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Archivio del Tag ‘fisco’

  • Cesaratto: l’euro uccide la democrazia, ditelo alla sinistra

    Scritto il 23/5/14 • nella Categoria: idee • (3)

    Il nostro è un paese dall’identità storicamente fragile. Sfiducia nello Stato nazionale o sfiducia nella saldezza democratica del popolo hanno fatto in modo che sia a destra che a sinistra si guardasse all’Europa per rafforzare la nostra debole costituzione. Un pizzico di utopia spinelliana ha fatto il resto. Quest’ultima di per sé non guasta, se non fosse andata (in particolare a sinistra) troppo oltre, dimenticando che l’Europa è un consesso di Stati nazionali che fanno ciascuno il proprio interesse. L’utopismo ha inoltre offuscato il segno reazionario che ha preso la costruzione europea, soprattutto col progetto della moneta unica. Come l’antico gold standard, la moneta unica è uno strumento disciplinante. C’è chi ha detto che precisamente attraverso questa crisi, frutto dell’euro, la moneta unica sta realizzando i suoi obiettivi: un ritorno a un capitalismo ottocentesco, quello del gold standard appunto. La sinistra ha assistito imbelle e genuflessa agli ideali europeisti, allo svuotamento dei poteri dello Stato nazionale.
    Quest’ultimo è il playing field naturale della democrazia, del conflitto democratico su come creare e distribuire le risorse. Una volta svuotato dei sui poteri, trasferiti a livello sovra-nazionale, con lo Stato nazionale scompare la democrazia. Fior di economisti hanno sostenuto l’incompatibilità fra moneta unica e democrazia! Il Parlamento Europeo non può sostituire le democrazie nazionali perché troppo cacofonico. Lì finiscono per prevalere gli interessi nazionali, mentre le classi lavoratrici nazionali non hanno più un terreno rivendicativo su cui esprimersi. A me pare, contrariamente alle accuse mosse dagli utopisti delle liste di sinistra, che Stati sovrani siano il presupposto di democrazia e cooperazione internazionale, mentre sia l’europeismo superficiale a fomentare il nazionalismo: dio ci scampi dagli utopisti!
    L’Europa dovrebbe invertire il segno delle politiche di bilancio con un forte sostegno della Bce nel controllo dei tassi di interesse e nell’agevolare forme di ristrutturazione del debito (vi sono varie proposte in merito). Il dramma è che la Germania non è interessata a quest’Europa. Essa ha un modello mercantilista (export-led) basato su un forte ordine sociale interno accompagnato dalla moderazione salariale e fiscale che non intende mettere in forse (e ciò è comprensibile). Quindi è un bel pasticcio. Parlare di Europe federali vuol dire vaneggiare. Una forte affermazione delle forze anti-euro è dunque benvenuta, se smuoverà le acque, anche se sia chiaro che in nessun senso personalmente appoggio compagini xenofobe o di destra con cui, a differenza di qualche collega (o presunto tale), non intendo avere rapporti.
    La sinistra avrebbe dovuto riprendere la bandiera della nostra libertà nazionale in un senso democratico e positivo, ma ne ha paura. Questo è un dramma. Una rottura consensuale dell’euro sarebbe benvenuta, ma è un processo assai complicato, forse troppo. Ma certo, se l’Europa ci prova a chiederci di applicare il Fiscal Compact, allora la rottura se la saranno cercata. Ricordiamo poi che tutto il dramma europeo cade in un quadro mondiale a sua volta assai complesso: dal pericolo di una “stagnazione secolare” del capitalismo – anche alla luce delle crescenti disuguaglianze che mortificano la domanda aggregata oltre che le coscienze – alla sfida epocale dei paesi emergenti fatta del combinato disposto di bassi salari e crescente tecnologia. Una vera unione politica, che implicherebbe uguali diritti sociali, non è e non sarà nel futuro prevedibile all’ordine del giorno. Dimentichiamoci queste stupide utopie.
    (Sergio Cesaratto, dichiarazioni rilasciate a “ForexInfo” per l’intervista “L’Europa che non c’è”, ripresa da “Megachip” il 6 maggio 2014. Eminente economista, esperto di politica fiscale europea, il professor Cesaratto è docente all’università di Siena e curatore del blog “Politica Economia”).

    Il nostro è un paese dall’identità storicamente fragile. Sfiducia nello Stato nazionale o sfiducia nella saldezza democratica del popolo hanno fatto in modo che sia a destra che a sinistra si guardasse all’Europa per rafforzare la nostra debole costituzione. Un pizzico di utopia spinelliana ha fatto il resto. Quest’ultima di per sé non guasta, se non fosse andata (in particolare a sinistra) troppo oltre, dimenticando che l’Europa è un consesso di Stati nazionali che fanno ciascuno il proprio interesse. L’utopismo ha inoltre offuscato il segno reazionario che ha preso la costruzione europea, soprattutto col progetto della moneta unica. Come l’antico gold standard, la moneta unica è uno strumento disciplinante. C’è chi ha detto che precisamente attraverso questa crisi, frutto dell’euro, la moneta unica sta realizzando i suoi obiettivi: un ritorno a un capitalismo ottocentesco, quello del gold standard appunto. La sinistra ha assistito imbelle e genuflessa agli ideali europeisti, allo svuotamento dei poteri dello Stato nazionale.

  • L’euro di Hitler, una moneta unica per l’Europa nazista

    Scritto il 22/5/14 • nella Categoria: idee • (7)

    Sembra che la Grande Germania, ritornata soggetto geopolitico egemone in Europa, stia realizzando attualmente la prospettiva immaginata dai politici e dagli economisti nazisti per il loro dopoguerra vittorioso: di rendersi esportatrice netta di merci verso una periferia monetariamente subalterna ad una moneta unica che allora sarebbe stato il marco e adesso è l’euro. Alla metà degli anni ’30 la stabilità degli scambi commerciali con l’estero era stata raggiunta in Germania mediante accordi bilaterali di clearing che consentivano di scambiare le merci senza “consumare” moneta perché le importazioni, non coperte da esportazioni, venivano contabilizzate in una “stanza di compensazione” e rinviate al futuro, senza interessi, in attesa d’essere saldate con esportazioni a venire. A seguito dei successi militari del 1940 una sua evoluzione venne ritrovata nella compensazione multilaterale tra le nazioni progressivamente alleate o conquistate, così che se la Germania si trovava con un debito verso A ma pure con un credito verso B, B pagava A e la Germania era libera dal debito senza nessun movimento di valuta.
    Nasceva in questo modo l’idea di costituire un Grande Spazio di scambi commerciali europei di cui la Germania sarebbe stata il centro, come nel 1940 spiegava una nota della Cancelleria del Reich: «I grandi successi della Wehrmacht tedesca hanno creato i fondamenti per il Nuovo Ordine Economico Europeo sotto il dominio tedesco. La Germania, dopo aver concentrato negli ultimi anni le proprie forze principalmente sul riarmo militare, potrà seguire in futuro anche la strada della crescita economica e dello sviluppo delle proprie forze produttive su ampia base e una grossa crescita del tenore di vita ne sarà la conseguenza». Questo Nuovo Ordine Economico Europeo sarebbe però nato asimmetrico, perché gli stati aderenti si sarebbero collocati in due diversi gironi d’importanza: un “cerchio interno” composto dalla Germania allora impinguata dell’Austria e dei Sudeti, dal Protettorato di Boemia e Moravia, dal Governatorato Generale polacco e da Danimarca, Norvegia, Olanda, Belgio e Lussemburgo in quanto nazioni razzialmente affini ma pure economicamente omogenee, tanto da potersi pensare ad un unico livello dei prezzi, dei redditi e dei salari; ed un “cerchio esterno” in cui avrebbero gravitato Svezia, Svizzera e poi Portogallo, Italia, Grecia e Spagna (i Pigs, i paesi “maiali” già previsti!) con estensione all’Unione Sovietica (quando sconfitta), alla Turchia e all’Iran per proiettare il Grande Spazio fino al Pacifico e al Golfo Persico.
    Qui però prezzi e salari sarebbero stati mantenuti più bassi per favorire le esportazioni verso il cerchio interno. Il marco avrebbe dovuto diventare la moneta comune (in mancanza, «la fissazione di tassi di cambio stabili sarebbe assolutamente necessaria»), mentre sarebbe stata istituita una Banca Centrale Europea con sede a Vienna, che allora era tedesca, per il conteggio incrociato dei saldi tra i paesi associati «in cui, naturalmente, la Germania deve essere predominante». Tanto progetto d’unificazione commerciale e monetaria europea non ha però mai visto la luce, travolto dal rovesciamento delle sorti della guerra dal 1942 in poi. Ma si può avanzare il legittimo sospetto che, dopo la costituzione della Unione Monetaria, la Germania post-1989 abbia ripreso con determinazione l’idea del Grande Spazio europeo partendo dall’adozione di una  politica commerciale lucidamente “mercantilistica” per compensare con l’esportazione all’estero il rigore fiscale e la moderazione salariale interne (e qualcuno ha scritto che «se non ci fossero state le robuste esportazioni verso l’Europa periferica, la Germania sarebbe scivolata dalla bassa crescita alla stagnazione»).
    Ma il disavanzo commerciale che si veniva a formare in periferia, non più correggibile con le “svalutazioni competitive” di un tempo per il vincolo della moneta unica, come sarebbe stato coperto? A sostenere la capacità di spesa dei paesi “maiali” sono  intervenuti i prestiti di capitale dal centro; per cui, se quelli s’indebitavano, questo otteneva il doppio vantaggio di guadagnare interessi sul denaro prestato, assicurandosi contemporaneamente un mercato di sbocco privilegiato perché privo di rischio di cambio. Il gioco non è tuttavia senza difetto perché, mentre la periferia si deindustrializza per l’invasione delle merci straniere, il centro si fa partecipe della sua progressiva instabilità finanziaria per quell’indebitamento crescente di cui è creditore. E così quando, e ai primi casi d’insolvibilità periferica (in Grecia, ma soprattutto a Cipro), il centro ha temuto che i propri crediti potessero venire “ripudiati”, è corso ai ripari richiedendone alla periferia il rientro, almeno in parte, coatto. Sta in questo il senso del Trattato per la stabilità, il coordinamento e la governance, sinteticamente noto come “Fiscal Compact”, approvato il 23 luglio 2012 dal Parlamento italiano.
    Con esso si sono a tal punto irrigiditi i vincoli di bilancio pubblico e di debito sovrano da poter essere giudicato, dopo il Trattato di Maastricht (1991) ed il Trattato di Lisbona (1999), come «il terzo atto della storia dell’euro che radicalizza in maniera inedita i principi neoliberisti che hanno caratterizzato fin dall’inizio la costruzione della moneta unica», anche a rischio di realizzare una forma di austerità perpetua che potrebbe fare esplodere l’Unione Monetaria Europea. Il Fiscal Compact richiede all’articolo 3 che le spese statali vengano integralmente coperte da imposte e tasse (al netto di variazioni minimali emergenziali); in caso contrario è previsto «un meccanismo automatico di correzione» che di fatto priva i paesi colpevoli d’infrazione d’ogni potere decisionale proprio. L’articolo 4 impone invece il rientro del debito pubblico al 60% del Pil a partire dal 2015 (un impegno confermato dalla “Agenda Monti” del 24 dicembre 2013), il che significherebbe per l’Italia, che ha un debito pubblico del 134% su di un Pil di oltre 2.000 miliardi di euro, un aggravio sul bilancio statale e per vent’anni di una quota di restituzione del debito di oltre 50 miliardi all’anno.
    Ma perché un simile provvedimento è stato introdotto? Chi l’ha pensato si è affidato a certe stime del Fondo Monetario Internazionale, secondo le quali ad un punto di “contrazione fiscale” (più imposte e tasse e/o meno spesa pubblica) corrisponderebbe un calo del Pil dello 0,5%, e quindi una riduzione del rapporto debito-Pil. Però all’inizio del 2013 lo stesso Fmi ha convenuto che quella stima funziona soltanto in caso di crescita economica, perché in recessione la riduzione del Pil sale all’1,7%, aumentando (e non diminuendo) il rapporto debito-Pil e quindi costringendo ad ulteriori interventi d’austerità che peggiorano il rapporto e così via seguitando (come s’è visto in Italia con le manovre di riduzione del debito dei governi Monti e Letta che, invece di diminuirlo, lo hanno aumentato). Ma se tutto questo succede in periferia, che capita al centro? Di fronte ad un eventuale collasso economico periferico, esso vedrebbe restringersi l’area privilegiata d’esportazione dovendo ricercare altri sbocchi fuori dalla zona-euro, dove però il rischio di cambio esiste.
    E qui, a fronte di un euro troppo rivalutato, la sostituzione delle esportazioni potrebbe non risultare “a somma zero”, come sta già succedendo alla Germania: calano le esportazioni verso i paesi Ue, ma «Berlino sbaglierebbe davvero molto se d’ora in poi potesse pensasse di poter puntare tutte le sue carte solo sul resto del mondo. Con una domanda interna tendenzialmente debole e senza la vecchia Europa che torni a comprare il “made in Germany”, il suo attivo rischia di non correre più come quello di un tempo, sicché nel 2012 la somma del saldo complessivo Ue ed extra-Ue ha fatto segnare soltanto quota 185 miliardi, un livello ancora lontano, dopo cinque anni, dal record storico di 194 miliardi toccato nel 2007». Quale soluzione allora ci sarebbe per il centro se non quella di una svalutazione competitiva dell’euro per guadagnare maggiori quote di mercato? Ma questa decisione, favorevole agli industriali, danneggerebbe il sistema finanziario, che vedrebbe minacciato quell’euro forte difeso fino ad ora a spada tratta. Ecco perché non è da escludere l’alternativa di un arroccamento su di un euro del nord che abbandoni al proprio destino i paesi “maiali” per riciclare il centro come luogo privilegiato d’importazione di capitali invece che di esportazione di merci. E’ quest’ultima una soluzione praticabile? L’antagonismo tra finanza e industria è un tema ricorrente nella storia economica.
    (Giorgio Gattei, “L’euro dei nazi e il nostro”, da “Economia e Politica” del 24 aprile 2014).

    Sembra che la Grande Germania, ritornata soggetto geopolitico egemone in Europa, stia realizzando attualmente la prospettiva immaginata dai politici e dagli economisti nazisti per il loro dopoguerra vittorioso: di rendersi esportatrice netta di merci verso una periferia monetariamente subalterna ad una moneta unica che allora sarebbe stato il marco e adesso è l’euro. Alla metà degli anni ’30 la stabilità degli scambi commerciali con l’estero era stata raggiunta in Germania mediante accordi bilaterali di clearing che consentivano di scambiare le merci senza “consumare” moneta perché le importazioni, non coperte da esportazioni, venivano contabilizzate in una “stanza di compensazione” e rinviate al futuro, senza interessi, in attesa d’essere saldate con esportazioni a venire. A seguito dei successi militari del 1940 una sua evoluzione venne ritrovata nella compensazione multilaterale tra le nazioni progressivamente alleate o conquistate, così che se la Germania si trovava con un debito verso A ma pure con un credito verso B, B pagava A e la Germania era libera dal debito senza nessun movimento di valuta.

  • Il giudice: l’euro condanna a morte l’Italia antifascista

    Scritto il 21/5/14 • nella Categoria: idee • (7)

    Il trattati europei violano apertamente la Costituzione italiana, vanno in direzione diametralmente opposta: per la nostra Carta, «scritta da persone che avevano fatto la Resistenza e preso atto dell’anti-socialità di un certo capitalismo», la spesa sociale (deficit) è il “mestiere” dello Stato: «L’essenza stessa delle democrazie è la garanzia del benessere a lungo termine, che c’è solo con la piena occupazione della forza lavoro». L’euro e gli eurocrati fanno esattamente il contrario: costringono lo Stato a tagliare la spesa sociale, cioè a tradire la propria missione costituzionale. Lo afferma un magistrato, Luciano Barra Caracciolo, già membro del Consiglio di Stato, impegnato a smascherare l’impostura della governance Ue, affidata a tecnocrati al servizio dell’élite finanziaria. Personaggi che colpevolizzano paesi come l’Italia, che in realtà versa a Bruxelles molto più di quanto non riceva. E’ il gioco sporco dell’oligarchia: «Tanto più si privilegia il capitale nella sua dimensione finanziaria, tanto più si sacrifica il livello di benessere generale e si sposta la ricchezza nelle mani di pochi».
    Una volta attuate, dichiara Barra Caracciolo ad “Abruzzo Web”, le democrazie costituzionali contemporanee portano a una crescita incrementata programmaticamente da un intervento pubblico «che è, prima di tutto, correttivo dell’assetto di forze che il capitalismo tende a creare». Un assetto «redistributivo verso la parte più debole, e largamente maggioritaria, della comunità sociale». L’effetto di questa correzione statale è che «tutti stanno meglio», perché la priorità indiscutibile è «la soddisfazione dei bisogni collettivi, non certo la stabilità finanziaria intesa come garanzia della intangibilità dei profitti del capitalismo finanziario». La democrazia moderna quindi “aiuta” la maggioranza, non i privilegiati, e questo «non sta bene a chi sta in cima alla piramide», anche perché la crescita del benessere diffuso «comporta una crescita culturale della massa e fa sì che questa abbia maggiore peso politico», contrastando le élite che tendono invece a condizionare i governi dall’alto del loro potere economico. Ed ecco spiegata l’attuale Ue con la sua Eurozona: sbaraccare lo Stato democratico e restituire il potere all’oligarchia, secondo uno schema pre-moderno, neofeudale.
    Certo, chi è a favore dell’euro spara a zero contro l’Italia, considerata incapace di intercettare al meglio i fondi europei. Errore, interviene il magistrato: i fondi europei sono nel bilancio dell’Ue ma non dell’unione monetaria, «che è stata deliberatamente creata senza un bilancio fiscale federale: i trattati non offrono strumenti compensativi degli squilibri interni all’area euro, e le dimensioni dei cosiddetti fondi Ue sono assolutamente inadeguate al Pil europeo». Ogni altro sistema federale al mondo – Usa, Canada, la stessa Germania – dispone di ben altro budget. Dato il peso economico dell’Europa, secondo l’economista francese Jacques Sapir servirebbe un bilancio federale europeo paragonabile a quello degli Stati Uniti. «Ma di questo bilancio, la Germania dovrebbe sopportare un peso pari a 8-9 punti del proprio prodotto interno lordo: un risultato semplicemente impensabile, e certamente respinto senza equivoci dalla stessa Germania».
    Dall’Unione Europea (non dall’area euro) si ripete che agli Stati come l’Italia viene semplicemente “restituita”, in parte, una somma che gli Stati hanno già versato. Per effettuare questa contribuzione netta, dati i vincoli di bilancio (drastica limitazione del deficit, fino all’attuale vincolo al pareggio di bilancio), «dobbiamo sostanzialmente rinunciare ai programmi pubblici previsti dalla nostra Costituzione» dice Caracciolo. «L’Unione Europea, in pratica, ne vieta la piena attuazione nei livelli solidaristici da essa previsti, non si scappa. Insomma, diamo dei soldi e ne riceviamo di meno, il meccanismo è questo. Le priorità, poi, vengono pianificate a livello eurocentrico, secondo finalità settoriali, ben diverse da quelle previste dalla nostra Costituzione». Cifre: ogni anno, secondo la Corte dei Conti, sono oltre 6 miliardi in meno che riceviamo rispetto alla nostra contribuzione. Inoltre, per la stabilizzazione della moneta unica – cioè degli squilibri creati dall’euro – solo negli ultimi tre anni abbiamo dovuto pagare, a vario titolo ed emettendo debito pubblico aggiuntivo (che ci viene poi rimproverato come “colpa”, costringendoci a ulteriori dosi di austerità) oltre 53 miliardi, tra cui i 10 miliardi di soccorsi bilaterali concessi a Spagna e Grecia.
    Ma anche spendendo per sostenere i paesi più deboli, l’Unione Europea non fa la cosa giusta, nel modo giusto: «I fondi accumulati per tenere su i sistemi bancari greci o spagnoli non sono stati usati per incrementare i bilanci di intervento sull’economia reale di quei paesi, ma vengono direttamente dati in pagamento alla Bce», che compra – da Francia e Germania – i titoli di Stato spagnoli e greci Parigi e Berlino avevano acquisito. Oppure, gli “aiuti” vengono immediatamente girati dagli Stati debitori al sistema bancario dei paesi creditori, quello tedesco in primis. In ogni caso, data la sua esiguità, per un vero “salvataggio” non sarebbe sufficiente neppure il fondo del Mes, il meccanismo europeo di stabilità. E così, nel frattempo le tasse aumentano: «Dall’assetto giuridico attuale non possiamo attenderci che una continua progressione della pressione fiscale», dice Barra Caracciolo. Una super-tassazione, «spesso artificiosa e contraria alla Costituzione», realizzata sia attraverso la moltiplicazione del tipo di imposte, sia attraverso «il continuo allargamento normativo delle basi imponibili», che però tendono a contrarsi dato che siamo in recessione.
    Uno dei drammi italiani è proprio il crollo della domanda interna di consumi, che aggrava il debito perché riduce il gettito fiscale e compromette il futuro: «Se non c’è più domanda interna, non c’è incentivo alcuno a fare nuovi investimenti in Italia. Chi vorrebbe produrre non lo fa perché non ci sono prospettive di vendere il prodotto, e il carico fiscale rende difficile immaginare anche la convenienza dell’esportazione». Per il magistrato, «siamo nel pieno della visione neoclassica dell’economia», quella della destra economica. «Siamo praticamente in stagnazione dal 1992». Già all’epoca del Trattato di Maastricht «era evidente che non si potesse tollerare un vincolo di cambio e di bilancio fiscale del genere e mantenerlo insieme alla crescita». L’euro – moneta rigida e non sovrana – non può che deprimere l’economia, tagliando le gambe all’unico possibile volano risolutivo, l’intervento statale: in una situazione di crisi, senza investimenti pubblici il settore privato crolla.
    «In un’economia liberista come quella dell’area euro, fondata sulla lotta all’inflazione e sulla limitazione dell’intervento pubblico, si finisce nella trappola della liquidità», spiega Luciano Barra Caracciolo. «Anche se i tassi praticati dalla banca centrale sono vicini allo zero, i soldi rimangono là, fermi. E i risparmi fermi non si trasformano in investimenti». Questo viene regolarmente imputato «alla mancanza di produttività del lavoro, che viene ulteriormente compresso nel salario: ciò che chiamano “riforme strutturali”», dalla riforma Fornero al Jobs Act di Renzi, dopo il pacchetto Treu del primo governo Prodi e poi la legge Biagi. Secondo Giulio Sapelli, siamo sull’orlo di una guerra. In realtà, la competizione tra Stati è già esplosa: avremmo dovuto cooperare, ma è lo stesso Trattato di Maastricht a parlare di “economia sociale di mercato fortemente competitiva”, prefigurando quindi «una competizione tra Stati per la supremazia sul mercato unico».
    Eccoci qua: «Privi di governo federale e di sovranità monetaria, stretti da vincoli di bilancio che escludono ogni autonoma politica economica e industriale nazionale, gli Stati non hanno più la parte essenziale della sovranità. Ma quella sovranità, sottrattagli ben oltre i limiti previsti dalla Costituzione per consentire di aderire a un’organizzazione internazionale, non è poi esercitata da nessuno, in termini di politiche di interesse generale dei popoli. È come se ci fosse un buco nero in cui la sovranità si disperde». Gli Stati della nuova Europa? «Devono competere tra loro, altre vie non vengono indicate». Secondo Paul Krugman, Premio Nobel per l’Economia, tutto questo non porta sviluppo: si può anche vincere sulle esportazioni, ma nessuno vince se si vuole realizzare questo obbietivo tutti insieme simultaneamente. Risultato: zero crescita comune, proprio grazie alla perduta sovranità “dispersa nel nulla”. L’export in ogni caso non è la soluzione: «Le esportazioni si mandano avanti comprimendo domanda interna e salari: quindi, negli effetti sociali, siamo in guerra», sottolinea Caracciolo. «Chi perde si trova di fronte a perdite epocali e a un impoverimento che diviene irreversibile».
    Apriamo gli occhi, aggiunge il magistrato: «Non è l’euro ad aver garantito la pace: semmai è uscire dall’euro che porterebbe finalmente a una “pace”, intesa come armonizzazione cooperativa sul piano commerciale e industriale, che oggi non c’è perché è appunto incentivata una guerra commerciale-finanziaria dalla stessa struttura istituzionale della non-politica monetaria accentrata nella Bce». A questa analisi, la propaganda comune – e i mezzi di informazione di massa – replicano nel solito modo, cioè puntando il dito contro i presunti vizi italiani: non abbiamo mai saputo governarci bene, quindi non cresceremmo nemmeno in caso di uscita dall’euro. Il che è falso, puntualizza il giudice: «L’Italia se la cavava benissimo, riuscendo a stare almeno alla pari di Francia e Inghilterra, con una struttura industriale più dinamica». Fino all’irruzione dello Sme, il sistema monetario europeo e quindi il “vincolo esterno” alla spesa pubblica, «la realtà economico-industriale italiana non era affatto quella mostruosità che è stata dipinta ad arte da chi voleva “ridimensionare” l’Italia». Cifre alla mano, Bara Caracciolo smentisce i pro-euro: tra gli anni ‘70 e gli ‘80 l’Italia aveva una bassa spesa pubblica, inferiore di 10 punti alla spesa tedesca.
    C’era un deficit strutturale, certo, «ma il deficit non è un in sé un elemento negativo per il prodotto interno lordo», visto che corrisponde «all’immissione pubblica di moneta nel sistema», cosa che da noi «ha generato un grande risparmio privato», il primo d’Europa: gli italiani, in altre parole, si sono arricchiti anche grazie all’azione strategica dello Stato, che ha “speso a deficit per i cittadini”, aziende e famiglie, permettendo al sistema-paese di svilupparsi nel modo che abbiamo visto. Il debito pubblico? Altra mistificazione: nel 1981, al momento del divorzio fra Tesoro (Andreatta) e Banca d’Italia (Ciampi), il debito era appena al 58%, sottolinea Barra Caracciolo. Poi è esploso, quando è stato affidato ai titoli di Stato sul mercato finanziario privato, imbrigliando lo Stato prima con lo Sme – tassi di cambio a oscillazione limitata – e infine con l’euro, moneta iper-rigida che ci vincola «a realtà economiche come la Germania, strutturalmente inconciliabili con la nostra». Morale: «Sottraendo deficit e debito dalle mani dello Stato sovrano, si è avuta un’esplosione degli interessi». Non a caso, naturalmente: «Già in quel momento hanno cominciato ad arricchirsi minoranze di privati che sono diventati i sottoscrittori privilegiati di questo debito a interessi superiori al livello dell’inflazione, determinandosi un trasferimento a loro favore dei soldi dei contribuenti».
    Uno dei refrain del centrosinistra – da Prodi a Renzi – è la necessità di tagliare la spesa pubblica. E’ solo «una scusa», replica Luciano Barra Caracciolo. «In termini assoluti la spesa italiana non è mai stata alta, era sotto controllo: il problema del deficit era in realtà dovuto alla pressione fiscale relativamente bassa rispetto agli altri paesi europei come Francia e Germania», con in più una vasta evasione fiscale. Con Maastricht, si è cercato di “rimediare” aumentando la pressione fiscale su tutte le categorie produttive. Questo, insieme al cambio sfavorevole (l’euro troppo “forte”) e al venir meno del sostegno pubblico (il taglio del deficit) ha provocato «il blocco dello sviluppo industriale», cioè la grande crisi italiana, sottoposta allo choc improvviso della moneta unica, del rigore fiscale e della fine del sostegno pubblico. Il problema dunque non è l’Italia, ma questa Unione Europea. Il famoso malgoverno italiano? «Non era peggiore di altri ordinamenti in competizione, come Francia e Germania», e in ogni caso gli illustri tangentocrati del passato non hanno certo impedito al paese di svilupparsi rapidamente, arricchendo famiglie e aziende. «Capiamoci bene», insietre Caracciolo: «Con le attuali politiche fiscali, e specialmente col pareggio di bilancio, si azzererà il risparmio privato delle famiglie».
    «È un fatto di contabilità nazionale, non si può non capire un concetto così elementare», continua il magistrato. «Se devo tenere il deficit sotto un certo limite, si deve comprimere la domanda fino a provocare la recessione». Ma attenzione: il deficit non è un problema. Al contrario: «E’ il risparmio del settore privato». Sono soldi che lo Stato spende per cittadini e aziende. Se invece si taglia, e quindi si comprime la domanda interna di beni e servizi, il saldo arriva allo zero. Pareggio di bilancio, appunto. Così, l’onere degli interessi viene trasferito «nelle mani di chi detiene il debito pubblico», cioè «non certo le famiglie, ormai marginalizzate». Peggio ancora: «Col pareggio di bilancio si arriverà addirittura a un risparmio negativo: per fronteggiare la vita e le tasse, i cittadini dovranno vendere i propri beni patrimoniali, intaccando lo stock di risparmio. Questi beni andranno in sovraofferta, e i prezzi caleranno drammaticamente. Guardate i prezzi degli immobili, già in aperta flessione. In vent’anni di Fiscal Compact i valori reali saranno ridotti almeno a un terzo rispetto ai picchi della metà degli anni 2000. Alla fine del processo saremo tutti più poveri».
    E mentre il Pd continua a chiedere “più Europa”, proponendo il tedesco Martin Schulz alla guida dell’Ue, «si sta deindustrializzando l’Italia: la Germania su tutte vuole controllarla, in quanto sua principale concorrente industriale nell’area euro». Obiettivo: fare del nostro paese «una gigantesca fabbrica-cacciavite, a bassi salari, progressivamente decrescenti». Insiste il giudice: «La Germania non vuole un’Italia viva e vitale, proprio perché è il principale concorrente sul mercato unico. Fingendo di non volerci – come confermano le posizioni di Helmut Kohl durante la trattativa finale per l’introduzione dell’euro – costrinse l’Italia a entrare nella moneta unica, sapendo di poterla neutralizzare definitivamente nella sua competitività grazie al livello di cambio impostoci per sempre». Certo, televisioni e giornali non hanno certo aiutato gli italiani a capire quello che stava accadendo: «Gli editoriali italiani degli ultimi trent’anni sui più importanti quotidiani ci hanno detto enormi bugie, falsificando il senso economico del deficit e della spesa pubblica. Un lavoro ben orchestrato dai padroni finanziari. Colpevolizzando gli italiani e l’Italia spendacciona siamo arrivati alla povertà: dovevamo espiare i peccati e rinunciare a tutti i nostri diritti sociali. In Europa funziona così». Alla Bce è vietato espressamente di sostenere gli Stati e l’occupazione. «Se non cambiamo è la fine: di tutti».

    I trattati europei violano apertamente la Costituzione italiana, vanno in direzione diametralmente opposta: per la nostra Carta, «scritta da persone che avevano fatto la Resistenza e preso atto dell’anti-socialità di un certo capitalismo», la spesa sociale (deficit) è il “mestiere” dello Stato: «L’essenza stessa delle democrazie è la garanzia del benessere a lungo termine, che c’è solo con la piena occupazione della forza lavoro». L’euro e gli eurocrati fanno esattamente il contrario: costringono lo Stato a tagliare la spesa sociale, cioè a tradire la propria missione costituzionale. Lo afferma un magistrato, Luciano Barra Caracciolo, già membro del Consiglio di Stato, impegnato a smascherare l’impostura della governance Ue, affidata a tecnocrati al servizio dell’élite finanziaria. Personaggi che colpevolizzano paesi come l’Italia, che in realtà versa a Bruxelles molto più di quanto non riceva. E’ il gioco sporco dell’oligarchia: «Tanto più si privilegia il capitale nella sua dimensione finanziaria, tanto più si sacrifica il livello di benessere generale e si sposta la ricchezza nelle mani di pochi».

  • Fine del segreto bancario, gli Usa padroni della finanza

    Scritto il 21/5/14 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    L’istituzione del segreto bancario ha le ore contate, grazie a due eventi che ne hanno segnato l’inizio della fine: l’attentato alle Torri Gemelle e la crisi finanziaria del 2007-2009. Dopo l’11 Settembre, col pretesto della “lotta al terrorismo”, Washington «ha iniziato a ottenere un sempre maggiore accesso alle informazioni sui clienti delle banche, sui loro conti e sulle loro transazioni», afferma l’economista russo Valentin Katasonov. Il Patriot Act, approvato dopo l’attacco alle Twin Towers, permise all’intelligence statunitense di accedere liberamente a informazioni prima riservate, senza più dover ottenere il permesso dei giudici. Così, attraverso organizzazioni internazionali come l’Ocse e il Fmi, Washington ha iniziato ad avere libero accesso alle informazioni bancarie di tutto il mondo. Il secondo evento, la crisi finanziaria, «ha dato il via a un processo repressivo nei confronti dei conti offshore e del segreto bancario». Chi ha condotto la campagna contro il segreto bancario e i conti offshore? Gli Stati Uniti. Ma, dietro alle motivazioni ufficiali, la guerra al segreto bancario nasconde la volontà di controllare il sistema bancario mondiale.
    Quando, al culmine della crisi finanziaria, apparve chiaro che nel Tesoro degli Stati Uniti non c’erano abbastanza soldi per tappare i buchi più grandi – scrive Katasonov in un post ripreso da “Come Don Chisciotte” – apparve sulla scena la figura fino ad allora sconosciuta di Bradley Birkenfeld», un ex-dipendente del gigante bancario svizzero Ubs. Birkenfeld dichiarò che nelle banche svizzere c’erano moltissimi evasori fiscali statunitensi e che era pronto a collaborare con le forze dell’ordine statunitensi per denunciare questi evasori. Così, governo e fisco americano iniziarono a chiedere che Ubs e altre banche svizzere rivelassero i nomi dei correntisti statunitensi, accompagnando la richiesta «con la minaccia di ritirare le licenze delle filiali Ubs presenti in America». Il 19 febbraio 2009, ricorda Katasonov, Ubs cedette alle pressioni e accettò di rivelare i nomi di 250 suoi clienti statunitensi che si erano rifugiati nei conti svizzeri per evadere le tasse del loro paese. La stessa banca «dovette pagare una multa di 780 milioni dollari come risarcimento per imposte non corrisposte al Tesoro degli Stati Uniti». Washington non molla: vuole informazioni precise su tutti i 52.000 clienti americani di Ubs.
    «Si stava creando un brutto precedente», osserva Katasonov: «La crema dell’off-shore mondiale, nota da più di tre secoli con il nome di Confederazione Elvetica, stava per ricevere un colpo mortale». Il ministro delle finanze svizzero, Hans-Rudolf Merz, tentò di persuadere il collega americano Timothy Geithner a ritirare la causa contro Ubs, promettendo che avrebbe garantito l’approvazione nel Parlamento svizzero di un nuovo accordo sulla doppia imposizione. Ma Washington si è mostrata irremovibile. La banca svizzera è stata inoltre minacciata anche dalla giustizia elvetica, alla quale avevano fatto ricorso 8 super-clienti americani, terrorizzati dalla possibile violazione sel segreto bancario. Troppo tardi: «Si è scoperto, infatti, che Ubs aveva già consegnato a Washington informazioni sui propri clienti americani», in violazione quindi delle famose norme bancarie svizzere.
    Negli ultimi cinque anni, continua Katasonov, dopo la grande crisi finanziaria l’istituto del segreto bancario ha subito un certo di numero di colpi, non solo in Svizzera ma in tutta Europa. Negli ultimi 18 anni, si sono svolti interminabili colloqui all’interno delle istituzioni europee sul tema dell’abolizione del segreto. Di rilievo la svolta europea dello scorso anno, quando l’Ue ha eseguito le direttive di Washington con un accordo interstatale di principio sulla lotta all’evasione fiscale. In particolare, è stato previsto che gli Stati membri dell’Ue debbano scambiarsi automaticamente le informazioni bancarie, per garantire il pagamento delle imposte da parte di individui e aziende all’interno dei propri paesi. Uniche eccezioni, Lussemburgo e Austria, che si sono astenuti dal prendere impegni specifici, interessati a estendere il vincolo anche a Svizzera e Liechtenstein, per evitare che i due paesi off-shore possano beneficiare, a quel punto, di una forma di concorrenza sleale. Bruxelles però ha premuto su Vienna e Lussemburgo, cha a maggio 2014 hanno dovuto capitolare e allinearsi.
    «La pressione esercitata da Bruxelles e Washington, che nell’ombra sta conducendo l’intero processo, si è ora spostata verso altri paesi europei al di fuori dell’Unione Europea», continua Katasonov. «Bruxelles ha già dichiarato, in più di un’occasione, che auspica di poter concludere entro la fine dell’anno accordi simili con Svizzera, Liechtenstein, Andorra, Monaco e San Marino». Con l’abolizione in Europa dell’istituto del segreto bancario, gli esperti del settore prevedono un aumento del deflusso di capitali verso Singapore, Malesia e Hong Kong. Denaro dunque in fuga dall’Europa. Bruxelles e Washington hanno già iniziato a utilizzare organismi come l’Ocse e il G20 per mettere sotto pressione i paesi non europei, annunciando l’avvio di riforme fiscali internazionali: «La parte più importante di queste riforme sarà l’adozione di un programma internazionale per lo scambio automatico d’informazioni fiscali».
    La più recente delle misure volte all’abolizione del segreto bancario, aggiunge Katasonov, è stata la firma, ai primi di maggio, di una dichiarazione relativa all’attuazione di un sistema automatico di scambi d’informazioni fiscali tra gli Stati membri dell’Ocse (34 paesi) e altre 13 nazioni. Anche Singapore e Svizzera, i centri finanziari più riluttanti di fronte alla “normalizzazione” del sistema, sono tra i nuovi partecipanti al programma. «Un secondo strumento, ancora più potente nell’erodere il segreto bancario nel mondo – scrive l’economista russo – è la legge statunitense Fatca, sulla tassazione dei conti esteri». La nuova normativa «richiede alle banche di tutto il mondo di fornire all’Agenzia delle Entrate statunitense informazioni sui clienti che rientrano nella categoria di “contribuenti americani”». Il Fatca può essere considerato «un tentativo da parte di Washington di chiedere a tutte le banche del mondo di eliminare totalmente il segreto bancario». Tutte le banche, anche quelle di Mosca: «E alla luce delle sanzioni economiche statunitensi che si profilano sull’orizzonte russo, soddisfare queste richieste potrebbe essere non solo problematico e inutile, ma anche pericoloso».
    http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=13385

    L’istituzione del segreto bancario ha le ore contate, grazie a due eventi che ne hanno segnato l’inizio della fine: l’attentato alle Torri Gemelle e la crisi finanziaria del 2007-2009. Dopo l’11 Settembre, col pretesto della “lotta al terrorismo”, Washington «ha iniziato a ottenere un sempre maggiore accesso alle informazioni sui clienti delle banche, sui loro conti e sulle loro transazioni», afferma l’economista russo Valentin Katasonov. Il Patriot Act, approvato dopo l’attacco alle Twin Towers, permise all’intelligence statunitense di accedere liberamente a informazioni prima riservate, senza più dover ottenere il permesso dei giudici. Così, attraverso organizzazioni internazionali come l’Ocse e il Fmi, Washington ha iniziato ad avere libero accesso alle informazioni bancarie di tutto il mondo. Il secondo evento, la crisi finanziaria, «ha dato il via a un processo repressivo nei confronti dei conti offshore e del segreto bancario». Chi ha condotto la campagna contro il segreto bancario e i conti offshore? Gli Stati Uniti. Ma, dietro alle motivazioni ufficiali, la guerra al segreto bancario nasconde la volontà di controllare il sistema bancario mondiale.

  • Scarpinato: la crisi aumenta il potere del sistema-mafia

    Scritto il 21/5/14 • nella Categoria: idee • (1)

    Pensare un’azione antimafia realmente efficace in un contesto di sgretolamento dei diritti è una contraddizione in termini. Si potrebbero arrestare tutti i giorni centinaia di affiliati con la certezza che il giorno dopo verrebbero prontamente sostituiti. La storia italiana è una storia diversa da quella degli altri paesi di democrazia europea avanzata, perché nei paesi come la Francia, come l’Inghilterra, come la Gemania quasi non esiste una questione criminale, o meglio, la questione criminale è un capitolo assolutamente marginale e secondario della storia nazionale, di cui si occupano soltanto gli specialisti, i magistrati e i criminologi, perché tranne poche eccezioni le gesta criminali sono quelle della criminalità comune: rapine, omicidi e traffico di stupefacenti. In Italia non è così. Perché in Italia la questione criminale è sempre stata inestricabilmente intrecciata con la storia nazionale, la storia con la S maiuscola. I protagonisti delle vicende criminali non sono stati soltanto esponenti delle classi disagiate e popolari, ma anche pezzi importanti della classe dirigente.
    L’oscenità del potere? E’ l’impostura culturale che la mafia è solo una storia di brutti sporchi e cattivi, di cui sono protagonisti personaggi come Riina, Provenzano o i casalesi. La realtà è che, tranne un breve periodo che dura dal 1980 al 1990, i più grandi capi della mafia sono sempre stati borghesi. Il capo della mafia di Corleone, prima di Riina e Provenzano, era un medico chirurgo: il dottor Michele Navarra. La lezione della storia ci insegna che in questo paese nessuno – fosse di centro, destra o sinistra – ha mai potuto governare senza venire a patti con questo blocco sociale che è anche il principale responsabile del sottosviluppo del Mezzogiorno, della privazione sistematica delle risorse. Situazione che oggi è più grave: a causa di fattori macrosistemici come l’avanzare del federalismo fiscale, il tetto massimo stabilito alla spesa pubblica dopo il Trattato di Maastricht e altri fattori di crisi economica, il Sud precipita sempre di più in una situazione di degrado economico, la forbice del differenziale tra Nord e Sud aumenta, una parte del Nord tende a staccarsi per seguire la locomotiva del Nord Europa e abbandonare il Sud al suo destino.
    Questo Sud privato di risorse avrà il problema di garantire a milioni di persone di mettere insieme il pranzo e la cena. In assenza di spesa pubblica, il pericolo è che per evitare che il Sud diventi una polveriera sociale ci si affida all’economia alternativa del crimine, cioè che il Sud diventi un’enorme zona di no-tax, una sorta di Singapore del Mediterraneo, dove l’economia si genererà grazie al porto franco, all’afflusso di capitali sporchi, alle case da gioco, alla benzina defiscalizzata e quant’altro. Noi continuiamo ad avere un Parlamento, consigli regionali, governi e organi rappresentativi affollati di persone che sono state condannate per mafia, e che nonostante ciò restano degli “intoccabili”. Continuiamo ad avere quella che poco fa ho chiamato borghesia mafiosa, che è un pezzo importante di classe dirigente, ed è il vero terreno su cui si gioca il futuro della lotta alla mafia.
    Nel libro “Il ritorno del Principe” leggo il sistema di potere mafioso attraverso la lente dei “Promessi sposi”: non ci si può illudere di sconfiggere la mafia arrestando solo i Bravi. Rispetto a quella legale dello Stato, l’offerta sociale mafiosa prospera quando le persone non hanno la possibilità di vedere riconosciuti i propri diritti, quando sono costrette a piegarsi per avere un lavoro, per avere un minimo di dignità sociale, quando uno Stato non è in grado di offrire occupazione e pari dignità ai cittadini. È allora che molta gente è spinta a mettersi nelle mani della mafia, che quantomeno garantisce una sopravvivenza economica.
    (Roberto Scarpinato, dichiarazioni rilasciate ad Antonello Castellano per l’intervista “Il lato osceno del potere”, apparsa su “Narcomafie” e ripresa da “Megachip” il  22 aprile 2014. Magistrato antimafia, Scarpinato ha firmato con Saverio Lodato il libro “Il ritorno del Prinicipe”, edito da Chiarelettere).

    Pensare un’azione antimafia realmente efficace in un contesto di sgretolamento dei diritti è una contraddizione in termini. Si potrebbero arrestare tutti i giorni centinaia di affiliati con la certezza che il giorno dopo verrebbero prontamente sostituiti. La storia italiana è una storia diversa da quella degli altri paesi di democrazia europea avanzata, perché nei paesi come la Francia, come l’Inghilterra, come la Germania quasi non esiste una questione criminale, o meglio, la questione criminale è un capitolo assolutamente marginale e secondario della storia nazionale, di cui si occupano soltanto gli specialisti, i magistrati e i criminologi, perché tranne poche eccezioni le gesta criminali sono quelle della criminalità comune: rapine, omicidi e traffico di stupefacenti. In Italia non è così. Perché in Italia la questione criminale è sempre stata inestricabilmente intrecciata con la storia nazionale, la storia con la S maiuscola. I protagonisti delle vicende criminali non sono stati soltanto esponenti delle classi disagiate e popolari, ma anche pezzi importanti della classe dirigente.

  • La sinistra europea è complice dei signori della crisi

    Scritto il 13/5/14 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    La sinistra che doveva cambiare l’Europa mitigando l’austerity e mettendo in discussione il neoliberismo di Bruxelles ha fatto esattamente l’opposto: allineamento totale alla non-politica dei “conti in ordine”, quella cioè che rende semplicemente impossibile l’uscita dalla crisi. Rigore fiscale e centralità del mercato: uno scenario dominato da «politiche conservatrici e liberali, fedeli al credo monetarista», sottolinea Nicola Melloni. «Una risposta in tutto e per tutto simile a quella di Herbert Hoover, e della gran parte dei suoi colleghi europei, alla crisi del ’29, in un contesto istituzionale diverso ma, in realtà, comparabile: se il regime finanziario internazionale di allora era caratterizzato dal Gold Standard, quello presente, in Europa, è costituito da Bce, Commissione europea e unione monetaria». Servirebbe un piano-B, appunto: quello che la sinistra riformista europea si rifiuta categoricamente di prendere in considerazione, preferedo diversioni “creative” alla Matteo Renzi.
    Di fatto, assistiamo allo svuotamento delle funzioni dei Parlamenti nazionali, ai diktat dei “mercati ci chiedono”, alla centralità di debito e deficit rispetto alla disoccupazione e alla produzione, ai meccanismi automatici di riequilibrio dei disavanzi commerciali attraverso recessioni auto-indotte, scrive Melloni su “Sbilanciamoci”, in un post ripreso da “Micromega”. Non c’è più neppure l’alibi della destra al governo: in Francia c’è Hollande, in Italia Renzi. «Eppure, continua clamorosamente a mancare una risposta di sinistra, di alternativa politica ed economica al mainstream neoliberale – quella risposta keynesiana, socialista o, che più in generale mettendo al centro della politica economica la domanda, il lavoro, il salario, aveva sconfitto la Grande Crisi». Per la verità, la sinistra europea «aveva abbandonato quelle idee e programmi già da una trentina d’anni, a cominciare non da Blair e Schroeder ma da Mitterrand», correva l’anno 1983, «senza dimenticare l’austerity anticipata dei vari governi Prodi in Italia».
    Anche davanti ad una crisi economica di portata storica, continua Melloni, i socialisti europei si sono contraddistinti per un atteggiamento ultra-passivo rispetto alla risposta conservatrice data alla crisi: «Il rigore finanziario è stato sposato e difeso a spada tratta, un po’ sotto la pressione dello spread, un po’ per convinzione e mancanza di riferimenti economico-culturali alternativi». Se una parte del mondo accademico ha tentato di denunciare il problema, «non ha mai trovato nessun vero spazio nelle stanze dei bottoni del Pse». Socialisti e conservatori: diversi per storia, ma uniti nella prassi di oggi. «Le decisioni – senza dibattito – sulla politica economica sono state demandate a Bruxelles, mentre nell’arena politica nazionale si discute di temi importanti quali il salario minimo (la Spd in Germania) o quali tipo di tagli al welfare (nel Regno Unito) senza per questo portare ad un generale ripensamento dei cardini della politica economica».
    Tanto i socialdemocratici tedeschi che i laburisti inglesi «hanno fatto di tutto per accreditarsi come “responsabili”, per chiarire al di là di qualsiasi ragionevole dubbio che l’austerity non sarebbe stata toccata in caso di cambiamento della maggioranza di governo». In Francia, questo trend è stato ancora più evidente: «Hollande è stato eletto come alfiere di un’altra Europa, ma una volta all’Eliseo ha abbracciato subito il dogma dei conti in ordine». Idem in Italia: «Il Pd non è certo uscito dal paradigma liberale: ha sostenuto un governo tecnocratico come quello di Monti, ha votato Fiscal Compact e pareggio di bilancio in Costituzione e continua a predicare il rigore e il rispetto degli impegni europei. Si parla tanto di sviluppo e crescita, ma nulla o quasi è stato fatto in questo senso». Per il responsabile economico del Pd, Filippo Taddei, l’austerity è «un falso problema»: la risposta alla crisi sarebbero «le riforme, non la politica economica».
    Questa vulgata, continua Melloni, è aumentata esponenzialmente con l’arrivo di Renzi a Palazzo Chigi: «La politica economica è stata ignorata, con vari giri di valzer sul limite del 3% per il deficit, prima denunciato in patria e poi santificato a Berlino». E nel suo tour europeo, da Parigi a Londra, Renzi ha confermato la sua allergia alla spesa pubblica. «Le cosiddette novità di Renzi sono, appunto, nelle riforme, che nulla hanno a che fare con la scelta di paradigmi economici differenti da modelli mainstream di rigore». Ma un partito che rifiuta in via di principio politiche keynesiane, che rimane «guardiano dei conti in ordine» e che chiede al mercato – con disoccupazione e riduzione dei salari – di risolvere le proprie crisi, per Melloni «nega in fieri un ruolo centrale per il lavoro», sicché «la piena occupazione rimane tabù, mentre la stella polare rimane il mercato che si auto-regola, l’utopia del liberismo sfrenato». E, nel frattempo, «il dibattito sulla politica economica – che è forse il contenuto principale della democrazia – è stato espulso dalla dialettica politica cancellando qualsiasi possibile risposta di sinistra alla crisi».

    La sinistra che doveva cambiare l’Europa mitigando l’austerity e mettendo in discussione il neoliberismo di Bruxelles ha fatto esattamente l’opposto: allineamento totale alla non-politica dei “conti in ordine”, quella cioè che rende semplicemente impossibile l’uscita dalla crisi. Rigore fiscale e centralità del mercato: uno scenario dominato da «politiche conservatrici e liberali, fedeli al credo monetarista», sottolinea Nicola Melloni. «Una risposta in tutto e per tutto simile a quella di Herbert Hoover, e della gran parte dei suoi colleghi europei, alla crisi del ’29, in un contesto istituzionale diverso ma, in realtà, comparabile: se il regime finanziario internazionale di allora era caratterizzato dal Gold Standard, quello presente, in Europa, è costituito da Bce, Commissione europea e unione monetaria». Servirebbe un piano-B, appunto: quello che la sinistra riformista europea si rifiuta categoricamente di prendere in considerazione, preferedo diversioni “creative” alla Matteo Renzi.

  • Lo Stato Carogna: via i giudici più temuti da Totò Riina

    Scritto il 07/5/14 • nella Categoria: segnalazioni • (2)

    Chi pensava che i peggiori pericoli per i magistrati antimafia venissero dalla mafia, soprattutto dopo le condanne a morte pronunciate da Riina, si sbagliava. Le minacce più insidiose arrivano sempre dal Palazzo. Il Csm – l’organo di autogoverno della magistratura che dovrebbe garantirne l’autonomia e l’indipendenza – ha inviato una circolare a tutte le Dda, cioè ai pool antimafia delle varie procure, per raccomandare che ai pm che si sono occupati per 10 anni di mafia, camorra e ‘ndrangheta non vengano assegnate nuove inchieste in materia. Il diktat calza a pennello sulla Dda di Palermo, dove i principali pm titolari delle nuove indagini sulla trattativa Stato-mafia (rivolte al ruolo dei servizi segreti e della Falange Armata) hanno potuto finora occuparsene perché “applicati” dal procuratore Messineo. Nino Di Matteo è “scaduto” dopo i 10 anni canonici nel 2010, trasferito dalla Dda al pool “abusi edilizi” e da allora “applicato” per proseguire il lavoro sulla trattativa; Roberto Tartaglia l’ha seguito qualche tempo dopo; fra un mese scadrà anche Francesco Del Bene.
    La norma demenziale è contenuta nell’ordinamento giudiziario Castelli-Mastella del 2007, che appiccica ai pool specializzati delle procure (mafia, reati fiscali e finanziari, ambientali, contro la pubblica amministrazione, contro le donne e i minori, ecc.) un bollino di scadenza come agli yogurt: appena raggiungono 10 anni di esperienza, cioè diventano davvero capaci ed esperti su una materia, devono smettere e occuparsi d’altro. Una mossa geniale: come se un’azienda, dopo aver impiegato tempo e risorse per formare un dirigente, lo spedisse a fare altre cose perché è diventato troppo bravo. Vale sempre il detto di Amurri e Verde: «La criminalità è organizzata e noi no». Se la legge fosse stata già in vigore nel 1992, Cosa Nostra avrebbe potuto risparmiare sul tritolo evitando le stragi di Capaci e via D’Amelio, visto che quando furono uccisi Falcone e Borsellino indagavano sulla mafia da ben più di due lustri.
    Negli anni scorsi il bollino di scadenza ha falcidiato i pool antimafia di Palermo, Bari e Napoli, quello torinese creato da Raffaele Guariniello sulla sicurezza, la salute e l’ambiente (processi Thyssen, Eternit, doping…), quello milanese coordinato da Francesco Greco sui crimini economici (Parmalat, scalate bancarie, Enel, Eni, San Raffaele, grandi evasori). Per non disperdere enormi bagagli di esperienza e memoria storica, i procuratori capi tentavano di limitare i danni “applicando” i pm scaduti a singole indagini. Ora, con la circolare del Csm, cala la mannaia anche su quella possibilità. Col risultato che una materia delicata e intricata come la trattativa, che richiede conoscenze ed esperienze approfondite, sarà affidata a pm che mai se ne sono occupati, privi dunque di qualunque nozione sul tema e magari ammaestrati da tutti gli attacchi (mafiosi e istituzionali) subìti dai colleghi che hanno osato scoperchiarla.
    Il fatto che Di Matteo sia il nemico pubblico numero uno tanto di Riina quanto del Quirinale non lascerà insensibile chi dovrà raccoglierne l’eredità. Magari toccherà a qualcuno dei neomagistrati che Napolitano ha arringato l’altroieri col solito fervorino alla «pacatezza», al «rispetto», addirittura all’«equidistanza» (testuale), contro il «protagonismo» e gli «arroccamenti», per «chiudere i due decenni di scontro permanente» e «tensione» (fra guardie e ladri, fra onesti e mafiosi). Non contento, il presidente più incensato e leccato del mondo (dopo Mugabe) ha poi evocato fantomatiche «aggressioni faziose» ai suoi danni, che il “Corriere” – sempre ispirato – attribuisce proprio a Di Matteo&C. per «intercettazioni illegali nell’inchiesta sulla trattativa». Naturalmente le intercettazioni erano perfettamente legali, disposte da un giudice sui telefoni dell’indagato Mancino che parlava con il Quirinale. Ma anche questa ignobile calunnia sortirà prima o poi l’effetto sperato. Nessuno s’azzarderà mai più a intercettare un indagato per la trattativa: potrebbe parlare con il capo dello Stato.
    (Marco Travaglio, “Lo Stato Carogna”, da “Il Fatto Quotidiano” del 7 maggio 2014, ripreso da “Micromega”).

    Chi pensava che i peggiori pericoli per i magistrati antimafia venissero dalla mafia, soprattutto dopo le condanne a morte pronunciate da Riina, si sbagliava. Le minacce più insidiose arrivano sempre dal Palazzo. Il Csm – l’organo di autogoverno della magistratura che dovrebbe garantirne l’autonomia e l’indipendenza – ha inviato una circolare a tutte le Dda, cioè ai pool antimafia delle varie procure, per raccomandare che ai pm che si sono occupati per 10 anni di mafia, camorra e ‘ndrangheta non vengano assegnate nuove inchieste in materia. Il diktat calza a pennello sulla Dda di Palermo, dove i principali pm titolari delle nuove indagini sulla trattativa Stato-mafia (rivolte al ruolo dei servizi segreti e della Falange Armata) hanno potuto finora occuparsene perché “applicati” dal procuratore Messineo. Nino Di Matteo è “scaduto” dopo i 10 anni canonici nel 2010, trasferito dalla Dda al pool “abusi edilizi” e da allora “applicato” per proseguire il lavoro sulla trattativa; Roberto Tartaglia l’ha seguito qualche tempo dopo; fra un mese scadrà anche Francesco Del Bene.

  • Tassati a morte per 10 anni, per salvare le euro-banche

    Scritto il 06/5/14 • nella Categoria: segnalazioni • (1)

    Una truffa colossale, che pagheremo noi per almeno dieci anni. Un inganno, spacciato per soluzione democratica: perché ci racconteranno che, finalmente, non saranno più gli Stati (cioè i comuni cittadini) a sobbarcarsi il costo del collasso finanziario dei grandi banchieri. Con l’aiuto del “Corporate Europe Observatory” di Olivier Hoedman, Paolo Barnard analizza il modello di Unione Bancaria europea messo a punto da Bruxelles. E conclude senza mezzi termini che si tratta di una colossale frode, destinata a dare il colpo di grazia alle economie dell’Eurozona: ancora più tasse, più debito, più crisi. Questione di numeri: il portafoglio speciale per gestire il fallimento di una mega-banca ammonta ad appena 55 miliardi di euro, ottenuti tassando le banche dell’1% dei loro depositi, mentre è di almeno 1.500 miliardi la somma dei buchi bancari a rischio in Ue. Ma attenzione: il nuovo fondo europeo salva-banche non sarà disponibile prima di dieci anni. Nel frattempo, in caso di crisi, a pagare sarà il Mes, il meccanismo europeo di stabilità. Cioè noi, ancora e sempre, con le nostre tasse.
    La situazione è esplosiva, sostiene Barnard, perché le maggiori banche europee sono tutte fallite, a cominciare dalla Deutsche Bank, zeppa di titoli tossici e crediti “marci”, inesigibili. La riforma bancaria messa a punto da Michel Barnier (Commissione Ue) con Mario Draghi e Angela Merkel, in collaborazione con le maggiori lobby bancarie del pianeta, dall’Institute of International Finance di Washington alla European Banking Federation, introduce l’obbligo – per gli istituti di credito – di consolidare un capitale di riserva pari all’8% del denaro prestato. E’ poca cosa anche per l’ex capo della Fed, Alan Greenspan, che voleva almeno il 14% come fondo di garanzia. Ma le banche europee lo aggireranno comodamente, dice Barnard, in diversi modi, anche truccando i libri contabili mediante autocertificazioni sulle quali in teoria dovrebbe vigilare la Bce. Se poi una banca non dovesse reggere allo stress-test, sarebbe inglobata da una banca più grande, complicando così il puzzle finanziario dei colossi “too big to fail” che hanno provocato il crac storico del 2007.
    Spesso però non ci sarà neppure bisogno di artifici contabili: alle banche-canaglia basterà svendere agli speculatori i miliardi di titoli tossici accumulati. E, per ridurre la loro esposizione, le mega-banche potranno tranquillamente chiudere i rubinetti, cioè tagliare il credito sano verso aziende e famiglie, per centrare l’obiettivo dell’8% senza rimetterci praticamente nulla. La propaganda di Bruxelles, aggiunge Barnard, metterà l’accento sulla piccola novità introdotta – a pagare i costi di un fallimento saranno innanzitutto gli investitori – ma lo faranno solo fino all’8% dell’ammontare. «Il che è assurdo: in caso di fallimento, sono proprio gli investitori a dover pagare per primi». Non nell’Unione Europea della Troika: il 92% del disastro, infatti, sarà interamente a carico dei contribuenti, gli ordinari cittadini. «E qui arriva la catastrofe finale», conclude Barnard, «perché il fondo di salvezza finanziato dagli Stati che già esiste e che sarà quello in cui si andrà a pescare in questi 10 anni è il notorio Meccanismo Europeo di Stabilità, il famigerato Mes».
    Famigerato, perché comporta una super-tassazione mortale: chiunque attinga al Mes per qualsiasi motivo «dovrà poi assoggettarsi alle austerità della chemio-tassazione e dell’economicidio che hanno già portato alla rovina nazionale». E’ scritto: per salvare le banche che falliranno, l’Unione Bancaria «pescherà per pochi spiccioli dagli investitori, e poi per almeno 10 anni dalle tasche di cittadini e aziende per tutto il resto del colossale malloppo». Futuro inevitabile: «Ci beccheremo altre orrende, mortali austerità». E c’è di peggio: «Neppure il Mes, coi suoi 500 miliardi di salvadanaio (nostri soldi spremuti con la chemio-tassazione) sarebbe sufficiente a salvare neppure un quarto di una banca come la Deutsche». Per cui, «gli Stati dovranno trovare altri soldi», e sempre «dal sangue dei nostri figli, che saranno i servi della gleba del terzo millennio».
    Tutto questo, naturalmente, per tenere in piedi l’euro, moneta cui gli Stati non possono accedere direttamente. Chi dispone di moneta sovrana, aggiunge Barnard, può risolvere rapidamente il problema: nazionalizza la banca in crisi, la bonifica e ci guadagna rivendendola. Basta avere la facoltà di creare denaro dal nulla, mediante la banca centrale: è quello che fanno Cina e Giappone, Stati Uniti e Gran Bretagna, senza bisogno di creare “unioni bancarie truffa”. «Dopo aver speso a deficit di Stato per salvare le loro banche, il Tesoro Usa ha incassato profitti per 9 miliardi di dollari e quello inglese 5 miliardi. La banca centrale americana ha ottenuto 24 miliardi di plusvalenze, la Banca d’Inghilterra 33 miliardi. Tutti soldi pubblici “tornati a casa”. Così dovrebbe fare Roma».

    Una truffa colossale, che pagheremo noi per almeno dieci anni. Un inganno, spacciato per soluzione democratica: perché ci racconteranno che, finalmente, non saranno più gli Stati (cioè i comuni cittadini) a sobbarcarsi il costo del collasso finanziario dei grandi banchieri. Con l’aiuto del “Corporate Europe Observatory” di Olivier Hoedman, Paolo Barnard analizza il modello di Unione Bancaria europea messo a punto da Bruxelles. E conclude senza mezzi termini che si tratta di una colossale frode, destinata a dare il colpo di grazia alle economie dell’Eurozona: ancora più tasse, più debito, più crisi. Questione di numeri: il portafoglio speciale per gestire il fallimento di una mega-banca ammonta ad appena 55 miliardi di euro, ottenuti tassando le banche dell’1% dei loro depositi, mentre è di almeno 1.500 miliardi la somma dei buchi bancari a rischio in Ue. Ma attenzione: il nuovo fondo europeo salva-banche non sarà disponibile prima di dieci anni. Nel frattempo, in caso di crisi, a pagare sarà il Mes, il meccanismo europeo di stabilità. Cioè noi, ancora e sempre, con le nostre tasse.

  • Viale: sondaggi bugiardi, Tsipras smentirà il regime

    Scritto il 03/5/14 • nella Categoria: idee • (1)

    «Il baratro in cui è precipitato il giornalismo italiano si vede dal fatto che molti non riescono nemmeno a capire che si possa volere un’ Europa diversa da quella che c’è», ovvero «quella di Renzi come lo era di Letta, di Monti e anche di Berlusconi e Tremonti quando erano al governo». Guido Viale denuncia la congiura del silenzio sulla lista Tsipras, nel coro assordante dei media che seguono il premier come un oracolo. «Da qualche mese, al seguito della cavalcata sul nulla di Matteo Renzi», lo spazio che gli riservano giornali e televisioni «è totalitario, come documenta l’Osservatorio sulle Tv di Pavia». E il servilismo degli adulatori è dilagante: «Papa Francesco copia “lo stile di Renzi”, ci ha informato un notiziario». Osserva Viale: «Non c’è più un regime fascista a imporre questo allineamento, sono piuttosto questi allineamenti a creare le solide premesse di un “moderno” autoritarismo, auspicato dall’alta finanza», quella che – Jp Morgan in testa – si scaglia contro la nostra Costituzione, che “ostacola” il loro business.
    Autoritarismo: quello delle “riforme” costituzionali ed elettorali di Renzi, «tese a cancellare con premio e soglie di sbarramento ogni possibilità di controbilanciare i poteri dei partiti». Nel mirino anche i Comuni, cioè poteri locali ancora relativamente controllati dai cittadini, ai quali erogano i servizi pubblici fondamentali. «Renzi, come Letta, Monti e Berlusconi, vuole costringerli ad alienarli: come aveva fatto Mussolini sostituendo ai Consigli comunali i suoi prefetti», scrive Viale sull’ “Huffington Post”. I media, naturalmente, si regolano di conseguenza. La campagna elettorale per le europee? Interamente confinata nel confronto Renzi-Grillo, «tutto incentrato sulle diverse forme di “carisma” che i due leader esibiscono». Silenzio di tomba sull’unica novità politica nelle urne, la lista “L’altra Europa con Tsipras”. Dai media, ostracismo bulgaro: hanno «ingigantito le difficoltà incontrate nel corso della sua formazione, per poi calare una cortina di silenzio totale sulla sua esistenza». Non una parola sulla visita di Tsipras a Palermo, con teatro pieno e «mille persone rimaste fuori ad ascoltare». E non una riga sulle 220.000 firme di presentazione, «risultato su cui molti media avevano scommesso che non sarebbe mai stato raggiunto».
    Eppure, aggiunge Viale, non è mancato agli stessi giornali e telegiornali lo spazio per occuparsi del congresso del “nuovo” partito comunista fondato da Rizzo, in realtà «il quattordicesimo», della presentazione della lista elettorale “Stamina” e della riammissione dei Verdi alla competizione elettorale. «Il tutto viene completato con la presentazione di sondaggi che danno la lista per morta: sono i tre divulgati dalle televisioni di regime, mentre tutti gli altri sondaggi la danno due o tre punti al di sopra della soglia di sbarramento, ma non vengono resi noti». Aggiunge Viale: «Io, che ho lavorato anche in una società di sondaggi, so bene come si fa ad orientarli (e anche a falsificarli) e quanto contribuiscano a “orientare” e a manipolare la realtà». Così, poco per volta, «impercettibilmente si scivola verso un nuovo regime», confortato regolarmente da cerimonieri come Eugenio Scalfari, autore di una «omelia settimanale», la domenica, su “Repubblica”.
    Gli 80 euro in busta paga? Una bufala senza copertura, riconosce Scalfari, inventata solo per vincere le europee. Ma c’è da augurarsi che l’imbroglio funzioni, aggiunge il fondatore di “Repubblica”, perché così il governo si rafforzerà, recupererà anche in Europa il prestigio perduto e la crescita potrà ripartire. «Il che – dice Viale – mostra in che conto Scalfari tenga “questa Europa”», cioè «quella a cui stiamo sacrificando le ormai molte “generazioni perdute” del nostro e di altri paesi, l’esistenza, la salute, la vecchiaia e la vita stessa di un numero crescente di cittadini, di lavoratori e di imprenditori, e l’intero tessuto produttivo del nostro e paese». Soprattutto, l’accondiscendenza conformista di Scalfari «mostra dove porta questa teoria, o visione, o percezione, sempre più diffusa dai media e tra la gente, del governo Renzi come “ultima spiaggia”. Così, quando si sarà compiuto il disastro economico, sociale e istituzionale a cui ci sta trascinando quella sua cavalcata fatta di vuote promesse, di trucchi contabili e di nessuna capacità di progettare un vero cambiamento di rotta per l’Italia e per l’Europa, non si potrà più tornare indietro». La miglior risposta, si augiura Viale, sarebbe il rovesciamento dei pronostici di regime: proprio a partire dal voto europeo.

    «Il baratro in cui è precipitato il giornalismo italiano si vede dal fatto che molti non riescono nemmeno a capire che si possa volere un’ Europa diversa da quella che c’è», ovvero «quella di Renzi come lo era di Letta, di Monti e anche di Berlusconi e Tremonti quando erano al governo». Guido Viale denuncia la congiura del silenzio sulla lista Tsipras, nel coro assordante dei media che seguono il premier come un oracolo. «Da qualche mese, al seguito della cavalcata sul nulla di Matteo Renzi», lo spazio che gli riservano giornali e televisioni «è totalitario, come documenta l’Osservatorio sulle Tv di Pavia». E il servilismo degli adulatori è dilagante: «Papa Francesco copia “lo stile di Renzi”, ci ha informato un notiziario». Osserva Viale: «Non c’è più un regime fascista a imporre questo allineamento, sono piuttosto questi allineamenti a creare le solide premesse di un “moderno” autoritarismo, auspicato dall’alta finanza», quella che – Jp Morgan in testa – si scaglia contro la nostra Costituzione, che “ostacola” il loro business.

  • Def Renzi-Fornero, la stessa droga che ci ha rovinato

    Scritto il 01/5/14 • nella Categoria: idee • (5)

    «La flessibità non è una cura, ma una droga: un rimedio peggiore del male, che alla lunga stronca il paziente anziché guarirlo». Brutte notizie, dunque, dalla ricetta del “medico” Matteo Renzi: con lui l’Italia continuerà a perdere terreno, in Europa. Lo sostiene Paolo Pini, analizzando il Def 2014. Il documento programmatico «fotografa un paese che faticherà assai a crescere», tant’è vero che nel 2018 «non avrà recuperato la perdita di 9 punti percentuali di reddito accumulati dall’inizio della crisi, il 2008» e si allontenerà ulteriormente dalla Germania, che invece crescerà ben sopra l’1,5%, cioè l’incremento medio previsto per l’Eurozona. I conti non tornano: il Def renziano prevede una crescita dello 0,8% nel 2014, quando solo a dicembre 2013 era stata fissata dal governo Letta all’1,1%. Previsioni che le istituzioni internazionali come il Fmi già ora rivedono al ribasso, ipotizzando uno 0,6%. Lo stesso governo Renzi ridimensiona anche le stime per il 2015 e il 2016 (rispettivamente 1,3% e 1,6% contro il 2% del governo Letta), mentre «si spinge ottimisticamente all’1,8% e 1,9% per il 2017 e 2018».
    Il Def confida negli investimenti privati – dati in crescita del 2% già quest’anno – e nell’export, che si mantiene sopra il 4% annuo: calcolando anche le importazioni, il saldo commerciale resta positivo, pari all’1,5% del Pil (contro il 2,5% della media dell’Eurozona e addirittura il 6% della Germania, sempre più mercantilista). I consumi delle famiglie, continua Pini in un’analisi pubblicata da “Micromega”, faticano invece a tenersi vicino all’1% di incremento se non alla fine del periodo, nel 2018, mentre alla crescita dei consumi non contribuisce certo la spesa pubblica, “azzoppata” dalla spending review che – a regime, nel 2016 – deve realizzare “risparmi” per 32 miliardi. Impensabile, peraltro, ipotizzare un aumento del reddito – aggiunge Pini – se lo Stato è costretto a “bruciare” l’avanzo primario per compensare gli interessi sul debito pubblico, che rappresentano il 5% del Pil italiano: i soldi che il governo non spende più per i cittadini vanno a tappare le falle della finanziarizzazione di un debito non più sovrano, non ripianabile in moneta sovrana.
    «D’altronde – osserva Pini – le regole del “rigore ad ogni costo” sono ferree e assai poco ammorbidite dai viaggi di Renzi prima in Germania e poi al Consiglio Europeo: il pareggio di bilancio strutturale viene quasi raggiunto nel 2015 (-0,1% del Pil), assicurato negli anni successivi sino al 2018, mentre per il 2014 siamo ancora sotto di oltre mezzo punto percentuale, anche perché il deficit sul Pil non diminuisce così tanto quanto raccomanda la Commissione per ridurre il debito, che infatti cresce alla soglia del 135% nel 2014 per attestarsi poi al 120% nel 2018». Sempre secondo Pini, «si intravvede così un primo rinvio del raggiungimento dell’obiettivo di medio termine imposto dal Fiscal Compact, e anche – ricordiamolo – dall’articolo 81 della nostra Costituzione, che ora impone il bilancio in pareggio (corretto dal ciclo) già per il 2014». Misura aberrante, ma approvata dal Parlamento nel 2012, proposta dal governo Monti e votata dal Pd di Bersani e dal Pdl di Berlusconi.
    Le tendenze economiche mondiali «penalizzano la competitività del made in Europe ed in particolare del made in Italy, che tende purtroppo più di altri a competere sul prezzo dei prodotti più che sul loro contenuto tecnologico». Eppure il Def di Renzi (e Padoan) presenta uno strano modello, trainato da esportazioni e investimenti, ma senza domanda interna. «A cosa attribuire questo slancio vitale dell’economia italiana», in un contesto «di quasi stazionarietà di consumi delle famiglie»? Risposta: si pensa di tagliare – ancora e sempre – il costo del lavoro, sostiene Pini. «Flessibilità del lavoro, liberalizzazioni e semplificazioni: le fonti della crescita son tutte qui». Secondo l’analista, «gli effetti macro degli interventi appaiono risibili», nel 2014 valgono appena lo 0,2% sul fronte dell’occupazione. «Le riforme sul mercato del lavoro e le liberalizzazioni e semplificazioni spiegano da sole tutto l’impatto sul reddito, le riforme sul lavoro tutto quello sull’occupazione, mentre gli effetti delle detrazioni Irpef sono annullate dal modo scelto per finanziarle (spending review). Gli altri interventi, compreso il pagamento dei debiti commerciali della pubblica amministrazione e la riduzione dell’Irap, sono ad impatto nullo».
    Per registrare effetti consistenti, aggiunge Pini, occorre attendere il lontano 2018, con un contributo degli interventi pari a un 2,4% nella crescita del Pil (+1,3% sull’occupazione). «Ma anche al 2018, sono le riforme del lavoro ed il binomio liberalizzazioni/semplificazioni che spiegano quasi i 3/4 di questo impatto su reddito e occupazione». In particolare, sul mercato del lavoro si tratta per il governo Renzi del decreto Poletti sul contratto a termine e sull’apprendistato e degli eventuali provvedimenti prospettati con il Jobs Act, che non comportano oneri aggiuntivi per le finanze pubbliche. Irrilevanti degli interventi di stimolo alla domanda interna – alleggerimenti fiscali per le famiglie – oppure alla domanda estera, cioè maggiore competitività di costo e prezzo per le imprese, mediante riduzione del cuneo fiscale. Interventi di sostegno della domanda pubblica? «Non sono previsti. Anzi: la spending review implica effetti negativi sulle componenti della domanda aggregata».
    Nulla in vista neppure per politiche industriali o di sostegno all’innovazione. Ricapitolando: interventi irrisori, a cui però «vengono attribuiti effetti a dir poco sorprendenti sulla competitività del sistema produttivo italiano». Da oggi al 2018 si prevede un incremento del 4% della produttività, che invece dal 2000 al 2012 è stato di appena lo 0,03% annuo. «Cosa mai potrà determinare tale inversione di marcia dal 2014 in poi è per noi un mistero», scrive Pini. «L’unica politica annunciata che vediamo all’opera per ora è quella della deregolamentazione del mercato, del lavoro in particolare con il decreto Poletti ed il Jobs Act presentato al Parlamento». Deregolamentazione del mercato del lavoro: si prosegue cioè sulla strada tracciata nel 1997 dalla legge Treu (governo Prodi), per arrivare alla legge Maroni del 2003 (governo Berlusconi), sino ai più recenti “indirizzi” di Sacconi e alla legge Fornero del 2012 (govenro Monti). Col Jobs Act, la flessibilità non fa che aumentare ancora.
    Si è ormai capito, però, che la precarizzazione del lavoro non è certo un toccasana per l’economia. Ma il Def di Renzi non ne tiene conto. Eppure, osserva Pini, il lavoro flessibile meno tutelato e la diffusione di contratti che rendono più instabili i rapporti di lavoro «induce le imprese a investire meno sulla formazione, sull’innovazione organizzativa dei luoghi di lavoro, sull’innovazione tecnologica», e le spinge «a concorrere sulla riduzione dei costi piuttosto che sulla qualità del lavoro e del prodotto, sulla sua intensità tecnologica». Al contrario, la crescita delle imprese che innovano «è frenata dalla concorrenza sui costi esercitata delle imprese che non innovano e che utilizzano lavoro flessibile, a bassa produttività e bassa retribuzione». In realtà, «la deregolamentazione del lavoro introduce incentivi distorti per le imprese, che ne modificano i comportamenti e comportano un peggioramento della dinamica della produttività, anziché una sua crescita. È ciò che è avvenuto in Italia dagli anni novanta: la crescente flessibilizzazione del mercato del lavoro non ha contrastato il declino della produttività, anzi ha contribuito a determinare quella “trappola della stagnazione della produttività” nella quale siamo immersi da oltre dieci anni».
    È quindi impensabile che ancor maggiori dosi di flessibilità possano curare il malato, conclude Pini. «La logica distorta del medico insipiente vuole che se con una cura dai deboli e dubbi effetti positivi non si intravvede la guarigione del malato, anzi lo si vede peggiorare, invece di cambiare la diagnosi e quindi migliorare la prognosi, si somministrino dosi ancor maggiori del letale medicamento, che a dosi crescenti intossica completamente il paziente». La flessibilità? E’ come una droga: «Più la prendi, più ne diventi dipendente, più difficile è rinunciarvi, ed al contempo ti indebolisce fino a farti schiattare». La ricetta che ci raccomanda l’Europa delle tecnocrazie, e che l’Italia fa sua con il Def 2014, è purtroppo un connubio perverso di “austerità espansiva” e “precarietà espansiva”.
    «Consolidamento fiscale e riforme strutturali vengono declinate a senso unico in termini di tagli alla spesa pubblica e al welfare sociale, svalutazione del lavoro, indebolimento progressivo della contrattazione collettiva, precarizzazione, contenimento dei salari: tutti fattori che assieme deprimono la domanda interna, abbassano la crescita, riducono l’occupazione e accrescono il debito». Tutto ciò, sostiene Pini, favorisce anche le divergenze tra nazioni e le divisioni tra i popoli: «Una miscela esplosiva che gioca a favore dei populismi europei, di ogni natura ed in ogni paese, e contro l’Europa stessa. Non sarebbe il caso a questo punto di rivedere la diagnosi e quindi finalmente cambiare prognosi, rinunciando alla droga, prima che il popolo-malato si ribelli e “rottami” anche questo medico fiorentino?».

    «La flessibità non è una cura, ma una droga: un rimedio peggiore del male, che alla lunga stronca il paziente anziché guarirlo». Brutte notizie, dunque, dalla ricetta del “medico” Matteo Renzi: con lui l’Italia continuerà a perdere terreno, in Europa. Lo sostiene Paolo Pini, analizzando il Def 2014. Il documento programmatico «fotografa un paese che faticherà assai a crescere», tant’è vero che nel 2018 «non avrà recuperato la perdita di 9 punti percentuali di reddito accumulati dall’inizio della crisi, il 2008» e si allontenerà ulteriormente dalla Germania, che invece crescerà ben sopra l’1,5%, cioè l’incremento medio previsto per l’Eurozona. I conti non tornano: il Def renziano prevede una crescita dello 0,8% nel 2014, quando solo a dicembre 2013 era stata fissata dal governo Letta all’1,1%. Previsioni che le istituzioni internazionali come il Fmi già ora rivedono al ribasso, ipotizzando uno 0,6%. Lo stesso governo Renzi ridimensiona anche le stime per il 2015 e il 2016 (rispettivamente 1,3% e 1,6% contro il 2% del governo Letta), mentre «si spinge ottimisticamente all’1,8% e 1,9% per il 2017 e 2018».

  • Cos’è l’euro-regime l’han capito tutti, tranne la sinistra

    Scritto il 30/4/14 • nella Categoria: idee • (5)

    La sinistra? Dovrebbe lottare per recuperare la sovranità nazionale. Lo fa invece quella che viene ancora definita “destra”, cioè il Front National di Marine Le Pen, organizzazione che si batte apertamente contro l’Unione Europea per difendere i lavoratori francesi dal regime Ue-euro, che produce «povertà e sottomissione alle misure autoritarie calate dall’alto della tecnocrazia di Bruxelles». Sinistra sovranista? Macché. «Il problema – osserva Enrico Grazzini – è che il socialismo europeo è ormai profondamente compromesso con questa Europa liberista e della finanza». Grazzini parla di «ritardo culturale e politico nei confronti dell’Europa reale» anche da parte della “sinistra radicale”, ovvero «la sinistra aristocratica italiana», che «sottovaluta i guasti dell’Europa reale e dell’euro e sogna la democrazia dell’Europa federata e di uno Stato federale: rischia così di rimanere elitaria, isolata e senza troppo popolo (e voti)», e lascia il bottino elettorale a quello che sempre Grazzini definisce «il populismo né di destra né di sinistra di Grillo».
    L’Italia è allo stremo, riconosce l’analista di “Micromega”: neppure la crisi del ‘29 era stata così violenta. Oggi le famiglie non sanno come arrivare alla fine del mese, la disoccupazione e la povertà dilagano, i giovani non trovano lavoro e non hanno prospettive. E l’opposizione di sinistra? Non pervenuta: «Chiede con grande moderazione “meno austerità” e “più democrazia in Europa”». Ridicolo, di fronte all’attuale catastrofe. Martin Schulz, l’euro-candidato del Pd, «dice che occorre invertire la rotta e fare finalmente le riforme per lo sviluppo, ma non fa nessuna autocritica sulla folle austerità imposta dalla sua alleata di governo Angela Merkel». Lo stesso presidente del Parlamento Europeo «giustifica ed esalta l’euro di Maastricht e tace sul fatto che con questi trattati e con il Fiscal Compact uscire dalla crisi è impossibile». Aggiunge Grazzini: «Questa Europa fa male, molto male. Ormai una forte minoranza dell’opinione pubblica che sta diventando maggioranza non sopporta più l’euro ed è sempre più critica verso questa Ue che impone una crisi che non finisce più».
    L’elettorato si sta polarizzando e radicalizzando, e mentre dilaga «la rabbia contro questa Europa della disoccupazione e della povertà». Problema: se i ceti popolari votano massicciamente “a destra”, significa che la sinistra è considerata disattenta o, peggio, complice del sistema. La sinistra di potere: quella che cantava le lodi dell’euro e delle “magnifiche sorti e progressive” dell’Unione Europea, il mostro giudirico di Maastricht che sta radendo al suolo intere nazioni, intere economie, con politiche antidemocratiche e ferocemente liberiste, che aggravano la crisi. «Queste politiche, senza abolire Maastricht, sono irriformabili», conclude Grazzini. «Per uscire dalla crisi è necessario rivendicare la sovranità economica e monetaria degli Stati». Beninteso: sovranità parziale, per quanto consentito dalla globalizzazione. La sovranità a cui pensa Grazzini non va confusa col nazionalismo della Le Pen o l’isolazionismo britannico: «Battersi per la sovranità nazionale deve significare semplicemente che esigiamo la democrazia e non vogliamo essere diretti da tecnocrazie opache asservite alla finanza e ai governi dei paesi dominanti».
    Solo recuperando l’autonomia degli Stati in campo economico e monetario, nonché la sovranità nazionale in campo politico, è possibile difendersi, in sintonia con gli altri popoli europei oppressi dal regime di Bruxelles. Ma è inutile sperare che la sinistra italiana cambi posizione: «Scartata l’ipotesi di uscire unilateralmente dall’euro, considerata come catastrofica», nella sinistra «prevale l’allineamento alle tesi pro-euro e pro-Ue». L’euro, la moneta unica prevista per tutti i 28 stati dell’Unione Europea ma utilizzata solo da 12 paesi, sul piano economico «è una solenne bestemmia: infatti significa che 12 paesi molto differenti, dalla Spagna alla Germania, dall’Italia all’Olanda, dal Portogallo alla Lettonia, sono soggetti allo stesso tasso di interesse, devono avere la stessa base monetaria e subiscono lo stesso tasso di cambio verso i paesi extraeuropei». Ovvio che non funziona: «Un paese che corre troppo, in cui l’inflazione è elevata, ha bisogno di alti tassi di interesse; invece un altro paese (come l’Italia) che è fermo necessita di tassi bassi per stimolare gli investimenti. Un paese come la Germania può riuscire ad esportare con l’euro a 1,40 sul dollaro; altri paesi invece con lo stesso tasso di cambio non riescono più ad esportare e a compensare l’import, e sono quindi costretti ad accendere debiti».
    La moneta unica fa esplodere le differenze, aggravando gli squilibri: «La Germania diventa sempre più competitiva; gli altri paesi invece perdono industria». La Germania impone una politica deflattiva per ridurre i deficit altrui e per garantirsi che le siano restituiti i debiti, «ma la politica deflattiva comprime l’economia, provoca la crisi fiscale dello Stato, la disoccupazione, la precarizzazione del lavoro, la riduzione dei redditi, della domanda e degli investimenti». Risultato: diventa sempre più difficile restituire i debiti. «Non a caso, i debiti pubblici dei paesi mediterranei continuano ad aumentare inesorabilmente nonostante l’austerità». Perché ostinarsi a non riconoscere la verità? Secondo Grazzini, «per molta parte della sinistra il sogno di un’Europa unita e federata, degli Stati Uniti d’Europa, ha sostituito il sogno fallito del comunismo. La sinistra ha perso la testa e si è innamorata perdutamente dell’idea di Europa, una Europa che però la tradisce spudoratamente con la finanza».
    Se questo vale per la base elettorale della sinistra, secondo molti altri analisti i leader del centrosinistra italiano sono stati semplicemente cooptati dall’élite franco-tedesca: hanno trascinato l’Italia nella catastrofe dell’Eurozona, sperando di guidare la Seconda Repubblica dopo il crollo del vecchio sistema Dc-Psi, funzionale alla guerra fredda e liquidato da Mani Pulite. Troppo sospetta, la reticenza del centrosinistra di fronte al disastro dell’Unione Europea – guidata peraltro anche da uomini come Romano Prodi, advisor della Goldman Sachs benché uomo simbolo dell’antagonismo contro Berlusconi. Ora siamo all’ultima mutazione genetica, quella di Matteo Renzi: che per prima cosa vara il Jobs Act, cioè la frammentazione del lavoro super-precarizzato, in ossequio ai dettami (“riforme strutturali”) che l’élite europea ha imposto, piegando gradualmente i sindacati. «Insieme al lavoro si svaluta anche il capitale nazionale», avverte Grazzini. «Così è più facile per le aziende estere conquistare le banche e le industrie di un paese in debito, magari privatizzate in nome dell’Europa: e così i paesi più deboli cadono nel sottosviluppo, nella subordinazione e nella povertà».
    Sempre secondo Grazzini, la sinistra che si vorrebbe marxista o alternativa «non si accorge del pericolo», neppure di fronte all’assalto di Telefonica verso Telecom. Eppure, «il patriottismo economico è necessario per contrastare la globalizzazione selvaggia». Patriottismo economico: non è forse la parola d’ordine del Front National che la sinistra italiana continua a emarginare come vieta espressione sciovinista, xenofoba e fasciosta? «Si dice che gli Stati non contano più nulla – scrive Grazzini – perché la finanza ormai è globalizzata e quindi l’Europa e l’euro sono necessari per difendersi dalla globalizzazione». Favole: l’euro e l’Ue sono esattamente gli ostacoli che hanno frenato la nostra economia. La riprova: «I paesi europei che non hanno adottato l’euro (Gran Bretagna, Svezia, Danimarca, Polonia) e hanno una loro moneta nazionale stanno molto meglio di noi. In Italia in cinque anni di crisi abbiamo perso circa l’8,5% del Pil e il 30% degli investimenti». I redditi crollano, la disoccupazione dilaga, un terzo delle famiglie è a rischio povertà, ma l’Ue impone i tagli alla spesa pubblica e il Fiscal Compact, facendo esplodere il debito pubblico che – senza moneta sovrana – ci scava la fossa giorno per giorno.
    Democrazia? Scomparsa dai radar. «Nessuno della Troika (Commissione Ue, Bce, Fmi) è stato eletto dai cittadini». Il Parlamento Europeo? «Non ha praticamente poteri: serve soprattutto a dare una patina di legittimità alle decisioni della Commissione». Un referendum sull’euro? «Sarebbe giusto farlo. In Francia e in Olanda i popoli si sono già espressi contro una falsa Costituzione Europea per salvaguardare la loro sovranità. E la Svezia e la Danimarca con un referendum hanno deciso di non entrare nell’Eurozona. Beati loro». La Polonia ha rimandato l’ingresso nell’euro, la Gran Bretagna si tiene stretta la sterlina. «Solo recuperando la sovranità nazionale è possibile che i popoli possano difendersi dalle politiche neocoloniali della Ue e sperimentare nuovi modelli di sviluppo sostenibile: senza sovranità nazionale non ci può essere neppure un’ombra di democrazia». Questo lo dicono Matteo Salvini della Lega Nord e Giorgia Meloni di “Fratelli d’Italia”. «Purtroppo – ammette Grazzini – buona parte della sinistra ritiene che la sovranità nazionale sia da demonizzare perché sempre di destra».

    La sinistra? Dovrebbe lottare per recuperare la sovranità nazionale. Lo fa invece quella che viene ancora definita “destra”, cioè il Front National di Marine Le Pen, organizzazione che si batte apertamente contro l’Unione Europea per difendere i lavoratori francesi dal regime Ue-euro, che produce «povertà e sottomissione alle misure autoritarie calate dall’alto della tecnocrazia di Bruxelles». Sinistra sovranista? Macché. «Il problema – osserva Enrico Grazzini – è che il socialismo europeo è ormai profondamente compromesso con questa Europa liberista e della finanza». Grazzini parla di «ritardo culturale e politico nei confronti dell’Europa reale» anche da parte della “sinistra radicale”, ovvero «la sinistra aristocratica italiana», che «sottovaluta i guasti dell’Europa reale e dell’euro e sogna la democrazia dell’Europa federata e di uno Stato federale: rischia così di rimanere elitaria, isolata e senza troppo popolo (e voti)», e lascia il bottino elettorale a quello che sempre Grazzini definisce «il populismo né di destra né di sinistra di Grillo».

  • L’oro alla patria: costretti a cedere i gioielli di famiglia

    Scritto il 29/4/14 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Grazie ad una miracolosa operazione di trasparenza sul giro d’affari dei “Compro Oro”, è stato svelato al Senato che gli italiani, nel biennio 2011-2012, hanno svenduto ai tanti negozietti appositi circa 300 tonnellate di oro e preziosi, per un totale di 14 miliardi di euro. Cifra enorme, equivalente alla finanziaria del 2013: «Le famiglie italiane si sono fatte una finanziaria da sole», commenta Debora Billi. «Io lo trovo assolutamente vergognoso. Trovo indegno di un paese civile (nota frase abusata dai politici in campagna elettorale) che i cittadini siano ridotti a vendersi l’oro in quantitativi industriali per riuscire a tirare avanti. E’ una cosa da vomito. In un certo senso, hanno dato l’oro alla patria. Hanno tirato la fine del mese da soli, mentre il loro paese era occupato a dirottare i soldi delle tasse verso gli interessi sul debito anziché provvedere a chi si trovava in difficoltà come sarebbe compito di una comunità. Chissà, forse “ce lo chiede l’Europa”».

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