Archivio del Tag ‘funivia’
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La Francia ci ruba pure il Monte Bianco, e il governo subisce
Scusate, ma i francesi ci hanno “rubato” anche il Monte Bianco? «Con la tipica calma di chi se ne frega, il governo si è degnato di rispondere il 12 ottobre scorso, impiegando oltre quattordici mesi», scrive “Libero”. A sollevare la questione era stato, il 5 agosto 2019, un deputato di Fratelli d’Italia, Francesco Lollobrigida, con un’interrogazione urgente alla Camera indirizzata a Conte e a Di Maio, ministro degli esteri. I fatti? Dopo 160 anni, all’improvviso, la vetta del Monte Bianco si è trasferita in Francia. O meglio, riassume il giornale di Feltri e Senaldi: i Comuni di Chamonix e St. Gervais hanno spostato unilateralmente il confine, violando un accordo del 1860 che sancisce la sovranità italiana del Rifugio Torino. «Chiusi i tornelli che conducono al versante sud della montagna, i francesi ora incassano i profitti derivanti dall’impianto di risalita e, per confermare la loro conquista cartografica, il 27 giugno 2019 avevano vietato inoltre l’atterraggio in parapendio di tutta la zona». I confini tra Italia e Francia nella zona del massiccio del Monte Bianco, ricorda “Libero”, sono da tempo oggetto di una controversia internazionale, riguardante la stessa cima del “tetto d’Europa” e la zona tra Colle del Gigante e Punta Helbronner, di rilievo per l’Italia come punto di arrivo della funivia proveniente da Courmayeur e come sito dello storico Rifugio Torino.In aula, Lollobrigida s’era impegnato a chiedere di conoscere «quali iniziative si intendessero intraprendere per tutelare l’interesse nazionale e la sovranità dello Stato italiano nelle aree del Monte Bianco», anche «per supportare le istituzioni territoriali coinvolte nella gestione dei problemi amministrativi ed economici relativi alle attività turistiche, sportive ed alpinistiche che si svolgono in quelle zone nevralgiche per l’accesso al massiccio e alla vetta del Monte Bianco». A Conte e Di Maio, si chiedeva anche come «giungere alla definitiva risoluzione di un contenzioso diplomatico che si trascina ormai da oltre 70 anni, durante i quali l’Italia ha sempre subito le iniziative unilaterali ed arbitrarie delle autorità francesi». Con tutta comodità, con oltre un anno di ritrardo è Ivan Scalfarotto, sottosegretario agli esteri, a spiegare che, «tramite l’ambasciata a Parigi», la Farnesina «ha subito proceduto a rappresentare formalmente e con fermezza, alle autorità francesi, la tradizionale posizione italiana riguardo ai confini». Chiacchiere, a quanto pare. L’accordo sui confini risale al Trattato di Torino del 1860 e lascia il celebre Rifugio Torino su suolo italiano, pur cedendo le contee di Nizza e della Savoia a Parigi.«In base a quell’accordo, tuttora vigente, l’Italia ha inviato quindi una nota alle autorità francesi», le quali tuttavia – aggiunge “Libero” giudicano che si tratti di carta straccia. «Facendo presente che il provvedimento verte su una zona geografica che costituisce da svariati decenni l’oggetto di un contenzioso tra Francia e Italia», si sostiene che le autorità «si sono dimostrate disponibili ad affrontare la questione nella Commissione mista per la manutenzione del tracciato dei confini». In pratica, chiosa il quotidiano, «le feluche si preparano a discuterne amabilmente davanti a un tè, magari accompagnato da un pasticcino montblanc, ma intanto il Rifugio Torino è passato in mani francesi». E’ l’ennesimo figurone, da paese-zerbino, rimediato da un’Italia che ormai non ha più nemmeno l’ombra di una politica estera. Con la Francia, poi, il Belpaese è letteralmente fantozziano: muto, quando gli uomini di Macron (ospite d’onore a casa Bergoglio) definirono “vomitevole” la politica italiana sui migranti, salvo “depositare” abusivamente in valle di Susa, come pacchi postali, gli africani a cui la Francia chiude la porta in faccia, dopo averli riempiti di manganellate. Ora siamo all’estremo insulto simbolico: via il tricolore italiano, persino dal Monte Bianco.Scusate, ma i francesi ci hanno “rubato” anche il Monte Bianco? «Con la tipica calma di chi se ne frega, il governo si è degnato di rispondere il 12 ottobre scorso, impiegando oltre quattordici mesi», scrive “Libero“. A sollevare la questione era stato, il 5 agosto 2019, un deputato di Fratelli d’Italia, Francesco Lollobrigida, con un’interrogazione urgente alla Camera indirizzata a Conte e a Di Maio, ministro degli esteri. I fatti? Dopo 160 anni, all’improvviso, la vetta del Monte Bianco si è trasferita in Francia. O meglio, riassume il giornale di Feltri e Senaldi: i Comuni di Chamonix e St. Gervais hanno spostato unilateralmente il confine, violando un accordo del 1860 che sancisce la sovranità italiana del Rifugio Torino. «Chiusi i tornelli che conducono al versante sud della montagna, i francesi ora incassano i profitti derivanti dall’impianto di risalita e, per confermare la loro conquista cartografica, il 27 giugno 2019 avevano vietato inoltre l’atterraggio in parapendio di tutta la zona». I confini tra Italia e Francia nella zona del massiccio del Monte Bianco, ricorda “Libero”, sono da tempo oggetto di una controversia internazionale, riguardante la stessa cima del “tetto d’Europa” e la zona tra Colle del Gigante e Punta Helbronner, di rilievo per l’Italia come punto di arrivo della funivia proveniente da Courmayeur e come sito dello storico Rifugio Torino.
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L’Italia che difende i marò non aprì bocca dopo il Cermis
Appena sette anni per omicidio, da scontare peraltro non in carcere, ma in ambasciata. Chi si indigna per la sorte dei due marò farebbe meglio a riesaminare i fatti: spararono in acque di pertinenza indiana, e senza che la loro nave fosse stata colpita. Soprattutto: mentre l’India s’è comportata da paese sovrano, facendo valere le sue leggi, come si comportò l’Italia quando, nel 1998, i piloti Usa tagliarono “per gioco” i cavi della funivia del Cermis, sulle Dolomiti, provocando la morte di 20 turisti? Nessuno mosse un dito, i piloti dei “Prowler” non fecero neppure un giorno di cella. E ora l’inesistente patriottismo italico riemerge per il caso di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due fucilieri lasciati soli a decidere il da farsi, in quei drammatici istanti? E’ quanto afferma Carlo Bertani nella sua lettera agli “amici di Casa Pound”, sulla speculazione in corso dopo l’incidente – speculazione politica di grana grossa, che non rispetta né l’India, né l’Italia, né le vittime, né i due militari coinvolti. «Credetemi – scrive Bertani – questa è solo una triste storia, la vicenda di uno sbaglio (o di troppo nervosismo, “grilletto facile”) che è costata la vita a due pescatori indiani».Basta osservare le foto del Saint Antony, il battello da pesca colpito dai fucilieri: «Accettereste un passaggio – anche gratis! – su una simile bagnarola?». Nei luoghi “classici” della pirateria, come lo Stretto di Malacca, le imbarcazioni usate dai pirati sono potenti e veloci, si dispongono in tandem a prua della preda, tendendo una cima fra le due imbarcazioni pirata: così è la prua stessa della vittima, incocciando nella cima, a tirarsele sottobordo. Non è il caso del Saint Antony, che nel frattempo è affondato («Non c’è da meravigliarsi!»). Il peschereccio, continua Bertani, poteva raggiungere al massimo gli 8-9 nodi, contro i 12 della Enrica Lexie. «Le due imbarcazioni procedevano quasi su rotta di collisione», prua contro prua. «Una delle vittime – il timoniere – fu trovato morto “appeso” al timone: s’ipotizzò addirittura che dormisse, all’atto dei luttuosi eventi». Domanda: perché il comandante del mercantile, Umberto Vitelli, se era in dubbio riguardo alle intenzioni del peschereccio, non ha fatto bloccare il timone e aumentare la velocità? E perché non ha richiamato il personale dalla plancia? E’ è tutta a vetri, e se si spara si può essere colpiti.«Qualora il peschereccio avesse messo il “turbo” (cosa risultata a posteriori impossibile, perché era solo una vecchia carretta da pesca), a quel punto si poteva prendere in esame la risposta armata», scrive Bertani. «Quando ho parlato di “grilletto facile” non ho blaterato a vanvera». I due morti sul Saint Antony furono colpiti da munizionamento Nato (presenti i carabinieri italiani all’autopsia). E la barca «era ridotta a un colabrodo, mentre nessun colpo aveva raggiunto la Enrica Lexie, anche perché gli indiani erano disarmati». Dove avvenne lo scontro? Secondo la perizia del “collegio capitani”, a circa 20,5 miglia nautiche dalla costa, all’esterno delle acque territoriali ma all’interno della “zona contigua”, che l’India ha ratificato con la convenzione di Montago Bay, che recita: «La zona contigua si estende dal mare territoriale non oltre le 24 miglia nautiche dalla linea di base. In quest’area lo Stato costiero può sia punire le violazioni commesse all’interno del proprio territorio o mare territoriale, sia prevenire le violazioni alle proprie leggi o regolamenti in materia doganale, fiscale, sanitaria e di immigrazione». L’India, conclude Bertani, aveva dunque pieno diritto di effettuare l’arresto.«Si è fatto molto chiasso su questa vicenda, cercando d’aggrovigliare le miglia marine come fossero capelli – aggiunge Bertani – ma ci si dimentica che gli israeliani assalirono la Mavi Marmara (mercantile della Freedom Flotilla) a 40 miglia dalle loro coste, in piene acque internazionali, e nessuno mosse un baffo. Quello fu, a tutti gli effetti, un vero atto di pirateria». La vicenda dei marò è intricatissima, perché in India vige la pena di morte: più volte, però, magistrati e politici indiani hanno precisato che “per quel tipo di reato non è prevista la pena di morte”. Le autorità indiane, inoltre, hanno spiegato che ai militari italiani potranno infliggere ogni sentenza «eccetto la pena di morte, l’ergastolo e l’imprigionamento per un periodo eccedente 7 anni». Insomma, il massimo (per due omicidi, secondo gli indiani) sono 7 anni di reclusione: quasi come in Italia. «C’è da dire – continua Bertani – che la pazienza indiana è stata più volte messa a dura prova dalle intemperanze dell’allora presidente Napolitano – che ricevette i due marines come se fossero stati due eroi – e dalle “scommesse” dell’allora ministro degli esteri Terzi, il quale dichiarò che i due militari non sarebbero più tornati in India, dopo uno dei molti “permessi” che l’India concesse, senza esser tenuta a farlo».Tutt’altra storia quella del Cermis, la catastrofe innescata dai “Prowler” dei marines, impegnati in manovre spericolate per “passare sotto i cavi della funivia”. La faccenda fu spiegata con le confessioni dell’equipaggio e di altri membri dello staff americano e italiano: era stata una scommessa. L’aereo, già in fase di cabrata, “tagliò” la cima d’acciaio della funivia come la lama di un coltello. «Eppure, in quella vicenda, non ci fu un solo giorno di prigione per i militari americani, che si appellarono alla famosa convenzione che regola le missioni Usa all’estero: giudicati in patria, dove diedero loro un buffetto». Tutto il personale tornò a volare in breve tempo, appena le acque si furono chetate. «Chi chiede il giudizio in Italia per i due marò, dimentica un piccolo particolare: l’India non è un paese Nato! Quella sentenza, quel modo di trattare degli statunitensi, ci sta bene? Ne siamo soddisfatti?». A ben vedere, continua Bertani, «l’India non ha fatto altro che chiedere un’equanimità di giudizio (pur in presenza di sistemi giuridici diversi), comprendendo che fu un tragico incidente dovuto alla paura e alla carenza di comando e controllo del personale militare imbarcato: l’ufficiale più vicino alla Enrica Lexie era a Gibuti!».Piuttosto, insiste Bertani, «gli italiani dovrebbero indagare e punire chi lasciò soli nelle loro mortale decisione i due fucilieri: il sergente che comandava la squadra? Il comandante Vitelli? Un ufficiale distante tremila miglia marine?». Niente da dire: «Siamo dei veri specialisti nel creare procedure fumose, le quali finiscono per lasciare il cerino in mano all’ultima ruota del carro». E non si può pretendere che un simile pasticcio sia compreso e “perdonato” in India, «paese dal solido impianto giuridico, mutuato dal sistema britannico». In fondo, cos’ha fatto l’India? «Ha chiesto quello che dovevamo chiedere, noi italiani, all’indomani della tragedia del Cermis: si è comportata da paese sovrano. Siamo noi che ci comportiamo da paese subalterno agli Usa». Peraltro, resta completamente irrisolto il problema della pirateria, da quando i mercantili rifiutano di essere equipaggiati con armamento a disposizione del personale di bordo.Secondo Bertani, basterebbe dotare le navi di un cannoncino a tiro rapido, «che consentirebbe di avvertire il bersaglio con una raffica davanti alla prua, come si faceva un tempo». Armi precise, automatiche, facili da usare. Ma i marinai, i comandanti e gli armatori non ne vogliono sapere. Così, nei guai ci finiscono i marò, lasciati senza ordini e costretti a prendere decisioni, da soli, in pochi secondi. «L’unica cosa da non fare è trasformare un evento luttuoso, uno sbaglio, in una questione internazionale d’orgoglio patriottico, peraltro incomprensibile in simili frangenti», conclude Bertani. «Lasciamo che i due marò trascorrano la loro pena in ambasciata, in India (ciò che resterà da scontare dei 7 anni), e faremo una figura onorevole. Siamo ancora in tempo per rimediare, ricordando che l’India poteva comportarsi in ben altra maniera: altro che 7 anni!».Appena sette anni per omicidio, da scontare peraltro non in carcere, ma in ambasciata. Chi si indigna per la sorte dei due marò farebbe meglio a riesaminare i fatti: spararono in acque di pertinenza indiana, e senza che la loro nave fosse stata colpita. Soprattutto: mentre l’India s’è comportata da paese sovrano, facendo valere le sue leggi, come si comportò l’Italia quando, nel 1998, i piloti Usa tagliarono “per gioco” i cavi della funivia del Cermis, sulle Dolomiti, provocando la morte di 20 turisti? Nessuno mosse un dito, i piloti dei “Prowler” non fecero neppure un giorno di cella. E ora l’inesistente patriottismo italico riemerge per il caso di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, i due fucilieri lasciati soli a decidere il da farsi, in quei drammatici istanti? E’ quanto afferma Carlo Bertani nella sua lettera agli “amici di Casa Pound”, sulla speculazione in corso dopo l’incidente – speculazione politica di grana grossa, che non rispetta né l’India, né l’Italia, né le vittime, né i due militari coinvolti. «Credetemi – scrive Bertani – questa è solo una triste storia, la vicenda di uno sbaglio (o di troppo nervosismo, “grilletto facile”) che è costata la vita a due pescatori indiani».