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Archivio del Tag ‘Fn’

  • Hanno mangiato la brioche: Macron, capolavoro del potere

    Scritto il 09/5/17 • nella Categoria: idee • (3)

    Oggi sono tutti contenti che Macron sia riuscito a sconfiggere il fascismo. Non è stato da meno di Reagan, Thatcher, Sarkozy, Merkel, Hollande, i Chicago boys e Pinochet i quali di volta in volta hanno salvato il popolo dalle insidie dell’“estrema sinistra”, del “populismo” del “castro-chavismo”, del “sovranismo”, del comunismo. Ora i francesi hanno la loro brioche e dunque potranno continuare la guerra in Siria, aiutare i nazisti ucraini, continuare a fare stragi in Africa per sostenere dittature tribali, non mettere mai più in dubbio la Nato, ma soprattutto potranno finalmente lasciarsi alle spalle gli obsoleti diritti del lavoro. Ben presto ci si accorgerà che in Francia ha vinto comunque la destra e dopo le legislative di giugno, Macron mostrerà il suo vero volto facendo scoprire che la sostanza marroncina con la quale è farcita la brioche non è precisamente crema al cioccolato. Del resto cosa ci si può attendere da uno la cui candidatura al potere è stata di fatto avanzata dal seguace dell’eugenetica Jacques Attali, a una riunione di Bilderberg nel 2014?
    E cosa ci si può aspettare da corpi elettorali sistematicamente frastornati da un’informazione divenuta cane da guardia del gregge e sempre più composti dalle generazioni perdute, rassegnate alla precarietà, votate al dilettantismo e orgogliose di “spiccicare” in inglese per poter imitare modelli di subordinazione e di primitivismo antropologico? Cosa ci si può attendere da giovani di apparente sinistra che affermano di aver dovuto scegliere tra fascismo e capitalismo? Nemmeno si accorgono che i capitalisti hanno scelto per loro fin dall’inizio, che hanno creato le condizioni per una dicotomia così ridicola tra una signora di provincia piuttosto confusa e dunque anche erratica sui temi della campagna e un giovanotto ricco, arrogante e del tutto irrilevante sul piano della politica e dell’intelligenza. Li hanno messi nel recinto lasciando che fossero loro stessi a chiuderlo; il vecchio fascismo è usato da quello nuovo come un’arma per la lotta di classe.
    Per quanta generosità e per quanta abilità possano avere i dirigenti che vengono da un altro mondo come Mélenchon, cosa possono mai fare con questa creta antropologica creata dal neoliberismo? E’ come se Michelangelo dovesse creare la Pietà col pongo e dipingere la Sistina con le bombolette. Infatti chi non voleva scegliere il capitalismo poteva astenersi invece di andare a fornire il proprio contributo, negare quanto meno il consenso, relativizzando la vittoria di Macron. E di certo non si ci saranno difficoltà per la potente macchina mediatica a riproporre lo stesso rozzo schema dicotomico alle legislative tra poco più di un mese. Sarà ancora capitalismo contro fascismo, democrazia contro comunismo, crescita contro i fantasmi di recessione annunciata, sicurezza contro libertà (magari con qualche sollecitato apporto del Califfo), il giovane presidente contro il vecchio Parlamento anche se a Macron non dovrebbe poi dispiacere: insomma la caricatura della dialettica, quella che è stata così efficace specie dopo il crollo del comunismo e il contemporaneo crollo della cultura politica.
    Mélenchon, il leader della sinistra, aveva rifiutato di cadere in questo semplicistico tranello, evitando la logica del meno peggio nella speranza di poter mettere un argine ai poteri finanziari almeno alle legislative, condizionando l’Eliseo, ma dai risultati che vediamo, dalla demonizzazione e dal ricatto che è stato esercitato su di lui e dalla esiguità della pattuglia dei non macronisti per necessità, si può legittimamente dare per fallito anche questo progetto. C’è chi pensa che questa situazione di impotenza porterà a una serie di secessioni interne nella sinistra, tra Francia periferica e Francia metropolitana, tra Francia repubblicana e Francia mussulmana, tra Francia operaia e Francia borghese, insomma a una decostruzione del paese. Ma questo è per l’appunto l’obiettivo del capitale globale: fare in modo che vi sia meno società collettiva possibile per potere dominare meglio: più un paese è spaccato all’interno, meglio è, nonostante i problemi che questo può creare. Quindi è vero che Macron all’Eliseo finirà per radicalizzare la battaglia politica, ma nel contesto attuale questo non potrà che portare acqua al mulino dei suoi burattinai.
    (“Hanno mangiato la brioche”, dal blog “Il Simplicissimus” dell’8 maggio 2017).

    Oggi sono tutti contenti che Macron sia riuscito a sconfiggere il fascismo. Non è stato da meno di Reagan, Thatcher, Sarkozy, Merkel, Hollande, i Chicago boys e Pinochet i quali di volta in volta hanno salvato il popolo dalle insidie dell’“estrema sinistra”, del “populismo” del “castro-chavismo”, del “sovranismo”, del comunismo. Ora i francesi hanno la loro brioche e dunque potranno continuare la guerra in Siria, aiutare i nazisti ucraini, continuare a fare stragi in Africa per sostenere dittature tribali, non mettere mai più in dubbio la Nato, ma soprattutto potranno finalmente lasciarsi alle spalle gli obsoleti diritti del lavoro. Ben presto ci si accorgerà che in Francia ha vinto comunque la destra e dopo le legislative di giugno, Macron mostrerà il suo vero volto facendo scoprire che la sostanza marroncina con la quale è farcita la brioche non è precisamente crema al cioccolato. Del resto cosa ci si può attendere da uno la cui candidatura al potere è stata di fatto avanzata dal seguace dell’eugenetica Jacques Attali, a una riunione di Bilderberg nel 2014?

  • Harry Potter all’Eliseo: partiti (e cittadini) non servono più

    Scritto il 03/5/17 • nella Categoria: idee • (4)

    Nei salotti mainstream campeggia la figura del nuovo Harry Potter francese sbucato dal nulla, il maghetto dei miracoli elettorali scaturito come un sortilegio con un’unica missione, sbarrare la strada dell’Eliseo a Marine Le Pen per tamponare la falla apertasi nell’euro-sistema dopo la defezione della Gran Bretagna. Umoristi e politologi si cimentano in suggestivi paragoni tra Macron e Renzi, l’uno “senza partito” e l’altro con al seguito il riottoso Pd, come se in Europa i partiti dell’establishment avessero prodotto un leader degno di tale nome, negli ultimi trent’anni. Partiti – tutti – fanatizzati (fronte destro) o infiltrati (fronte sinistro) dall’unico vero potere rimasto in campo, quello – non elettivo, non democratico, non responsabile – del Big Business, multinazionali finanziarizzate, cupole bancarie, retrobottega supermassonici internazionali alle prese, dagli anni ‘80, con le ininterrotte alchimie globaliste, fondate su rivoluzioni invisibili ma inarrestabili: lavoro e consumi, stili di vita, nuove tecnologie e colossali speculazioni, manipolazioni mediatiche e terremoti geopolitici regolarmente pilotati, fino all’abominio (indicibile) dell’auto-terrorismo funzionale alla “guerra infinita” con la sua filiera dell’orrore, dai super-armamenti al subdolo super-spionaggio di massa inflitto agli ignari cittadini, tra email e smartphone.
    E’ la fotografia – inquietante – che ormai scattano, sul fronte web, gli analisti più critici e pessimisti, allarmati da quello che appare uno scenario quotidiano di guerra, alimentato da crisi continue (economiche, finanziarie, climatiche, demografiche) e devastazioni sempre più dirompenti, di cui l’esodo biblico dei migranti sembra solo la vetta di un iceberg che persino gli osservatori meglio documentati faticano a misurare per intero, data la sua imponderabile vastità, in continua evoluzione. Un terremoto costante, senza più argini da parte di alcuna istituzione: il diritto internazionale sembra un residuato archeologico, smarrito nel feroce caos quotidiano, tra proiezioni, statistiche e “fake news” televisive, dove nessuno sembra in grado allungare davvero lo sguardo nemmeno sul semestre seguente, nell’unica certezza che il potere – quello dei veri decisori – sia lontanissimo, irraggiungibile e neppure coeso, ma dilaniato al suo interno da scontri durissimi. Guerre segrete senza quartiere, di cui al pubblico, qualche volta, può arrivare soltanto l’eco. Nonostante questo, si recita – ancora – lo spettacolo delle elezioni, la democrazia rappresentativa, che sa ancora generare fenomeni di auto-ipnosi fino alla tifoseria, dalla Brexit al referendum italiano, dal voto per la Casa Bianca a quello per la presidenza francese.
    I soliti esperti si affrettano a dichiarare chiusa la partita, in Francia, con la scontata vittoria di Macron, mentre altri osservatori – come il direttore di “Limes”, Lucio Caracciolo – preferiscono la prudenza: messi insieme, i due candidati antisistema (Le Pen e Mélenchon) sono il “primo partito” francese, e non è detto che i grandi sconfitti del primo turno riescano a far convergere i loro voti sul “maghetto” dei Rothschild. Che cosa poi riuscirebbe davvero a fare la Le Pen, se eletta, non è dato immaginarlo. Se non altro, il suo Front National è un super-partito a tutto tondo, tradizionale, fatto di sezioni e votazioni congressuali. Un “luogo della democrazia” dove il consenso cresce per gradi, confrontando opzioni e programmi. Cioè esattamente quello che è andato scomparendo altrove, dall’ectoplasma post-politico del Pd renziano fino all’estremo esperimento “apartitico” di Macron, che celebra l’estinzione definitiva dell’entità-partito come ponte, teorico e pratico, tra il cittadino e l’istituzione. Sembra il compimento del Vangelo di Lewis Powell, 1971: svuotare la democrazia per demolire la sinistra dei diritti sociali, da cui l’azione della Trilaterale e i cantori della “crisi della democrazia”. Un piano inclinato, inesorabile: la Guerra del Golfo, e l’11 Settembre, il Medio Oriente trasformato in inferno per profughi. Fino alla follia della guerra con la Russia, subita da un’Europa letteralmente frastornata, messa in croce dall’Eurozona.
    Rassegnatevi: i partiti non servono, non serviranno più. E’ il messaggio che proviene dal mezzo successo francese di Macron. Mettetevi l’anima in pace: è finita per sempre l’epoca delle assemblee, dei delegati. E’ già nella spazzatura della storia, insieme ai sindacati. E in Italia, la presunta alternativa in campo – il Movimento 5 Stelle – è guidato da un leader che licenzia chiunque non gli piaccia. Non è mai stato celebrato un solo congresso. Le periodiche votazioni, che pure avvengono, si svolgono online. E chi partecipa può scegliere solo in base a un menù predefinito, a monte, da un vertice-fantasma che nessuno ha eletto. L’avatar Macron è il futuro che ci aspetta? Certamente sì, scommettono i più esasperati, se i cittadini non si decidono a riappropriarsi della loro sovranità essenziale, fondata sulla partecipazione. Gli strumenti di ieri sono tutti caduti, archiviati, rottamati. Per contro, cresce la frustrazione degli esclusi, che sospettano di essere ormai la grande maggioranza. Un vastissimo popolo, ancora immobile. Strattonato dalle crisi a testata multipla – lavoro, sicurezza – e intimidito ogni giorno da notizie spaventose, attentati, previsioni angoscianti. La scomparsa del futuro è ormai spacciata per normalità. Il calcio tiene ancora banco, più che mai. E nelle tabaccherie furoreggia il Superenalotto. C’è chi sostiene che i grandi decisori siano inquieti, che temano la rabbia dei delusi, elettoralmente espressa dai cosiddetti populismi. Ma basta fare un giro su Facebook, su WhatsApp, per scoprire che non ci sono rivoluzioni culturali in vista.

    Nei salotti mainstream campeggia la figura del nuovo Harry Potter francese sbucato dal nulla, il maghetto dei miracoli elettorali scaturito come un sortilegio con un’unica missione, sbarrare la strada dell’Eliseo a Marine Le Pen per tamponare la falla apertasi nell’euro-sistema dopo la defezione della Gran Bretagna. Umoristi e politologi si cimentano in suggestivi paragoni tra Macron e Renzi, l’uno “senza partito” e l’altro con al seguito il riottoso Pd, come se in Europa i partiti dell’establishment avessero prodotto un leader degno di tale nome, negli ultimi trent’anni. Partiti – tutti – fanatizzati (fronte destro) o infiltrati (fronte sinistro) dall’unico vero potere rimasto in campo, quello – non elettivo, non democratico, non responsabile – del Big Business, multinazionali finanziarizzate, cupole bancarie, retrobottega supermassonici internazionali alle prese, dagli anni ‘80, con le ininterrotte alchimie globaliste, fondate su rivoluzioni invisibili ma inarrestabili: lavoro e consumi, stili di vita, nuove tecnologie e colossali speculazioni, manipolazioni mediatiche e terremoti geopolitici regolarmente pilotati, fino all’abominio (indicibile) dell’auto-terrorismo, funzionale alla “guerra infinita” con la sua filiera dell’orrore, dai super-armamenti al subdolo super-spionaggio di massa inflitto agli ignari cittadini, tra email e smartphone.

  • Magaldi: 25 aprile, niente da festeggiare. Nemmeno a Parigi

    Scritto il 25/4/17 • nella Categoria: idee • (19)

    «Come si fa a celebrare il 25 aprile, continuando a restare indifferenti alla macelleria sociale in atto e allo svuotamento della democrazia?». Gioele Magaldi considera «stucchevole retorica» quella che si nasconde in tanta ipocrisia, riproposta in salsa “antifascista” ma senza spendere una parola sul “totalitarismo” di oggi, quello dell’élite tecnocratica e finanziaria che sta spolpando l’Italia e l’Europa. Piuttosto, bisognerebbe creare le condizioni per poter «celebrare la liberazione di oggi e quella di domani», di cui peraltro non ci sono avvisaglie nemmeno nella Francia che ha appena piazzato Emmanuel Macron in “pole position”, in vista del ballottaggio per le presidenziali del 7 maggio. Macron, il canditato dell’élite targato Rothschild? «Farà piangere i francesi: sarà anche peggio di Sarkozy e Hollande, di cui è il perfetto continuatore». Il problema? Sta nel sistema politico transalpino, giunto alla paralisi: partiti che si annullano a vicenda, tutti fermi attorno al 20%, mentre l’unica vera alternativa in campo – Marine Le Pen – fa ancora troppa paura, nonostante i lodevoli sforzi per far dimenticare il passato fascistoide del Front National. Verdetto già scritto, dunque: «Vincerà Macron, gli avversari della Le Pen giocheranno sul velluto. Ed è una pessima notizia, per i francesi».
    Un vero peccato, aggiunge Magaldi, in collegamento con David Gramiccioli di “Colors Radio”, perché Marine Le Pen «ha compiuto una grande evoluzione, decisamente apprezzabile: il Front National non è più quello di un tempo, si è laicizzato, anche al prezzo del duro scontro con il fondatore Jean-Marie Le Pen, padre di Marine». Magaldi è autore del saggio “Massoni” e presiede il Movimento Roosevelt, soggetto “metapartitico” che ora guarda con interesse a Michele Emiliano, condividendo le critiche al sistema Ue e l’apertura al dialogo con i 5 Stelle. «Io rispetto Marine Le Pen», insiste: «Trovo condivisibili alcune sue idee, altre meno. Certo, non l’avrei votata. Ma meno che mai avrei votato per Macron, canditato accuratamente “fabbricato” lasciare la situazione della Francia esattamente com’è». In questo, ammette Magaldi, bisogna “ringraziare” anche le massonerie transalpine, coalizzate contro la Le Pen «per via di antiche ruggini tra la libera muratoria e la destra nazionalista francese». Ripensamenti, tra i grembiulini? Magaldi lo spera: «Data la sconfitta dei raggruppamenti tradizionali, destra e sinistra, forse si avvicina la possibilità di nuove alchimie. E conto molto sul fatto che parecchi massoni, finora sul fronte conservatore, cambino idea e si schierino con i progressisti». Ma il futuro immediato resta grigio.
    Per Magaldi, paradossalmente, l’Italia è messa meno peggio: pur nel suo caos, il Belpaese potrebbe partorire idee e soluzioni rompendo vecchi schemi, operazione che in Francia, invece, sembra ancora impossibile. «Dell’enorme frammentazione politica – dice – può stupirsi solo chi non ha seguito il sistematico, scientifico disgregarsi della proposta politica socialista, defintivamente naufragata con l’imprensentabile Hollande». L’attuale candidato socialista, «il povero Benoît Hamon», ha tentato di giocare in conttrotendenza «rispolverando temi da sinistra radicale, istanze sociali avanzate, come del resto aveva fatto lo stesso Hollande, all’epoca». E’ colpa di Hollande, non di Hamon, se il Ps è stato umiliato con appena il 6,3% dei voti. «Hollande – continua Magaldi – si era candidato come campione anti-merkeliano per un diverso paradigma europeo. Poi invece ha tradito il patto col popolo e si è ridotto al ruolo di cagnolino, di pecorone: peggio ancora di Sarkozy, che almeno aveva espresso una sua personalità precisa». E’ così che si è arrivati a Macron, continua Magaldi: il candidato “made in Rotschild” «non regala fremiti, non ha alcun appeal: è stato costruito a tavolino, sapientemente, con grandi finanziamenti».
    Obiettivo dell’operazione-Macron: portare all’Eliseo una fotocopia dei predecessori, entrambi proni ai voleri del super-potere finanziario europeo. Macron sarebbe un docile continuatore del sedicente neogollista Sarkozy e del finto-socialista Hollande: prolungherebbe la politica di rigore, senza soluzione di continuità. «Ma se il sistema politico francese è così bloccato – aggiunge Magaldi – la responsabilità è anche di Marine Le Pen: se l’alternativa all’euro-sistema dei diktat è lei, alla fine la maggioranza le preferità Macron, come quando gli elettori si coalizzarono e votarono Chirac, turandosi il naso, pur di sbarrare la strada a Jean-Marie Le Pen». Se la signora del Front National non è ancora abbastanza rassicurante per la maggioranza dei francesi, tantomeno – e lo si è visto al primo turno – lo sono gli uomini del Ps: «Per avere un progetto politico vincente e percepito come appetibile – conclude Magaldi – bisogna creare tutt’altra narrazione, lontana anni luce dall’atteggiamento fasullo e fellone dei socialisti francesi». Morale: «Dopo aver avuto Hollande per cinque anni, con Macron il malinteso continuerà: e per i francesi ci sarà ancora più da piangere».

    «Come si fa a celebrare il 25 aprile, continuando a restare indifferenti alla macelleria sociale in atto e allo svuotamento della democrazia?». Gioele Magaldi considera «stucchevole retorica» quella che si nasconde in tanta ipocrisia, spesso riproposta in salsa “antifascista” ma senza spendere una parola sul “totalitarismo” di oggi, quello dell’élite tecnocratica e finanziaria che sta spolpando l’Italia e l’Europa. Piuttosto, bisognerebbe creare le condizioni per poter «celebrare la liberazione di oggi e quella di domani», di cui peraltro non ci sono avvisaglie nemmeno nella Francia che ha appena piazzato Emmanuel Macron in “pole position”, in vista del ballottaggio per le presidenziali del 7 maggio. Macron, il candidato dell’élite targato Rothschild? «Farà piangere i francesi: sarà anche peggio di Sarkozy e Hollande, di cui è il perfetto continuatore». Il problema? Sta nel sistema politico transalpino, giunto alla paralisi: partiti che si annullano a vicenda, tutti fermi attorno al 20%, mentre l’unica vera alternativa in campo – Marine Le Pen – fa ancora troppa paura, nonostante i lodevoli sforzi per far dimenticare il passato fascistoide del Front National. Verdetto già scritto, dunque: «Vincerà Macron, gli avversari della Le Pen giocheranno sul velluto. Ed è una pessima notizia, per i francesi».

  • Attali, supermassone oligarchico: Macron, una mia creatura

    Scritto il 24/4/17 • nella Categoria: segnalazioni • (13)

    Emmanuel Macron è una mia creatura, rivela. E sottolinea: «Sono molto felice. Il suo primo posto è un risultato insperato fino a poche settimane fa». Autore dell’esternazione: Jacques Attali, uomo-ombra del vero potere europeo, tra i massimi strateghi (sul versante francese) del sistema euro-Ue. Paolo Barnard lo ha definito «il maestro di Massimo D’Alema, che quand’era a Palazzo Chigi si vantò di aver realizzato il record di privatizzazioni, in Europa». Per un ex consigliere di Mitterrand come l’insigne economista Alain Parguez, Attali «è sempre stato un monarchico, travestito da socialista». Frase celebre, a lui attribuita: «Cosa credono, che l’euro l’abbiamo creato per la felicità della plebaglia europea?». A chiudere il cerchio è Gioele Magaldi, che nel saggio “Massoni” (Chiarelettere, 2014) dichiara che Attali milita nella Ur-Lodge “Three Eyes”, emblema della supermassoneria internazionale reazionaria, incarnata da personalità come quelle di Kissinger e Rockefeller. Nell’appendice di “Massoni”, uno dei quattro “grandi vecchi” che svelano il ruolo di Mario Monti, inviato in Italia nel 2011 per commissariare il paese su ordine dell’oligarchia finanziaria, ricorda da vicino il profilo di Attali, che in quelle pagine si dichiara pentito dell’accelerazione neo-feudale e ultraliberista imposta alla politica europea.
    Lo stesso Attali, nel 2016, è arrivato a invocare, per l’Europa, un’inversione di rotta in senso keynesiano e roosveltiano: stop al rigore, fine dell’austerity. E adesso annuncia che, se arrivasse all’Eliseo, il suo pulillo Macron (già finanziere dei Rothschild) sarebbe «un grande presidente». Se Emmanuel Macron si è affacciato alla politica ed è diventato prima consigliere dell’Eliseo, poi ministro e adesso probabile presidente della Repubblica, lo deve a Jacques Attali, scrive Stefano Montefiori sul “Corriere della Sera”: «Economista, saggista e romanziere, Attali fu uno degli uomini più vicini a François Mitterrand e ha sempre coltivato un gusto bipartisan che nel 2008 lo portò a collaborare anche con l’allora presidente Nicolas Sarkozy». Per redigere il rapporto “Liberare la crescita”, contnua il “Corriere”, Attali «si avvalse dell’aiuto di un giovane, brillante e sconosciuto prodotto dell’Ena, la scuola dell’élite francese: Emmanuel Macron». E ora, a pochi minuti dall’annuncio dei risultati, il 73enne Attali parla con un certo orgoglio del suo “enfant prodige”. «L’unico pericolo, adesso – dice Attali – è pensare che sia già finita», mentre la partita del ballottaggio «bisognerà giocarla con intelligenza e attenzione alle ragioni dell’altra Francia, quella che esiste e che ha votato per Le Pen».
    Attali si dichiara «molto colpito dal fatto che abbiano tutti, tranne Mélenchon, fatto dichiarazione di voto per Macron contro Marine Le Pen». E’ la riedizione di una sorta di «fronte repubblicano contro l’estrema destra». Un’alleanza che potrebbe aiutare Macron, qualora eletto il 7 maggio, a trovare una maggioranza in Parlamento, «visto l’allineamento di tanti leader degli altri partiti, da Fillon a destra a Hamon a sinistra». Secondo Attali, «gli elettori di Marine Le Pen sperano nel ritorno a un’epoca che non esiste più, e che non potrà mai più tornare». E’ il globalista, che parla: «Il mondo interconnesso è una realtà irreversibile». Ma, aggiunge l’ex quasi-socialista Attali: «Macron può contribuire a governarlo e non subirlo». Le maggiori qualità di Macron? «Molto competente, serio, intelligente, aperto, capace di ascoltare gli altri e quindi in grado di prendere il meglio da chiunque, che sia di destra o di sinistra». Il rilancio della Francia? «La scuola, in particolare quella materna, e poi le misure per formare e rimettere nel mondo del lavoro i troppi disoccupati che ancora ci sono». Il suo sussidio per i disoccupati «non è assistenzialismo, è formazione seria per renderli in grado di trovare un posto».
    Centrale, per l’ultra-europeista Attali, «l’idea di puntare sull’Europa a partire dalla difesa comune, che è un progetto ormai pronto a essere varato», nonostante quello che definisce «il disastro rappresentato dalla Brexit», nonostante tutti gli indicatori economici raccontino che il Regno Unito stia letteralmente “volando”, dopo essersi sganciato dall’Ue, sia in termini finanziari che sul piano della crescita dei posti di lavoro. Ma Attali punta ancora e sempre sulla sua creatura, l’Unione Europea, che di fatto ha messo in crisi tutti i paesi che ne fanno parte, tranne la Germania. «Distruggere il polo di potere rappresentato dall’Unione Europea», dice, «andrebbe a vantaggio delle altre sfere di influenza, e per ogni singolo paese europeo sarebbe una catastrofe». Nel frattempo, in attesa del verdetto finale degli elettori, Attali si gode la “pole position” di Macron al primo turno: dopo quello studio economico realizzato insieme, racconta, «sono stato io a presentarlo a François Hollande nel 2010, e quando Hollande è diventato presidente lo ha chiamato come consigliere». Gongola, l’anziano Attali: «Devo riconoscere che provo un certo orgoglio nell’avere capito per primo che Emmanuel era un ragazzo di grandi qualità».
    Il “coming out” di Attali nei confronti di Macron, uomo dei Rothschild, finisce per sottolineare, ancora una volta, il ruolo probabilmente decisivo, nel “back-office” del potere, svolto dalle 36 Ur-Lodges (logge madri, internazionali e apolidi) di cui parla Magaldi, che ha ripetutamente indicato l’appartenenza di Giorgio Napolitano alla “Three Eyes” (la stessa di Attali) insieme all’attuale ministro dell’economia Pier Carlo Padoan. Della “Three Eyes” farebbero parte anche Mario Draghi, Gianfelice Rocca (Techint) e Giuseppe Recchi (costruzioni), Marta Dassù (Finmeccanica), Enrico Tommaso Cucchiani (banchiere, già a capo di Intesa Sanpaolo) e l’ex ministra renziana Federica Guidi. Altri circuiti della stessa supermassoneria neo-conservatrice sarebbero rappresentati da Ur-Lodges come la “Babel Tower” (Mario Monti), la “Compass Star-Rose” (Fabrizio Saccomanni, Massimo D’Alema, Vittorio Grilli), la “Edmund Burke” (Domenico Siniscalco, Ignazio Visco), la “Atlantis-Aletheia” (Corrado Passera), la “Pan-Europa” (Alfredo Ambrosetti, Emma Marcegaglia”). In Francia, sempre secondo Magaldi, il presidente uscente François Hollande milita in due circuiti supermassonici “progressisti”, la Ur-Lodge “Ferdinand Lassalle” e la “Fraternité Verte”, che però avrebbe deluso, “tradendo” il mandato iniziale (porre fine all’austerity) a causa di minacce e blandizie. Ora è in campo Macron, che è “en marche” insieme ai Rothschild e alla “Three Eyes” del suo mentore Attali.

    Emmanuel Macron è una mia creatura, rivela. E sottolinea: «Sono molto felice. Il suo primo posto è un risultato insperato fino a poche settimane fa». Autore dell’esternazione: Jacques Attali, uomo-ombra del vero potere europeo, tra i massimi strateghi (sul versante francese) del sistema euro-Ue. Paolo Barnard lo ha definito «il maestro di Massimo D’Alema, che quand’era a Palazzo Chigi si vantò di aver realizzato il record di privatizzazioni, in Europa». Per un ex consigliere di Mitterrand come l’insigne economista Alain Parguez, Attali «è sempre stato un monarchico, travestito da socialista». Frase celebre, a lui attribuita: «Cosa credono, che l’euro l’abbiamo creato per la felicità della plebaglia europea?». A chiudere il cerchio è Gioele Magaldi, che nel saggio “Massoni” (Chiarelettere, 2014) dichiara che Attali milita nella Ur-Lodge “Three Eyes”, emblema della supermassoneria internazionale reazionaria, incarnata da personalità come quelle di Kissinger e Rockefeller. Nell’appendice di “Massoni”, uno dei quattro “grandi vecchi” che svelano il ruolo di Mario Monti, inviato in Italia nel 2011 per commissariare il paese su ordine dell’oligarchia finanziaria, ricorda da vicino il profilo di Attali. In quelle pagine, “Frater Rosenkrantz” si dichiara pentito dell’accelerazione neo-feudale e ultraliberista imposta alla politica europea.

  • L’oligarca Rothschild o la Le Pen? Vinceranno paura e odio

    Scritto il 24/4/17 • nella Categoria: idee • (3)

    Il risultato del primo turno delle presidenziali francesi regala al candidato di plastica Emmanuel Macron, l’uomo dei Rothschild, le apparenti maggiori possibilità di vittoria per il secondo appuntamento alle urne, quello del 7 maggio, quando dovrà vedersela con Marine Le Pen. I quattro candidati più votati (Macron, Le Pen, Fillon, Mélenchon) si sono spartiti l’80 per cento dei voti, collocandosi ciascuno poco sopra o poco sotto il 20 per cento. Con un dato di partenza così basso, il meccanismo del ballottaggio non potrà mai a giocarsi sul consenso per sé, ma sul dissenso verso l’altro candidato. Non vincerà il più amato e apprezzato, perderà il più odiato e temuto. Entrambi i candidati sono in grado di attirare su di sé le principali forme di dissenso già sperimentate in questi anni nel discorso pubblico dei paesi occidentali. Ognuna di queste forme ha i suoi intellettuali organici, i suoi media di riferimento, i suoi argomenti dominanti. Prendiamo Emmanuel Macron. È un prodotto sfornato direttamente dalle officine dell’élite atlantista come un avatar telegenico che deve dare un volto elettoralmente fungibile agli interessi della grande finanza, di cui è espressione immediata.
    Una volta consumato oltre ogni dire l’impresentabile presidente Hollande, l’élite filo-Nato e filo-Ue ha equipaggiato in fretta e furia il giovane Emmanuel con tutto il corredo retorico del “nuovo” e del “dinamico” (il suo partito istantaneo si chiama “En Marche!”, ossia “In Cammino!”), senza poterlo tuttavia riparare completamente dalla verità che lo riguarda né dalla repulsione di chi conosce questa verità: Macron è l’ennesimo fantoccio neoliberista, un continuatore delle politiche neocolonialiste che hanno fatto della Francia uno dei maggiori perturbatori della pace negli ultimi anni, un distruttore dei diritti del lavoro. Ha dalla sua parte le grandi Tv e i grandi giornali dell’oligarchia francese, che sono organici al suo mondo di provenienza, ma questo elemento di forza – pur potentissimo – sconta il fatto che la corrente principale dei media è sempre più invisa a decine di milioni di persone, che si informano su altri canali e hanno altri intellettuali di riferimento.
    Dal canto suo, Marine Le Pen non è certo una candidata artificiale e il suo Front National non è un partito finto, bensì una forza popolare radicata da decenni, durante i quali ha assunto un profilo staccato dalle caratteristiche fasciste impresse dal suo fondatore, e padre di Marine, Jean-Marie Le Pen, ormai espulso dal partito. Ma le dinamiche elettorali hanno inerzie e resistenze molto lunghe, che riguardano l’identità e la psicologia di grandi masse di elettori. Saranno in tanti a continuare a votare in base a pregiudiziali destra-sinistra: la lunga storia xenofoba del partito a guida Le Pen farà turare ancora milioni di nasi, cui non basterà il suo profilo sociale, il suo radicamento nei quartieri operai, i suoi progetti di ripresa della sovranità rispetto alle tecnocrazie europoidi, perché temeranno le sue ricette più dure in tema di immigrazione e di sicurezza pubblica. Marine Le Pen ha una certa presa popolare attraverso i media fuori dal mainstream, ma non le sarà risparmiata alcuna forma di manipolazione e “spin” mediatico da parte di un sistema disposto a vendere cara la pelle, con uno schieramento impressionante di politici già in lotta per far vincere Macron.
    La cosa può anche non funzionare. Gli esempi recenti non mancano. Di fronte al Brexit e all’ascesa di Donald Trump la linea di difesa aggressivissima del “kombinat” politico-mediatico non ha retto nelle urne, dove i risultati sono stati quelli opposti al suo volere. Tanto che sono dovuti scattare dei “piani B”: sia a Londra che a Washington sono riusciti, sì, a normalizzare le scelte dei governi nati dai terremoti elettorali, ma con grande fatica e incertezza, in uno scenario di crisi sistemica meno manovrabile dall’élite: se sei un guerrafondaio neoconservatore russofobo e sei riuscito a castrare le velleità di The Donald, beh, la cosa ti va lo stesso di lusso, date le circostanze, ma alla Casa Bianca preferivi comunque avere qualcun altro. Anche in Italia, con il referendum costituzionale del 4 dicembre, il risultato è stato opposto a quello voluto dai padroni del vapore, al punto che Matteo Renzi è stato ridimensionato, con un governo che intanto galleggia senza progetto. Tuttavia, nelle forme in cui avviene l’espressione della volontà popolare, conta parecchio il tipo di sistema elettorale. Il ballottaggio francese ha caratteristiche importantissime che influiscono sulle possibilità reali di vittoria. E vincere implica trasformare un 20 per cento in un 51 per cento in appena quindici giorni.
    Se con piccole variazioni percentuali Macron non avesse raggiunto il ballottaggio e lo avesse conquistato qualcun altro, avremmo misurato l’avversione a quell’altro candidato con altri criteri. Ad esempio, come si sarebbero evolute le posizioni anti-Ue e anti-Nato del candidato della sinistra, Mélenchon, di fronte alle analoghe posizioni della Le Pen? Sarebbe stata un’altra dinamica, o no? E se al ballottaggio fosse giunto il gollista Fillon, che voleva ripristinare un dialogo amichevole con la Russia spazzando le sanzioni, come sarebbe cambiata la geografia elettorale? E se Marine Le Pen non fosse giunta al ballottaggio, come avrebbero votato i suoi elettori? Avrebbe prevalso un euroscettico o un atlantista sfegatato Dato il sistema del ballottaggio, Macron prende il via comunque da favorito, perché una parte massiccia delle personalità e delle formazioni sociali che pure non lo ha votato teme di più Le Pen e si mobiliterà in tal senso. Ora non si tratta tanto dello schieramento – davvero scontato – dell’élite, ma anche delle associazioni nei quartieri, dei sindacati a livello locale, di tutta una miriade di organizzazioni con radici popolari.
    Certo, è un mondo che stavolta ha dato al candidato socialista Benoît Hamon soltanto un miserrimo 6 per cento dei voti, ma è anche un mondo che ha una lunga storia dove dire ‘non’ a Le Pen è stata sempre una pregiudiziale inflessibile, quartiere per quartiere, villaggio per villaggio. Buona parte degli elettori di sinistra di Mélenchon condivide molti più punti programmatici sociali con la presidente del Fronte Nazionale che con il rampollo della finanza predatoria. Ma per Marine Le Pen conquistare quei voti significa dover demolire un “di più” di sfiducia verso il portato storico e ideologico che lei rappresenta. È prevedibile che farà allora di tutto per presentarsi come l’Alternativa possibile, cercando di erodere il Fronte che già si è costituito contro di lei, pescando tanto a sinistra, quanto fra gli euroscettici che pure hanno votato il moderato Fillon. In mezzo al risultato colpisce la disfatta totale dei socialisti francesi, che ripete quella dei socialisti olandesi di marzo. La sinistra socialdemocratica europea è in rotta, e le sue residue bandiere le consegna a difendere un bidone della banca Rothschild.
    (Pino Cabras, “#Macron, #LePen, chi perderà di più?”, da “Megachip” del 24 aprile 2017).

    Il risultato del primo turno delle presidenziali francesi regala al candidato di plastica Emmanuel Macron, l’uomo dei Rothschild, le apparenti maggiori possibilità di vittoria per il secondo appuntamento alle urne, quello del 7 maggio, quando dovrà vedersela con Marine Le Pen. I quattro candidati più votati (Macron, Le Pen, Fillon, Mélenchon) si sono spartiti l’80 per cento dei voti, collocandosi ciascuno poco sopra o poco sotto il 20 per cento. Con un dato di partenza così basso, il meccanismo del ballottaggio non potrà mai a giocarsi sul consenso per sé, ma sul dissenso verso l’altro candidato. Non vincerà il più amato e apprezzato, perderà il più odiato e temuto. Entrambi i candidati sono in grado di attirare su di sé le principali forme di dissenso già sperimentate in questi anni nel discorso pubblico dei paesi occidentali. Ognuna di queste forme ha i suoi intellettuali organici, i suoi media di riferimento, i suoi argomenti dominanti. Prendiamo Emmanuel Macron. È un prodotto sfornato direttamente dalle officine dell’élite atlantista come un avatar telegenico che deve dare un volto elettoralmente fungibile agli interessi della grande finanza, di cui è espressione immediata.

  • 5 Stelle (e strisce), come la Lega: oggi Grillo, ieri Bossi

    Scritto il 15/4/17 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Ogni fase politica della Repubblica italiana è stata scandita da un partito “di protesta”, funzionale agli interessi dell’establishment atlantico: si comincia con L’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini per terminare col Movimento 5 Stelle di Gianroberto Casaleggio, passando per il Partito Radicale di Marco Pannella e la Lega Nord di Umberto Bossi. Fino alla recente svolta nazionalista, filorussa e anti-euro, il Carroccio è infatti stato uno dei tanti prodotti di Washington e Londra, schierato su posizioni “thatcheriane” ed europeiste. E’ la tesi di Federico Dezzani, analista geopolitico, impegnato in una ricostruzione “non convenzionale” della storia recente del nostro paese. Nei primi anni ‘90, ricorda, la Lega Nord avrebbe dovuto essere lo strumento per attuare un ambizioso disegno geopolitico: la frantumazione dello Stato unitario e la nascita di una confederazione di tre “macroregioni”, così da cancellare l’Italia come attore del Mar Mediterraneo. Questo, secondo Dezzani, il vero ruolo della Lega Nord durante Tangentopoli, a cominciare dalla figura, allora determinante, del suo ideologo, il professor Gianfranco Miglio.
    «Non si muove foglia che Washington non voglia: anche in Padania». In politica, sostiene Dezzani nel suo blog, ogni segmento della domanda deve essere coperto, come in ogni altro settore di mercato: l’offerta deve essere costantemente rinnovata e nuovi prodotti possono essere lanciati grazie a un’adeguata campagna pubblicitaria. Basta considerare i partiti alla stregua di ogni altro prodotto di consumo. «L’abilità di chi tira i fili della democrazia consiste nel rifornire gli scaffali dalla politica dei partiti giusti, al momento giusto: ad ogni tornata elettorale, i votanti acquisteranno i loro prodotti preferiti, con grande soddisfazione di chi controlla il grande supermercato della democrazia». Negli ultimi anni, va crescendo la “specialità” dei partiti di protesta. Ma la loro origine non è recente, ricorda Dezzani: «Risale agli albori della Repubblica Italiana, quando Washington e Londra foggiarono per l’Italia una singolare democrazia, dove la seconda forza politica del paese, il Pci, era esclusa “de iure” dal governo», ovviamente per ragioni geopolitiche (la sua contiguità con l’Urss, avversaria della Nato).
    «Per ovviare a questo opprimente immobilismo, che un po’ stona con le logiche del mercato», in 70 anni sono state immesse diverse sigle per intercettare il malcontento dell’elettorato e la domanda di cambiamento: «Si comincia, prima delle elezioni del 1948, con l’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini e si termina oggi con il Movimento 5 Stelle di Davide Casaleggio». Annota Dezzani: «Sia Giannini che Casaleggio sono, incidentalmente, inglesi da parte materna». Tra i due estremi, l’analista annovera anche il Partito Radicale di Marco Pannella, «che prestò non pochi servigi all’establishment atlantico: la campagna per le dimissioni del presidente Giovanni Leone, quella per l’aborto e il divorzio, i referendum del 1993 contro “la partitocrazia” e “lo Stato-Padrone”». E poi c’è anche il caso della Lega Nord, nata e cresciuta nei travagliati primi anni ‘90, nutrendosi dei voti in uscita dal Psi e soprattutto dalla Dc. Ma come? Anche il folkloristico Carroccio, i raduni di Pontida, il “dio Po” e il leggendario Alberto da Giussano, sarebbero un prodotto dell’establishment atlantico? Ebbene sì, scrive Dezzani: «È una verità che probabilmente spiazzerà molti leghisti della prima ora», ma è indispensabile per capire, ad esempio, «perché Umberto Bossi, padre-padrone della primigenia Lega Nord, contesti la recente svolta nazionalista, anti-euro e filorussa di Matteo Salvini».
    Salvini appare deciso a trasformare (con esiti incerti) il Carroccio nella versione italiana del Front National? Non a caso, il redivivo Bossi oggi gli si oppone, chiedendo un congresso. «Bruxelles è sempre stata ed è tuttora il faro di Umberto Bossi, sebbene il suo obiettivo fosse agganciarsi all’Unione Europea non attraverso l’Italia, ma tramite la “Padania”, in ossequio a quella “Europa della macroregioni” tanto cara all’establishment atlantico», sostiene Dezzani. Il progetto: «Smembrare gli Stati nazionali per sostituirli, al vertice, con un governo sovranazionale e, alla base, con una costellazione di cantoni, regioni e feudi: l’oligarchia libera di comandare indisturbata su 500 milioni di persone ed i paesani appagati delle loro effimere autonomie». La storia della Lega Nord, continua l’analista, è indissolubilmente legata al crollo del Pentapartito. Cioè alle manovre, iniziate con la firma del Trattato di Maastricht, per traghettare l’Italia verso la nascente Unione Europea a qualsiasi costo: vergognose privatizzazioni, saccheggi del risparmio privato, attentati terroristici e giustizialismo spiccio. «Studiare l’origine della Lega Nord significa quindi completare l’analisi dell’infamante biennio 1992-1993 che travolse la Prima Repubblica e forgiò la Seconda, dove Umberto Bossi ha giocato un ruolo di primo piano».
    La Lega Nord nasce ufficialmente nel febbraio del 1991, come federazione della Lega Lombarda, della Liga Veneta, di Piemont Autonomista e dell’Union Ligure: «Chi volesse indagare sul periodo proto-leghista, scoprirebbe quasi certamente che anche questi movimenti autonomisti nascono nel medesimo humus massonico-atlantista da cui germoglierà poi il Carroccio». La Liga Veneta, quella più radicata e “antica”, compie i primi passi presso l’istituto privato linguistico Bertrand Russell di Padova, dove nel 1978 è istituito un corso di storia, lingua e civiltà veneta. «Chi volesse scavare più indietro ancora – ipotizza Dezzani – potrebbe riallacciarsi alla lunga serie di attentati destabilizzanti, di matrice autonomista e secessionista, che colpiscono tra gli anni ‘50 e ‘60 il Nord-Est dove, è bene ricordarlo, la concentrazione delle forze armante angloamericane è più alta che in qualsiasi altra parte dell’Italia continentale», come nel caso della caserma Ederle di Vicenza e della base di Aviano, fuori Udine. «L’idea di superare le leghe su base “etnica” e di federarle in un’unica Lega allargata all’intero Nord, ribattezzato all’occorrenza come “Padania”, è comunque ufficialmente attribuita ad Umberto Bossi». Ma il “senatur” ne è stato l’unico padre o è stato “aiutato” da una regia più ampia, «sofisticata e altolocata», come quella che starebbe dietro ai 5 Stelle?
    «Diversi elementi fanno propendere per la seconda ipotesi», continua Dezzani, «declassando Umberto Bossi al ruolo di capo carismatico di facciata, di semplice tribuno e di arringatore: la stessa funzione, per intendersi, svolta da Beppe Grillo nel M5S». Siamo infatti nel febbraio 1991, il Muro di Berlino è crollato da due anni e l’Unione Sovietica collasserà entro pochi mesi: «L’oligarchia atlantica ha già stilato i suoi piani per il “Nuovo Ordine Mondiale” che, calati nella realtà italiana, significano l’abbattimento della Prima Repubblica, l’archiviazione della Dc e del Psi, lo smantellamento dell’economia mista e, se possibile, anche un nuovo assetto geopolitico per la penisola», da attuare attraverso i movimenti indipendentisti. Segnale importante: «L’accoglienza che la grande stampa anglosassone riserva al neonato Carroccio, simile a quella che il Movimento 5 Stelle riceverà a distanza di 15 anni, non lascia adito a dubbi circa l’interessamento che Londra e Washington nutrono per la neonata formazione nordista: il 4 ottobre 1991 il “Wall Street Journal” definisce la formazione di Umberto Bossi come “il più influente agente di cambiamento della scena politica italiana”».
    Poco dopo, nel gennaio 1992, il settimanale statunitense “Time” definisce Bossi come il leader più popolare e temuto della politica italiana. E il 28 marzo, il settimanale inglese “The Economist”, megafono della City, accomuna la Lega Nord al Partito Repubblicano di Ugo La Malfa, definendolo come «l’unico fattore di rinnovamento nel decadente panorama politico italiano». Sono le stesse settimane in cui Mario Chiesa, esponente socialista e presidente del Pio Albergo Trivulzio, è arrestato a Milano per aver intascato una bustarella: è il primo atto di quell’inchiesta giudiziaria, Mani Pulite, destinata a travolgere il Pentapartito e la Prima Repubblica. «Non c’è dubbio che la Lega Nord debba “completare”, nei piani angloamericani, l’inchiesta di Tangentopoli», sostiene Dezzani: «Il pool di Mani Pulite è incaricato di smantellare la Dc ed il Psi, mentre il Carroccio ha lo scopo di intercettare i voti in fuga dai vecchi partiti prossimi al collasso». E il trait d’union tra il palazzo di giustizia milanese e la Lega Nord, sempre secondo Dezzani, è fisicamente incarnato dal console americano Peter Semler, cioè il funzionario statunitense che, alla fine del 1991, un paio di mesi prima dell’arresto di Mario Chiesa, “incontra” Antonio Di Pietro nei suoi uffici per discutere delle imminenti inchieste giudiziarie. E’ lo stesso funzionario che, «quasi contemporaneamente, “incontra” i dirigenti della Lega Nord».
    In una recente intervista a “La Stampa”, Semler ammette di aver pranzato con due dirigenti leghisti il 1° gennaio 1992: «Quello che mi colpì di più era un ex poliziotto, ex militare. Giocammo al golf club di Milano e mi dissero: “Cambierà tutto”». Rileva Dezzani: «C’è da scommettere che non siano stati i due leader della Lega Nord ad avvertire il console americano che tutto sarebbe cambiato, bensì l’opposto». Il Carroccio, infatti, all’epoca «è parte integrante della manovra angloamericana per smantellare il Psi e la Dc», con la sua corrosiva e talvolta violenta retorica contro la partitocrazia della Prima Repubblica, lo Stato clientelare ed assistenzialista (indimenticabile il cappio sventolato nel 1993 a Montecitorio, per “appendervi” i politici corrotti). Ma perché mai, continua Dezzani, l’attacco è sferrato “su base regionale”, attraverso una formazione che inneggia alla Padania onesta e laboriosa, contro la Roma corrotta e la ladrona, sede di “un Parlamento infetto”? Ovvero: perché la stessa funzione non è assolta da un partito di protesta “nazionale”, come è oggi il Movimento 5 Stelle?
    «Compito della Lega Nord – riprende Dezzani, parlano al presente storico – è anche quello di attuare il piano geopolitico che l’establishment atlantico ha in serbo per l’Italia in questa drammatica fase della vita nazionale: passare dall’Italia unita all’unione, o confederazione, di tre macroregioni», ovvero la Repubblica del Nord (o Padania), una repubblica del Centro e una del Sud: «E’ il periodo, infatti, delle “stragi mafiose” e Cosa Nostra ed il Carroccio sembrano lavorare all’unisono (d’altronde, la regia a monte è comune) per ritagliarsi ognuno il proprio feudo, cannibalizzando lo Stato nazionale». Da qui, Dezzani mette in luce l’entrata in scena di una figura-chiave del leghismo delle origini, il personaggio politico che avrebbe dovuto essere “la mente” del processo di secessione della Repubblica dal Nord: Gianfranco Miglio, classe 1918 (scomparso poi nel 2001). Allievo del filosofo liberale Alessandro Passerin d’Entrèves (a lungo docente all’Università di Oxford e quella di Yale) e del giurista Giorgio Balladore Pallieri (primo giudice italiano alla Corte europea dei diritti dell’uomo).
    Docente all’Università Cattolica di Milano, teorizzatore del decisionismo, studioso del federalismo e ascoltato consulente in materia di riforme costituzionali, vero e proprio “giacobino di destra”, Gianfranco Miglio è un intellettuale molto gettonato dai politici e dagli alti manager della Prima Repubblica in cerca di consigli. Miglio comincia coll’assistere l’uomo più potente d’Italia, Eugenio Cefis: presidente dell’Eni dal 1967, dopo la morte di Enrico Mattei, fino al 1971, e poi numero uno della Montedison dal 1971 al 1977. Secondo Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, uscito nel 2016, Cefis è stato il capo della Loggia P1, vero dominus delle strategie coperte per la manipolazione occulta dell’Italia. Carpeoro la chiama “sovragestione”: un intreccio di poteri fortissimi eterodiretti dagli Usa, reti massoniche e servizi segreti deviati. Un livello di potere assai più alto e protetto di quello rappresentato dalla P2 di Gelli, che infatti all’occorrenza fu sacrificato sull’altare dell’opinione pubblica, a differenza del potentissimo Cefis, che è anche l’uomo-ombra di “Petrolio”, il romanzo incompiuto sulla fine di Mattei che forse è costato la vita a Pasolini. Tornando alla ricostruzione di Dezzani sulle mosse di Miglio: dopo aver collaborato con Cefis, l’ideologo della Padania ha fatto anche da consulente al primo ministro Bettino Craxi.
    Nei tumultuosi anni che seguono la caduta del Muro di Berlino – scrive Dezzani – il professor Miglio compie una spettacolare e singolare metamorfosi: nel giugno del 1989, constata la precarietà delle finanze pubbliche e del panorama politico italiani, suggerisce nientemeno che «sospendere le prove elettorali per un certo periodo, dar vita a un lungo Parlamento, bloccare il ricambio parlamentare, che so, per 8-10 anni», affidando quindi poteri speciali al Pentapartito per fronteggiare le emergenze. Dopo nemmeno due anni, Miglio è invece diventato “l’ideologo” della costituenda Lega Nord, nonché il più severo e spietato censore della partitocrazia, dello Stato parassitario e della deriva mafiosa del Meridione: «E’ difficile spiegare questo repentino cambiamento e il suo “affiancamento” a Umberto Bossi, se non come un’operazione studiata a tavolino, concepita da quegli “ambienti liberali ed anglofoni” che Miglio frequenta sin dalla gioventù».
    Gianfranco Miglio, annota Dezzani, è l’architetto di quelle riforme costituzionali che dovrebbero scardinare l’assetto geopolitico dell’Italia, servendosi della Lega Nord e di Umberto Bossi come semplici grimaldelli. Esisterebbero, secondo il professore, due Italie: una europea, da agganciare alla nascente Unione Europea, e una mediterranea, da abbandonare alla deriva verso il Levante e il Nord Africa. Lo Stato unitario ha fatto il suo tempo e sulle sue macerie bisogna edificare uno Stato federale, o meglio ancora confederale, costruito da tre entità separate: una Repubblica del Nord, una del Centro e una del Sud. Al governo centrale della neo-costituita Unione Italiana, spetterebbero soltanto la difesa e parte della politica estera. «Il disegno sottostante alle ricette di Miglio è chiaro: sfruttare l’inchiesta di Tangentopoli che sta sconquassando la politica, il crollo del Pentapartito, la strategia della tensione e l’emergenza finanziaria, per cancellare l’Italia unitaria come soggetto geopolitico. Un’Italia che, con Enrico Mattei, Aldo Moro e le politiche filo-arabe di Bettino Craxi e Giulio Andreotti, ha dimostrato di poter infastidire gli angloamericani nello strategico bacino mediterraneo».
    Le elezioni politiche del 5 aprile 1992 vedono la Lega Nord raccogliere una discreta percentuale dei voti in uscita dalla Dc e dal Psi: in Lombardia il Carroccio raccoglie il 23% delle preferenze, ad un solo punto dai democristiani, ma si ferma all’8,65% a scala nazionale, mentre le varie leghe del Sud non decollano. «Non è andata così bene, dovevamo essere determinanti», ammette Bossi, ben sapendo che la secessione del Nord dal resto d’Italia implicherebbe una forza elettorale che la Lega dimostra di non avere. Bottino elettorale: 55 deputati e 25 senatori. Sono abbastanza, «per portare a compimento la demolizione della Prima Repubblica e il rapido smantellamento dell’economia mista, come auspicato dai croceristi del Britannia». Ecco il punto, per Dezzani: «Non c’è una singola mossa del Carroccio, infatti, che si discosti dall’agenda che l’establishment atlantico ha in serbo per l’Italia: la Lega è decisiva per bloccare l’elezione di Giulio Andreotti al Quirinale, si schiera contro l’ipotesi di una presidenza del Consiglio affidata a Bettino Craxi, è favorevole ad un aggressivo piano di privatizzazioni».
    «Gli economisti di Bossi credono nella Thatcher», titola la “Repubblica”, riportando che la Lega vuole «privatizzare tutte le imprese di Stato, dall’Iri all’Eni, all’Efim. Senza risparmiare le banche pubbliche come Bnl, Comit, Credito italiano, San Paolo di Torino. Largo ai privati anche per le Ferrovie, l’Enel e le Poste». La Lega di Bossi, aggiunge Dezzani, è fautrice di un “liberismo spinto” contrapposto allo Stato-padrone, definito ovviamente come «parassitario, bizantino, romano-centrico, corrotto, ladrone». Non solo, il Carroccio «gioca di sponda con le “menti raffinatissime” che stanno attuando una spietata strategia di destabilizzazione per meglio saccheggiare i risparmi degli italiani e l’industria pubblica: mentre i servizi segreti “deviati” piazzano bombe in tutt’Italia e gli squali dell’alta finanza si accaniscono sui Btp, la Lega Nord getta altra benzina sul fuoco, incitando allo sciopero fiscale, sconsigliando di comprare i titoli di Stato, evocando la separazione del Sud mafioso dal resto dell’Italia, gridando all’imminente secessione della Padania».
    «Ma se la casa crolla, il Nord deve andarsene», è un sintomatico titolo della “Repubblica” del 31 dicembre 1992. Nell’articolo, il professor Miglio dipinge un futuro a tinte fosche per l’Italia. E pronostica un imminente, drammatico peggioramento della situazione economica, anticamera della secessione della Repubblica del Nord: «Se si arrivasse a non riuscire a controllare più niente, se non si riuscisse più ad avere i servizi, se la sicurezza e le garanzie crollassero, è evidente che ciascuno penserebbe a se stesso. Probabilmente anche il Sud se ne andrebbe per conto suo». Bingo: per Dezzani, «le parole dell’ideologo del Carroccio sono musica per chi, a Washington e Londra, lavora per tenere l’Italia in costante fibrillazione». Poco dopo, nel 1993, l’inchiesta di Mani Pulite ha sortito gli effetti sperati: Dc e Psi, che l’analista definisce «i vincitori morali della Guerra Fredda», sono stati spazzati via dal pool di Milano. «L’unico grande partito risparmiato dalle inchieste giudiziarie è stato il Pci, riverniciato ora come Pds, cui gli angloamericani contano di affidare il governo facendo affidamento sulla sua ricattabilità», dato che «nella Russia allo sfascio si comprano gli archivi del Kgb a prezzo di saldo».
    Se dalle successive elezioni uscisse un Nord saldamente in mano al Carroccio e un Centro-Sud in mano alla sinistra, «si concretizzerebbe lo scenario di una secessione “de facto” della Padania dal resto dell’Italia». Per la Lega Nord non che resta, a questo punto, che «ricevere la benedizione “ufficiale” da parte dell’establishment atlantico, dopo lunghi rapporti reconditi ed opachi». Così, il 18 ottobre 1993 una delegazione del Carroccio si reca in visita al quartier generale della Nato a Bruxelles. E il 23 ottobre è la volta degli Stati Uniti: una prima tappa a New York, per incontrare il milieu dell’alta finanza e di Wall Street, e una seconda tappa a Washington, dove sono in programma pranzi di lavoro con deputati e senatori repubblicani ed esponenti della National Italian American Foundation. Ma ecco che accade qualcosa di inatteso: «La “discesa in campo” di Silvio Berlusconi, annunciata nell’autunno del 1993, è un evento non previsto dall’establishment atlantico», che secondo Dezzani puntava sulla bipartizione Lega (Nord) e sinistra (Centro-Sud). In più, il Cavaliere vince: «La neonata Forza Italia si impone alle elezioni politiche del 27-28 marzo 1994, drenando buona parte dei voti in uscita dal Psi e dalla Dc e imponendosi come primo partito del Nord Italia».
    La Lega, ferma all’8% delle preferenze su scala nazionale, dimostra ancora di non avere una forza sufficiente per strappare la secessione della Padania e attuare gli ambiziosi cambiamenti costituzionali sognati da Gianfranco Miglio. Forte di 122 deputati e 59 senatori, il Carroccio dispone però di un manipolo di parlamentari sufficienti per staccare la spina al primo governo Berlusconi, di cui è entrata a far parte nella cornice del Popolo della Libertà. Per Dezzani, riemerge quindi la vera natura della Lega Nord «come strumento politico nelle mani di Londra e Washington». E quando Berlusconi, durante la conferenza mondiale dell’Onu contro la criminalità organizzata, riceve un invito a comparire dal pool di Milano, Umberto Bossi «completa l’operazione per disarcionare il Cavaliere, togliendogli la fiducia e avvallando il “ribaltone” che insedia l’ex-Bankitalia Lamberto Dini a Palazzo Chigi». Si marcia così rapidamente verso nuove elezioni, e «ancora una volta il Carroccio agisce in perfetta sintonia con l’establishment atlantico: scegliendo di correre da solo e di non rinnovare l’alleanza col Popolo della Libertà, spiana la strada ai governi di Romano Prodi e Massimo D’Alema: seguirà “il contributo straordinario per l’Europa”, la scandalosa privatizzazione della Telecom, “la marchant bank” di Palazzo Chigi, la liquidazione finale dell’Iri, il vergognoso cambio di 2.000 lire per ogni nuovo euro, l’avvallo alle operazioni militari della Nato contro la Serbia».
    E così, mentre «quel che rimane dell’economia mista è smantellato a prezzi di saldo e i risparmi degli italiani sono immolati sull’altare della moneta unica», Umberto Bossi continua a blaterare di secessione, di camice verdi, di milizie armate del Nord, di rivolta fiscale. Dezzani lo definisce «utile idiota manovrato dall’oligarchia atlantica». La Lega tornerà al governo solo dopo le elezioni del 2001, quando i giochi “europei” saranno ormai fatti. Morale: «Le vicende della Lega Nord, di Gianfranco Miglio e di Umberto Bossi sono legate a doppio filo alla nascita Seconda Repubblica, alla perdita di qualsiasi sovranità nazionale e all’avvento della moneta unica». Secondo Dezzani, il Senatùr ne è perfettamente cosciente. Intervistato recentemente dal “Corriere della Sera”, dichiara: «Se venisse giù l’euro, verrebbe giù tutto, una situazione che nessuno saprebbe gestire. Tra l’altro, pagheremmo di più le materie prime, cosa che per un paese di trasformazione come l’Italia sarebbe un disastro. Berlusconi parla di doppia moneta, il che è una presa per il culo. Ma non è che Berlusconi non sia in grado di capire le cose». Per Dezzani, «sono le ultime battute dell’ennesima “stampella del potere”», sia pure in camicia verde.

    Ogni fase politica della Repubblica italiana è stata scandita da un partito “di protesta”, funzionale agli interessi dell’establishment atlantico: si comincia con L’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini per terminare col Movimento 5 Stelle di Gianroberto Casaleggio, passando per il Partito Radicale di Marco Pannella e la Lega Nord di Umberto Bossi. Fino alla recente svolta nazionalista, filorussa e anti-euro, il Carroccio è infatti stato uno dei tanti prodotti di Washington e Londra, schierato su posizioni “thatcheriane” ed europeiste. E’ la tesi di Federico Dezzani, analista geopolitico, impegnato in una ricostruzione “non convenzionale” della storia recente del nostro paese. Nei primi anni ‘90, ricorda, la Lega Nord avrebbe dovuto essere lo strumento per attuare un ambizioso disegno geopolitico: la frantumazione dello Stato unitario e la nascita di una confederazione di tre “macroregioni”, così da cancellare l’Italia come attore del Mar Mediterraneo. Questo, secondo Dezzani, il vero ruolo della Lega Nord durante Tangentopoli, a cominciare dalla figura, allora determinante, del suo ideologo, il professor Gianfranco Miglio.

  • De Benedetti: entro 5 anni l’Unione Europea sarà morta

    Scritto il 16/3/17 • nella Categoria: segnalazioni • (61)

    Per farsi un’idea dell’incertezza che aleggia sul destino dell’Unione Europea, basta leggere il “libro bianco” di Jean-Claude Juncker riguardo il futuro dell’Europa. Mercoledì questo documento del presidente della Commissione Europea è stato reso pubblico, e conteneva addirittura cinque possibili scenari per l’evoluzione dell’Ue da qui al 2025: “tirare avanti”, “nient’altro che il mercato unico”, “quelli che vogliono fare di più fanno di più”, “fare meno in maniera più efficiente” e “fare molto di più insieme”. La vaghezza e genericità del “libro bianco” è comprensibile. Mentre si avvicinano le elezioni in Olanda, Bulgaria, Francia, Germania e in Repubblica Ceca, non c’è praticamente nessun governo che abbia voglia di seguire le ambiziose iniziative di Juncker. Tuttavia, i governi si rendono conto che l’Europa sta creando rischi al mondo intero in una maniera che non si era più verificata dalla fine della guerra fredda negli anni 1989-91. Gli strateghi di politica estera a Berlino, Parigi e nelle altre capitali stanno rivedendo le loro posizioni a lungo condivise sull’inevitabilità dell’integrazione europea e la stabilità dell’alleanza Europa-Usa nell’ambito della sicurezza.
    L’Europa “a più velocità”, che incoraggia alcuni paesi a integrarsi più velocemente di altri, è tornata di moda. Questa idea, attraente in special modo per alcune parti dell’Europa occidentale, ha ricevuto sostegno da Jean-Marc Ayrault e Sigmar Gabriel, i ministri degli esteri di Francia e Germania. Un’altra idea è di aumentare la collaborazione nella difesa, in modo che in questo campo l’Ue diventi per gli Stati Uniti un partner più credibile. Al di là di queste proposte relativamente prudenti, alcuni responsabili politici e analisti indipendenti stanno pensando l’impensabile. Un esempio è il report di MacroGeo, una società di consulenza presieduta da Carlo De Benedetti, un veterano della comunità imprenditoriale italiana. Il report “L’Europa al tempo di Trump e della Brexit: disintegrazione e riorganizzazione”, arriva a conclusioni coraggiose. Afferma che l’Ue nella sua forma attuale con ogni probabilità va incontro alla decomposizione, anche se dovessero vincere le elezioni di quest’anno politici pro-integrazione come Emmanuel Macron, il centrista indipendente francese, e Martin Schulz, il socialdemocratico tedesco.
    «Per il ciclo elettorale 2021-22, l’Ue potrebbe entrare negli ultimi cinque anni della sua ‘reale’ esistenza», dice il report, che considera che le strutture legali formali dell’Unione con sede a Bruxelles potrebbero resistere più a lungo. Il report sostiene che, al di là di shock quali il voto britannico per l’uscita dall’Ue, i trend geopolitici di lungo termine stanno portando l’unione valutaria all’atrofia. Ai confini orientali e meridionali dell’Unione si affacciano molti problemi: l’immigrazione clandestina, Stati prossimi al fallimento, terrorismo, cambiamenti climatici e revisionismo russo. Nel frattempo, gli Stati Uniti si stanno lentamente disimpegnando dall’Europa per focalizzarsi sulla Cina e l’estremo oriente. La Germania non occuperà il posto degli Stati Uniti come potenza egemone di riferimento per l’Europa: non lascerà mai che l’eurozona diventi una “unione di trasferimenti fiscali” e, nonostante le speculazioni riguardo a un deterrente nucleare tedesco, il suo passato nel ventesimo secolo dice chiaramente che né la Germania né i suoi vicini vogliono che essa diventi la potenza militare dominante dell’Europa.
    La disintegrazione dell’Ue scatenerebbe «i pericolosi demoni nazionalistici del passato europeo», come teme Guy Verhofstadt, ex primo ministro belga? Gli autori del report di MacroGeo prevedono che non si avrà un’anarchica competizione tra gli Stati-nazione, bensì «l’affermazione di un nucleo centrale geoeconomico intorno alla Germania». Questo sarebbe formato dalla Germania e dai paesi che ne costituiscono la filiera industriale, cui si addice la cultura fiscale e monetaria tedesca. In maniera disarmante, gli autori suggeriscono che, «se l’Italia dovesse dividersi», l’Italia del Nord potrebbe unirsi al gruppo formato da Olanda, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e alcuni paesi scandinavi. Questa evoluzione presuppone la disgregazione dell’Eurozona a 19 paesi. I ministri delle finanze e i banchieri centrali europei ci ripetono che questo passo sarebbe devastante per le economie europee e per la stabilità finanziaria globale.
    Tuttavia, questa prospettiva è in discussione, e non solo nei circoli del partito di estrema destra francese, il Front National, o nel partito anti-estabilishment italiano M5S. Mediobanca, una banca d’investimenti che una volta era l’emblema del capitalismo del nord Italia, a gennaio ha pubblicato un rapporto controverso in cui suggeriva che, in termini di debito pubblico, l’Italia non soffrirebbe particolarmente lasciando l’Eurozona. Il mese scorso il Parlamento olandese ha votato per l’istituzione di una commissione d’inchiesta sui pro e contro dell’appartenenza olandese all’Eurozona, una mossa che riflette la frustrazione nei confronti della politica di tassi ultra-bassi e del programma Qe della Banca Centrale Europea. Nel valutare il futuro dell’Europa, questi sviluppi vanno presi attentamente in considerazione – forse più attentamente del “libro bianco” di Juncker.
    (Tony Barber, “L’Europa inizia a pensare l’impensabile, smantellare l’Eurozona”, dal “Financial Times” del 3 marzo 2017, articolo tradotto e ripreso da “Voci dall’Estero”).

    Per farsi un’idea dell’incertezza che aleggia sul destino dell’Unione Europea, basta leggere il “libro bianco” di Jean-Claude Juncker riguardo il futuro dell’Europa. Mercoledì questo documento del presidente della Commissione Europea è stato reso pubblico, e conteneva addirittura cinque possibili scenari per l’evoluzione dell’Ue da qui al 2025: “tirare avanti”, “nient’altro che il mercato unico”, “quelli che vogliono fare di più fanno di più”, “fare meno in maniera più efficiente” e “fare molto di più insieme”. La vaghezza e genericità del “libro bianco” è comprensibile. Mentre si avvicinano le elezioni in Olanda, Bulgaria, Francia, Germania e in Repubblica Ceca, non c’è praticamente nessun governo che abbia voglia di seguire le ambiziose iniziative di Juncker. Tuttavia, i governi si rendono conto che l’Europa sta creando rischi al mondo intero in una maniera che non si era più verificata dalla fine della guerra fredda negli anni 1989-91. Gli strateghi di politica estera a Berlino, Parigi e nelle altre capitali stanno rivedendo le loro posizioni a lungo condivise sull’inevitabilità dell’integrazione europea e la stabilità dell’alleanza Europa-Usa nell’ambito della sicurezza.

  • Wall Street promuove Le Pen. Sondaggi: vincerà al 1° turno

    Scritto il 11/3/17 • nella Categoria: segnalazioni • (4)

    Marine Le Pen sembra ormai a un passo dall’Eliseo: secondo l’ultimo sondaggio Elabe, realizzato per la televisione francese “Bfm”, la leader del Front National potrebbe battere già al primo turno i suoi avversari, François Fillon ed Emmanuel Macron. «Ma, più che i sondaggi, a essere determinante nella partita delle presidenziali francesi è l’appoggio della finanza internazionale», scrive “Diario del Web”: «Ora a scommettere sulla vittoria di Marine Le Pen sono nientepopodimenoché le grandi banche d’affari», le prime a “fiutare il vento” del cambiamento che potrebbe scuotere l’Unione Europea dalle fondamenta. Non molto tempo fa, aggiunge il newsmagazine, tutte le banche francesi, marciando unite e compatte «si erano rifiutate energicamente di concedere prestiti al Front National, snobbando con la puzza sotto il naso l’invisa europarlamentare». E i media mainstream, a ruota, se la ridevano: «In mancanza di meglio – scrivevano – Marine ha dovuto farsi prestare 6 milioni di euro dalla “banca” di suo papà», Jean-Marie Le Pen, fondatore del Fn, che trent’anni fa, nel 1988, mise in piedi la Cotolec (che sta per “Cotisation Electorale”), una struttura finanziaria che raccoglie donazioni e presta il suo denaro al 5% di interesse.
    La Cotolec, spiega “Diario del Web”, funziona come una piccola banca. Ed è il presidente in persona, papà Jean-Marie, a tenere i cordoni della borsa, scegliendo come impiegare il denaro della sua cassaforte. «Nulla di strano, dunque, che con i denari a disposizione abbia scelto di contribuire alla causa del suo partito e di sua figlia», anche se proprio da quest’ultima era stato espulso mesi or sono dal Front National per le sue intemperanze xenofobe e antisemite. Ora però tutto sta cambiando: i sondaggi iniziano a credere in Marine Le Pen come prossima inquilina dell’Eliseo. E così, la grande finanza già corre in soccorso della (possibile) vincitrice: «La grande novità che probabilmente muterà le sorti delle presidenziali francesi, infatti, riguarda l’incontro tra gli emissari di BlackRock, Ubs e Barclays e il team degli esperti economici del Front National che avrebbe avuto luogo proprio nei giorni scorsi», scrive il blog. Le grandi banche d’affari hanno allungato le loro antenne verso Marine per capire «le strategie d’investimento» del Fn in caso di vittoria. I nomi dei protagonisti non sono trapelati, ma “Bloomberg” riferisce che i banchieri sono rimasti «sorpresi dalla competenza del personale economico del Front National».
    Si tratterebbe di persone che «capiscono i mercati, anche se da essi sono ideologicamente molto lontani». Non solo. Il giudizio di BlackRock, Ubs e Barclays alla fine sembra essere stato più che positivo nei confronti del team della Le Pen: «La macchina politica del partito è molto più sofisticata di quanto pensassimo. Le vedute del Fn sull’euro, anche se radicali, possono essere il riflesso della realtà, la direzione in cui l’euro deve sviluppare», riporta “Bloomberg”. A questo punto, forse, la “Frexit” è davvero più vicina, «soprattutto se la finanza internazionale e i mercati iniziano a credere seriamente che Marine Le Pen possa imporsi alle presidenziali su candidati filo-europeisti come Macron e Fillon». Dentro e fuori la Francia, aggiunge “Diario del Web”, la leader del Front National sta incrementando la sua credibilità raccogliendo voti e consenso, in particolar modo dal bacino della classe lavoratrice, rimasta orfana in tutto il continente europeo di benessere economico e sociale. Il programma elettorale di Marine, sulla carta, è rivoluzionario: fuori dall’euro, da Schengen e pure dalla Nato. In nome dell’amor di patria, e brandendo una frase di Victor Hugo: “Non abbiamo ancora finito di essere francesi”.

    Marine Le Pen sembra ormai a un passo dall’Eliseo: secondo l’ultimo sondaggio Elabe, realizzato per la televisione francese “Bfm”, la leader del Front National potrebbe battere già al primo turno i suoi avversari, François Fillon ed Emmanuel Macron. «Ma, più che i sondaggi, a essere determinante nella partita delle presidenziali francesi è l’appoggio della finanza internazionale», scrive “Diario del Web”: «Ora a scommettere sulla vittoria di Marine Le Pen sono nientepopodimenoché le grandi banche d’affari», le prime a “fiutare il vento” del cambiamento che potrebbe scuotere l’Unione Europea dalle fondamenta. Non molto tempo fa, aggiunge il newsmagazine, tutte le banche francesi, marciando unite e compatte «si erano rifiutate energicamente di concedere prestiti al Front National, snobbando con la puzza sotto il naso l’invisa europarlamentare». E i media mainstream, a ruota, se la ridevano: «In mancanza di meglio – scrivevano – Marine ha dovuto farsi prestare 6 milioni di euro dalla “banca” di suo papà», Jean-Marie Le Pen, fondatore del Fn, che trent’anni fa, nel 1988, mise in piedi la Cotolec (che sta per “Cotisation Electorale”), una struttura finanziaria che raccoglie donazioni e presta il suo denaro al 5% di interesse.

  • Le Pen vince o perde? Da noi è uguale, va male a Pd e M5S

    Scritto il 09/3/17 • nella Categoria: segnalazioni • (6)

    Cattive notizie, per i maggiori partiti italiani – 5 Stelle e Pd – sia in caso di vittoria di Marine Le Pen, sia in caso di sconfitta della “signora” del Front National. E’ il politologo Aldo Giannuli a provare a valutare i riflessi, sul nostro paese, dell’evento europeo più atteso (e temuto), le presidenziali francesi, tra poco più di due mesi. «La prima conseguenza sarà di carattere generale e riguarderà l’Europa: se a vincere sarà la Le Pen, non c’è dubbio che salterà tutto in aria, euro, Ue e compagnia cantante». Se invece dovesse affermarsi Fillon, o più probabilmente Macron, «questo non risolverà la crisi della Ue, ma, al massimo, gli darà un po’ di fiato per qualche tempo, soprattutto se la Le Pen dovesse superare il 45%». Quanto all’Italia, in caso di vittoria della Le Pen, «ovviamente il maggior beneficiario sarebbe Salvini, che potrebbe aspirare alla leadership della destra e ad un risultato con almeno il 2 davanti per il suo partito, soprattutto se Toti e i suoi amici dovessero staccarsi da Fi». Tramonterebbe la stella del Cavaliere, che dovrebbe «rassegnarsi alla marginalità o ad accettare la leadership di Salvini», e si aprirebbe uno «scenario da incubo per il Pd», che dovrebbe «fronteggiare una marea anti-euro».
    Il Pd, continua Giannuli nella sua analisi, in caso di boom No-Euro «non avrebbe neppure un possibile alleato di governo (Fi)», e sarebbe «costretto a schiacciarsi contro la sua sinistra e cercare qualche intesa con il M5S». Se il segretario fosse ancora Renzi, «il suo declino acclererebbe e la crisi del Pd si approfondirebbe, con rischio di nuove scissioni». Ma lo scenario sarebbe «non bello» anche per il Movimento 5 Stelle, «che scoprirebbe che la Lega non è un possibile alleato, ma un temibile concorrente che inizierebbe a insidiare il suo elettorato». Per il Mdp – gli scissionisti bersaniani – potrebbero aprirsi spazi nel caso di crisi del Pd, «ma potrebbero ridursi se questo portasse ad una nuova segreteria più di “sinistra”» del Partito Democratico, «che potrebbe portare al rientro di almeno una parte del partito appena nato». Di riflesso, in questo caso, “Sinistra Italiana” «potrebbe giovarsi del rapido declino di Mdp». Morale: se Marine Le Pen conquista l’Eliseo, in Italia «fine della legislatura già dal giorno dei risultati, e nuove elezioni entro sei mesi».
    E lo scenario che vede la Le Pen sconfitta? «Ovviamente, il maggiore danneggiato sarebbe Salvini, che forse pagherebbe il prezzo di una scissione di Bossi e vedrebbe archiviato il suo sogno di diventare il leader di tutta la destra». Per contro, «questo segnerebbe il rilancio del Cavaliere, che potrebbe tornare ad essere il punto di attrazione della destra», e non solo per i leghisti e “Fratelli d’Italia”, «ma anche per la residua area di centro (Alfano, Casini, Verdini e frattaglie varie, da Tosi a Marchini a Fitto e ai resti dell’ex area Giannino)», e questo, secondo Giannuli, potrebbe riportare Forza Italia oltre il 20% e l’area di centrodestra «verso un pericoloso 34-35%». Per il Pd «sarebbe una (amarissima) mezza vittoria, perché gli darebbe l’alleato con cui fare un governo di “unione nazionale” o giù di lì, ma potrebbe farlo diventare terzo schiacciato fra la nuova destra ed il M5S: brutto affare, che riproporrebbe la crisi interna». I 5 Stelle potrebbero «uscirne bene, evitando la concorrenza della Lega», che però, in uno scenario del genere, «difficilmente potrebbe appoggiare dall’esterno un governo Di Maio, ammesso che i voti possano bastare». Ma, se (come sembra probabile) il partito di Grillo non dovesse raggiungere il 40%, «si troverebbe a fare i conti con la delusione della sua base». Risultato: «Probabile governo Fi-Pd e durata un po’ più lunga della legislatura, diciamo 2 anni».

    Cattive notizie, per i maggiori partiti italiani – 5 Stelle e Pd – sia in caso di vittoria di Marine Le Pen, sia in caso di sconfitta della “signora” del Front National. E’ il politologo Aldo Giannuli a provare a valutare i riflessi, sul nostro paese, dell’evento europeo più atteso (e temuto), le presidenziali francesi, tra poco più di due mesi. «La prima conseguenza sarà di carattere generale e riguarderà l’Europa: se a vincere sarà la Le Pen, non c’è dubbio che salterà tutto in aria, euro, Ue e compagnia cantante». Se invece dovesse affermarsi Fillon, o più probabilmente Macron, «questo non risolverà la crisi della Ue, ma, al massimo, gli darà un po’ di fiato per qualche tempo, soprattutto se la Le Pen dovesse superare il 45%». Quanto all’Italia, in caso di vittoria della Le Pen, «ovviamente il maggior beneficiario sarebbe Salvini, che potrebbe aspirare alla leadership della destra e ad un risultato con almeno il 2 davanti per il suo partito, soprattutto se Toti e i suoi amici dovessero staccarsi da Fi». Tramonterebbe la stella del Cavaliere, che dovrebbe «rassegnarsi alla marginalità o ad accettare la leadership di Salvini», e si aprirebbe uno «scenario da incubo per il Pd», che dovrebbe «fronteggiare una marea anti-euro».

  • Bonnal: caos e paura, perché il sistema tifa Marine Le Pen

    Scritto il 07/3/17 • nella Categoria: idee • (25)

    La rapidità della sottomissione di Trump al sistema è stata ammirevole, come la sottomissione di Syriza in Grecia o la rapidità dell’annullamento della Brexit. Come direbbe Céline, la resistenza populista non chiede altro che far sloggiare qualcuno – o cliccare furiosamente sul proprio mouse». Per lo scrittore francese Nicolas Bonnal, autore fra l’altro di un saggio sul “lato oscuro” di Mitterrand, definito “esoterista e grande iniziato”, siamo alla vigilia di una possibile, spettacolare operazione: l’elezione di Marine Le Pen all’Eliseo. Non “contro” il sistema, ma con la regia – dietro le quinte – dell’establishment, ben lieto di assistere, finalmente, al grande caos di un paese europeo nel panico: «La Francia avrebbe una sua rivoluzione arancione per strada», inoltre «si ribellerebbe alla funzione pubblica» e naturalmente «avrebbe una fuga di capitali», con «i borghesi disperati per il crollo dei prezzi degli appartamenti parigini e dei castelli antichi». Secondo Bonnal, il paese «si farebbe bloccare dalla Nato anche più velocemente della Serbia». E, quanto alla strategia della tensione, «la Francia subirebbe gli attentati più rapidi della sua storia». Attenzione: «Per tutte queste ragioni, il sistema vuole Marine».
    In un post su “Defensa”, tradotto da “Come Don Chisciotte”, Bonnal spiega che quello in vista alle elezioni francesi è uno schema classico, ben delinato addirittura da Aristotele, nella “Politica”, quando il grande filosofo scriveva: «Nella democrazia, le rivoluzioni nascono prima di tutto dalla turbolenza dei demagoghi. Per quel che riguarda gli individui, costringono con le loro continue denunce gli stessi ricchi a riunirsi per cospirare; poiché la comunanza di paure avvicina le persone più ostili». E il più grande filosofo dell’antichità puntualizza freddamente, come se avesse previsto la fine del nefasto film: «Per le loro ingiustizie, i demagoghi e i loro complici hanno costretto i cittadini potenti a lasciare la città; ma gli esuli si sono riuniti, e, rivoltandosi contro il popolo, lo spoglieranno del loro potere». Tra i candidati, quello del Front National è «il peggiore, per l’oligarchia mondiale». Ma, proprio per questo, potrebbe diventare “il migliore”, il più utile – a piegare il popolo con le cattive, dopo aver fatto deragliare il lepenismo. «Il carattere pseudo-rivoluzionario della Francia (vedi la presa della Bastiglia) qui sarà usato in pieno: sottomettiamo la Francia e il resto seguirà presto».
    Per questo, Nicolas Bonnal insiste: «Il sistema ha interesse a far eleggere Marine Le Pen. Il “Bataclan”, se verrà eletta, sarà tale che lei si sottometterà ancora più velocemente del suo modello Trump. Il sistema – continua Bonnal – potrà allora imporre più velocemente la propria agenda terrorista e totalitaria: guerra contro la Russia ribelle, invasione del Sud, abolizione del denaro contante, controllo biometrico, divieto dell’oro, censura della rete». Secondo lo scrittore, «il caos dell’elezione del Fn sarà tale che lo tsunami (che, come si sa, è un metodo di controllo a freddo, come gli attentati, l’effetto serra, i rifugiati) sarà imparabile». Quindi, ragiona Bonnal, «il sistema farà eleggere Marine, la quale ha già dato delle garanzie licenziando suo padre». Questo sarebbe l’obiettivo dell’establishment: «Far scoppiare l’ascesso populista una volta per tutte». Nel suo libro su Trump, pubblicato prima della sua elezione (“Donald Trump, le candidat du chaos”), Bonnal annunciava già la piega che avrebbe preso: «Tutto ci sembra esagerato, falso, quasi squallido. I suoi affari, la sua stessa fortuna sembra gonfiata. Le sue proposte sono nulle, scadenti o neppure degne di nota. Qualche frase interessante e coraggiosa è subito contraddetta. La sua politica è inapplicabile ed è meglio così. Suscita inoltre una tale ostilità all’estero e nei luoghi importanti (televisioni, economia) che rischia di essere rovinato anche prima dell’elezione».
    Scriveva Bonnal: «Sembra che l’affaire Trump serva come operazione psicologica a livello mondiale». Motivo: «Il sistema ha paura delle folle, e ha bisogno di fare un esempio – mostrando il male». E quindi: «L’accusa di razzismo, di nazismo, di fascismo, di machismo da parte dei media, l’eccesso o il cosiddetto eccesso di Trump, porteranno i loro frutti». Al che, «tutto il piccolo mondo del piccolo bianco frustrato rientrerà nella sua nicchia, come in Francia: sarà “agitato” un’ultima volta prima di “asservirsi” per niente». Bonnal, nel libro, cita il film “Network”, del 1976, sugli anni difficili Nixon-Ford, «più difficili del 2017, poiché c’era un residuo di marxismo e i militanti erano ancora disposti a sacrificarsi per imporlo – oggi invece cliccano!». Scriveva: «Il presentatore televisivo Howard Beale invita i telespettatori a ribellarsi e urlare dalla finestra – cosa che anche lui si affretta a fare. Poi, per far piacere al suo capo, che parla di marchi, di dollari, di rubli, di sicli, di mercato, di capitale, di cifre, di sistema olistico, di natura (il capitale la adora), d’investimenti, della fine dei popoli, di denaro, di “movimenti autonomi dei non-viventi”, predica un vangelo della rassegnazione – e alla fine si fa ammazzare per l’abbassamento dell’indice di ascolto». Quel film «segna il passaggio dalla ribellione alla sottomissione».
    «Può anche essere che Trump serva anche come esorcismo finale per calmare il risentimento generale americano e organizzare con più calma la bancarotta del paese che è già cominciata, anche se viene descritta raramente», scriveva Bonnal nel suo libro su Trump. «Il fascismo e la militarizzazione degli Stati Uniti descritte da Paul Craig Roberts serviranno a prevenire o schiacciare completamente tutte le ribellioni, da qualunque parte provengano. Sembra proprio che anche in Francia si stia prendendo la stessa strada». Oggi, lo scrittore conferma: «Sì, far montare il pericolo Fronte Nazionale e anche far eleggere Marine è la cosa migliore che possa succedere al sistema. La finanza e il mercato immobiliare crollati in tempi brevi serviranno ai malvagi. Sappiamo dove conduce l’ottimismo dell’antisistema (Cuba? Caracas?)». Bonnal, citando Aristotele, la definisce una tattica, «una semplice operazione di compattazione», che non mai è cambiata in migliaia di anni. Il popolo ne ha abbastanza dell’élite? Giusto. Solo che le élite «lasciano che un populista arrivi al potere, poi lo liquidano – a meno che non lo assecondino, come nel caso ben noto del caporale boemo». E conclude: «Ridiamo, siamo in buona compagnia».

    La rapidità della sottomissione di Trump al sistema è stata ammirevole, come la sottomissione di Syriza in Grecia o la rapidità dell’annullamento della Brexit. Come direbbe Céline, la resistenza populista non chiede altro che far sloggiare qualcuno – o cliccare furiosamente sul proprio mouse». Per lo scrittore francese Nicolas Bonnal, autore fra l’altro di un saggio sul “lato oscuro” di Mitterrand, definito “esoterista e grande iniziato”, siamo alla vigilia di una possibile, spettacolare operazione: l’elezione di Marine Le Pen all’Eliseo. Non “contro” il sistema, ma con la regia – dietro le quinte – dell’establishment, ben lieto di assistere, finalmente, al grande caos di un paese europeo nel panico: «La Francia avrebbe una sua rivoluzione arancione per strada», inoltre «si ribellerebbe alla funzione pubblica» e naturalmente «avrebbe una fuga di capitali», con «i borghesi disperati per il crollo dei prezzi degli appartamenti parigini e dei castelli antichi». Secondo Bonnal, il paese «si farebbe bloccare dalla Nato anche più velocemente della Serbia». E, quanto alla strategia della tensione, «la Francia subirebbe gli attentati più rapidi della sua storia». Attenzione: «Per tutte queste ragioni, il sistema vuole Marine».

  • Se l’Italia cambia padrone, qualcuno la sta “sovragestendo”

    Scritto il 04/3/17 • nella Categoria: segnalazioni • (45)

    «Matteo Renzi è un politico finito. Ha deluso tutti, non ha mai rispettato la parola data: a Bersani, Letta, Berlusconi». Ora ha anche tradito l’impegno preso con gli italiani, a cui aveva promesso di sparire dalla circolazione in caso di sconfitta al referendum. Che il “rottamatore” fosse al capolinea lo diceva, prima ancora del 4 dicembre, l’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che illumina oscuri retroscena del potere italiano, «sovragestito dalla P1», struttura-ombra (mai denunciata da nessun altro) che sarebbe il vero “dominus” delle trame di palazzo, attraverso personaggi come il politologo americano Michael Ledeen, che Carpeoro presenta come esponente di vertice della super-massoneria reazionaria, anche affiliato al B’nai B’rith, cellula massonica super-segreta controllata dal Mossad. Per Carpeoro, Ledeen avrebbe “gestito” «prima Craxi e poi Di Pietro, quindi Renzi e contemporaneamente il grillino Di Maio». La tesi dell’avvocato: «Non sono le persone a fare progetti di potere, è il potere a fare progetti sulle persone».
    Cambiano i musicisi, non la musica. Renzi? «Pur dicendosi “di sinistra” ha bussato per anni, inutilmente, alle porte della super-massoneria conservatrice», afferma Gioele Magaldi, autore del libro “Massoni, società a responsabilità illimitata”. Non gli è stato aperto: «Persino Napolitano si è rifiutato di fargli da garante». Ora, sembra arrivato l’avviso di sfratto: per via giudiziaria, tanto per cambiare. «Via Renzi, è già pronto Di Maio», diceva Carpeoro, mesi fa. Alla luce degli ultimi sviluppi, in effetti, suona meno “strano” l’improvviso voltafaccia di Grillo al Parlamento Europeo, con il rocambolesco abbandono di Farage dopo la vittoria sulla Brexit per tentare di approdare al gruppo centrista pro-euro, in cui milita Mario Monti. Come se il capo dei 5 Stelle avesse voluto inviare un segnale chiarissimo di “affidabilità”, rispetto al vero potere che gestisce l’Europa, l’economia, la finanza. Altro dettaglio, fondamentale: nel “MoVimento”, chi dissente è perduto: condannato alla pubblica esecrazione, e persino – se cambia casacca – invitato a pagare una penale.
    Impossibile coltivare idee diverse da quelle del Capo: è dunque un esercito di terracotta, quello che domani – tramontato Gentiloni – potrebbe prendere in mano il governo del paese? Tiene ancora banco il refrain dell’“uno vale uno”, ma – beninteso – ammesso che sia allineato con l’unico, vero Numero Uno. In libri come “Il golpe inglese”, scritto con Mario Josè Cereghino, il giornalista Mario Fasanella sostiene che l’Italia sia sempre stata “sovragestita” da poteri esterni, stranieri, economici e finanziari. Lo stesso Jobs Act, rivela Paolo Barnard, è stato scritto – due anni prima dell’adozione, da parte di Renzi – dalla potentissima “Business Europe”, think-tank che “detta le leggi” alla Commissione Europea. L’Italia politica è nel caos: il Pd si spappola, Renzi è sotto attacco (il padre indagato, nell’inchiesta che sta coinvolgendo il ministro Lotti e altri renziani) e i 5 Stelle che serrano i ranghi, dichirando guerra al dissenso interno: come se si stesse avvicinando una grande burrasca (le elezioni francesi, la Le Pen, l’euro che vacilla insieme all’Ue). Serviranno “soldati”, addestrati a obbedire? E nel caso, a chi? Chi sta “sovragestendo”, oggi, la palude italiana?
    «Renzi finirà asfaltato dai No, e il suo successore lo stabilirà il Vaticano», disse, mesi prima del referendum, il “profeta” Rino Formica, già ministro socialista nella Prima Repubblica. Bingo: Paolo Gentiloni è discendente della famiglia dei conti Gentiloni Silveri, “nobili di Filottrano, Cingoli e Macerata”, storicamente al servizio della Santa Sede. Dai media mainstream, sempre lontani anni luce dalle “fake news” (leggasi: notizie scomode) contro cui si sta abbattendo l’offensiva di Laura Boldrini (una legge speciale per imbavagliare il web, come se già non esistessero leggi a tutela dei cittadini diffamati), è impossibile ricavare analisi di scenario, oltre alla piccola agenda tattica di partiti e leader. Chi sta “sovragestendo” il paese, oggi, a parte il Vaticano che sicuramente “apprezza” Gentiloni? Carpeoro è pessimista: «Non emerge un piano-B che contesti l’attuale sistema, in base al quale, perché noi si stia meglio, qualcuno deve per forza stare peggio». Unico spiraglio: «La base elettorale dei 5 Stelle, animata da forti motivazioni etiche».
    Più ottimista invece Magaldi, che dopo aver segnalato (mai smentito da nessuno) la presenza di D’Alema, Napolitano, Monti e Padoan nella super-massoneria oligarchica, responsabile della globalizzazione antidemocratica, privatizzatrice e mercantilista, oggi scommette sul collasso del Pd, che «darebbe fiato a nuove istanze progressiste e democratiche finalmente autentiche», archiviata la “finta sinistra” che ha svenduto il paese ai potentati economici stranieri precipitando l’Italia in questa crisi senza fine. Troppo ottimista, Magaldi? Da più parti si fa notare il ritorno della “giustizia a orologeria” denunciata per anni da Berlusconi: l’inchiesta che lambisce Renzi coincide alla perfezione con il calendario della condanna in primo grado dell’alleato Verdini. Sembra un messaggio all’ex premier, mai accolto nel “salotto buono” in cui siedono molti altri italiani, da Mario Draghi a Emma Marcegaglia. Il caos cresce, e del Piano-B (restituire sovranità finanziaria a un governo finalmente eletto, autorizzato a investire denaro pubblico per produrre occupazione) non c’è neppure l’ombra.

    «Matteo Renzi è un politico finito. Ha deluso tutti, non ha mai rispettato la parola data: a Bersani, Letta, Berlusconi». Ora ha anche tradito l’impegno preso con gli italiani, a cui aveva promesso di sparire dalla circolazione in caso di sconfitta al referendum. Che il “rottamatore” fosse al capolinea lo diceva, prima ancora del 4 dicembre, l’avvocato Gianfranco Carpeoro, autore del saggio “Dalla massoneria al terrorismo”, che illumina oscuri retroscena del potere italiano, «sovragestito dalla P1», struttura-ombra (mai denunciata da nessun altro) che sarebbe il vero “dominus” delle trame di palazzo, attraverso personaggi come il politologo americano Michael Ledeen, che Carpeoro presenta come esponente di vertice della super-massoneria reazionaria, anche affiliato al B’nai B’rith, cellula massonica super-segreta controllata dal Mossad. Per Carpeoro, Ledeen avrebbe “gestito” «prima Craxi e poi Di Pietro, quindi Renzi e contemporaneamente il grillino Di Maio». La tesi dell’avvocato: «Non sono le persone a fare progetti di potere, è il potere a fare progetti sulle persone».

  • Rottamati la Merkel e Draghi, addio all’euro entro 18 mesi

    Scritto il 24/2/17 • nella Categoria: idee • (3)

    L’Europa due velocità? E’ la carta della disperazione prima del crollo dell’euro, moneta alla quale Ted Malloch, portavoce Usa in Ue, non concede più di 18 mesi di vita. La Merkel e Draghi? Sono gli ultimi due baluardi del vecchio establishment. E soccomberanno, stritolati da una tenaglia: da una parte Trump, dall’altra gli euroscettici alle urne nei prossimi mesi. Lo sostiene Federico Dezzani, osservando il fatale deteriorarsi del quadro generale in Europa: «Senza la morfina iniettata dalla Bce, i mercati finanziari sarebbero in preda a convulsioni peggiori del 2012». L’amministrazione Trump si sarebbe saldata con le forze populiste europee, il “Gruppo di Coblenza”. E anche se da Washington piovono duri attacchi contro la Germania e i suoi saldi commerciali record, «persino i nazionalisti tedeschi, i falchi della Cdu-Csu, viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda della Casa Bianca». Ormai, «solo due superstiti del vecchio establishment liberal, Angela Merkel e Mario Draghi, oppongono ancora resistenza al processo di euro-dissoluzione», ma «difficilmente riusciranno però a salvarsi».
    La situazione è critica: capitali congelati, denaro in fuga verso “l’area marco”, banche del Sud Europa in crisi, finanze pubbliche in evidente stress, agenzie di rating che declassano senza sosta i titoli di Stato. «Molti investitori scommettono ormai sull’implosione della moneta unica». Di qui la contromossa di Angela Merkel, «proconsole europeo dell’oligarchia finanziaria»: l’Europa a due velocità. Per la cancelliera sarebbe il colpo d’ala per uscire dal pantano in cui sta sprofondando l’euro. Due velocità, ovvero: «Un nocciolo di paesi che procede con l’integrazione fiscale e politica. Tesoro unico, bilancio comune, dissoluzione dei Parlamenti nazionali in un’entità sovranazionale: dopotutto l’euro, un banale regime a cambi fissi calato su un’area monetaria non ottimale, non è stato studiato proprio per questo obiettivo? Strappare i massonici Stati Uniti d’Europa con una lancinante crisi economica e finanziaria?». Abbiamo bisogno di più Europa, ripete la Merkel al “Financial Times”. L’unione monetaria non basta, dice la cancelliera: per uscire dalle sabbie mobili servono l’unione fiscale e politica: bisogna cedere ancora più sovranità all’Europa.
    «È musica per le orecchie del milieu finanziario-politico che ha scommesso tutto sulla federazione del continente: alla cancelliera federale, gongolano soddisfatti, siede una preziosa alleata che segue con cura il copione». Sono gli stessi, aggiunge Dezzani, che nel 2012 si affrettarono a firmare il “Manifesto per gli Stati Uniti d’Europa” promosso dal “Sole 24 Ore”: Romano Prodi, Antonio Tajani, George Osborne, Jacques Delors, Joschka Fischer. Era l’epoca del “whatever it takes” pronunciato da Mario Draghi per puntellare l’euro. Da allora, «i Btp hanno subito una raffica di declassamenti, le sofferenze bancarie in Italia sono esplose, la Grecia è stata a un passo dall’abbandonare l’euro, la presidenza Hollande è nata ed è morta, l’Eurozona è sprofondata nella deflazione, la Bce ha varato l’allentamento quantitativo attirandosi le ire di Berlino». E i “populismi” sono cresciuti, fino a conquistare percentuali maggioritarie dell’elettorato. «Parlare nuovamente di “Europa a due velocità”, corrobora la tesi di Karl Marx che la storia si ripeta sempre due volte: la prima in tragedia e la seconda in farsa», commenta Dezzani, secondo cui «ridicola è anche la reazione di quegli stessi personaggi che cinque anni anni fa firmarono il manifesto del “Sole 24 Ore”», che erano «terrorizzati dall’idea di essere risucchiati dal cesso della storia insieme alla moneta unica e ai palazzi di Bruxelles».
    Intervistato dalla “Repubblica”, Romano Prodi, per il quale «Trump e Le Pen sono i due volti dello stesso pericolo: non capisco come mai non si siano ancora sposati», ha così commentato “l’Europa a due velocità” proposta dalla Merkel: «E’ la risposta che aspettavo, anche se avrei preferito che nascesse da un più ampio dibattito politico. Finalmente la Germania sembra cominciare ad assumersi quel ruolo di leadership che non aveva mai voluto esercitare. Va bene così». Ma davvero, obietta Dezzani, qualcuno crede ancora che un manipolo di paesi volenterosi decida, nel 2017, dopo quasi sette anni di eurocrisi, di fondersi in una federazione? «Probabilmente non ci crede neppure Prodi, considerato che altri illustri tecnocrati illuminati hanno già gettato la spugna nel corso del 2016», come lo stesso: Juncker: «Basta parlare di Stati Uniti d’Europa, la gente non li vuole», L’Eurozona è oggi dilaniata dalle forze centrifughe. E se sui mercati regna un relativa calma è solo grazie alla morfina iniettata da Draghi, al ritmo di 80 miliardi al mese: «E’ un oppiaceo, che lenisce il dolore ma non risolve le cause della malattia». Considerato poi che il “quantitative easing” è stato prorogato per tutto il 2017, «è ormai evidente che la moneta unica non cadrà sotto i colpi degli assalti speculativi, ma sotto quelli della politica». Meglio ancora: «Cadrà vittima di una precisa strategia politica: una manovra a tenaglia, progettata dall’amministrazione Trump e dalle forze nazionaliste europee per liquidare i superstiti dell’establishment liberal e, con loro, l’Unione Europea e la moneta unica».
    Dezzani lo deduce osservando la nascita di «una tacita, ma ben visibile, alleanza delle forze “populiste” americane ed europee contro l’élite finanziaria mondialista: non sbaglia Romano Prodi quando definisce Trump e Le Pen come “due volti dello stesso pericolo”, perché rappresentano effettivamente una declinazione della stessa corrente politica, quella dei movimenti nazionali che insorgono contro l’oligarchia liberal e le sue istituzioni: le Nazioni Unite (vedi i tagli ai finanziamenti operati da Trump), le agenzie sovranazionali che predicano il cambiamento climatico, la Chiesa di Jorge Mario Bergoglio, i paladini dell’immigrazione indiscriminata, la Nato, l’Unione Europea e la sua colonna portante, la moneta unica». Il neo-presidente americano «non può certo presentare una formale dichiarazione di guerra alle istituzioni di Bruxelles», è ovvio, «ma tutte le azioni sinora intraprese vanno il quel senso: il duro attacco sferrato dall’amministrazione Trump contro la Germania, accusata di macinare esportazioni record ai danni degli altri membri dell’Eurozona e degli Usa stessi, sfruttando l’euro debole, equivale a mettere nel mirino le due figure chiave dell’impalcatura europea», Angela Merkel e il governatore della Bce, «senza le quali l’euro si sarebbe già dissolto da almeno due anni».
    La Merkel è stata «la garante politica dell’integrità dell’Eurozona, respingendo a suo tempo l’ipotesi di una Grexit caldeggiata dai falchi tedeschi», mentre Draghi «ha “sedato” l’eurocrisi iniettando massicce dosi di liquidità e svalutando l’euro, attraverso quell’allentamento quantitativo osteggiato sempre dai falchi tedeschi». Aggiunge Dezzani: «Si noti come i “duri” tedeschi, capeggiati da Wolfgang Schaeuble, siano in perfetta sintonia con la retorica di Trump», perché «entrambi lavorano, neppure troppo velatamente, per lo smantellamento dell’Eurozona per come è configurata oggi». Secondo Dezzani, Schaeuble «viaggia sulla stessa lunghezza d’onda dell’amministrazione Trump anche su altro dossier che sta tornando alla ribalta in questi giorni, il salvataggio della Grecia: i falchi tedeschi, sempre in opposizione ad Angela Merkel, si oppongono a qualsiasi riduzione del debito pubblico greco, invitando la Grecia ad abbondare l’euro per alleviare il fardello del debito». Così facendo, «si pongono così sulle stesse posizioni dell’amministrazione Trump». E il probabile, futuro ambasciatore americano presso la Ue, “l’euroscettico” Malloch, si è già espresso a favore dell’uscita di Atene dalla moneta unica, definendo «un inutile e doloroso spreco di tempo» il tentativo di evitare la Grexit.
    A un’analisi più approfondita, continua Dezzani, la politica europea dell’amministrazione Trump non è quindi un “attacco alla Germania”, ma l’ennesima prova di un’alleanza tra la Casa Bianca e le forze nazionaliste (compresi i falchi della Cdu-Csu) contro gli ultimi esponenti superstiti dell’establishment “liberal”, caduti i quali «si spianerebbe la strada alla dissoluzione della moneta unica e dell’Unione Europea». Sempre secondo Dezzani, «il fulmineo e misterioso vertice svoltosi alla cancelliera di Berlino il 9 febbraio tra Angela Merkel e Mario Draghi», nel quale i due avrebbero discusso “sul futuro dell’Europa”, altro non sarebbe che «il disperato tentativo di coordinamento tra due sopravvissuti, che studiano come coprirsi le spalle a vicenda di fronte all’attacco concentrico: nazionalisti tedeschi, populismi europei e amministrazione Trump». La “Stampa” titola, infatti: «Vertice in cerca di alleanza tra Merkel e Draghi». Al termine dell’incontro, «la cancelliera ha dovuto addirittura rimangiarsi l’ipotesi dell’Europa a due velocità lanciata appena pochi giorni prima: già, perché procedere verso la creazione di nocciolo di paesi federati presuppone almeno due o più volontari. Ma chi potrebbe seguire la cancelliera Merkel nel febbraio del 2017 in quest’impresa?».
    Certamente, risponde Dezzani, non lo farebbe nessuno di quei paesi che si avvicinano alle elezioni, promettendo ottimi risultati al “Gruppo di Coblenza”: «Ci riferiamo a quei movimenti nazionalisti che il 21 gennaio, all’indomani dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, si sono ritrovati nella città tedesca per lanciare la loro sfida congiunta all’Unione Europea». Agli «amanti dei retroscena», l’analista ricorda che proprio Coblenza fu la base dei monarchici francesi dopo la Rivoluzione del 1789, massonica e illuministica, che invece Dezzani definisce «coordinata da quegli Illuminati che avevano la propria base a Francoforte». Tornando a oggi: al vertice di Coblenza hanno presenziato Matteo Salvini, la tedesca Frauke Petry di “Alternative für Deutschland”, l’olandese Geert Wilders e Marine Le Pen. «Con quale paese la cancelliera Angela Merkel potrebbe quindi procedere verso la creazione di una federazione europea? Con la “germanica” Olanda? Molto difficilmente, considerato che il populista Partito della Libertà è dato in testa ai sondaggi e ha promesso di indire un referendum sulla permanenza nell’Unione Europea. Oppure con l’altra metà del “motore franco-tedesco”, quella Francia dopo il Front National è il primo partito e la “populista” Marine Le Pen avrà gioco facile a sconfiggere al ballottaggio il candidato della banca Rothschild, Emmanuel Macron?».
    Per Dezzani «ci sono pochi dubbi sulla dinamica dell’Eurozona all’indomani della vittoria di Marine Le Pen, tanto che il suo consulente economico, Bernard Monot, ha già svelato il piano da attuare nelle ore successive al voto del 7 maggio». Un’agenda di guerra: immediata convocazione di un vertice europeo d’emergenza. Sostituzione dell’euro con un paniere di valute, paragonabile al vecchio Ecu. Libera fluttuazione del “nuovo franco” fino ad massimo del 20% rispetto al paniere. E poi: ridenominazione del debito pubblico in franchi, abolizione della legge del 1973 per riportare la Banca di Francia sotto il controllo del Parlamento, a supporto di una politica monetaria espansiva per stimolare l’economia. Ecco le premesse per la “profezia” di Malloch, intervistato dalla “Bbc: addio all’euro, entro 18 mesi. «Previsione più che realistica», secondo Dezzani, considerata la “manovra a tenaglia” studiata dall’amministrazione Trump e dal “Gruppo di Coblenza” per liquidare gli ultimi due pilastri dell’establishment “liberal” in Europa, cioè l’Ue e il suo corrispettivo militare, la Nato. «Gli stessi centri di potere, per inciso, che avrebbero preferito la vittoria di Hillary Clinton e la conseguente escalation militare con la Russia, pur di sopravvivere». Tra i vecchi oligarchi euroatlantici resistono Draghi e la Merkel: «Chiusa la tenaglia, non ne rimarrà in piedi nessuno».

    L’Europa a due velocità? E’ la carta della disperazione prima del crollo dell’euro, moneta alla quale Ted Malloch, portavoce Usa in Ue, non concede più di 18 mesi di vita. La Merkel e Draghi? Sono gli ultimi due baluardi del vecchio establishment. E soccomberanno, stritolati da una tenaglia: da una parte Trump, dall’altra gli euroscettici alle urne nei prossimi mesi. Lo sostiene Federico Dezzani, osservando il fatale deteriorarsi del quadro generale in Europa: «Senza la morfina iniettata dalla Bce, i mercati finanziari sarebbero in preda a convulsioni peggiori del 2012». L’amministrazione Trump si sarebbe saldata con le forze populiste europee, il “Gruppo di Coblenza”. E anche se da Washington piovono duri attacchi contro la Germania e i suoi saldi commerciali record, «persino i nazionalisti tedeschi, i falchi della Cdu-Csu, viaggiano sulla stessa lunghezza d’onda della Casa Bianca». Ormai, «solo due superstiti del vecchio establishment liberal, Angela Merkel e Mario Draghi, oppongono ancora resistenza al processo di euro-dissoluzione», ma «difficilmente riusciranno però a salvarsi».

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