è “il dittatore”, ma i suoi avversari?
    «Certo – concede Coen – la politica e la guerra se ne fregano dell’etica e della morale. Ma al tempo dell’informazione istantanea e globale, la menzogna tanto può essere utile – vedi in caso di elezioni – quanto può diventare micidiale, con le immagini cruente ed atroci dei bimbi sarinizzati». Vero, anche questo: tutto dipende però da chi la impugna, “la menzogna”. Quanto al «nuovo repentino cambio d’atteggiamento di Trump», anche su questo Leonardo Coen ha le idee chiarissime: il presidente americano «ha dovuto arrendersi allo stato delle cose: gli interessi geopolitici Usa non collimano con quelli russi». Perlomeno, «non fin quando al Cremlino ci sarà il clan putiniano, nemico della libertà d’opinione, e il potere resterà saldo in mano agli ex uomini del Kgb». E così l’album dei Cattivi è al completo. E se i russi – quasi 150 milioni di persone – sostengono all’85% un capoclan del Kgb, significa semplicemente che sono cretini? Centocinquanta milioni di cretini?
    Ma non è tutto: Coen informa i suoi lettori che «Trump ha cozzato contro il mondo reale: quello dei fatti, non delle verità truccate dal suo guru Stephen Bannon, ed ex direttore del sito dell’ultradestra suprematista Breitbart News, messo (finalmente) in un angolo». Bannon, altro membro d’onore del club dei Cattivi, era – per inciso – lo stratega della distensione con Mosca: via lui, infatti, ecco i missili (buoni, ovviamente). Ma, “sistemato” Bannon, l’offensiva (giornalistica) nei confronti di Putin non è ancora esaurita: «Pensava di essere il più astuto del reame, di poter contare per quel che riguardava la Siria di una certa libertà di manovra, forte anche del fatto che in Occidente c’erano movimenti estremisti anti-Ue a lui favorevoli. Invece – scrive Coen – è rimasto intrappolato dalla sua sicumera». Ben gli sta: «I gas che hanno ammazzato decine di bimbi a Khan Sheikhoun hanno dissipato in pochi minuti il paziente lavorìo militare e diplomatico del presidente russo». Non solo: «Persino il nuovo alleato turco Erdogan lo ha clamorosamente contraddetto, invocando addirittura la collera di Allah per l’ignobile azione attribuita ad Assad, o a qualche suo generale, il che non cambia la sostanza». Erdogan, cioè la Turchia (Nato) che ha protetto l’Isis nell’invasione della Siria: nemmeno questo ai lettori interessa?
    In più, Coen esibisce altre granitiche certezze sul bombardamento con i gas: «Gli americani avevano acquisito le prove – stavolta non inventate da Bush e Blair come al tempo della guerra in Iraq ma documentate dai satelliti – che l’attacco chimico proveniva da un aereo siriano». Le prove, ecco: ma dove sono? Ok, le hanno “acquisite gli americani”. Come le altre volte, in Siria e in Iraq? No, stavolta sono prove vere, “documentate dai satelliti”. Garantisce il “Fatto Quotidiano”. Che si diverte, ancora, a spese di Putin: mentre i Buoni “acquisivano le prove”, dunque, «lo zar si affannava a dire che si trattava di “fake news”, di balle». Chiosa Coen: «Beffardo contrappasso, l’ex tenente colonnello del Kgb che denuncia la disinformatija americana…». E ancora: «Assad è il responsabile di tutto ciò». Chi lo sostiene? Lo dicono «all’unisono» Hollande e la Merkel. Una garanzia: Hollande ha silenziato le indagini su Charlie Hebdo imponendo il segreto militare, dopo che erano emersi collegamenti tra il commando dell’Isis e i servizi francesi, mentre la Merkel, risultata coinvolta nel golpe neonazista di Kiev, ha approvato il piano Obama per militarizzare le frontiere europee con la Russia.
    «I missili Usa – scrive ancora Coen – sono “un avvertimento”, e pure una forma di “condanna” del “regime criminale” di Assad». La situazione: «Con Washington stanno Arabia Saudita e Giappone, Israele offre il suo “totale” sostegno, sperando che “questo messaggio forte” possa essere inteso da Teheran e da Pyongyang, ha dichiarato il premier Benyamin Netanyahu», campione del mondo in carica riguardo all’uso di armi di distruzione di massa sulla popolazione civile, il fosforo bianco sganciato su Gaza (oltre 1.300 morti, secondo l’Onu, inclusi donne e bambini). E la Turchia, cioè la base logistica settentrionale dell’operazione-Isis contro Damasco? «Ankara vorrebbe una zona “d’esclusione aerea” in Siria, considera che i missili siano stati una buona medicina». Meglio tornare al lessico calcistico: «Il Pentagono ha battuto il Cremlino? La “punizione” americana per la strage provocata dall’attacco chimico che ha un valore soprattutto dimostrativo, trova consenso nella pubblica opinione statunitense e anche in quella mondiale, scossa dall’atrocità del tiranno di Damasco. Assad si è scavato la fossa». Vinceranno i Buoni, è ovvio. E buonanotte, a tutti i lettori. Sogni d’oro.

    «Uno spettro si aggira in Medio Oriente. E’ quello della tentazione. La tentazione, cioè, della guerra. Non più “prove di Terza Guerra Mondiale”, come è stato detto. Lo scenario è drammatico, i primi a capirlo sono i mercati finanziari che infatti hanno cominciato a soffrire». A scrivere è Leonardo Coen, sul “Fatto Quotidiano”, all’indomani del raid missilistico ordinato da Trump sulla base area siriana da cui, secondo gli Usa, sarebbero decollati aerei con bombe al gas Sarin destinate a far strage della popolazione di Idlib. Non ci sono ancora prove certe: per il “Fatto Quotidiano” non è importante? Poi, continua Coen, «ad inquietare e ricordare come certe situazioni di oggi assomiglino molto all’inanità del 1938 verso Hitler e alle sue mire d’espansione, c’è il silenzio di Cina ed Europa, che sembrano convitati di pietra». Suggestivo parallelismo: il giornalista del “Fatto” paragona nientemeno che Adolf Hitler, fondatore del nazismo e capo dell’allora maggior potenza militare europea, al presidente di un piccolo paese mediorientale come la Siria, che  – come è a tutti noto (tranne che al “Fatto Quotidiano”?) – da cinque anni tenta di sopravvivere all’assalto di sanguinarie milizie terroriste finanziate e protette dall’Occidente.

  • Stalin risorto a Bruxelles per ‘raddrizzare’ paesi come l’Italia

    Scritto il 10/4/17 • nella Categoria: idee • (1)

    Perché non modellare un sistema finanziario e monetario sulle esigenze strutturali del paese, anziché cercare di rimodellare il paese per adattarlo a un sistema finanziario e monetario preconcetto? Fanfare, incensi e fervorini: l’Unione Europea celebra se stessa nella Roma che sappiamo. Emblematico. L’insuccesso e i danni della costruzione europea calata dall’alto, soprattutto in termini di crescente divergenza delle economie e degli interessi dei vari paesi, erano prevedibili perché sono quelli tipici di tutti i modelli ideali imposti ideologicamente dall’alto alla realtà dell’uomo e della società. Sono quelli tipici di tutti i modelli che vogliono correggere l’esistente per produrre l’uomo nuovo o la nuova società. Il loro errore di metodo è che partono da un progetto astratto e non considerano la naturale e organica resistenza della società reale o ogni cambiamento comandato. Si chiama utopia. Quanto sopra vale anche e visibilmente per l’imposizione dall’alto sulla realtà italiana del modello finanziario e monetario detto europeo, con la sua difesa del potere d’acquisto del singolo euro anziché dei redditi e dell’occupazione, con i suoi vincoli ai pubblici e investimenti, con la sua tassazione. Un modello adatto e concepito per sistemi paese molto diversi dall’Italia.
    Per contro, un approccio non velleitario ma realistico si dovrebbe basare sull’individuazione oggettiva di quali sono le caratteristiche storiche, costanti e di fatto non modificabili di ciascun sistema paese concreto, e dovrebbe disegnare un sistema finanziario e monetario adatto a queste sue caratteristiche. Se L’Italia ha la gobba, allora è meglio farle una giacca con la forma della gobba, in modo che si possa abbottonare, e non una col di dietro diritto, bella ma che non si chiude e ostacola i movimenti, perché la gobba di un adulto non si può raddrizzare. Le caratteristiche costanti dell’Italia, dalla sua unificazione in poi, non modificate, anzi consolidate dall’imposizione dall’alto del modello finanziario e monetario europeo, le conosciamo bene, e sono: le due velocità, cioè l’arretratezza permanente e rigida del Meridione e la conseguente necessità di un’altra spesa pubblica di sostegno al Meridione per mantenere la coesione del paese – e questo è il costo dell’utopia dell’unità politica italiana; da qui l’esigenza di poter fare spesa pubblica a deficit finanziandola a bassi tassi di interesse ed escludendo la possibilità che i titoli del debito pubblico non siano accettati dalla banca centrale per erogare credito allo Stato, così da garantire i loro detentori che non ci sarà default, e tenere quindi bassi i rendimenti.
    Una fortissima propensione, specie al nord, a fare piccola impresa, quindi l’esigenza di assicurarne la disponibilità di credito a tassi moderati e che non erodano il margine operativo aziendale. Una fortissima propensione al risparmio e in particolare all’investimento immobiliare, con uso degli immobili, sia da parte delle imprese che da parte dei cittadini, per ottenere credito, quindi l’esigenza di tutelare il valore degli immobili e il mercato immobiliare. Un alto livello di corruzione e illegalità nel settore pubblico, peggiorato dopo le campagne giudiziarie contro la corruzione, congiunto a una scarsa efficienza della spesa pubblica, che viene in grande parte intercettata da una classe politica e burocratica scarsamente competente, e usata per produrre consenso clientelare; ciò richiede vieppiù che la spesa pubblica sia finanziabile a basso tasso di interesse. Una bassa produttività conseguente da quanto sopra, che richiede periodici ribassi del cambio valutario onde mantenere la competitività e l’occupazione.
    L’euro e le regole finanziarie europee sono pertanto direttamente opposte e incompatibili con le suddette esigenze, e lo dimostrano i fatti. Non sono un prezzo da pagare per diventare migliori, perché non fanno diventare migliori. E’ avvenuto il contrario. E’ ovvio che alcune di queste caratteristiche dell’Italia sono deteriori e sarebbe meglio poterle correggere, ma ciò non è avvenuto in molti decenni e nonostante molti interventi energici e costosissimi, di tutti i tipi. Anzi, il divario è aumentato. Insistendo negli sforzi di cambiare la fisiologia dell’organismo Italia, sia per integrare il Sud col Nord, sia per integrare l’intero paese con l’Europa efficiente, si è solo peggiorato il suo funzionamento e le condizioni di vita dei suoi abitanti e le prospettive per il suo futuro. L’unità politica italiana è un’utopia molto onerosa da sostenere, e se le aggiungiamo i costi del mantenimento dell’utopia dell’unità politica europea, le due utopie si uniscono in una distopia.
    I detentori del potere hanno l’opzione di usare la forza per raddrizzare la “gobba”, cioè spezzare l’organismo sociale esistente e costringere la gente a seguire il nuovo modello. Questa è la via che è stata percorsa, nel secolo scorso, da personaggi storici come Stalin e Ceausescu (in forma estrema e mostruosa, da Pol Pot), che, per riuscire a imporre i loro modelli di società ideale eliminando le caratteristiche consolidate e la mentalità delle popolazioni che governavano, sono ricorsi ai trasferimenti forzati di intere popolazioni, alla distruzione dell’economia di altre popolazioni, alla censura e alla propaganda sistematiche, alla proibizione della religione, e ad altre forme di violenza. Sostanzialmente, nonostante queste potenti misure, non sono riusciti nel loro intento, hanno solo danneggiato e degradato la società, anziché realizzare il loro modello ideale.
    Oggi, per imporre i modelli ideali di Europa e di euro, seguire la suddetta via può tradursi nell’imporre ai popoli “con la gobba”, per fargli perdere le loro abitudini e mentalità indesiderate, una permanente povertà e precarizzazione assieme alla dissoluzione dell’identità storica e nazionale attraverso l’uso mirato dell’informazione e soprattutto mediante l’immigrazione di massa di genti portatrici di culture molto diverse, così da sfibrare il tessuto sociale storico, la volontà di azione politica e la capacità di resistenza dal basso. Ma credo che l’esito sarà solo la degradazione,non rieducazione, esattamente come nei precedenti esperimenti di questo tipo.
    (Marco Della Luna, “La fiera delle velleità”, dal blog di Della Luna del 3 aprile 2017).

    Perché non modellare un sistema finanziario e monetario sulle esigenze strutturali del paese, anziché cercare di rimodellare il paese per adattarlo a un sistema finanziario e monetario preconcetto? Fanfare, incensi e fervorini: l’Unione Europea celebra se stessa nella Roma che sappiamo. Emblematico. L’insuccesso e i danni della costruzione europea calata dall’alto, soprattutto in termini di crescente divergenza delle economie e degli interessi dei vari paesi, erano prevedibili perché sono quelli tipici di tutti i modelli ideali imposti ideologicamente dall’alto alla realtà dell’uomo e della società. Sono quelli tipici di tutti i modelli che vogliono correggere l’esistente per produrre l’uomo nuovo o la nuova società. Il loro errore di metodo è che partono da un progetto astratto e non considerano la naturale e organica resistenza della società reale o ogni cambiamento comandato. Si chiama utopia. Quanto sopra vale anche e visibilmente per l’imposizione dall’alto sulla realtà italiana del modello finanziario e monetario detto europeo, con la sua difesa del potere d’acquisto del singolo euro anziché dei redditi e dell’occupazione, con i suoi vincoli ai pubblici e investimenti, con la sua tassazione. Un modello adatto e concepito per sistemi paese molto diversi dall’Italia.

  • Fake news e missili, l’impero colpisce ancora: con Trump

    Scritto il 08/4/17 • nella Categoria: idee • (5)

    Ora che bombarda e uccide come tutti gli altri presidenti Usa, Trump riesce finalmente “simpatico” all’Unione Europea e alla Nato. Bella consolazione, no? «Ho ancora in mente l’immagine del segretario di Stato degli Usa, Colin Powell, che all’Onu nel 2003 mentiva sapendo di mentire mentre mostrava la fiala con la falsa prova degli inesistenti gas di Saddam». Grazie a quella falsa prova, «Bush, la Ue e la Nato scatenarono la seconda guerra in Iraq e grazie ad essa ora abbiamo l’Isis», ricorda Giorgio Cremaschi su “Micromega”, segnalando il fatto che Trump «ha fatto il suo esordio da bombardiere, adeguandosi così alla tradizione dei presidenti Usa, nessuno dei quali si è mai sottratto alla necessità imperiale di lanciare ordigni ed uccidere: Clinton, Bush, Obama non avrebbero saputo fare di meglio». E così, i governi Ue e Nato tirano un sospiro di sollievo: «Alla fine Trump non è la Brexit, è solo uno dei tanti modi di mascherarsi che ha il palazzo economico-finanziario e militare. Peggio per gli sprovveduti che ci hanno creduto».
    Il neopresidente, scrive Cremaschi su “Micromega”, «è solo culturalmente un po’ più fascista e razzista dei predecessori». Ma alla fine, «quando si tratta di difendere gli interessi dell’impero, si normalizza». Contenti, i signori del super-potere? Eccome: «Bentornato tra noi, dicono governi occidentali e stampa, finanza e industria militare: in fondo non avevamo dubbi». Del resto, aggiunge Cremaschi, «come può un miliardario evasore fiscale non difendere il suo e il potere delle élites di cui solo ambisce di far parte?». Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, l’aveva detto subito: «Trump si è candidato solo per ottenere appalti, non c’è molto altro nel suo orizzonte: inutile aspettarsi chissà cosa, al netto delle retoriche». Carpeoro ha anche ricostruito l’origine storica della filiera terroristica, fabbricata dall’Occidente già a Yalta con la negazione di uno Stato ai palestinesi, così da garantire al Medio Oriente un futuro da polveriera (petrolifera), interpretato da svariati attori, tutti telecomandati: raìs, dittatori, emiri e terroristi guidati dall’intelligence occitentale, da Al-Qaeda all’Isis.
    Oggi, annota Cremaschi, si apre un nuovo capitolo della “guerra mondiale a pezzi” che stiamo vivendo, con l’aggravante che i “pezzi” «diventano sempre più attaccati fra loro». Il bombardamento missilistico del 7 aprile sulla base aerea siriana da cui, secondo gli Usa, sarebbe partito il raid chimico su Idlib, è «un capitolo che stupisce per la velocità con cui una notizia priva di alcuna dimostrazione (l’esercito di Assad che avrebbe usato i gas) è diventata la fonte di legittimazione del lancio dei missili». Questo, chiarisce Cremaschi, senza sconti per i regimi finiti nella bufera: «Tranquillizzo gli ipocriti: sono contro Assad, come lo ero verso Gheddafi, Saddam, Milosevic. Ma sono atterrito dalle guerre scatenate dal potere occidentale sulla base delle proprie fake news». Domanda angosciosa: «Che frutti marci e velenosi daranno ora i bombardamenti di Trump? Ancora non lo sappiamo, ci sarà tempo per accorgersene e per analisi e conclusioni approfondite». Intanto, conclude Cremaschi, «lasciatemi esprimere il disgusto e la rabbia per quanto sta accadendo».

    Ora che bombarda e uccide come tutti gli altri presidenti Usa, Trump riesce finalmente “simpatico” all’Unione Europea e alla Nato. Bella consolazione, no? «Ho ancora in mente l’immagine del segretario di Stato degli Usa, Colin Powell, che all’Onu nel 2003 mentiva sapendo di mentire mentre mostrava la fiala con la falsa prova degli inesistenti gas di Saddam». Grazie a quella falsa prova, «Bush, la Ue e la Nato scatenarono la seconda guerra in Iraq e grazie ad essa ora abbiamo l’Isis», ricorda Giorgio Cremaschi su “Micromega”, segnalando il fatto che Trump «ha fatto il suo esordio da bombardiere, adeguandosi così alla tradizione dei presidenti Usa, nessuno dei quali si è mai sottratto alla necessità imperiale di lanciare ordigni ed uccidere: Clinton, Bush, Obama non avrebbero saputo fare di meglio». E così, i governi Ue e Nato tirano un sospiro di sollievo: «Alla fine Trump non è la Brexit, è solo uno dei tanti modi di mascherarsi che ha il palazzo economico-finanziario e militare. Peggio per gli sprovveduti che ci hanno creduto».

  • Nuovo disordine mondiale: morti gli Stati, c’è solo il denaro

    Scritto il 08/4/17 • nella Categoria: idee • (5)

    L’attuale situazione internazionale desta in molti preoccupazione e sorpresa: non esiste un ordine mondiale, stiamo scivolando verso l’anarchia internazionale e questo fa temere l’approssimarsi di nuove guerre, sino all’esplosione di un nuovo grande conflitto mondiale. Passi per la preoccupazione: in effetti c’è un allargamento delle aree di scontro con archi di crisi di migliaia di chilometri, dalla Libia all’Afghanistan, dalla Siria all’Ucraina e forse l’Estonia, dalla Corea alle isole Senkaku-Diaoyu che potrebbe allungarsi sino alle Paracel; per non dire dell’iperterrorismo. In effetti il timore di una escalation che porti ad un conflitto generalizzato è plausibile. Quello che, invece, è strano è la sorpresa della quale ci sorprendiamo. L’ordine mondiale è sempre stato pensato come equilibrio fra Stati; ma, con l’avvento della globalizzazione neoliberista, ci è stato spiegato che gli Stati nazionali erano solo una reliquia del passato destinata a rapida scomparsa; comunque, dovevano astenersi da qualsivoglia politica economica, che non fosse nell’ambito della più stretta ortodossia mercatista. Nello stesso tempo è iniziata una frenetica delocalizzazione di gran parte della manifattura dai paesi occidentali a quelli di Asia, Africa ed America Latina, che ha modificato fortemente il Pil di quei paesi consentendo loro una spesa militare senza precedenti. E tutto questo ha provocato un marcato riallineamento dei rapporti di forza fra i diversi paesi.
    Quanto alle sconclusionate avventure degli Usa nei paesi mediorientali e della loro misera conclusione non è neppure il caso di dire. E, date queste premesse, perché mai sarebbe dovuta andare diversamente? E’ andata come era logico che andasse. L’idea che la globalizzazione sarebbe stata un’epoca di stabile “ordine mondiale”, nonostante il deperimento degli Stati nazionali, si basava essenzialmente sulla convinzione che di Stato ne bastasse uno, quello Usa, di cui tutti gli altri sarebbero stati solo pallide agenzie locali. Molto successo ebbe chi (Negri) parlava di un mitico Impero acefalo, di cui gli Usa erano solo il principale braccio esecutivo, non si capisce al servizio di quale cervello, una sorta di Impero-processo che superava definitivamente l’ordine westfalico verso non si sa bene cosa. E c’era anche chi (Huntington) parlava, con maggiore realismo, di un ordine mondiale fondato su sette o otto modelli di civiltà, raccolti intorno ad una nazione guida, ma pur sempre basato sull’egemonia occidentale, se non proprio americana e basta. Ma le cose non sono andate in questo senso, e la realtà si è dimostrata molto più fantasiosa dei progettisti del nuovo ordine mondiale.
    L’esperienza storica dimostra che, quando emerge un credibile disegno egemonico, si forma una coalizione dei soggetti più deboli (o comunque di quanti se ne sentono aggrediti) contro di esso e, non di rado, la coalizione vince. Waterloo, Stalingrado, Verdun, stanno lì a dimostrarlo. E’ accaduto anche questa volta, prima con la Comunità di Shanghai, a guardia dello spazio strategico cino-russo, e poi con la formazione del Bric, che alleava una ex grande potenza in via di ripresa (la Russia) con tre emergenti (Cina, India, Brasile), e cui, poco dopo, si aggiungeva il Sud Africa. Nasceva così l’embrione di un incerto ordine mondiale basato su una sola grande potenza ed un certo numero di grandi potenze regionali. La prima era l’unica in grado di intervenire in ogni angolo del pianeta, grazie alle sue 745 basi militari, alle sue 7 flotte e al predominio satellitare, ma le altre in grado di difendere militarmente il proprio spazio strategico. Per di più la globalizzazione moltiplicava i piani di scontro rendendoli insieme interdipendenti (economia, finanza, guerra cognitiva, soft power, guerra coperta, iperterrorismo) e la stessa dimensione spaziale acquisiva tre nuove sfere (sottosuolo marino, cyber-spazio e spazio satellitare) per cui la difesa del predominio assoluto, in ogni dimensione e su ciascun piano di scontro, comporta costi proibitivi, e questo rende sempre più imperfetto quel predominio unilaterale che sembrava destinato a durare a lungo nel tempo.
    Negli interstizi di questo ordine ineguale, si inserivano man mano nuovi attori di minore peso (Indonesia, Messico, Turchia, Egitto, Arabia Saudita, Argentina, Venezuela, Vietnam, Pakistan, le due Coree, eccetera), ma che iniziavano a giocare in autonomia una propria partita nella sfera di appartenenza. Nello stesso tempo, i pilastri delle alleanze occidentali iniziavano a indebolirsi, mostrando vistose crepe: l’Unione Europea, priva di un progetto strategico di sé, iniziava a naufragare con il riemergere dei protagonismi nazionali, la Nato andava perdendo senso, sotto i colpi dell’unilateralismo americano voluto da Bush e poi solo parzialmente smentito da Obama, nel Fmi iniziava a sentirsi la pressione dei nuovi soggetti (Cina in testa) e fra Usa ed Europa iniziavano a manifestarsi i sintomi di una guerra commerciale e monetaria. E il mondo ha iniziato a dividersi in tre aree, così come lo descrive la copertina del libro di Di Nolfo: quella verde del blocco occidentale (Usa, Ue, Australia, Giappone), quella gialla dell’area Bric (India, Russia, Cina, Brasile, cui aggiungeremmo il Sud Africa e i paesi intermedi fra Russia e Cina) e quella viola, che definiremmo “della turbolenza”, che include l’America Latina ispanofona, l’Africa, i paesi islamici e singole aree asiatiche come il Vietnam. Il tutto in un equilibrio precario pronto a far pendere un piatto della bilancia o l’altro.
    Inizialmente la sfida degli emergenti venne taciuta o avanzata con grande timidezza, tanto che, ancora nel 2012, Kupchan poteva illudersi che il predominio americano, vuoi per i rapporti di forza militari, vuoi per quelli finanziari, non era destinato ad affievolirsi, per cui l’odine mondiale sarebbe rimasto lo stesso ancora per un tempo indefinito, e che eventuali sfidanti potevano al massimo sperare ciascuno di ottenere un rapporto preferenziale con gli Usa. Ma le cose non sono andate in questo modo e la presidenza Trump è solo una brusca accelerazione su una traiettoria precedente, che vede gli Usa come unica superpotenza, ma assediata dai suoi sfidanti e con un rapporto di forse sempre meno favorevole. Contrariamente a quello che la teoria delle relazioni internazionali ha sempre sostenuto, non sempre il peggior pericolo di guerra viene dall’anarchia internazionale; qualche volta è proprio l’ordine a generare il massimo disordine.
    (Aldo Giannuli, “Elogio del nuovo disordine mondiale”, dal blog di Giannuli del 30 marzo 2017; il post sintetizza un intervento di Giannuli su “Limes”).

    L’attuale situazione internazionale desta in molti preoccupazione e sorpresa: non esiste un ordine mondiale, stiamo scivolando verso l’anarchia internazionale e questo fa temere l’approssimarsi di nuove guerre, sino all’esplosione di un nuovo grande conflitto mondiale. Passi per la preoccupazione: in effetti c’è un allargamento delle aree di scontro con archi di crisi di migliaia di chilometri, dalla Libia all’Afghanistan, dalla Siria all’Ucraina e forse l’Estonia, dalla Corea alle isole Senkaku-Diaoyu che potrebbe allungarsi sino alle Paracel; per non dire dell’iperterrorismo. In effetti il timore di una escalation che porti ad un conflitto generalizzato è plausibile. Quello che, invece, è strano è la sorpresa della quale ci sorprendiamo. L’ordine mondiale è sempre stato pensato come equilibrio fra Stati; ma, con l’avvento della globalizzazione neoliberista, ci è stato spiegato che gli Stati nazionali erano solo una reliquia del passato destinata a rapida scomparsa; comunque, dovevano astenersi da qualsivoglia politica economica, che non fosse nell’ambito della più stretta ortodossia mercatista. Nello stesso tempo è iniziata una frenetica delocalizzazione di gran parte della manifattura dai paesi occidentali a quelli di Asia, Africa ed America Latina, che ha modificato fortemente il Pil di quei paesi consentendo loro una spesa militare senza precedenti. E tutto questo ha provocato un marcato riallineamento dei rapporti di forza fra i diversi paesi.

  • Magaldi: chi spegne verità e democrazia se la vedrà con noi

    Scritto il 07/4/17 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Esplodono bombe, interi paesi sprofondano nella crisi, i missili di Trump piovono sulla Siria. E i media non raccontano la verità: tacciono, mentono, restano reticenti. C’è un piano mondiale, in atto da trent’anni: finanziare guerre, terremotare le economie e silenziare l’informazione. «Ebbene, vi dico: non prevarranno. I manovratori saranno pubblicamente denunciati e fermati». Parola di Gioele Magaldi, gran maestro del “Grande Oriente Democratico” nonché autore del saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere), che denuncia per la prima volta, con impressionante precisione, le trame occulte di 36 superlogge internazionali, vero e proprio “back office” del potere, al lavoro da decenni per svuotare la democrazia a vantaggio dell’élite mondialista. In collegamento con Claudio Messora su “ByoBlu”, canale web finito di recente sotto attacco (boicottaggio pubblicitario da parte di Google), Magaldi raccoglie la sfida e prepara l’affondo a Roma, l’8-9 aprile, con un forum sul futuro della democrazia con ospiti come l’economista Nino Galloni, il magistrato Ferdinando Imposimato e un giornalista come Giulietto Chiesa, bandiera storica dell’informazione indipedente. Obiettivo: costringere il sistema a dire la verità, anche con la creazione di un nuovo partito, che si impegni a stracciare i trattati europei che stanno piegando l’Eurozona.
    L’emergenza, oggi, colpisce in primo luogo l’informazione: gli Usa sparano missili sulla Siria per abbattere Assad, e non l’Isis, senza che la grande stampa si premuri di ricordare che è stato proprio l’Occidente a “fabbricare” lo jihadismo, come cavallo di Troia geopolitico in Medio Oriente e come alibi, in Europa, per la politica securitaria motivata dal dilagare del terrorismo “false flag”, sotto falsa bandiera, secondo la peggiore logica della strategia della tensione. A dare fastidio sono le verità che emergono dal web, le sole rimaste? Così parrebbe, visto l’attivismo «dell’ineffabile Laura Boldrini, proconsole di una filiale internazionale, che ha iniziato anche qui in Italia a preoccuparsi di imbavagliare la libera informazione». Magaldi non ha dubbi: «Negli ultimi anni, nel mondo, chi ha prodotto “fake news” non sono tanto i blogger, i siti indipendenti, quelli che cercano – come navi corsare, benemerite – di aprire degli spiragli nel pensiero unico del mainstream». Al contrario: «Il problema è stato spesso di chi ha fabbricato notizie false, e su questo ha anche costruito guerre, speculazioni finanziarie ai danni dei popoli, verso una destrutturazione di quello che sarebbe stato un processo virtuoso di globalizzazione della democrazia».
    Siamo all’eterna riedizione delle “armi di distruzione di massa” di Saddam, inventate di sana piana come pretesto per invare l’Iraq? Di suo, Magaldi aggiunge una lettura di taglio massonico: quanto di peggio è avvenuto, nel mondo, negli ultimi tre decenni, è stato progettato a tavolino da un’élite super-massonica apolide, decisa a mettere in atto una globalizzazione a mano armata e senza diritti, tantomeno quello all’informazione, su cui si fonda il pensiero democratico. Tutto si tiene, anche la «grottesca celebrazione dei Trattati di Roma affidata ai sedicenti europeisti che in realtà lavorano dal mattino alla sera per distruggere il progetto europeo, soffocato dall’economicismo dei tecnocrati: una camicia di forza che esaspera i nazionalismi, tra manine occulte e cancellerie asservite a interessi apolidi». Come se ne esce? «Noi – insiste Magaldi – abbiamo bisogno di un governo che abbia il coraggio di andare ai tavoli europei e dire: siamo tra i grandi contraenti del progetto europeo, vogliamo riscrivere i trattati, lavorare per un processo costituente per un’unione politica. Se ci state, bene. Altrimenti, se non si apre un dibattito, noi sospendiamo la vigenza dei trattati in Italia, accantonando tutte le retoriche europeiste o antieuropeiste».
    Gioele Magaldi pensa al Pdp, Partito Democratico Progressista, di cui è appena stato registrato il marchio, in vista delle prossime elezioni politiche. «Sarà un cantiere – spiega – al quale invitiamo tutti quelli che ne hanno abbastanza di sentir parlare di falsi democratici e falsi progressisti, come Bersani che ha votato il pareggio di bilancio in Costituzione, trasformando il Parlamento in una caserma per imporre il sì al Fiscal Compact. Misure-capestro, suicide per l’economia italiana, imposte «da uno dei governi più nefasti della storia, guidato dal massone reazionario Mario Monti, insediato dal massone ancora più reazionario Giorgio Napolitano». In Italia Monti, Letta e Renzi. E in Francia Hollande: «Doveva essere il campione anti-merkeliano e anti-austerity. Invece, tra blandizie e minacce, si è ridoto a un ruolo ornamentale, senza una sola proposta per un vero cambio di paradigma, in Europa». Renzi? «E’ stato poco furbo: se al referendum del 4 dicembre avesse inserito l’abolizione del pareggio di bilancio, avrebbe vinto».
    Peggio ancora dell’ex premier, forse, «gli avventurieri che vorrebbero appropriarsi delle parole “democratico” e “progressista”, dopo aver sorretto il governo Monti». Nella visione di Magaldi, non resta che ripartire dall’Italia per tentare di invertire il corso della storia, riaccendendo la luce sulla democrazia. A questo serve il “Master Roosevelt in scienze della polis”, che offre formazione per «conoscere le reti private sovranazionali che asservono ai propri interessi i governi eletti». Un’azione «di pedagogia e consapevolezza», fino a ieri limitata alla dimensione meta-partitica. Domani estesa anche all’agone elettorale? Magaldi appare deciso. Vede la necessità di «un partito “pesante”, novecentesco, democratico e ideologico, improntato al “socialismo liberale” di Carlo Rosselli, l’antifascista che diceva: è inutile parlare di libertà politiche e civili se non si offre ai cittadini anche una dignità economica per potersi occupare della res publica». Socialismo e liberalismo: «Keynes e Beveridge, il padre del welfare europeo, erano esponenti del Liberal Party». L’ipotetico nuovo soggetto politico punterebbe sull’elettorato in fuga dal Pd, su quello del centrodestra in pieno caos (e senz’ombra di primarie), rivolgendosi anche ai 5 Stelle: «Rappresentano una speranza, per l’Italia, a patto che si rivelino all’altezza della situazione, offrendo cioè uno spettacolo diverso da quello mostrato a Roma».
    Un nuovo partito, dunque? Sì, sembra dire Magaldi, se l’offerta politica italiana non offre alternative serie: e cioè un cambio radicale di paradigma. Stop al dogma neoliberista, senza mezzi termini. Come? «Dicendo quello che nessuno dice chiaramente: primo punto del programma, la revisione dei trattati europei. Tutti cianciano, parlano di uscire dall’euro, ma nessuno chiede apertamente, formalmente, di farla finita con questa Ue». Insiste Magaldi: «Propongo una riforma costituzionale per eliminare il pareggio di bilancio. Ho sentito che tutti i partiti che l’hanno votata se ne lamentano, si dicono pentiti. Bene, sfidiamoli: mettiamoli alla prova». Con un nuovo partito? Non ci lasciano altra scelta, sembra concludere Magaldi, che pensa alla discesa in campo. E, citando le «reti massoniche progressiste» a cui fa riferimento, si spende per «rassicurare tutti gli operatori dell’informazione libera e tutti i cittadini», per dire che il bavaglio al web non passerà. «Questi tentativi odiosi saranno sventati. Saranno anche denunciati. E tutti coloro che oggi si stanno impegnando in questa campagna liberticida, oltre a fallire, verranno sottoposti al giudizio severissimo della pubblica opinione», che ha imparato che giornali e televisioni non spiegheranno mai che, dietro ai missili di Trump, ci sono i “padrini” dell’Isis, di cui Magaldi – nel suo libro – fa nomi e cognomi.

    Esplodono bombe, interi paesi sprofondano nella crisi, i missili di Trump piovono sulla Siria. E i media non raccontano la verità: tacciono, mentono, restano reticenti. C’è un piano mondiale, in atto da trent’anni: finanziare guerre, terremotare le economie e silenziare l’informazione. «Ebbene, vi dico: non prevarranno. I manovratori saranno pubblicamente denunciati e fermati». Parola di Gioele Magaldi, gran maestro del “Grande Oriente Democratico”  e presidente del metapartitico Movimento Roosevelt nonché autore del saggio “Massoni, società a responsabilità illimitata” (Chiarelettere), che denuncia per la prima volta, con impressionante precisione, le trame occulte di 36 superlogge internazionali, vero e proprio “back office” del potere, al lavoro da decenni per svuotare la democrazia a vantaggio dell’élite mondialista. In collegamento con Claudio Messora su “ByoBlu”, canale web finito di recente sotto attacco (boicottaggio pubblicitario da parte di Google), Magaldi raccoglie la sfida e prepara l’affondo a Roma, l’8-9 aprile, con un forum sul futuro della democrazia con speaker come l’economista Nino Galloni, il magistrato Ferdinando Imposimato e un giornalista come Giulietto Chiesa, bandiera storica dell’informazione indipendente. Obiettivo: costringere il sistema a dire la verità, anche con la creazione di un nuovo partito, che si impegni a stracciare i trattati europei che stanno piegando l’Eurozona.

  • Trump, cioè il caos: nemmeno Wall Street sa cosa voglia

    Scritto il 07/4/17 • nella Categoria: segnalazioni • (5)

    Sui media alternativi più rispettabili, come “Alternet”, esperti come Ian Frel descrivono Trump come «un disastro tossico multiforme, la cui presenza alla Casa Bianca è un danno alla psiche collettiva degli Stati Uniti d’America». Trump non gode di molte altre simpatie sui media, obiettivamente. Ok, questi sono i media, e lo sappiamo che mai ci si deve affidare a loro, anche se alternativi e rispettabili. Per capire cosa significa Donald Trump alla Casa Bianca l’unica via è leggere cosa dicono i Signori dei soldi, i Signori dei miliardi che girano per il mondo. Ecco cosa dicono di Donald Trump i Signori del Vero Potere (e coincide coi media di cui sopra, ops!): «Noi di Goldman Sachs e i nostri clienti, ci chiediamo cosa significa questo fenomeno Trump, cioè la sua retorica opposta alla realtà, e a cosa questo ci porta. Quello che stiamo cercando di capire è, attraverso la nebbia delle sue affermazioni, o ‘sparate’, cosa sia ottenibile o meno», afferma Michaeal Pease, capo di Gs Government Affairs. «Il problema per gli investitori europei e americani è capire cosa diavolo aspettarsi da Trump, visto che Trump non ha ancora dato segnali di nessun tipo».
    Jp Morgan aggiunge in una nota agli investitori: «Ci aspettavamo un programma di de-regolamentazione, di riforma delle tasse, di ampliamento della spesa pubblica, ma poi Trump se n’è uscito con bordate contro gli scambi internazionali, contro l’immigrazione, e questo ha preoccupato gli investitori, e i mercati non hanno preso ’ste cose non molto bene. Crediamo che per la crescita degli americani tutto questo non sia proprio meraviglioso. I mercati non hanno preso bene la sua retorica sull’immigrazione, no, proprio no». Goldman Sachs aggiunge, per bocca di Alec Philips, capo del dipartimento analisi dell’economia Usa, che «l’amministrazione Trump è persa nelle nebbie, non ha ancora confermato neppure la metà dei suoi funzionari, sono lentissimi, lasciano gli investitori nell’incertezza, e questo a Goldman Sachs significa un colloquio estremamente difficile coi nostri clienti». Allora, non vi annoio con tutti i dettagli che vengono da Gs o da Jpm, ma ciò che va capito del presidente del mondo – perché presidente del mondo lo è da 60 anni l’uomo che siede alla Casa Bianca – è che nel caso di Trump siamo in presenza del… caos.
    Trump è riuscito nell’impresa di alienare non solo i democratici, cosa scontata, ma anche le frange più estreme dell’estremissimo Partito Repubblicano, come il Tea-Party, cioè l’ultra-destra della destre Usa. Le sue promesse sui tagli alle tasse delle aziende sono giudicate da quelli che contano, cioè Goldman Sachs e Jp Morgan, come al meglio “fumose”; ha fallito, come sapete, nella riforma della sanità; non è amato per nulla neppure dal cuore del suo partito, cioè i repubblicani; e, come detto, neppure dagli estremisti di quel partito, ancora non ha fatto nulla che sia degno di nota o d’infamia! Il fatto è che Trump voleva ripudiare qualsiasi cosa avesse fatto quel (criminale sociale e internazionale di…) Obama, ma senza metterci gli stessi fondi. E questo lo ha affondato nel ridicolo. Goldman Sachs ci dice anche che tutta la fanfara sulla deregolamentazione promessa da Trump è solo… fanfara, perché ancora non ha piazzato nessuno che si rispetti a fare quel lavoro. E sui tagli alle tasse? Il consenso degli esperti di Goldman Sachs, Jp Morgan, e di Citi, è che Trump non ha la più pallida idea di come procedere. E allora?
    Allora auguri. Trump è il caos, anche nei giudizi del Vero Potere. Il politically correct delle sinistre (sinistre per modo di dire) americane ha solo nutrito la disperazione dei populismi in Usa mentre nutriva l’1% degli americani a suon di miliardi, e ora abbiamo questo caos chiamato Trump. In Europa il Pd italiano, i socialisti francesi e i laburisti inglesi, cioè le sinistre falsarie e pro-finanza a tutto gas, ci consegneranno la stessa minestra, cioè i nostri locali Trump, siano essi chiamati Le Pen o Salvini. Ok, inutile dire, scrivere, o agitarsi. Accadrà, prima, o poi. Lo sappiamo bene: gli Usa sono il nostro modello comandato sempre 20 o 30 anni prima (io vi avevo avvisati).
    (Paolo Barnard, “Il Trump dei media, il Trump dei padroni del mondo, e noi fessi”, dal blog di Barnard del 1° aprile 2014).

    Sui media alternativi più rispettabili, come “Alternet”, esperti come Ian Frel descrivono Trump come «un disastro tossico multiforme, la cui presenza alla Casa Bianca è un danno alla psiche collettiva degli Stati Uniti d’America». Trump non gode di molte altre simpatie sui media, obiettivamente. Ok, questi sono i media, e lo sappiamo che mai ci si deve affidare a loro, anche se alternativi e rispettabili. Per capire cosa significa Donald Trump alla Casa Bianca l’unica via è leggere cosa dicono i Signori dei soldi, i Signori dei miliardi che girano per il mondo. Ecco cosa dicono di Donald Trump i Signori del Vero Potere (e coincide coi media di cui sopra, ops!): «Noi di Goldman Sachs e i nostri clienti, ci chiediamo cosa significa questo fenomeno Trump, cioè la sua retorica opposta alla realtà, e a cosa questo ci porta. Quello che stiamo cercando di capire è, attraverso la nebbia delle sue affermazioni, o ‘sparate’, cosa sia ottenibile o meno», afferma Michaeal Pease, capo di Gs Government Affairs. «Il problema per gli investitori europei e americani è capire cosa diavolo aspettarsi da Trump, visto che Trump non ha ancora dato segnali di nessun tipo».

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